Magistratura democratica
Magistratura e società

Desmond Tutu. L’Arcivescovo della Nazione Arcobaleno *

di Adolfo Ceretti
professore ordinario di criminologia nell'Università di Milano-Bicocca

Sommario0. Desmond Tutu - 1. Tutu e l’apartheid - 2. Verso le prime elezioni democratiche - 3. Epurare la crudeltà dal linguaggio e dalle pratiche mondane - 4. La Truth and Reconciliation Commission. Il ruolo preminente di Tutu

 

0. Desmond Tutu

L’Arcivescovo Desmond Mpilo Tutu, nato nel 1931 in una zona rurale del Sudafrica, il Transvaal, si è spento a novant’anni a Cape Town, il 26 dicembre 2021. Ancora adolescente, Tutu si trasferì con la sua famiglia a Joahnnesburg, dove completò i suoi studi che presero, ben presto, un indirizzo teologico. Nel 1960 – poco prima di trasferirsi al King’s College di Londra – fu nominato pastore anglicano. In Inghilterra, nel 1966, conseguì un Master in Teologia. 

Per comprendere la statura umana e politica di Tutu occorre mettere in evidenza il ruolo di primo piano che egli ha ricoperto in una Terra – collocata all’estremità del continente africano – che ha conosciuto le forme più radicali di discriminazione fra bianchi e neri. È qui che la segregazione dei bantu, dei coloured e degli asiatici ha architettato un progetto politico – l’apartheid – che ha investito qualunque aspetto della vita sociale.

 

1. Tutu e l’apartheid

Tutto è iniziato o, meglio, si è consolidato, quando nel 1948 il National Party (NP), una formazione politica di estrema destra fondata nel 1914 da un gruppo di nazionalisti Afrikaneer, vinse per la prima volta le elezioni. Gli Afrikaneer sono una popolazione sudafricana di origine per lo più olandese, ma anche francese, tedesca e britannica di lingua afrikaans, una lingua germanica derivata dall’olandese. Tradizionalmente di religione protestante, gli Afrikaneer discendono dai coloni che si stabilirono nella zona del Capo di Buona Speranza nel 1600, per poi diffondersi nel resto dell’attuale nazione nel corso del 1800. La loro vittoria elettorale – conseguita ai danni del Partito Laburista Sudafricano – fu il frutto, quasi esclusivamente, della proposta politica di istituzionalizzare l’apartheid nei confronti dei neri, dei meticci e degli indiani, il che consentì al NP di rimanere saldamente al potere fino alle prime elezioni democratiche, che si svolgeranno nel 1994.

È dunque con la vittoria del NP che la segregazione dei coloured fu codificata in tutta la sua disumanità, con una serie di leggi che introdussero rigide classificazioni per etnia di appartenenza: furono vietati i matrimoni misti e i migliori posti di lavoro furono riservati ai bianchi, indipendentemente dalle loro qualifiche. Inoltre, si procedette a separare le aree di residenza, in modo tale che i neri, i meticci, gli indiani furono obbligati a vivere nelle homelands intese, fin dall’inizio del Novecento, quali entità politico-territoriali loro riservate. Dal 1959 le homelands divennero territori nei quali furono deportate intere popolazioni e dalle quali era possibile muoversi unicamente se provvisti di un lasciapassare per lavorare in “territorio sudafricano”. Come se le homelands fossero territori alieni al resto del Paese, abitate da “non-persone”.

Il 30 marzo del 1960 trentamila neri marciarono in protesta verso il Parlamento, a Cape Town. In breve, il governo dichiarò fuori legge sia l’African National Congress (ANC), un partito fondato nel 1912 e che ottantadue anni più tardi, guidato da Nelson Mandela, condurrà il Sudafrica alle sue prime elezioni democratiche, che il più radicale Pan Africanist Congress (PAC), nato da una costola dell’ANC.

Mandela, a quel tempo uno dei giovani leader dell’ANC, partecipò in quegli stessi anni alla fondazione di un’ala armata del suo partito (Umkhonto we Sizwe/La Lancia della Nazione) che si impegnò, inizialmente, in una campagna di sabotaggio, ma che abbraccerà poi – senza mezzi termini – la lotta armata e la guerriglia, fino all’adesione di ideali rivoluzionari. È subito da rimarcare che Tutu, pur iniziando la sua resistenza all’apartheid già nel 1957 – quando si oppose pubblicamente all’approvazione del Bantu Education Act, che limitava drammaticamente le prospettive di istruzione dei giovani neri – non aderì mai all’opzione della lotta armata, e neppure alle linee politiche architettate dall’ANC.

Il resto della storia è più conosciuto: nel 1962 Mandela fu arrestato e resterà in prigione per 27 anni.

In veloce sequenza, nel 1976 scoppiarono proteste nelle zone urbane nere – in particolare a Soweto, un’area periferica di Johannesburg – contro l’insegnamento obbligatorio dell’afrikaans nelle scuole, ritenuta dai neri la lingua dell’oppressore.

Fu l’allora Ministro per l’Istruzione Punt Janson a scatenare la rivolta di studenti e docenti neri grazie a una sua inequivocabile dichiarazione: «Non ho consultato gli africani sulla questione della lingua e non intendo farlo. Un africano potrebbe trovarsi di fronte a un ‘capo’ che parla afrikaans o che parla inglese. È nel suo interesse conoscere entrambe le lingue».

Le rivolte si protrassero per otto mesi, nel corso dei quali le forze dell’ordine attaccarono mortalmente i corpi di settecento persone. Steve Biko, uno dei leader del Black Consciousness Movement che aveva ispirato le proteste, fu ucciso, in carcere, nel 1977. Tutu, che a partire dal 1975 aveva iniziato a vivere con sua moglie e i suoi figli proprio a Soweto, nel quartiere di Orlando – lo stesso dove Mandela, prima di essere incarcerato, aveva casa – visse, dunque, in prima persona, quei giorni di lotta, assumendo un atteggiamento di radicale dissenso nonviolento nei confronti dei decreti governativi sull’obbligatorietà dell’afrikaans; più tardi egli appoggiò, apertamente e con forza, il boicottaggio economico del suo Paese.

In seguito a quei massacri, migliaia di sostenitori dell’ANC, del PAC e del movimento Black Consciousness fuggirono all’estero. In vari Paesi confinanti con il Sudafrica furono organizzati campi di addestramento militare per ospitare gli eserciti di liberazione, appoggiati dai Paesi comunisti che li sostenevano attivamente offrendo loro armi, finanziamenti e addestramento: in particolare l’URSS finanziava l’ANC, e la Cina il PAC. Paradossalmente, fu proprio questo intrecciarsi di alleanze e appoggi internazionali alle forze antagoniste del governo sudafricano che, nonostante le critiche mosse dall’Occidente al modello dell’apartheid, non gli impedirono di abbandonare le sue politiche violente e razziste.

Nel flusso di questo irrimediabile dissidio Tutu ricevette, nel 1984, il premio Nobel per la Pace, motivato dal fatto di essere «la figura unificante nella campagna per risolvere il problema dell’apartheid in Sudafrica». Nel discorso pronunciato per l’accettazione del premio ebbe modo di tuonare che «l’apartheid ha sancito l’egoismo dei pochi, spingendoli [gli Afrikaaner] ad accaparrarsi con ingordigia una quota sproporzionata di tutto [il Paese], a ghermire per sé la parte del leone, perché il potere è nelle loro mani. Si sono impadroniti dell’87% del territorio, pur rappresentando il 20% della nostra popolazione. Tutti gli altri devono accontentarsi del rimanente 13%. L’» ha ratificato la politica dell’esclusione. Il 73% della popolazione è esclusa da qualunque partecipazione significativa nei processi decisionali della politica, nella stessa terra che ha dato loro i natali». E ancora: «I neri vengono sistematicamente spogliati della loro cittadinanza sudafricana e trasformati in stranieri nella stessa terra dove sono nati. È questa la soluzione finale dell’apartheid, proprio come il nazismo aveva previsto la soluzione finale degli ebrei nella follia ariana di Hitler. Il governo sudafricano è assai scaltro. Gli stranieri vantano pochissimi diritti civili, e nessun diritto politico».

Nella seconda metà degli anni Ottanta la situazione iniziò a mutare, a causa di un insieme di fattori: si modificò il quadro internazionale tra le grandi potenze e all’interno dell’Africa subtropicale, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, e la fine dei blocchi contrapposti; mutarono, al contempo, le esigenze economiche e commerciali delle forze più dinamiche presenti sul mercato interno sudafricano e internazionale; inoltre, la pressione dell’opinione pubblica mondiale si esasperò ulteriormente, in ragione della situazione vergognosa e oltraggiosa dei diritti umani. Di più, i rappresentanti in esilio dell’ANC, fino ad allora contrari a una soluzione negoziata, iniziarono a esprimersi a suo favore, lanciando appelli alla comunità sudafricana bianca perché entrasse anch’essa a far parte di una coalizione democratica e ponesse termine all’apartheid, costruendo una nuova società multirazziale.

La data spartiacque fu il 1990, l’anno in cui il presidente sudafricano Frederick De Klerk inaugurò il suo nuovo mandato, annunciando a un parlamento e a un popolo del tutto impreparato di voler smantellare gradualmente il sistema dell’apartheid, legalizzando allo stesso tempo tutti i movimenti politici extra-parlamentari, decretando la liberazione di Mandela e abolendo i limiti alla libertà di stampa. Prima della fine del 1991 la complessa impalcatura di leggi che costituivano l’apartheid fu azzerata.

Fu la fine di un’era politica terribile, e l’inizio di un periodo convulso che dischiuderà nuovi orizzonti.

 

2. Verso le prime elezioni democratiche

Dopo la caduta di un regime che, per decenni, aveva segregato e umiliato le etnie nere, nell’ultimo scorcio del secolo scorso le due posizioni politiche antitetiche che avevano già contrassegnato la vita del Paese nella prima metà del secolo, erano pronte a scatenarsi in una guerra civile: da una parte, il NP (che all’inizio degli anni novanta era ancora il partito di maggioranza e il cui leader, Frederik de Klerk, sarà Presidente del Paese fino alle elezioni del 1994) voleva dimenticare il passato e concentrarsi solo sul futuro, sulla costruzione di un paese nuovo. Dall’altra parte, l’ANC (il partito nel quale militava ancora Mandela, liberato dopo ventisette anni di prigionia) auspicava, insieme ad altre organizzazioni liberali, l’incriminazione dei responsabili della politica segregazionista e delle violazioni dei diritti umani attraverso la creazione di tribunali speciali, sul modello di Norimberga o dei tribunali penali internazionali. Inoltre, le due parti erano divise dalle questioni relative all’amnistia: l’ANC la pretendeva a vantaggio degli esiliati e dei prigionieri politici; il NP esigeva la concessione dell’immunità agli agenti degli apparati di sicurezza e dei membri delle forze dell’ordine. La drammaticità di questa contrapposizione risiedeva nel fatto che uno scontro violento, anche qualora si fosse concluso con condizioni sociali favorevoli alle popolazioni nere, avrebbe certamente avuto, quale conseguenza, l’esodo delle popolazioni bianche. Ma queste ultime controllavano le principali attività economiche del Sudafrica, che sarebbe quindi sprofondato in una crisi economica gravissima. Solo su una cosa erano tutti d’accordo, bianchi e neri, NP e ANC: sulla necessità di accertare la verità sul passato.

In realtà, mentre questi scontri assumevano una feroce consistenza iniziava parallelamente a diffondersi l’idea che se la verità sul passato non fosse emersa e non fosse stata riconosciuta, anche a livello ufficiale, il nuovo Stato sarebbe stato delegittimato fin dalla sua nascita. Ogni sudafricano, di conseguenza, avrebbe potuto esprimere il proprio risentimento sia individualmente che collettivamente, dando il via a una spirale di violenza, e non a una rappacificazione. Al principio, il desiderio di far emergere la verità fu espresso mediante l’istituzione di commissioni di inchiesta: il NP creò dapprima la Commissione Goldstone, con il compito di indagare gli abusi delle forze dell’ordine; poi la Commissione Steyn, con il compito di indagare le responsabilità dei militari di grado elevato. L’ANC istituì, a sua volta, commissioni per esaminare gli abusi perpetrati nei confronti dei prigionieri nei campi di addestramento all’estero.

A far evaporare questo contesto particolarmente surriscaldato fu, nel 1993, la promulgazione di una Costituzione provvisoria, il cui epilogo rimandava per la prima volta all’idea di una riconciliazione nazionale, alla coesistenza pacifica e al superamento di un passato di violenze.

La clausola dell’amnistia, aggiunta alla Costituzione al termine delle negoziazioni, fu il passaggio essenziale della transizione verso la democrazia. Senza, le trattative non sarebbero mai giunte a una conclusione.

Fu proprio per creare un equilibrio tra punizione e immunità, tra responsabilità e risarcimento che entrambe le parti proposero di considerare, nell’accordo costituzionale, l’istituzione di una Commissione istituita ad hoc, alla quale affidare il nodo della concessione dell’amnistia.

La nascita di una Commissione non era dunque scontata, e venne proposta al nuovo Parlamento, insediatosi dopo le prime elezioni democratiche, con un discorso tenuto, nel luglio 1994, dal nuovo ministro della Giustizia.

Vi è di più.

Poiché l’amnistia era intesa come un mezzo, mentre la riconciliazione era lo scopo da perseguire con esso, si fece presto strada anche l’idea che la Commissione potesse diventare uno strumento di riconciliazione e di ricostruzione nazionale. Venne infatti sostenuto che, come altri Paesi, anche il Sudafrica doveva affrontare il problema dell’amnistia in connessione con quello della verità – individuale e collettiva – per arrivare a intendere le cause che avevano condotto agli abusi e alle gravi violazioni dei diritti umani. E se durante le negoziazioni avvenute negli anni della transizione l’ANC non aveva potere sufficiente per richiedere la condanna dei responsabili, all’epoca dell’istituzione della Commissione, dopo la vittoria alle elezioni politiche, il partito aveva acquisito la posizione per pretendere, in cambio dell’amnistia, la verità.

Nel giugno 1995, dopo interminabili confronti, venne finalmente promulgata la legge istitutiva della Commissione per la verità e la riconciliazione/Truth and Reconciliation Commission (TRC). Mentre l’epilogo della Costituzione provvisoria identificava, quale strumento di riconciliazione, soltanto l’amnistia dei colpevoli, in questa normativa erano indicati i limiti e le condizioni, assai precisi, per la sua concessione. Inoltre, erano coinvolte direttamente, con un ruolo tutt’altro che marginale, le vittime degli abusi.

 

3. Epurare la crudeltà dal linguaggio e dalle pratiche mondane

Ma cosa sono le Commissioni per la Verità e la Riconciliazione? Generalizzando, possiamo dire che sono istituzioni che si contrappongono – non necessariamente come alternativa, ma eventualmente anche come completamento – al paradigma che si ispira al processo penale classico, nonché alla volontà di pervenire a una verità preminentemente processuale.

Se, come è stato scritto dall’antropologo giuridico Antoine Garapon, «il processo è un addomesticamento della violenza per il tramite del rito», in Sudafrica la posta in gioco era capire se a fronte di crimini che per la loro devastante distruttività non si potevano né punire né perdonare – per riprendere alcune parole di Hannah Arendt –, se a fronte di inconciliabili dissidi in atto tra bianchi e neri la giustizia ordinaria avrebbe avuto la potenza, attraverso la sua “sacralità” e la condanna dei colpevoli a una pena detentiva, di ri-equilibrare le parti. In altre parole, la domanda che Tutu e Mandela – congiuntamente a tutto il popolo sudafricano – si ponevano riguardava il fatto se la massa di omicidi e la brutalità delle torture operate dalle forze dell’ordine, se la violenza convogliata nei crimini politici commessi dalle popolazioni resistenti – ricordo per inciso che la TRC si è assunta la responsabilità di esaminare oltre cinquantamila casi di gravi violazioni dei diritti umani – potesse essere assunta da un processo, come era accaduto, per esempio, per i Tribunali Penali Internazionali ad hoc per il Rwanda o per la ex-Jugoslavia.

Per ricomporre una società profondamente divisa, la scommessa sudafricana – in gran parte vinta – è stata quella di affidarsi a logiche e a meccanismi istituzionali completamente diversi.

In estrema sintesi, fu soprattutto la sensibilità intellettuale, culturale, politica di Tutu a lanciare al male una sfida, ma non per raddoppiarlo attraverso il ricorso all’uso della forza, per «rendere il colpo» – per dirla con Primo Levi – e punire i perpetratori.

Per sospendere, contenere e trasformare i resti degli effetti distruttivi che le torture, gli omicidi, le sparizioni forzate e la violenza politica avevano prodotto per decenni nelle coscienze collettive, per ritrovare il senso della coesione sociale occorreva – questa fu l’intuizione – convogliarli in un luogo appositamente architettato. Questo “luogo” non era altro che la TRC.

Sono stati, infatti, proprio i tre Committees istituiti dalla TRC a creare – in alternativa secca al processo penale – quella zona di discontinuità che ha permesso ai perpetratori e alle vittime – che si trovavano a vivere in una condizione di “ebollizione” emotiva – di incontrarsi al margine della violenza e fuori dal processo e di riscoprire, attraverso una giustizia dell’incontro, un senso di comune appartenenza.

L’idea di base è che una società, per reintegrarsi dall’interruzione dell’ordine generato da condotte violente non debba necessariamente fare ricorso a un trattamento prevalentemente crudele (pena detentiva, ergastolo, pena di morte).

Se penso alle figure di Tutu e Mandela – che nelle mie visite a Cape Town ho avuto solo il modo di sfiorare – ho come la sensazione che, più di ogni altra, la loro aspirazione era quella di epurare dal linguaggio e abolire dalle pratiche mondane – non solo quelle penali – la crudeltà, e di collocare al suo posto pratiche di solidarietà. Una solidarietà che doveva essere creata e forgiata nelle contingenze di una società in ebollizione, appunto. E fu così che tra il 1996 e il 1998 i membri della TRC hanno ascoltato le deposizioni, i racconti, le narrazioni, i ricordi, le testimonianza e le confessioni delle migliaia di persone che decisero di fornire il proprio contributo alla ricostruzione di un passato, condividendo le loro memorie al fine di sostenere e accompagnare la nascita e il rafforzamento del nuovo Sudafrica democratico.

 

4. La Truth and Reconciliation Commission. Il ruolo preminente di Tutu

La Commissione ha lavorato per otto anni, dal 1995 al 2003, operando in tre articolazioni: il Committee on Human Rights, l’Amnesty Committee e il Reparation and Rehabilitation Committee.

Il primo comitato, presieduto dall’arcivescovo Tutu in persona, si dedicò esclusivamente alle testimonianze delle vittime, intese come tutti coloro che avessero subìto un qualsiasi tipo di ferita – fisica o psicologica, o anche soltanto una sofferenza emotiva – per effetto di una «grave violazione dei diritti umani» (gross violation of human rights). I dati raccolti vennero inseriti in un archivio nazionale creato ad hoc, che permise di ricostruire il quadro generale delle violazioni dei diritti umani avvenute tra il 1960 e il 1998 in tutto il territorio del Paese e di incrociare tutte le informazioni come altrimenti sarebbe stato impossibile fare. È stato il lavoro di questo Committee il perno centrale della resa dei conti con il passato: e dunque sono state le vittime, con le loro testimonianze, a incarnarlo. I loro racconti sono stati resi pubblici (molti sono stati trasmessi in diretta televisiva) e sono stati verbalizzati; ciascuno era invitato a parlare nella propria lingua, e tutte le deposizioni sono state rese davanti a verbalizzatori in grado di comprenderle, appartenenti a organizzazioni non governative e ad associazioni religiose o civiche. Spesso carnefici e vittime venivano messi gli uni davanti agli altri. Per quasi tutti, le udienze sono state la prima e unica occasione per raccontare le esperienze vissute negli anni dell’apartheid, per esprimerne il dolore e per avanzare aspettative e richieste. E la possibilità di raccontare era già, in sé e per sé, una forma di riparazione. 

Il secondo comitato – l’Amnesty Committee – si è occupato, invece, della concessione dell’amnistia ai singoli autori delle violazioni, che avveniva solo in cambio di una completa confessione (full disclosure) delle gross violations of human rights e della prova che i crimini (torture and abduction, killing e severe ill treatment) commessi tra il 1960 e il 1998 fossero stati motivati da un obiettivo politico, e quindi consumati per sostenere o resistere alla lotta politica del periodo dell’apartheid. Il Comitato ricevette 7112 domande di amnistia, di cui 849 furono accolte e 5392 rigettate. Così come per le audizioni pubbliche delle vittime, pure queste ultime furono ampiamente seguite dalla stampa, dalla radio e dalla televisione. Ciò permise a un vasto pubblico di essere testimone delle confessioni, e rese innegabile la realtà degli abusi sistematici commessi durante l’apartheid.

Infine, il terzo comitato fu incaricato di dare seguito ai lavori svolti dai primi due, per mezzo della formulazione al governo di raccomandazioni aventi ad oggetto le misure riparative da adottare per la reintegrazione e la riabilitazione delle vittime. Ma non sempre i governi succedutisi nel tempo furono capaci di fornire adeguatamente le riparazioni promesse.

Per un verso o per un altro, nessuno dei tre comitati rimase esente da critiche di varia natura, perché – come sempre, e com’è inevitabile – si è detto che si poteva fare di più, o che si poteva fare meglio o altrimenti. Molti hanno ritenuto ingiusta l’esclusione, dal novero delle violenze denunciabili, di quelle solo genericamente razziste, come tali insuscettibili di essere ricondotte a motivazioni politiche in senso stretto. Molti altri hanno biasimato la scelta di affidare agli apparati dello Stato il monopolio esclusivo della gestione finanziaria delle riparazioni a favore delle vittime. Ma rimane un dato, incontrovertibile: la TRC ha rotto il silenzio rispetto a un passato di atroci violenze collettive e di violazioni di diritti umani e ha promosso una cultura della responsabilità all’interno di spazi e tempi ai quali era stata conferita la potenza di un rito. Le memorie delle vittime si sono intrecciate con quelle dei carnefici, ciascuno ha potuto esporre la propria; e le memorie individuali si sono sommate tra loro, disegnandone per l’effetto una collettiva, esattamente come la Storia è il prodotto dei destini dei singoli nel loro incrociarsi. Poi è vero: la Storia, come nella poesia di Montale, lascia sempre «sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli», e quindi non tutti i vuoti potevano essere colmati, non tutte le aspettative soddisfatte. Ma ne è derivato quantomeno l’accertamento condiviso di alcuni elementi fondamentali, come la circostanza che alcune delle violazioni più gravi erano state commesse dai vertici degli apparati di sicurezza, e non indistintamente dall’intero apparato governativo o dall’intera popolazione bianca, gli Afrikaner. Nelle parole di Desmond Tutu, che è stato il vero artefice di questo straordinario cammino: «Crediamo di aver ricostruito abbastanza verità sul nostro passato perché vi sia un certo consenso».

Le conclusioni cui giunse la Commissione, nella sua relazione finale (Final Report), oltrepassano i limiti e sono molto più complesse non solo della “verità processuale”, bensì perfino della stessa “verità consensuale”, avendo generato almeno altri tre generi di verità: una “verità narrativa”, rappresentata dal racconto dei carnefici e soprattutto delle vittime, il cui valore risiede in sé stesso, nell’opportunità di parlare concessa a chi non l’aveva mai avuta prima; una “verità sociale”, derivante dall’interazione tra gli uni (i medesimi carnefici) e le altre (le medesime vittime), dal loro confronto vis-à-vis; e una “verità curativa”, sul presupposto secondo il quale la verità da sola – se intesa quale pura e semplice ricostruzione dei fatti – non può bastare, perché occorre che chi parla venga ascoltato e riconosciuto come meritevole di attenzione.

Qui riposa il senso della giustizia dell’incontro: in un ascolto immaginativo, nel quale l’attenzione assuma le forme della responsabilità. E sappiamo anche che il fine non è quello della riconciliazione a tutti i costi, ma è piuttosto quello di una ricomposizione, che allude alla costruzione di un equilibrio per quanto fragile e bisognoso di cure continue. 

Lontana da una visione eminentemente religiosa (come la aveva intesa in una prima fase proprio l’Arcivescovo Tutu), la riconciliazione si è fondata, nei lavori della Commissione, sul riconoscimento della storia passata e sulla condanna del male commesso, da ogni parte, nel corso del confitto. Vero è che nello spazio culturale fra le dichiarazioni pubbliche e il tormento privato, gli indici di riconciliazione sono difficili da trovare. Alex Boraine, vicepresidente della TRC, ha comunque molto insistito sul fatto che quest’ultima non imponeva il perdono individuale da parte delle vittime, ma si limitava a offrire uno spazio in cui potessero aver voce espressioni di rimorso e di perdono, in nome di qualcosa di più elevato del sentimento di vendetta – cioè in nome dell’ubuntu, una parola poco familiare e di difficile comprensione per chi, come noi, non appartiene a certi popoli. Tutu, nel suo libro Non c’è futuro senza perdono, la definisce una parola «fondamentale della visione africana del mondo». Non ne esiste un sinonimo nelle lingue occidentali, vi è racchiuso qualcosa che ha a che fare con l’essenza intima dell’uomo. Quando un nero sudafricano vuole lodare una persona, afferma che quella persona “ha ubuntu”. Significa che la considera una persona generosa, accogliente, benevola, sollecita, compassionevole. Una persona che ha ubuntu è aperta e disponibile verso gli altri, riconosce agli altri il loro valore, non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano buoni e bravi, perché ha una giusta stima di sé che le deriva dalla coscienza di appartenere a un insieme più vasto, e quindi si sente sminuita quando gli altri vengono sminuiti, umiliata quando gli altri vengono umiliati, torturati, oppressi o addirittura uccisi. «Una persona» scrive ancora Tutu, «è tale attraverso altre persone», o almeno questo vale nella concezione dell’ubuntu; e vale altrettanto nella visione della Giustizia riparativa , in ragione del suo interesse non per la pena da comminare ma per le relazioni da ricostruire. E come la Giustizia riparativa, in qualunque ambito praticata, aspira – come è noto – a ricostruire relazioni infrante tra le persone per provare a consentire loro di progettare nuove ipotesi di futuro, fondate su una ritrovata fiducia, così anche la TRC Sudafricana, quale manifestazione più alta di questo modello, ha voluto indicare una strada per il superamento di un passato tragico verso un futuro diverso, verso un cambiamento politico e sociale.

E di questo “superamento” Desmond Tutu è stato certamente, insieme a Nelson Mandela, l’artefice più importante.

Negli ultimi anni della sua lunga vita la forza morale di Tutu si è espressa soprattutto contro la feroce corruzione che ha caratterizzato l’epoca del post-apartheid del Presidente nero Jacob Zuma, a favore dei matrimoni omosessuali e contro gli attacchi di Israele a Gaza.

A lui, infine, è stata attribuita la definizione del Sudafrica come “Nazione Arcobaleno”, definizione che descrive quasi poeticamente le undici etnie e lingue diverse riconosciute dalla Costituzione del 1993. Un arcobaleno che l’Arcivescovo di Cape Town ha lasciato nei nostri cuori o, almeno, nel mio.

[*]

Questo contributo riprende e amplia alcuni miei scritti. In particolare, si veda: A. Ceretti, Per una convergenza di sguardi. I nostri tragitti e quelli della Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana, in G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (a cura di), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto, Milano, il Saggiatore, 2015; A Ceretti (con Niccolò Nisivoccia), Il diavolo mi accarezza i capelli. Memorie di un criminologo, Milano, il Saggiatore, 2020; A Ceretti, La pace dopo la rivoluzione. Tre storie recenti, Lezioni d’autore Feltrinelli Education, in corso di pubblicazione.

03/01/2022
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