Magistratura democratica
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Autorità giudiziaria e polizia giudiziaria: ritorno alla Costituzione

di Giuseppe Battarino
giudice del Tribunale di Varese
La Corte costituzionale riporta al centro dello schema dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria l’art. 109 della Costituzione. Un riconoscimento del ruolo e delle prerogative del pm ma anche un impegno per la cultura e la pratica della giurisdizione

L’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante «Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche» [1] aveva introdotto, tra l’altro, una norma in forza della quale «i responsabili di ciascun presidio di polizia» avrebbero dovuto trasmettere «alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale»; ciò sulla base di «apposite istruzioni» emanate dal capo della Polizia e dai «vertici delle altre Forze di polizia».

Lo scopo dichiarato nella norma, che estendeva a tutte le forze di polizia, per legge, una previsione regolamentare applicabile all’Arma dei Carabinieri in base all’articolo 237 del dPR 15 marzo 2010, n. 90 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246) [2], era quello di «rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo».

Il tentativo di fuoriuscita dell’informazione sulle notizie di reato dal circuito polizia giudiziaria-pubblico ministero, attuato con l’introduzione della norma in questione, e la sentenza della Corte costituzionale n. 229 del 6 novembre-6 dicembre 2018, che l’ha annullata a seguito di giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, si inseriscono in maniera peculiare nella storia repubblicana del rapporto tra funzioni di polizia, funzioni di polizia giudiziaria e prerogative della magistratura, iniziata in Assemblea costituente.

Il procuratore della Repubblica di Bari, con ricorso del 25 luglio 2017, aveva promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, per violazione degli artt. 76, 109 e 112 della Costituzione in relazione alla norma in questione.

La Corte costituzionale affronta con ampiezza di argomenti, risolvendole in senso positivo, le questioni della legittimazione del procuratore della Repubblica e della ammissibilità del rimedio, anche in relazione a una fonte normativa primaria.

Quanto agli argomenti di merito proposti dal procuratore della Repubblica ricorrente, la Corte esclude invece l’ammissibilità del richiamo alla figura dell’eccesso di delega, e dunque alla violazione dell’articolo 76 della Costituzione.

Secondo la Corte, nel conflitto fra poteri dello Stato è possibile lamentare la sola lesione dei parametri costituzionali che delineano le attribuzioni del potere cui appartiene l’organo ricorrente, non la violazione di una disposizione costituzionale, quale l’art. 76 Cost., che, riguardando i rapporti tra legge delega e decreto legislativo delegato, attiene al corretto atteggiarsi del sistema delle fonti del diritto.

L’organo ricorrente per conflitto di attribuzione può cioè allegare la sola diretta lesione dell’ambito che la Costituzione gli riconosce; diversamente «il significato del ricorso al rimedio del conflitto tra poteri potrebbe risultarne alterato in misura significativa, fino a trasformarsi in un controllo di conformità di una disposizione legislativa alla luce di qualunque parametro costituzionale, controllo che investirebbe il potere dello Stato ricorrente di una inesistente funzione di vigilanza costituzionale e del compito di sollecitare a questo scopo l’intervento della Corte costituzionale».

La Corte ha invece ritenuto fondato il ricorso essendo stata lesa la sfera di attribuzioni costituzionali del pubblico ministero.

Va notato che la Corte ha ritenuto corretto e ammissibile il richiamo integrale che il ricorrente ha fatto, riportandone ampi stralci, alla delibera adottata dal Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 15 giugno 2017 recante «Proposta ex art. 10, comma 2, legge n. 195 del 1958 al Ministro della giustizia finalizzata ad una modifica normativa dell’art. 18, comma 5, del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177» [3].

Con quella delibera il Consiglio superiore aveva trasmesso al Ministro della giustizia una proposta finalizzata all’adozione di ogni iniziativa utile, nell’ambito delle proprie attribuzioni, alla modifica dell’art. 18, comma 5, evidenziandone le criticità interpretative subito insorte, la concreta possibilità di diverse e contrastanti applicazioni della norma, il possibile conflitto di fedeltà per soggetti posti di fronte a eventuali ordini divergenti provenienti dall’autorità giudiziaria ovvero dalle amministrazioni di appartenenza, proponendo quindi «un intervento legislativo chiarificatore, volto a ricondurre il disposto nell’alveo di un sistema, qual è quello ordinamentale e costituzionale vigente, caratterizzato dall’autonomia e dalla segretezza della funzione investigativa, coordinata da un pubblico ministero autonomo e indipendente, intervento che può sostanziarsi nella sostituzione della locuzione indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale con la locuzione salvi (o compatibilmente con) gli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale».

Il procuratore della Repubblica ricorrente ha fatto riferimento al principio di obbligatorietà dell’azione penale, ex art. 112 Cost., cui il segreto investigativo strettamente inerisce, nonché alla statuizione della diretta dipendenza della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria contenuta nell’art. 109.

La Corte afferma che «le peculiarità della disposizione oggetto di conflitto pongono innanzitutto in discussione la diretta dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria. L’art. 18, comma 5, del d.lgs n. 177 del 2016 prevede infatti, in capo alla polizia giudiziaria, obblighi informativi in deroga al segreto investigativo in favore di soggetti, estranei al perimetro della polizia giudiziaria stessa, che si identificano nei superiori gerarchici dei responsabili dei presidi di polizia di volta in volta interessati. Proprio questo aspetto pone in tensione il principio delineato dall’art. 109 Cost., con assorbimento, invece, delle censure relative all’asserita lesione dell’art. 112 Cost.» [4].

È dunque l’articolo 109 della Costituzione l’oggetto centrale delle motivazioni della sentenza, che, allo stato, rappresenta il più rilevante arresto della giurisprudenza costituzionale nella materia.

Esistono infatti dei precedenti giurisprudenziali costituzionali [5] che danno conto di una mai risolta tensione tra difesa delle prerogative costituzionali della magistratura e spinta degli apparati di polizia in direzione della conquista di margini di manovra più ampi di quelli disegnati dalla Costituzione; che tuttavia, per l’oggetto dei giudizi, non avevano potuto esprimere una vera e propria ricognizione di confini della funzione di polizia giudiziaria.

È questo, dunque, il nucleo tematico della questione: l’esistenza di una funzione di polizia giudiziaria rispetto alla quale le prerogative della giurisdizione prevalgono sulle esigenze degli apparati di polizia.

La previsione, a carico degli ufficiali di polizia giudiziaria, di un obbligo informativo ai propri superiori gerarchici, pone in primo luogo la questione del rapporto tra la disciplina contenuta nell’art. 329 cpp, in tema di segreto investigativo e questo nuovo obbligo, del quale, come osserva la Corte, la stessa Avvocatura generale ha «esplicitamente rivendicato proprio la natura derogatoria, rispetto agli obblighi prescritti dal codice di rito»; non altro è il senso politico della norma in questione nell’attribuire agli ufficiali di polizia giudiziaria compiti informativi interni agli apparati ed esterni all’attività giurisdizionale.

Ma, ricorda la Corte anche con richiamo alle proprie sentenze n. 420/1995 e n. 59/1995, il segreto investigativo è strumentale al più efficace esercizio dell’azione penale, al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini; e se l’articolo 112 della Costituzione non istituisce un principio di inderogabilità assoluta al segreto, purtuttavia eventuali deroghe devono corrispondere alla tutela di altri interessi di rilievo costituzionale, secondo uno schema che inoltre prevede «nello stesso sistema del codice di rito [il] previo vaglio della stessa autorità giudiziaria competente, che ben può rigettare, motivandone le ragioni, una richiesta di atti e informazioni: ciò che […] la disposizione impugnata invece non prevede».

Alla messa in luce di questo primo punto di frizione la Corte fa seguire considerazioni ancor più puntuali sul concreto svolgimento delle attività del pubblico ministero e delle polizie: «sul versante dell’attività di polizia, la disposizione impugnata disciplina senza dubbio interessi meritevoli di tutela, così come lo sono, sul versante delle indagini condotte dall’autorità giudiziaria, le esigenze relative all’efficace conduzione delle investigazioni e alla diretta disponibilità della polizia giudiziaria. Il coordinamento informativo tra le diverse Forze di polizia e all’interno di ciascuna di esse, la più razionale dislocazione del personale e delle risorse strumentali sul territorio, in quanto destinate a favorire l’opera di prevenzione e repressione dei reati, e quindi la garanzia della sicurezza pubblica, sono esigenze di rango costituzionale. Proprio in quanto finalizzati alla garanzia della sicurezza pubblica, un razionale impiego e un’efficace dislocazione sul territorio degli apparati personali e strumentali delle Forze di polizia possono anche comportare la trasmissione di notizie relative alle indagini, ma va da sé che questa deve essere regolata secondo un attento e ragionevole bilanciamento tra interessi e principi potenzialmente confliggenti».

Per altro verso e con diretto riferimento alla specificità dei compiti della magistratura inquirente – disciplinati dal codice di procedura penale ma coperti da previsioni costituzionali − la Corte paventa che il «coordinamento informativo a finalità organizzative trasmodi in una forma di coordinamento investigativo alternativa a quello affidato al pubblico ministero, proprio perché condotto non già “fatti salvi” gli obblighi previsti dal codice di procedura penale, ma in deroga ad essi».

Orbene, di fronte a una così significativa deviazione dal percorso assegnato alla magistratura e alla polizia giudiziaria nell’ambito delle indagini, l’articolo 18, comma 5, «si limita a indicare in termini di larga massima obbiettivi e contenuto dell’intervento normativo, che si avvale peraltro di una tecnica lessicale incerta e fonte di ambiguità, e prevede che le indispensabili precisazioni e dettagli siano contenute in apposite “istruzioni” [6] adottate dal Capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e dai vertici delle altre forze di polizia».

Il che già costituisce indice, ad avviso della Corte, di un inadeguato bilanciamento fra le esigenze che si confrontano: «Appaiono infatti incongrue l’indeterminatezza e la genericità di vari aspetti del contenuto precettivo recato dalla disposizione, nonché la circostanza che esse siano da colmarsi attraverso l’adozione di istruzioni da parte dei vertici di ogni forza di polizia».

La Corte censura la formulazione della norma, la cui indeterminatezza e genericità di contenuto precettivo quanto ai soggetti che trasmettono e ricevono le informazioni, all’oggetto delle comunicazioni, ai limiti di esse (il tutto espresso con linguaggio scarsamente tecnico) producono incongruità rispetto al sistema; in effetti le stesse espressioni «presidi di polizia», «scala gerarchica», «notizie relative all’inoltro delle informative di reato» risultano del tutto estranee al linguaggio del codice di rito e alle esigenze di tecnicità giuridica processualpenalistica che una norma destinata a confrontarsi con il procedimento penale dovrebbe garantire.

Resterebbe da stabilire, ma la Corte, comprensibilmente, non ne fa oggetto di esame − e la probatio sarebbe diabolica − se con quella norma si volesse deliberatamente spostare, in termini “modulabili” dagli apparati di polizia, il confine delle rispettive prerogative, a danno della magistratura e a favore del potere esecutivo.

È dunque, come si è detto, l’articolo 109 della Costituzione al centro del ragionamento e la Corte costituzionale ne delinea la portata con chiarezza: «L’art. 109 Cost., prevedendo che l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, ha il preciso e univoco significato di istituire un rapporto di dipendenza funzionale della seconda nei confronti della prima, escludendo interferenze di altri poteri nella conduzione delle indagini, in modo che la direzione di queste ultime ne risulti effettivamente riservata all’autonoma iniziativa e determinazione dell’autorità giudiziaria medesima».

Questo rapporto di subordinazione funzionale è compatibile con il rapporto di dipendenza burocratica e disciplinare della polizia giudiziaria nei confronti del potere esecutivo (non esistendo una «polizia giudiziaria del pubblico ministero» né tali potendosi considerare le sezioni di polizia giudiziaria istituite presso le procure della repubblica): ma la Costituzione non ammette «che si sviluppino, foss’anche per legittime esigenze informative ed organizzative, forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dal pubblico ministero competente», nel caso di specie derivanti dalla concentrazione presso soggetti posti ai vertici delle forze di polizia di una quantità di dati e informazioni di significato investigativo, «ultronei rispetto alle necessità di coordinamento e di organizzazione». E, sottolinea la Corte costituzionale, con affermazione rilevante per il giudizio ma inequivoca de iure condendo, «deve essere in ogni caso riconosciuto all’autorità giudiziaria il potere di stabilire il quando, il quomodo e il quantum delle notizie riferibili».

La norma impugnata, invece, secondo la Corte costituzionale, crea il pericolo concreto di interferenze nella diretta ed esclusiva conduzione delle indagini da parte del pubblico ministero, carica di significati indebiti la dipendenza burocratica degli appartenenti alla polizia giudiziaria, ne indebolisce la dipendenza funzionale (costituzionalmente garantita) rispetto al pubblico ministero, elude «il delicato equilibrio scolpito» nell’articolo 109 della Costituzione.

La Corte, dunque, riporta al centro del sistema dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria il dettato costituzionale, ribadendone la portata e i riflessi sugli equilibri tra poteri.

È una sentenza che riprende e sviluppa un filo storico che ha origine nel dibattito in Assemblea costituente; che orienta la lettura attuale del sistema processuale; che, proprio perché garantisce in maniera netta le prerogative della giurisdizione, alla giurisdizione chiede una risposta adeguata, nella cultura e nella prassi.

Non è inutile richiamare alcuni passaggi cruciali del lavoro della Costituente, ancor oggi utili a chiarire i termini della questione della dipendenza della polizia giudiziaria, a partire dalla scelta di costituzionalizzazione della materia.

In Commissione, il 10 gennaio 1947, Giovanni Leone così imposta il problema: «Occorre dunque porre direttamente alle dipendenze del pubblico ministero la polizia giudiziaria, affinché fin dal primo momento sia soddisfatta, da una parte l'esigenza della legalità e della onestà dell'indagine giudiziaria, e dall'altra, l'esigenza della tecnicità dell'indagine stessa. È frequentissimo il caso di procedimenti basati su una falsariga errata per i quali la polizia arriva a conclusioni tali da paralizzare o da compromettere il giusto svolgimento delle indagini e dell'acquisizione delle prove, sicché, per mancanza dell'immediato intervento del pubblico ministero, si hanno i segni evidenti del disfacimento del processo».

Non dunque una questione di potere ma di corretto e utile esercizio della funzione giurisdizionale (analogo problema viene posto ma non direttamente risolto a proposito del controllo della magistratura «sul funzionamento degli istituti di prevenzione o di pena» nella seduta del 26 novembre 1947).

Nel dibattito si confrontano varie formulazioni ma è chiaro ai Costituenti che gli interessi possono divergere e dunque vanno composti con la dipendenza della polizia giudiziaria dall’autorità giudiziaria: «Spesso tarda e inidonea è stata l'esecuzione degli ordini del magistrato da parte dei funzionari di polizia, specie quando i provvedimenti giudiziari non collimavano con le vedute degli organi da cui la polizia giudiziaria direttamente dipende» (Edmondo Caccuri, seduta del 12 novembre 1947). Fino a pervenire alla soluzione contenuta nell’articolo 109 della Costituzione, così presentata da Giovanni Leone: «La polizia giudiziaria oggi è composta da carabinieri, pubblica sicurezza e guardia di finanza. Ora, ciascuno di questi tre organismi dipende per proprio conto dalla propria amministrazione. I carabinieri dipendono, in condominio, dal Ministero dell'interno e dal Ministero della difesa; la guardia di finanza, dal Ministero della difesa e dal Ministero delle finanze; la pubblica sicurezza soltanto dal Ministero dell'interno. Ora, per quanto attiene alla disciplina, alla carriera, al personale di questi tre organi, sono i tre Ministeri testé citati che dispongono del destino di questi tre corpi. Per quanto attiene alle particolari funzioni della polizia giudiziaria, che sono una aggiunta alle altre attribuzioni, queste particolari funzioni saranno espletate alla dipendenza dell'autorità giudiziaria, nel senso che gli organi di polizia giudiziaria hanno il dovere di obbedire agli ordini dell'autorità giudiziaria solo nei limiti delle attribuzioni della polizia giudiziaria».

L’esigenza, pure avvertita dai Costituenti, di creare un vero e proprio corpo di polizia giudiziaria, distinto dagli ordinari corpi di polizia, rimase invece confinata a un ordine del giorno, rimasto inattuato (proposto da Giovanni Persico: «L’Assemblea Costituente fa voti per la creazione di un corpo specializzato di polizia alle dirette dipendenze dell'autorità giudiziaria»).

Va considerata altresì la necessità di rilettura critica di alcune norme. Ciò è a dirsi del citato articolo 237 del dPR 15 marzo 2010, n. 90, che disposizioni interne all’Arma dei Carabinieri hanno tentato di ricondurre a un’applicazione legittima, sia pure, come rileva la Corte costituzionale, con «una prassi operativa antiletterale» [7]; ma anche dell’articolo 107-bis disp. att. cpp, che incide sull’avvio delle indagini preliminari e che è stato “corretto” da prassi e circolari; e del funzionamento concreto del titolo III del libro I del codice di procedura penale.

Al pubblico ministero ricorrente va riconosciuto il grande merito di avere posto una questione di elevata sensibilità costituzionale e di averlo fatto con una correttezza giuridica e sostanziale − nell’individuazione dello strumento del conflitto tra poteri e nella qualità delle tesi di merito − riconosciuta a chiare lettere dalla Corte costituzionale.

Ma non ci si può limitare a leggere la sentenza n. 229/2018 in termini di “successo” di un potere dello Stato confliggente con un altro. Per il potere giurisdizionale si tratta di un richiamo alla responsabilità [8]: l’effettività (e qualità) della direzione delle indagini da parte del pubblico ministero [9], l’orientamento al risultato processualmente più corretto, la tutela obiettiva dei diritti sin dalla fase di indagine devono guidare l’attività giurisdizionale del pubblico ministero; né è coerente con la sua posizione costituzionale la devoluzione impropria alla polizia giudiziaria di compiti tipici della funzione; e la stessa pigrizia lessicale che ha portato all’uso comune dell’espressione atecnica «forze dell’ordine» andrebbe seriamente superata a favore dell’uso esclusivo dell’unica processualmente e costituzionalmente corretta, «polizia giudiziaria», che scolpisce l’orientamento al processo delle attività investigative.

Va infine osservato come, di fronte alla ribadita centralità della giurisdizione, l’interpretazione delle norme vigenti e l’eventuale sviluppo normativo dovrebbero essere improntati a sobrietà, razionalità e continenza, con la rinuncia a tentativi di ridurre lo spazio costituzionalmente garantito di esercizio della giurisdizione, attuati per via normativa o anche solo propagandistica.



[1] Il Governo, esercitando la delega di cui alla legge 7 agosto 2015, n. 124 perseguiva lo scopo di riorganizzare le forze di polizia e la loro attività, prevedendo l’assorbimento del Corpo forestale dello Stato nell’Arma dei Carabinieri e inoltre, per tutte le polizie, una specializzazione dei compiti, una migliore dislocazione sul territorio, una gestione associata dei servizi. L’articolo 18 è rubricato «Disposizioni di coordinamento, transitorie e finali» e dopo avere regolato l’adozione di provvedimenti attuativi, introduce al quinto comma la norma oggetto della pronuncia della Corte costituzionale.

[2] L’art. 237 prevede che «indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale, i comandi dell’Arma dei carabinieri competenti all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, danno notizia alla scala gerarchica della trasmissione, secondo le modalità stabilite con apposite istruzioni del Comandante generale dell’Arma dei carabinieri».

[3] https://www.csm.it/web/csm-internet/norme-e-documenti/dettaglio/-/asset_publisher/YoFfLzL3vKc1/content/proposta-ex-art-10-comma-2-legge-n-195-del-1958-al-ministro-della-giustizia-finalizzata-ad-una-modifica-normativa-dell-art-18-comma-5-del-decreto-legi?redirect=/web/csm-internet/norme-e-documenti/atti-consiliari/pareri-e-proposte-al-ministro

[4]  Il riflesso della corretta organizzazione della polizia giudiziaria sull’effettività del principio di obbligatorietà dell’azione penale e degli stessi principi di stretta legalità ed eguaglianza è stato evidenziato in dottrina da Giuseppe D’Elia, Magistratura, polizia giudiziaria e Costituzione, Milano, Giuffré, 2002, pp. 105 ss.: «[La polizia giudiziaria] in quanto principale fonte di cognizione delle notitiae criminis, fondamentale strumento di indagine ed organo esecutivo dei provvedimenti giudiziari in materia penale, rappresenta la “chiave di volta” dell’intero sistema penale. Chi detenga le redini della polizia giudiziaria, in altre parole, può disporre dell’azione penale, condizionandone, al tempo stesso, l’iniziativa, con il drenaggio delle notizie di reato, lo svolgimento e l’effettività, con il controllo dei mezzi e delle persone impiegate nelle indagini e delle energie destinate all’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali».

[5] Sentenza n. 94/1963; sentenza n. 114/1968; sentenza n. 122/1971; ordinanza n. 412/1998; sentenza n. 345/2001; ordinanza n. 349/2004

[6] La Polizia di Stato ha adottato le “istruzioni” l’8 ottobre 2016, con ulteriori precisazioni il 10 novembre 2016; il Comando generale della Guardia di Finanza ha adottato un atto il 13 marzo 2017 (nel quale è contenuto un esplicito riferimento alla necessità di tener conto del «dibattito istituzionale» originato dall’art. 18, comma 5, del d.lgs n. 177 del 2016); il Comando generale dell’Arma dei Carabinieri ha confermato le istruzioni operative già impartite in relazione all’art. 237 del dPR n. 90/2010.

[7] Circa questa norma regolamentare la Corte costituzionale osserva che «attraverso una serie di disposizioni a carattere interno all’Arma, è stato infatti stabilito – come emerge dalla ricordata delibera del Consiglio superiore della magistratura del 15 giugno 2017 – che le segnalazioni ai superiori gerarchici debbano limitarsi a riportare gli elementi essenziali del fatto, escludendo qualsiasi aspetto di interesse investigativo e con l’osservanza degli obblighi di cui al cpp. e delle relative norme di attuazione. Si è trattato, d’altra parte, di un’interpretazione imposta dallo stesso sistema delle fonti, giacché una disposizione di rango regolamentare non avrebbe mai potuto validamente derogare alla disciplina in tema di segreto investigativo, introdotta dall’art. 329 cod. proc. pen. con superiore forza di legge. Così, l’espressione “indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale”, attraverso un sia pur generoso ricorso alla natura polisensa dell’avverbio iniziale, è stata fin dall’origine intesa nel senso che tali obblighi devono essere “fatti salvi”; ed essendosi dunque esclusa, perché impedita dal rango della fonte, ogni deroga al segreto investigativo, l’art. 237 del dPR n. 90 del 2010 è stato infine effettivamente applicato solo in vista di un coordinamento informativo a finalità organizzative. Mette conto ricordare che, anche dopo l’entrata in vigore della disposizione impugnata, il Comando generale dell’Arma dei carabinieri, con nota del 13 marzo 2017, ha chiarito che deve essere tenuta ferma la ricordata interpretazione del citato art. 237, con applicazione delle connesse istruzioni operative». Ma, rileva la Corte, «allo scopo di evitare l’illegittimità di altra analoga fonte, peraltro di rango regolamentare» si è dovuta escogitare «una prassi operativa antiletterale».

[8] In termini generali, sul tema della complessità di ruolo del pubblico ministero: M. Guglielmi, Ragioni del processo, ragioni dell’ordinamento: rinunciare a un’istituzione di garanzia?, in Questione Giustizia trimestrale, n. 1/2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/1/introduzione-ragioni-del-processo-ragioni-dell-ordinamento-rinunciare-a-un-istituzione-di-garanzia-_505.php («non ci si può attestare sulla difesa senza ragionare sull’investimento in correttezza deontologica e consapevolezza della complessità del ruolo che il pubblico ministero deve esercitare come istituzione di garanzia, per meritare la sua permanenza nella giurisdizione, e senza esaminare criticamente i comportamenti che da essa tendono ad allontanarsi, in vista della effettiva tenuta e legittimazione del sistema che oggi gli riconosce uno Statuto forte di indipendenza e l’appartenenza “a pieno titolo” all’ordine giudiziario»).

[9] Su cui, ampiamente: S. Pesci, La capacità del pubblico ministero di effettiva guida delle indagini nei rapporti con la polizia giudiziaria, in Questione Giustizia trimestrale, n. 1/2018, http://questionegiustizia.it/rivista/2018/1/la-capacita-del-pubblico-ministero-di-effettiva-guida-delle-indagini-nei-rapporti-con-la-polizia-giudiziaria_508.php.

13/12/2018
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25/07/2023
Il nuovo volto delle indagini preliminari ed il rischio della fuga dalla giurisdizione

La riforma Cartabia, per quanto ampia negli orizzonti normativi, ha costellato la fase delle indagini preliminari di una congerie di adempimenti e controlli che imbrigliano il lavoro di Pubblico Ministero e Giudice. Sovrapposizione di competenze e confusione interpretativa penalizzano la certezza del diritto e disorientano strategie investigative e atti di impulso processuale. Il rischio è quello del riflusso: un ripiego verso la non azione, mancanza di intervento e vuoto di tutela penale. 

14/04/2023