Magistratura democratica
Leggi e istituzioni

L’interruzione volontaria della gravidanza tra obiezione e abiezione

di Aniello Nappi
già consigliere della Corte di cassazione

La legge sull’interruzione volontaria della gravidanza riconosce una libertà di scelta ancora ostacolata da incrostazioni culturali

1. Libertà di scelta

La maternità è un valore sociale, perché esprime la speranza in un futuro migliore; ma a condizione che sia «cosciente e responsabile», come espressamente esige l’art. 1 della legge 22 maggio 1978, n. 194.

Qualsiasi costrizione anche solo morale ridurrebbe ancora la donna a strumento della riproduzione intesa come funzione sociale. Sicché la procreazione è «cosciente e responsabile» solo se consegue a una libera scelta della donna nella gestione del proprio corpo.

Sono destinate a garantire questa libertà di scelta, contro qualsiasi costrizione, sia la tutela della vita umana sin dal suo inizio sia le iniziative pubbliche intese a evitare che l’aborto sia usato a fini di limitazione delle nascite: compiti che la legge assegna allo Stato, alle regioni e agli enti locali, chiamandoli innanzitutto a promuovere e sviluppare i servizi socio-sanitari.

Non si tratta dunque di preservare la continuità della specie o della comunità come valore soverchiante rispetto alle opzioni individuali, bensì di riconoscere il valore della maternità in una prospettiva di emancipazione sociale a garanzia di un’effettiva eguaglianza di genere. Anche la possibile motivazione religiosa della scelta per la maternità si inscrive così nella costellazione dei diritti inviolabili dell’uomo, che la Repubblica riconosce e garantisce (art. 2 Cost.), assumendo il compito di rimuoverne gli ostacoli (art. 3 Cost.).

È stata dunque una conquista sofferta e faticosa delle donne, a vantaggio dell’intera società, questa libertà di scelta in condizioni di eguaglianza, che tuttavia incontra ancora ostacoli e resistenze culturali.

 

2. Obiezione di coscienza

Il più importante ostacolo al riconoscimento della libertà di scelta delle donne è venuto in questi anni dal diffuso ricorso all’obiezione di coscienza da parte del personale sanitario.

Com’è stato ben chiarito, l’obiezione di coscienza esime l’obiettore dall’osservanza della legge non solo penale[1], ma solo quando ricorrano i presupposti del previsto bilanciamento tra diversi valori di rilievo costituzionale. 

Ne consegue che l’obiezione non può essere giustificata dal solo fatto che una donna manifesti l’intenzione di abortire, altrimenti non ci sarebbe stata necessità di definire quei presupposti, delimitando l’ambito delle attività cui l’obiettore può sottrarsi, come prevedono le norme incluse nell’art. 9 della legge.

Tuttavia l’interpretazione di queste norme è tutt’ora controversa.

Il primo comma dell’art. 9 prevede infatti che «il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione».

Il terzo comma dell’art. 9 aggiunge che «l'obiezione di coscienza esonera il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l'interruzione della gravidanza, e non dall'assistenza antecedente e conseguente all'intervento».

Premesso che gli art. 5 e 7 disciplinano l’intervento dei consultori e della struttura socio-sanitaria per l’interruzione della gravidanza rispettivamente entro o oltre il novantesimo giorno, la conciliazione di queste due disposizioni è risultata talora disagevole.

Alcuni autori assegnano prevalenza al terzo comma, ritenendo che il primo comma abbia una funzione meramente descrittiva[2]. Altri sostiene invece che le due norme hanno ambiti diversi. La prima riguarderebbe le attività dirette ad accertare le condizioni che legittimano la donna a praticare l'aborto e sarebbe, quindi, «assoluta ed inderogabile». La seconda riguarderebbe le attività successive a quelle previste dagli art. 5 e 7 della legge, oggetto di obiezione solo se dirette specificamente e necessariamente alla esecuzione dell'intervento[3].

Sennonché la delimitazione di ambiti distinti per i due riferimenti normativi contrasta con il dato letterale, perché il primo comma si riferisce non solo alle procedure di cui agli art. 5 e 7, ma anche agli interventi per l'interruzione della gravidanza; mentre il terzo comma si riferisce non solo all'intervento, ma anche alle procedure.

In realtà, come è stato ben chiarito, il primo comma offre una nozione sommaria dell'obiezione di coscienza, al solo scopo di disciplinarne la forma e i tempi, mentre è il terzo comma che ne delimita l'ambito[4]. Sicché è solo il terzo comma a offrire il criterio per individuare le attività e le procedure che l'obiettore può rifiutare, siano esse appartenenti alla fase di “legittimazione” all'interruzione della gravidanza ovvero alla fase di esecuzione dell'intervento[5].

in dottrina, vi è chi afferma che «specificamente e necessariamente diretta a determinare l'interruzione della gravidanza significa univocamente diretta a tale scopo», ritenendo rifiutabili le attività «che da sole ed obbiettivamente rivelano le finalità cui sono dirette»[6]; e chi invece si limita a richiedere una direzione oggettiva degli atti desumibile dalla loro destinazione «naturale» o «istituzionale» alla interruzione della gravidanza[7].

Si può in realtà ribadire che la specificità della direzione indica una caratteristica tecnica («naturale», o «istituzionale») astratta del singolo atto, definibile in termini di idoneità; la necessarietà della direzione indica, invece, la funzione concreta di quell'atto in un determinato contesto, definibile in termini di destinazione. Infatti gli accertamenti che precedono l'aborto, se non sono tutti specifici di tale operazione (non lo è, ad esempio, l'elettrocardiogramma), è tuttavia da ritenere che siano normalmente tutti necessari ad un corretto intervento. Mentre, ai fini dell'obiezione di coscienza, non ha rilevanza se un atto sia solo necessario per l'interruzione della gravidanza, bensì se sia a ciò effettivamente destinato. Sicché «specificamente e necessariamente diretta» all'aborto è solo l'attività che non può che essere destinata esclusivamente all'interruzione della gravidanza[8].

Considerato che l'obiezione attiene ad attività doverose, può giustificarsene l'esonero dell'obiettore solo quando ne conseguirebbe una sua partecipazione non solo morale all'interruzione della gravidanza: una partecipazione che manca sia quando si tratti di un atto specificamente idoneo ma non necessariamente destinato all'aborto sia quando si tratti di un atto che, pur destinato all’interruzione della gravidanza, non possa considerarsi come specificamente idoneo a quell'intervento. L’obiezione non è perciò ammessa quando la direzione all’aborto dipende soltanto dalla volontà altrui. Solo gli atti esclusivamente destinati all’aborto, solo gli atti che non possono essere destinati che all’aborto, implicano infatti un'adesione inevitabile, non a un singolo atto, ma al programma in cui esso si inserisce. Infatti è esplicitamente esclusa dall’ambito dell’obiezione l'assistenza sia antecedente sia conseguente all'intervento: e per intervento non può che intendersi l’attività esclusivamente destinata a interrompere volontariamente la gravidanza. 

L'obiettore non può dunque essere un «boicottatore» abilitato a rifiutare qualsiasi atto comunque collegabile alla procedura di aborto.

 

3. Abiezione morale

Qualcuno ha affermato che l’aborto non è un diritto ma un delitto. Ed è questa una legittima opinione. Ma le istituzioni non sono legittimate a stigmatizzare come abiezione morale l’interruzione volontaria della gravidanza.

I consultori familiari istituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 405, sono appunto istituzioni, cui l’art. 2 della legge 22 maggio 1978, n. 194, assegna il compito di informare la donna in stato di gravidanza circa i diritti riconosciutile, i servizi di cui può avvalersi (art. 2, lettera a) e le modalità idonee a ottenere il rispetto delle norme della legislazione sul lavoro a tutela della gestante (art. 2, lettera b). Possono anche predisporre o sollecitare interventi intesi a risolvere ulteriori problemi derivanti dalla gravidanza o dalla maternità (art. 2, lettera c) e contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza (art. 2, lettera d). Ma si tratta di compiti intesi solo a favorire la libertà di scelta della donna: sia mediante le informazioni relative al contesto normativo e istituzionale; sia contribuendo a rimuovere le situazioni di fatto che possano rendere disagevole la maternità o la gravidanza eventualmente prospettate dalla stessa donna come cause della sua scelta per l’aborto.

Sicché i consultori non possono intervenire sulle convinzioni e sugli orientamenti morali della donna ma solo sulle cause “esterne” alla sua decisione. A «far superare le cause che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza» non può essere l’opera destinata a persuaderla che l’aborto è abiezione morale.

Sarebbe illegittima qualsiasi attività propagandistica o comunque di indottrinamento morale o religioso svolta dai consultori.

Secondo quanto prevede l’art. 5 comma 1 della legge, infatti, «il consultorio e la struttura socio - sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso, e specialmente quando la richiesta di interruzione della gravidanza sia motivata dall'incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari sulla salute della gestante, di esaminare con la donna e con il padre del concepito, ove la donna lo consenta, nel rispetto della dignità e della riservatezza della donna e della persona indicata come padre del concepito, le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».

In base alla disciplina già vigente i consultori possono avvalersi «della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita». Ma questa collaborazione esterna, anche quando estesa a «soggetti del Terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» (come è ora previsto dall’art. 44 quinquies d.l. 2 marzo 2024, n. 1), è consentita esclusivamente «per i fini previsti dalla legge». Sicché non sarebbe ammissibile la collaborazione estesa ad associazioni ideologicamente o comunque pregiudizialmente avverse all’interruzione della gravidanza, impegnate perciò in un’attività di dissuasione per ragioni morali o religiose.

La scelta laica per l’ammissibilità dell’interruzione volontaria della gravidanza è nella legge. Sarebbe contro la legge, e dunque non consentita, qualsiasi “missione” attribuitasi da chi presumesse di dover  impedire un “errore morale” altrui. 

 


 
[1] F. PALAZZO, Obiezione di coscienza, Enc. dir., XXIX, 1979, p. 547.

[2] A. D'ATENA, Commento all'art. 9 della l. 2 maggio 1978, n. 194, in Nuove Leggi Civili Commentate, 1978, p. 1652.

[3] NUVOLONE, voce Gravidanza (Interruzione della) diritto pen. e cost.., in Noviss. Dig., Appendice III, Torino, 1982, p. 1124 -1125; GALLI, ITALIA, REALMONTE, SPINA, TRAVERSO, L'interruzione volontaria della gravidanza, Milano, 1978, p. 232.

[4] D'ATENA, loc. cit.

[5] A. NAPPI, I limiti oggettivi dell'obiezione di coscienza all' aborto, in Giur. it., 1984, p. 313 e ss.

[6] V. ZAGREBELSKY, in Giur. It. 1980, II. 184.

[7] D'ATENA, op. cit., p. 1654.

[8] A. NAPPI, op. cit., T. PADOVANI, Procreazione (dir. pen.), in Enc. dir., XXXVI, 1987, p. 982.

30/04/2024
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