Magistratura democratica

La campagna denigratoria nei confronti della legge sul reddito di cittadinanza: come andare avanti?

di Giuseppe Bronzini

Con le legge sul reddito di cittadinanza milioni di persone sono state sostenute nei loro bisogni vitali con una misura redistributiva ed egualitaria che l’Unione europea ci chiedeva dal 1993. Ciò nonostante, alla legge si imputa, in chiave distruttiva, di non avere per tutti creato occasioni di lavoro; sebbene sia innegabile qualche ritardo nelle previste politiche attive, è evidente che i posti di lavoro non possono magicamente essere creati dal nulla. Piuttosto, essa costituisce un primo passo verso una generale libertà di autodeterminazione in un’epoca di transizione tecnologica nella quale la ricchezza sociale è sempre più il prodotto dell’intelligenza collettiva.

1. Il primo tormentato compleanno della legge sul reddito di cittadinanza

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nei suoi interventi di fine anno, ha sostenuto che la legge sul «reddito di cittadinanza» (d’ora in poi: RdC) ha portato a una riduzione (o, comunque, a una “compressione” del suo grado di incidenza) del 60 per cento della povertà assoluta in Italia nel solo volgere di un anno. Un maestro della sociologia italiana (e non solo) come Domenico De Masi, poco tempo prima (dopo l’apparire dei primi dati dell’Inps sugli effetti del RdC sul piano del contrasto dell’esclusione sociale più grave) ha, in un polemico articolo sul Fatto quotidiano, definito il nuovo istituto «un miracolo laico in tempi di cinismo»[1], nell’aver dotato i cittadini italiani (e i residenti stabili nel Paese) di un nuovo diritto sociale implementato per i beneficiari da organi pubblici, sostenuti così nei loro bisogni primari dal welfare universalistico e solidaristico e non affidati alla carità privata e ai sentimenti compassionevoli dei vincenti del gioco economico. In una lunga intervista disponibile su Facebook (da novembre 2019) sempre De Masi, ha parlato del «reddito italiano» come di un «successo mondiale» per essere riuscito nell’immediato obiettivo di interrompere la tragica ascesa del “Bel Paese” nella classifica dei Paesi europei con il  numero maggiore  di poveri: l’Italia – prima di questa riforma – aveva infatti conquistato il record del tasso di incremento più forte tra i Paesi dell’Unione sia di quelli assoluti che relativi, raddoppiando in pochi anni (dopo il 2008, anno dell’esplosione della crisi economica internazionale) la loro percentuale.  Il ragionamento del premier italiano, seppure esplicitamente “per approssimazione” solo a fine marzo sarà possibile avere un quadro puntuale dei risultati del RdC nel primo anno di applicazione, sembra molto plausibile: se i poveri assoluti (secondo indici europei) erano pari a 5 milioni, e se le persone interessate dai benefici della legge sono state circa 2.500.000 (tra RdC e pensione di cittadinanza), se sottraiamo coloro che non hanno percepito i benefici perché difettavano dei requisiti di natura economica e patrimoniale (ad esempio, perché possedevano una seconda casa del valore superiore ai 30.000 euro o avevano acquistato di recente una vettura, etc.) si giunge intuitivamente al risultato indicato. Il take up della misura (cioè il livello di attivazione rispetto agli aventi diritto) non è del tutto soddisfacente, ma comunque non è disprezzabile, tenuto conto che si tratta del primo anno, delle carenze informative e della campagna di stampa ossessivamente incentrata sulle norme antiabuso o di induzione “forzata” al lavoro, che in realtà travisa la portata obiettiva della normativa introdotta. Per la fascia di esclusi che hanno usufruito dei benefici, è senz’altro vero quanto sostenuto da chi ha voluto con maggiore determinazione la legge, nonostante l’ironia dei grandi media del tutto fuori luogo, e cioè che per loro lo stato di acuta povertà è stato attenuato, certamente non per sempre e limitatamente al piano strettamente reddituale. Il truismo per cui la piena dignità delle persone non si garantisce con un mero sussidio per i bisogni vitali, ma con un lavoro decente e con l’accesso  a una cittadinanza che consenta la “fioritura umana” non toglie che, in attesa che il mondo si renda kantianamente coerente con queste nobili visioni, agli “ ultimi” (incolpevoli per lo scarto tra la narrazione ottimistica del progresso economico e le sue realizzazioni in contesti capitalisticamente organizzati) debbano  essere assicurate condizioni di vita libere e dignitose. Il fatto che il RdC renda meno intollerabile pro tempore, e con quei limiti che necessariamente riguardano un istituto che interviene sui “minimi”, la povertà (e che lasci quindi ai falsi utopisti della Repubblica la possibilità di guardare oltre, nello spazio avveniristico di assai improbabili patti per il lavoro tra imprenditori illuminati e sindacati dei produttori) è innegabile: il reddito minimo garantito è, infatti, quell’istituto che le società occidentali hanno in sostanza costituzionalizzato nella seconda metà del Novecento per governare il pericolo di una classe di esclusi per sempre e per proteggere la coesione sociale. Senza questa copertura essenziale, le proclamazioni costituzionali sulla solidarietà sarebbero del tutto vuote e ipocrite come per decenni è avvenuto in Italia, ove il welfare (salvo che per l’istruzione e la sanità) ha sino al 2017 in sostanza ignorato coloro che non possedevano lo status di “lavoratori” (discriminando sensibilmente, peraltro, quelli non subordinati). Indubitabile è anche l’altra affermazione, correlata alla prima, dei sostenitori della legge, e cioè che il RdC abbia costituito uno zoccolo imprescindibile di un nuovo welfare, coerente con gli stili di vita e i sistemi produttivi contemporanei nei quali certamente il “lavoro” ha una configurazione ben diversa dalle società novecentesche, che sembravano avviarsi al “pieno impiego”[2]. Anche in questo caso, l’ironia dei grandi media è del tutto fuori luogo: potrà non piacere, ma il RdC introduce una novità assoluta nel welfare italiano consentendo alle strutture pubbliche di governare in modo molto più inclusivo le dinamiche sociali  e  di fronteggiare, con misure che questo Paese non conosceva (se non nelle misere e avvilenti forme di assistenza dei ReI, sul quale torneremo), le nuove patologie generate dalla disoccupazione tecnologica o dal processo di riconversione digitale della produzione. È su questo terreno prioritario, che concerne il rifiuto della disuguaglianza estrema attraverso una strategia immediata di “capacitazione” delle persone prive di mezzi sufficienti, che la normativa sul RdC va giudicata, sulla capacità del nuovo istituto di rendere nell’immediato il nostro Paese più civile, più coeso, privo di territori nei quali la dignità delle persone rimane una parola vuota o che appaiono incontrollabili anche dal punto di vista dell’ordine pubblico, per carenza diffusa dei mezzi elementari per vivere. Per questo “cambio di passo” sono state impegnate risorse ingenti, tenuto conto anche del deficit italiano e dell’accompagnamento, molto discutibile, a un’altra misura costosissima come quota 100[3] e destinata a beneficiare solo pochi privilegiati (con una certa anzianità lavorativa): ben 7 miliardi, cui si aggiunge il miliardo stanziato per il rafforzamento dei centri per l’impiego. Si tratta di una distanza abissale da quanto speso tra il 2008 al 2016 dai vari governi italiani per il contrasto alla povertà (dai 50 milioni della prima social card berlusconiana sino al miliardo e mezzo del Governo Renzi per il ReI); inoltre, un’enorme macchina che va dai ministeri e dagli enti a questi collegati come l’Anpal, l’Inapp o l’Inps, sino alle Regioni e ai Comuni (che potrebbe estendersi alle agenzie per il lavoro, quando verrà implementata la parte sull’assegno di ricollocazione) è stata messa in moto e opera da pendant alla straordinaria esplosione del tema in sé, forse il più trattato negli ultimi anni, in un Paese che ha vissuto per decenni nascondendo i poveri sotto il tappeto o confidando in fantomatiche fiammate di crescita economica, proprio in periodi di lento e inesorabile declino[4].

2. Le critiche alla legge: la fusione tra il falso, l’irrazionale e il ragionevole

Innanzitutto va ricordato come una misura come quella adottata fosse doverosa alla luce degli orientamenti europei, con copertura costituzionale rispettivamente all’art. 34, comma 3, della Carta di Nizza e agli artt. 30 e 31 della Carta sociale europea[5]: si conclude, così, l’attesa durata ben ventun anni di uno strumento adeguato di contrasto del rischio di esclusione sociale, un reddito minimo garantito (Rmg) sin da quando il cd. “Rapporto Onofri”, redatto su mandato del primo Governo Prodi (forse l’ultimo dicastero “riformista” in senso forte e in una prospettiva europea di questo Paese) nel 1998 aveva fotografato il carattere arcaico, corporativo, scarsamente equitativo e poco adatto a fortificare le effettive capabilities delle persone del nostro sistema di welfare, auspicandone una profonda riforma. Come ha ricordato anche di recente Maurizio Ferrera, «l’Unione europea aveva esortato i Paesi membri a dotarsi di questa misura già nel 1993. L’Italia è stata l’ultima a uniformarsi»[6].  Il ReI non può, a parere di chi scrive, essere considerato un Rmg perché in realtà si tratta di una provvidenza per le situazioni di estrema povertà, quasi sempre a carattere familiare e connesse a fenomeni di acuta emarginazione sociale e che, quindi, non può svolgere dal punto di vista funzionale tutte le finalità che competono a un Rmg[7], che estende il suo raggio di azione anche ai working poor come integrazione di reddito da lavoro “indecente”. Solo la legge del 2019 ha tentato di dare un plausibile riscontro alle indicazioni europee, per lo meno circa gli aspetti qualificanti, come l’entità della prestazione, che correttamente il dibattito europeo sull’argomento, le fonti sovranazionali e anche il buon senso (trattandosi di prestazioni di natura quasi elementare) ritengono parametro prioritario e che ha portato a etichettare l’istituto nel «pilastro sociale europeo»[8] nel 2017 come «adequate minimum income» (art. 14). Ora, chiamare una proposta di Rmg “reddito di cittadinanza” può essere, in qualche modo, provocare equivoci nel dibattito pubblico, ingenerando la convinzione che tutti ne abbiano diritto; ma in sé la definizione (seppure distante dalle stipulazioni tra gli studiosi) non appare arbitraria, in quanto non è in assoluta tensione con il contenuto. La storia delle due varianti dello ius existentiae è comune (a lungo non distinte tra loro, per lo meno sino agli anni sessanta del secolo scorso), e comune è il loro fine, sia pure perseguito con mezzi diversi: garantire a tutti un’esistenza libera e dignitosa fondata su scelte individuali non imposte. Anche il Rmg, a ben guardare, rappresenta una prestazione resa a favore della “cittadinanza”, pur selezionando quella “bisognosa” e in difficoltà; ma, soprattutto in situazioni storiche come l’attuale, nelle quali la precarietà e l’incertezza “esistenziale” costituiscono un rischio che si diffonde a macchia di leopardo, questa evocazione terminologica del legame sociale che stringe coloro che vivono stabilmente in un determinato territorio non è un imbroglio, ma la sottolineatura di un principio di coesione elementare tra cittadini che andrebbe valorizzato e reso effettivo con istituti adeguati. Semmai, l’evocazione della cittadinanza sembrerebbe plausibilmente alludere a un percorso di graduale evoluzione, per le ragioni che si diranno, da una tutela dei soli bisognosi a meccanismi più larghi e inclusivi di promozione delle scelte individuali e collettive. Non hanno, quindi, molto senso le critiche che si incentrano sul “nome” scelto per l’introduzione in Italia di un diritto al reddito minimo. Del resto, la confusione tra i due termini è molto frequente anche in documenti internazionali e lo “sfondamento” terminologico è già stato compiuto, nel 2004, con la legge della Regione Campania (oggi decaduta) che, pur accordando un misero sussidio per situazioni di grave disagio sociale, si chiamava «reddito di cittadinanza»: eppure, all’epoca, nessuno aveva accusato il governatore Antonio Bassolino di avere ingenerato speranze non mantenute. Al contrario del ReI, il RdC vuole proteggere l’intera area che in genere in Europa è sotto l’ombrello del RdG, e cioè anche i lavoratori poveri, i disoccupati, i giovani in formazione, chi svolge attività di cura. La sua sfera di protezione è, quindi, molto più complessa e intercetta non solo l’emarginazione sociale (che può avere cause che prescindono del tutto o in gran parte dalla possibilità di impiego), ma anche il mercato del lavoro e i processi di qualificazione occupazionale che vi sono connessi. Demagogica e scandalistica è la polemica giornalistica sui “furbetti” e gli approfittatori: nel Paese che detiene record a livelli planetari nell’evasione fiscale o nella corruzione, appare evidente che qualsiasi misura di sostegno sociale può essere goduta in via truffaldina, come già in settori molti vicini provano i casi dei falsi invalidi o dell’assenteismo sul lavoro. Peraltro, il legislatore ha emanato proprio sul RdC una normativa draconiana, addirittura introducendo figure di reato specifiche con pene di straordinaria severità e la possibilità di intrecciare la varie banche dati per controllare i redditi reali dei beneficiari. È incontestabile che le norme esistano e siano potenzialmente in grado di debellare il fenomeno degli abusi i quali, comunque, non possono di certo compromettere il diritto alla “dignità” del 99 per cento di coloro che hanno davvero bisogno di un sostegno (sono milioni di persone). Il fatto che qualche condannato per gravissimi reati abbia potuto beneficiare degli aiuti rientra nel quadro costituzionale, che in via generale stabilisce il carattere rieducativo della pena e consente al legislatore di bilanciare “il diritto ai soccorsi” (per tutti i cittadini, come richiedeva la Costituzione giacobina) con la particolare gravità dei reati commessi, bilanciamento che risulta effettuato escludendo coloro che hanno subito condanne per taluni reati contro la personalità dello Stato nell’arco temporale di dieci anni[9]. Vorremmo, invece, trattare le critiche mosse al RdC meno tendenziose, che anche in questo caso vedono in prima fila i grandi quotidiani nazionali, ma spesso con l’appoggio dei maggiori sindacati, delle associazioni caritatevoli e anche di molte Regioni italiane, nonché di ambienti dello stesso Governo attualmente in carica. I due temi sui quali si insiste, e che sembrano insistere sulle medesime sensibilità, sono la scarsa utilità del RdC nel trovare occasioni di lavoro e l’avere disperso l’eredità del ReI, confondendo i piani del contrasto della povertà con quello delle politiche attive del lavoro. A riprova, si citano i dati che si assumono deludenti dei contratti di lavoro stipulati dai beneficiari del reddito. A mio parere, a generare questo tipo di critiche è stata una narrazione sbagliata, se non tossica, degli scopi della legge, a cominciare dall’art. 1 dl n. 4/2019 «quale misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro». Questa pluralità di fini può dar adito a qualche fraintendimento, evitando proprio il riferimento sul diritto al reddito minimo, in genere privilegiato anche nella giurisprudenza costituzionale delle corti costituzionali europee (a cominciare da quella tedesca), come presidio della dignità nella sua profonda correlazione con l’autodeterminazione individuale, di cui le scelte lavorative sono una specificazione. Nel suo linguaggio altamente evocativo, la Corte tedesca nel 2010 definiva il diritto al reddito minimo come quello all’ «equa partecipazione alla vita politica e culturale del proprio Paese», ma – seguendo l’art. 34 della Carta di Nizza – si sarebbe potuta replicare l’espressione, più vicina forse al nostro testo fondante, di «diritto ad un’esistenza libera e dignitosa». I tanti fini affastellati all’art. 1 sollevano invece il dubbio su quale sia l’obiettivo minimo della normativa, che va reperito in quel “freedom from want” che deve sorreggere la libertà di scelta (garantita da un pacchetto minimo di risorse e servizi per tutti che, con John Rawls, possiamo definire come “minimo sociale”) di ogni cittadino, consentendogli di individuare quale possa essere il “suo” contributo alla ricchezza collettiva o, comunque, impedendo che possa essere in sostanza escluso permanentemente dal gioco sociale e mortificato nella sua dignità essenziale. Certamente, sul piano pragmatico e istituzionale questo meta-diritto (dalla natura ambivalente di libertà e a carattere sociale) è stato storicamente bilanciato con altri ordini del discorso, come quelli connessi alla scarsità di risorse e limitato al soccorso solo di chi versi concretamente in stato di bisogno, oppure coordinato con la società del lavoro attraverso la disponibilità ad accettare un’offerta occupazionale, ma è evidente che un Rmg non può essere spiegato e piegato a strumento di creazione di lavoro, tanto più di tipo tradizionale. Nel dibattito pubblico che ha preceduto e seguito la legge si possono distinguere due fasi. Nella prima, i fautori dell’intervento legislativo (in particolare, il Movimento 5 Stelle, partito di maggioranza relativa nelle elezioni del marzo 2018, che dell’approvazione del RdC ha fatto una questione “identitaria”) in genere ne hanno correttamente sottolineato il carattere innovativo, il lato “emancipatore” e liberatorio dal bisogno di una parte della cittadinanza rimasta inattiva o con un lavoro sottopagato. Si è insistito, ancora, sulla necessità di assicurare una transizione non traumatica (perché protetta da nuove garanzie di welfare) verso inedite modalità produttive, indotte dai processi di digitalizzazione e di automazione dell’economia con il dilagare della tanto temuta disoccupazione tecnologica, sì da riqualificare in modo radicale l’apporto del fattore umano nella creazione della ricchezza collettiva – tutti temi che, proprio in questi anni, stanno dominando il dibattito internazionale sul «futuro del lavoro»[10]. Se già nel 1956 (anno della prima edizione in tedesco di Automazione) Friedrich Pollock, incaricato dal rifondato Istituto della ricerca sociale diretto da Theodor Wiesengrund Adorno e Max Horkheimer, aveva individuato (curiosamente valorizzando alcuni pioneristici studi della Cisl, oggi così cauta sul tema) nel diritto all’accesso ai minimi vitali uno dei modi per non ostacolare il progresso tecnico e mantenere gli equilibri sociali nel corso della seconda rivoluzione industriale, in questo momento di passaggio dalla quarta alla quinta rivoluzione era sembrato – soprattutto in ambienti internazionali – inevitabile[11] che questo aspetto tornasse prepotentemente in agenda[12]. Dal punto di vista culturale, domina in questa fase una certa “apertura al futuro”, di fiducia nella trasformazione produttiva in atto, che la legge dovrebbe accompagnare mitigandone gli inevitabili costi sociali nella tutela dei bisogni primari dei perdenti della robotizzazione. Inoltre, alla luce del nascere di nuove attività che si affrancano progressivamente dal rigido coordinamento spazio-temporale della prestazione a opera di un “imprenditore” (il cd. fenomeno della “disintermediazione”), sembra emergere con forza il tema della libertà di scelta dell’individuo valorizzata dalla copertura, da parte di un welfare autenticamente universalistico e non piegato su obiettivi immediati di natura occupazionale, dei basic needs. Finalmente, sembrava così arrivare nel nostro Paese, sia pure molto tardivamente, l’eco di un prepotente dibattito internazionale sugli effettivi contorni del dovere di protezione sociale a carico degli Stati (e in prospettiva di organismi “sovranazionali” come l’Unione europea) come presidio di un’equa e giusta cooperazione sociale a partire dalla angosciosa domanda sul futuro del lavoro, in modo da salvaguardare anche la libertà delle persone di scegliersi un progetto di vita realmente mutuato sulle capabilities individuali. Il termine “cittadinanza”, associato al diritto a un reddito (minimo), ha chiaramente e volutamente alluso a una dimensione riformista (se non rivoluzionaria) di lungo periodo, alla necessità di una rivisitazione radicale di sistemi di sicurezza sociali disegnati sul rapporto di “dipendenza” e su realtà produttive sempre meno egemoni. Nella seconda fase, invece, mentre si completavano i contorni della via italiana allo ius existentiae, si è affermato una sorta di anticlimax – che si è oggi accentuato, nonostante il cambio di maggioranza – sulle finalità ultime della legge. Da provvedimento per la dignità e libertà delle persone, il focus, nel dibattito pubblico, è sembrato slittare verso la sua (pretesa) natura di strumento di creazione di opportunità di “lavoro”, di stimolo alla produttività e alla crescita occupazionale, di lotta all’assistenzialismo e alla supposta indisponibilità a rendersi utili alla collettività di una parte della popolazione, soprattutto nel Sud Italia. I poveri, da portatori di diritti come cittadini, in questa rincorsa a far rientrare il nuovo provvedimento negli schemi consolidati dello Stato sociale, sono stati rappresentati come potenziali parassiti, da indirizzare verso le virtù produttive attraverso specifiche e stringenti “norme anti-divano”, secondo una logica disciplinare di cui l’art. 7 (e seguenti), come modificato in sede di conversione, reca tracce evidenti.

3. Una nuova “narrazione” per un rilancio necessario

 Il cambio di “narrazione” richiesto con forza da De Masi (o, forse, il mero ripristino di quelle originaria) è quindi necessario, in modo da salvaguardare gli aspetti razionali e progressisti della normativa anche nell’intenzione di trovare finalmente una certa coerenza tra il nostro welfare e le policies dell’Unione ed i risultati dell’open method of coordination (OMC)e, da ultimo, con quanto solennemente prescritto dal pilastro sociale europeo. L’aspetto della tutela della dignità essenziale delle persone in difficoltà può, quindi, essere presentato come un notevole successo, nonostante le risorse messe a disposizione non fossero di per sé sufficienti per inibire il rischio di esclusione sociale per tutta la platea interessata[13]: si è quindi apprestato un imbuto selettivo piuttosto severo, che può escludere soggetti che, certamente, non sono dei privilegiati sulla base di presupposti la cui razionalità (ad esempio, il valore anche modesto di una seconda abitazione) va senz’altro verificata con l’attento monitoraggio sulla prima applicazione della legge. Tuttavia, gli importi corrisposti unitamente alla quota di affitto (o di rateo di un mutuo), sebbene parametrati con riferimento al nucleo familiare (ma così avviene prevalentemente in Ue), non sembrano irrisori o simbolici, ma piuttosto robusti, soprattutto se si guarda ad alcune zone del Paese (in media, 520 euro a nucleo); in ogni caso, essi sono paragonabili con quanto erogato in altri Paesi confrontabili come la Germania (anche se, in quest’ultimo caso, molto rilevanti appaiono gli aiuti in termini di servizi). Quindi, si potrebbe dire con De Masi che la cd. “fase 1”, la lotta contro la piaga vergognosa della povertà combinata al cinismo delle pubbliche istituzioni, sia pienamente riuscita: milioni di persone sono state risospinte verso la soglia di dignità (dieci furbetti, di certo, non compromettono questo risultato, in sé di una certa grandiosità). L’Italia si reinserisce nel novero delle nazioni civili che non consentono il formarsi di sub-cittadini e di umiliare i perdenti di un gioco economico sempre più iniquo. Si deve comunque ricordare che, già in un noto documento redatto per la Commissione europea nel 2009, si affermava che «se la preoccupazione fondamentale per molti Paesi è stata quella di far sì che il Rmg non disincentivasse i beneficiari dall’accettare un’offerta di lavoro più che di garantire un adeguato livello di reddito (…) gli schemi di Rmg svolgono anche un ruolo vitale nel garantire che le persone non si demoralizzino e che le misure di coinvolgimento attivo per la ricerca attiva non li faccia sentire incapaci di partecipare. I benefici del Rmg sono visti come un modo per investire nelle capacità delle persone e, quindi, reinserirle tanto nella società quanto nel mercato del lavoro»[14]. Dicono i critici della legge che si sarebbe smarrita l’esperienza del ReI, ma questa affermazione a me sembra piuttosto pretestuosa. In realtà, la normativa del 2019 distingue due strade nella condizionalità della misura: quella legata al reinserimento sociale e quella del reinserimento lavorativo (attraverso i due Patti cui sono collegate le sanzioni in caso di mancata collaborazione del soggetto). Per il primo, si passa attraverso i servizi sociali dei Comuni, come avveniva per il ReI, e l’impianto normativo del sostegno è molto simile a quello precedente; ma l’istituto del RdC, essendo molto più vasto e inclusivo, si integra anche con le politiche attive, le offerte di lavoro, le condizioni occupazionali al di sotto della decenza. Quindi, la questione che davvero sembra dividere i difensori della legge e i critici di appartenenza sindacale o legati ad associazioni cd. “caritatevoli” (volontariato) in genere cattoliche (e di alcuni esponenti dell’attuale maggioranza) non sembrerebbe essere quella dell’archiviazione del ReI, i cui scopi sono in pratica conservati nell’impianto del RdC e implementati anche oggi dai Comuni, ma con ogni probabilità  l’esclusione da un ruolo attivo e determinante di queste organizzazioni, cui vengono in realtà preferite le strutture pubbliche e gli esperti con un ruolo professionale nell’ambito della burocrazia statale. Si insiste, poi, sull’inefficienza dei canali di reinserimento che passano attraverso le politiche attive del lavoro e, quindi, sul mancato avvio della cd. “fase 2”. Certamente possono esservi stati ritardi, dovuti all’imponente lavoro di decretazione previsto nella normativa primaria, ma valgono sul punto alcune considerazioni. La condizionalità al “lavoro” riguarda una fascia non maggioritaria dei soggetti che godono del reddito: infatti sono esclusi da tale obbligo chi già lavora, chi è in formazione, chi esercita attività di cura (a favore di bambini molto piccoli) e chi non può lavorare – oltre il 60 per cento di coloro che beneficiano degli aiuti. Sul fronte delle politiche attive, esiste un cronico e macroscopico ritardo dei centri per l’impiego che vengono solo ora a rafforzarsi, attraverso un incremento di organico pari a oltre il doppio degli attuali dipendenti (entro due anni, da 8.000 a 20.000 addetti). La legge stabilisce, poi, dei provvidenziali “paletti”, spesso dimenticati nella polemica sull’assistenzialismo del RdC, e cioè che le offerte di lavoro devono essere «congrue», cioè coerenti con il bagaglio professionale informale e formale del soggetto, e devono essere «decenti», a tempo indeterminato o a tempo determinato per almeno sei mesi, con un trattamento superiore a 858 euro (le legge aggiunge anche ulteriori specificazioni in ordine alla distanza dal luogo di residenza del soggetto). La legge sul RdC offre, così, un “ponte” verso un salario minimo legale perché la condizionalità al lavoro è, a sua volta, condizionata all’idoneità dell’impiego offerto a garantire una retribuzione minima. Essa offre quindi un punto di convergenza tra le posizioni dei “lavoristi” e quelle dei “redditisti”, così come facevano le proposte della scorsa legislatura di Sel o di 5 Stelle (o la legge sul RdG della Regione Lazio). C’è, allora, da chiedersi: quanti posti di lavoro possono essere offerti in Italia tali da soddisfare queste esigenti richieste? Come può una legge di garanzia dei minimi vitali costituire l’occasione per soddisfare la richiesta di lavoro decente di così tante persone in presenza di un evidente storico declinare del lavoro tradizionale e di perdurante crisi economica? Certamente la macchina messa in atto, e ancora in ritardo (la “fase 2”), potrebbe potenzialmente attenuare il fenomeno del mismatch tra offerta e domanda, ma sarebbe serio non illudersi sul numero di posti di lavoro che rimangono vuoti per via di questo mancato incontro (certamente non i 500.000 di cui alcuni commentatori parlano). In ogni caso, rimane fuori dalla portata logica della normativa “creare” miracolosamente posti di lavoro per tutti, tanto meno “congrui”. È, di fatto, troppo presto per valutare gli effetti su questo piano – ripetiamo – importante, ma secondario della normativa del RdC. Sono stati solo da poco approvati alcuni decreti o accordi che erano imprescindibili per avviare compiutamente le politiche attive previste per legge: da quelli sull’assegno di collocazione alla disciplina delle modalità di offerta delle occasioni di lavoro; similmente, vanno ancora oliati i rapporti tra Anpal, che dovrebbe avere il coordinamento di tali politiche, e le Regioni cui spetta la messa in opera, così come la stessa connessione tra patti di lavoro e di reinserimento sociale, non essendo ancora chiari eventuali passaggi di uno o più membri delle famiglie beneficiarie del RdC  dall’uno all’altro. La drammatizzazione di alcuni ritardi, che volutamente ignora che, proprio su questo terreno, non vi fosse alcuna prassi felice in atto da recuperare o proseguire, sembra orientata a una rivincita del “lavorismo” più gretto e intransigente nel rifiutare le ragioni della dignità nella sua connessione con la libertà delle persone: il “lavoro”, qualunque esso sia, va imposto ad ogni costo, e i soggetti “costretti” a essere produttivi; al più, si può ammettere una tutela in via eccezionale dell’emarginazione più estrema strettamente confinata sul lato della povertà assoluta, irriducibile agli schemi del lavoro perché “malata” e persa alla socializzazione. Per costoro, va recuperata la vocazione assistenzialista e caritatevole delle ong, che possono in gran parte sostituire l’espertocrazia pubblica; per il resto, nessun sostegno se non tramite le politiche occupazionali del mercato. Nelle parole dell’ex premier Matteo Renzi: nuovi cantieri, liberando risorse dalle politiche per la dignità (chiamate assistenzialiste); il nuovo fermento produttivistico si indirizza verso orizzonti da primo Novecento: grandi opere ed eserciti di edili e manovali. Il grande dibattito internazionale sul futuro del lavoro e sul nuovo umanesimo nella società automatica delle macchine è aggirato nella semplificazione del ritorno all’industrialismo tradizionale.

4. Che fare?

 Certamente non si vuole negare che alcuni aspetti della normativa del 2019 meritino attenzione e che possano essere migliorati in una logica costruttiva e non demolitrice, come recentemente chiesto anche Chiara Saraceno[15]. Come detto, l’insieme delle condizioni reddituali, patrimoniali e personali previste per ottenere i benefici va riesaminato alla luce dei primi monitoraggi sull’applicazione della legge: ogni sistema selettivo produce, di per sé, risultati iniqui per le persone che si trovano molto vicine alle soglie prestabilite e la riflessibilità delle scelte diventa l’unico rimedio per addolcire le ingiustizie che derivano da norme welfaristiche non autenticamente universalistiche. Anche senza voler eliminare un approccio alla tutela che si fonda sul nucleo familiare così com’è, la normativa non chiarisce la ripartizione individuale del reddito spettante al nucleo e sembrerebbe ascrivere a tutti i suoi membri una responsabilità di “gruppo” per la mancata osservanza degli obblighi di attivazione da parte di uno solo dei suoi membri: una correzione garantista si rende senza dubbio urgente. Un punto sembra ancora oscuro e riguarda la giustiziabilità degli obblighi previsti, e cioè quanto il beneficiario possa contestare la sua profilazione, l’assegnazione al centro per l’impiego o ai servizi sociali dei Comuni, le offerte di lavoro assegnate e via dicendo, e chi sia il giudice di questi passaggi. Se si ritenesse, come a chi scrive apparirebbe plausibile, che con l’ammissione al beneficio il soggetto abbia un diritto già perfezionato (in base ai requisiti economici), sia pure sottoposto a condizioni che maturano nel tempo e che riguardano le varie misure di attivazione, allora certamente la competenza spetterebbe al giudice ordinario, il che renderebbe le varie procedure previste molto più affidabili secondo la logica per cui la perdita del diritto fondamentale sarebbe un’eccezione da provare rigorosamente da parte dei vari organi amministrativi competenti. Ancora, la normativa sulla residenza decennale è discriminatoria e di dubbia legittimità interna e sovranazionale. Tuttavia, a mio parere, l’opera della critica disfattista e apologetica del workfare non cesserà neppure con una nuova narrazione più razionale delle vere mete della prima sfida istituzionale alla schiavitù del bisogno, e neppure con gli aggiustamenti più facilmente praticabili del suo impianto. Vi è, a mio avviso, una non-sincronia originaria tra questa e il prepotente nuovo interesse in tutto il mondo, non più solo in ambienti radicali accademici, per una copertura “di base” autenticamente universalistica o, nella transizione verso questo obiettivo, per politiche di sostegno alle persone non condizionate, ma solo “capacitanti”. Dopo dieci anni di crisi tra crescita esponenziale delle disuguaglianze e tassi eccezionali di disoccupazione (soprattutto giovanile) o anche di sub-occupazione con l’affermarsi di varie strategie dis-retributive[16], appare sempre più evidente che i modelli lavoristici e welfaristici tradizionali non riescono ad aggredire il cuore dei rapporti di potere nel mondo produttivo investito dalla cd. “quarta rivoluzione industriale”, non riescono a produrre né un riequilibrio contrattuale né un minimo senso di sicurezza esistenziale e, quindi, di progetto lavorativo auto-scelto[17], quantomeno con condizioni decenti. Evidentemente, sotto questo profilo, la società perde il suo controllo sull’economia e, progressivamente, perdono di verosimiglianza le promesse di equità e giustizia sociale proclamate nelle costituzioni nazionali, come anche nei “bill of rights” sovranazionali o internazionali. L’inquietudine, l’incertezza e, talvolta, il sentimento di angoscia che si genera da dinamiche ancora indeterminate[18], delle quali non sono chiari gli esiti, sono alla base di questa nuova ondata di discussioni sullo ius existentiae, nozione riassuntiva delle due strade sinora elaborate per garantire la dignità e la libertà essenziale delle persone, rispettivamente del reddito minimo garantito (universalismo selettivo) e del reddito di base (universalismo tout court).  Macroeventi politici e mediatici hanno sottolineato questa irruzione dell’ignoto (o, per dirla con Freud, del “perturbante”) nel tranquillante scenario trasmessoci negli ultimissimi decenni, soprattutto in Europa[19], per cui i soggetti che si trovano in difficoltà (per definizione, a carattere provvisorio e assorbibile con politiche più forti per l’impiego) sarebbero stati tutelati circa i bisogni primari e accompagnati a trovare altra occupazione, quindi in sostanza garantiti anche sul piano reddituale nelle “transizioni lavorative”, come espressamente indicato nei principi comuni di flexicurity del dicembre 2007, approvati pochi mesi prima dell’esplosione della crisi economica internazionale. Non sembra, in realtà, trattarsi di un problema di promesse “mancate”, se non sul lato della mancata europeizzazione delle politiche di flexicurity, visto che di esse si sono giovati, in effetti, gli Stati non affetti da deficit di bilancio eccessivi e che comunque hanno saputo “prendere sul serio” questa tarda declinazione del welfare keynesiano, mentre i Paesi dell’area dell’olio di ulivo sono rimasti impantanati dalla disoccupazione di massa senza misure pubbliche anticicliche ed espansive. Gli interrogativi sono più raggelanti e riguardano, come appare sempre più evidente, il futuro del “lavoro”, le sue mutazioni e il rapporto con uno Stato sociale non ancora attrezzato per questo scenario inedito, una scenario – quindi – che trascende di molto le questioni sorte nel passaggio al cd. “post-fordismo”, che era ancora la cornice delle politiche di flexicurity. Non sembra un caso che il confronto su reddito di base versus reddito minimo garantito si sia sviluppato in Paesi come la Svizzera, il Belgio, la Francia, l’Olanda, che questa seconda misura hanno implementato da decenni con sistemi piuttosto efficienti. La flexicurity ha funzionato (anche se non è stata propriamente una formula “europea” e in Italia, in realtà, non è mai arrivata, se non nelle modalità false del Jobs Act), ma è davvero sufficiente di fronte a fenomeni come quelli della digitalizzazione dell’economia o dell’economia circolare (o la più devastante robotizzazione), visto che alla fine presuppone che il “lavoro” sia inquadrato, almeno in via generale, in contratti tradizionali (cercando di limitare quelli cd. “atipici”), che vi siano dei sindacati in grado di mediare le istanze di giustizia sociale, che i servizi pubblici o accessibili gratuitamente all’impiego siano in grado di orientare davvero verso occasioni di lavoro relativamente stabili e decorose? Il mutamento di clima è segnalato dallo stesso Report, molto atteso, dell’Oil (Inception Report for the Global Commission on the Future of Work, Ginevra, 2017, www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---dgreports/---cabinet/documents/publication/wcms_591502.pdf), che raccomanda le politiche di reddito minimo garantito, e dovrebbe aprire una riflessione aperta e su base globale proprio sul futuro del lavoro, secondo il quale «as a response to these challenges, some scholars and policy-makers have argued for the need to delink social protection from employment by creating a universal basic income that would provide a flat unconditional benefit to all citizens or residents of a country, regardless of income. Proponents argue that a sufficiently large benefit can eliminate absolute poverty, is easy to administer and is less prone to leakage or corruption. By raising the reservation wage of workers, the benefit can also act as a deterrent against poor quality jobs, encouraging employers to improve pay and working conditions. The idea of universal basic income has received strong support among some experts» (ivi, p. 21). Per l’Economist, l’idea di un reddito universale non gode ancora di un consenso diffuso, perché il “lavoro” è ancora una realtà potente nella nostre vite e non è ancora chiaro come possa evolvere nelle sue modalità, né come un “lavoro 2.0” possa essere remunerato (non è, quindi, una misura urgente), ma lo stesso settimanale aggiunge che «un reddito di base è un modo per rendere la transizione più umana». Occorre perfezionare e rendere più protettivo, inclusivo e promozionale il welfare che abbiamo già costruito con lotte di decenni, guardando, però, costantemente ai processi che si stanno imperiosamente affermando. E conclude «il passato non è sempre una buona guida per il futuro. Il sistema welfaristico è cresciuto per servire un modello di modernità industriale. Sta fallendo con i più poveri e può essere a rischio derivante dallo sconvolgimento tecnologico. Necessita già di un revisione radicale»[20]. Già Stefano Rodotà, nel suo capolavoro del 2012, affermava: «Possiamo (…) specificare meglio la linea di sviluppo che si va chiaramente delineando. Il reddito minimo si configura come punto di partenza e indica le modalità che devono essere prese in considerazione perché si possa giungere all’effettiva tutela di un diritto fondamentale della persona. L’approdo è il reddito di base incondizionato per tutti, o reddito universale, che tuttavia non esaurisce il diritto all’esistenza libera e dignitosa, di cui costituisce una essenziale componente. La dimensione istituzionale è quella della cittadinanza»[21]. Le politiche pubbliche, anche le più avanzate, rischiano di essere eccentriche rispetto a questi smottamenti tecnologici, a cominciare dalle cd. “politiche attive” elaborate nell’Unione europea, che non possono essere più concepite all’insegna del concetto di inserimento nel mercato del lavoro, vista la progressiva carenza di opportunità disponibili[22] o, in ogni caso, a fronte del carattere multiforme, poco formalizzabile e iperflessibile che vantano, in genere, le attività possibili nella digital economy. È questo lo sfondo obiettivo nel quale viene nuovamente discussa, anche in Europa, l’ipotesi di un reddito erogato senza condizioni, in particolare non finalizzato a una “rieducazione al lavoro”, come rideclinato negli ultimi anni attraverso l’ideologia correzionalista e neo-luterana del “workfare”. Per cercare di offrire a ognuno la possibilità di valorizzare le proprie capabilities (secondo la felice formula del premio Nobel per l’Economia Amartya Sen), l’Unione europea ha elaborato da tempo le “politiche attive”, che aiutano il soggetto, soprattutto se in difficoltà, a mettere in atto concretamente il proprio “piano di vita”, sfuggendo ai ricatti occupazionali. Si tratterebbe invece, oggi, di radicalizzare questa impostazione nel momento in cui il “lavoro” (subordinato o autonomo che sia) perde il ruolo di collante della società, assumendo contorni più indefiniti, avvicinandosi alla nozione di attività in senso ampio, diventando quantitativamente e qualitativamente sempre più difficile da valutare (per il lavoratore digitale, è altamente problematico definire il momento in cui si sta formando, o sta comunicando, da quello nel quale effettivamente offre ad altri servizi o prestazioni).

Tornando al nostro tema, la legge del 2019 ha un impianto che già trascende la logica del lavoro come unico strumento di reinserimento: per chi è in pensione, per chi ha già un’occupazione, sia pure non adeguatamente retribuita o precaria, per chi svolge attività di cure, per chi è in formazione; tuttavia, essa mantiene per chi può lavorare un impianto obbligatorio, che si sostanza nella legge delle “tre offerte” (dopo le quali si perde il diritto), temperata dal carattere congruo e non effimero di queste. Nel contesto europeo, non è certamente un’esperienza che si connota per una pressione mortificante ad accettare qualsiasi “lavoretto”. Nondimeno, questa correlazione stretta per alcuni tra obblighi di attivazione e diritto, inevitabilmente genera aspettative che non possono essere soddisfatte per quanto abbiamo già detto, soprattutto da parte degli organi pubblici deputati all’attivazione; sempre meno appare ragionevole che l’attivazione consista nel “formare” i soggetti per carriere predeterminate e già disponibili. Se si vuole essere efficaci e aiutare davvero i soggetti a trovarsi un’attività utile alla collettività, ha poco senso prescrivere come obbligatoria l’acquisizione di quei tratti soggettivi che, invece, dovrebbero rappresentare la propria originalità innovativa. Semmai, serve una rete pubblica che operi come atelier della sperimentazione collettiva, come nelle pioneristiche sperimentazioni di Parigi e Barcellona, che cercano di combinare nuovo cooperativismo delle piattaforme e sostegno al reddito di base. L’ideologia dell’induzione all’impiego attraverso obblighi sanzionati (maneggiata ad arte dall’ex premier, ma anche da alcuni sindacati, per archiviare la normativa del 2019, non per migliorarla) è alla fine distruttiva per la sfida che lo ius existentiae intende accettare: liberare la creatività delle persone affrancandole dal bisogno, ma anche dalle occupazioni non gratificanti e rese superflue dal progresso tecnologico. Ma la legge del 2019, anche su questo aspetto, mostra una notevole apertura: una previsione introdotta in sede di conversione autorizza un monitoraggio (su di un campione non superiore al 5 per cento) di un RdC non condizionato agli obblighi di attivazione stabiliti dalla legge, eccetto quello di accettare una proposta di lavoro congrua. Manca ancora un decreto di attuazione, ma questa previsione  potrebbe essere il germe di una significativa “via italiana” a un reddito minimo meno dirigista e più autodeterminato, sulla scia di quanto si sta sperimentando in varie parti del mondo, dall’Ontario all’Aquitania, dalla Finlandia all’Olanda, sino alla California e alla città di Chicago, in un nuovo, coraggioso percorso che, recuperando la ratio emancipatrice del welfare novecentesco, raccolga però compiutamente le sfide del nuovo millennio rinunciando a subordinare la necessaria protezione contro la dilagante esclusione sociale alla ricerca di occasioni contrattuali (a cominciare dalla “subordinazione” tradizionale), di cui proprio le dinamiche tecnologiche mostrano l’obsolescenza. Una transizione (nel compromesso tra reddito di base e Rmg) verso una nuova libertà individuale, anche di natura produttiva e occupazionale[23]. Un’occasione da non perdere!

[1] D. De Masi, Un miracolo laico in tempi di cinismo, Il Fatto quotidiano, 20 novembre 2019, www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2019/11/20/un-miracolo-laico-in-tempi-di-cinismo/5571743/.

[2] Cfr. M. Ferrera, Cosa serve contro la povertà, Il Corriere della sera, 29 dicembre 2019: «È stata una riforma importante, che ha dotato il welfare italiano dell’ultimo tassello mancante: la garanzia di un reddito minimo a chi è privo di risorse sufficienti per far fronte ai bisogni della vita quotidiana».

[3] Giova ricordare che, contrariamente a quanto affermato dai principali media, la Commissione europea, nel valutare la legge di bilancio del 2019, non ha affatto criticato l’introduzione del RdC, definita «misura giustificata» dall’incremento dei tassi di povertà italiani, manifestando solo qualche dubbio sull’effettivo funzionamento delle politiche attive previste, mentre ha censurato piuttosto energicamente “Quota 100”.  

[4] Per un giudizio molto equilibrato, cfr. G. Fontana, Reddito minimo, disuguaglianze sociali e diritto del lavoro. Fra passato, presente e futuro, «Centre for the Study of European Labour Law» (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 389/2019, e S. Giubboni, Primi appunti sulla disciplina del reddito di cittadinanza, «Centre for the Study of European Labour Law» (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 401/2019. Sulla legge del 2019, cfr. il fascicolo n. 1/2019 della rivista La cittadinanza europea, che offre numerosi contributi (www.francoangeli.it/riviste/sommario.aspx?anno=2019&idRivista=165&lingua=en).

[5] Il rilievo della Carta sociale nel nostro ordinamento è stato valorizzato nelle sentenze nn. 120 e 194 del 2018 anche attraverso i pareri del Comitato economico e sociale, da tenere in considerazione “argomentativa” per stabilire l’esatto contenuto dei diritti sociali in gioco.

[6] M. Ferrera, Cosa serve contro la povertà, op. cit.; G. Bronzini, La rivendicazione di uno ius existentiae per i cittadini europei come contrasto del populismo sovranista, in questa Rivista trimestrale, n. 1/2019, www.questionegiustizia.it/rivista/2019/1/la-rivendicazione-di-uno-ius-existentiae-per-i-cittadini-europei-come-contrasto-del-populismo-sovranista_637.php.

[7] L’ultimo Flash Report su povertà e esclusione sociale di Caritas, pubblicato il 17 novembre 2019 ed elaborato sui dati del 2018, conferma che l’incidenza del ReI è stata modesta persino nel ridurre la povertà estrema (www.caritasitaliana.it/materiali/studi_ricerche/flash_report_2019/Flash_Report_Caritas_Italiana_2019.pdf). 

[8] Vds. G. Bronzini (a cura di), Verso un pilastro sociale europeo, Key, Milano, 2019.

[9] Sulla severità, in verità eccessiva, della normativa del 2019, sia a carattere amministrativo che penale, vds. R. Riverso, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, in questa Rivista online, 6 giugno 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/reddito-di-cittadinanza-assistenza-alla-poverta-o-governo-penale-dei-poveri-_06-06-2019.php.

[10] Nella dilagante letteratura sull’argomento, vds. il report del 2016 del World Economic Forum, The Future of Jobs. Employment, Skills and Workforce Strategy for the Fourth Industrial Revolution (www3.weforum.org/docs/WEF_Future_of_Jobs.pdf), i numerosi report del McKinsey Global Institute (www.mckinsey.com/mgi/overview/about-us), dell’Economist e i molti documenti dell’Unione europea nei quali si discute – pur con una certa cautela – anche della proposta dell’avvicinamento tendenziale a un reddito di base, anticipato dal rafforzamento dei sistemi vigenti, soprattutto in Europa, di Rmg. Per una rassegna del dibattito internazionale, cfr. G. Bronzini, Percorso di lettura sul diritto ad un reddito di base, in Dir. lav. rel. ind., n. 2/2018, pp. 493 ss., e i saggi raccolti sotti il titolo Opinioni a confronto sul reddito di cittadinanza, in Riv. dir. sic. soc., n. 4/2018, pp. 687-738 (Autori: P. Tullini, G. Bongiovanni, G. Bronzini, C. Del Bò, M. Forlivesi, S. Toso; www.rivisteweb.it/issn/1720-562X/issue/7580).

[11] Per usare il titolo del leggendario direttore di Wired, la rivista più progettuale dedicata a Internet, cfr. K. Kelly, L’inevitabile, Il Saggiatore, Milano, 2017. 

[12] Vds. F. Pollock, Automazione. Conseguenze economiche e sociali, Einaudi, Torino, 1970; per una versione aggiornata dello scenario dell’automazione, cfr. B. Stiegler, La Società automatica. L’avvenire del lavoro, Meltemi, Milano, 2019.

[13] Il ddl presentato dal M5S del 2013, infatti, prevede una spesa di circa 14 miliardi; leggermente più costoso quello avanzato da Sel (16 miliardi).

[14] Cfr. H. Frazer ed E. Marlier, Minimum Income Schemes Across EU Member States, per conto della Direzione generale per l’occupazione, gli affari sociali e l’inclusione della Commissione europea, ottobre 2009, p. 10 (traduzione dell’Autore; www.eesc.europa.eu/resources/docs/minimum-income-schemes-across-eu-member-states_october-2009_en.pdf).

[15] C. Saraceno, Quel reddito da riformare, La Repubblica, 31 dicembre 2019.

[16] Cfr. Aa.Vv., L’economia della promessa, Manifestolibri, Roma, 2016.

[17] Correttamente L. Ferrajoli, nel suo recente Manifesto per l’uguaglianza, Laterza, Bari-Roma, 2017, mette al centro della riflessione sul necessario contropiano politico e costituzionale per recuperare l’uguaglianza nei diritti fondamentali la garanzia di un reddito di base per ogni appartenente a una determinata comunità politica.

[18] Quel Kulturpessismus esemplato, a livello filosofico, nei tanti saggi di Byung-Chul Han (tutti tradotti per Nottetempo, Milano) e, a livello sociologico, da Evgenij Morozov.

[19] Vds. gli annuali “Joint Reports” sul contrasto dell’esclusione sociale a cura della Commissione europea, nel quadro del metodo aperto di coordinamento (OMC).

[20] The Economist, 4 giugno 2017; cfr., in particolare, l’articolo Universal basic incomes. Sighing for Paradise to come, 4 giugno 2016 (www.economist.com/briefing/2016/06/04/sighing-for-paradise-to-come).

[21] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 244; cfr. anche, a p. 248: «Il diritto all’esistenza libera e dignitosa è tutto questo. Reddito, certamente. Ma, insieme e talora soprattutto, condizioni del vivere, dove l’immateriale dà il tono a tutto il resto, determina la qualità stessa della vita». Il tema è affrontato anche in S. Rodotà, Solidarietà. Un’utopia necessaria, Laterza, Roma-Bari, 2014.

[22] Cfr. il report dell’Economist, Equipping people to stay ahead of technological change, 14 gennaio 2017, disponibile online (www.economist.com/news/leaders/21714341-it-easy-say-people-need-keep-learning-throughout-their-careers-practicalities).

[23] Per questa prospettiva, cfr. G. Bronzini, Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’età dell’innovazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017; G. Allegri, Il reddito di base nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione, Fefè Editore, Roma, 2018.