Magistratura democratica

Il lavoro per un’esistenza libera e dignitosa: art. 36 Cost. e salario minimo legale

di Carla Ponterio

Il ruolo del sindacato quale autorità salariale e l’utilizzo giurisprudenziale dei contratti collettivi come parametro di una retribuzione proporzionata e sufficiente hanno rappresentato, per molto tempo, una solida garanzia perché il lavoro fosse dignitoso. I sempre più ampi margini di sfruttamento del lavoro e il fenomeno dei lavoratori poveri segnano un punto di crisi, che rende non più differibile l’intervento del legislatore.

1. Il contesto costituzionale di riferimento

Il fenomeno, ormai endemico nelle moderne economie, del lavoro povero ha riproposto con forza la questione salariale e ciò ha determinato, in ambito giurisprudenziale, un nuovo bisogno di ricorso all’art. 36 della Costituzione.

Questa norma, inserita nel titolo dedicato ai rapporti economici, declama il diritto di ciascun lavoratore a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e, in ogni caso, sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

 Il dibattito svolto in seno all’Assemblea costituente[1] ci racconta di un art. 36 (nel corso dei lavori, art. 32) come norma programmatica e anche di una precisa scelta contraria a una riserva di legge sul salario minimo.

Il deputato Aladino Bibolotti propose che, al primo comma (dell’art. 32), fosse aggiunta la seguente previsione: «Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge» e così argomentò a sostegno della proposta: «a me pare (...) che  questo inserimento nell’articolo 32 conferisca all’articolo stesso una consistenza ed una concretezza tali da tranquillizzare le famiglie dei lavoratori, nel senso che, compiuto il loro dovere sociale di partecipare al processo della produzione, essi non potranno essere mai più oggetto di quello sfruttamento inumano e senza limiti che oggi, in determinate circostanze e in determinati rapporti di forze, sarebbe ancora giuridicamente possibile».

L’emendamento non fu approvato.

I Costituenti scelsero di non prendere posizione sulle modalità attraverso cui assicurare la giusta retribuzione.

Non fu introdotta una riserva di legge sul salario minimo, che avrebbe affidato al legislatore il compito di stabilire la soglia di proporzionalità e sufficienza; non fu neanche stabilita una riserva in materia retributiva a favore della contrattazione collettiva[2].

Nel disegno costituzionale era, tuttavia, chiaramente individuata la competenza in materia salariale affidata alla contrattazione collettiva ed era segnata la strada attraverso cui sarebbe stato possibile fissare la retribuzione proporzionata e sufficiente nei diversi settori produttivi, tramite cioè il meccanismo, descritto dall’art. 39 Cost., del contratto collettivo reso efficace erga omnes.

Nel diritto costituzionale vivente, l’art. 36 ha assunto il valore di norma precettiva, prima per opera della dottrina[3] e poi della giurisprudenza, di legittimità e costituzionale[4]: esso attribuisce al lavoratore un diritto soggettivo perfetto alla giusta retribuzione.

L’art. 36 Cost. è stato considerato norma direttamente applicabile nei rapporti individuali quale precetto inderogabile e, per opera della giurisprudenza, le tariffe salariali previste dai contratti collettivi nazionali nei diversi settori sono diventate parametro della retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.

2. Il ruolo della giurisprudenza sull’art. 36 Cost.

Nel contesto di mancata attuazione dell’art. 39, secondo parte, Cost., la giurisprudenza ha utilizzato come parametro di riferimento della giusta retribuzione, non vincolante per il giudice, le tariffe salariali dei contratti collettivi della categoria, ove non direttamente applicabili. In base a una presunzione iuris tantum, i giudici hanno considerato i minimi retributivi dei contratti collettivi nazionali di lavoro in grado di assicurare corrispondenza al precetto costituzionale.

In tal modo, la giurisprudenza ha svolto una importante funzione di sostegno del ruolo della contrattazione collettiva nell’individuazione della giusta retribuzione.

Si è detto[5] che la giurisprudenza italiana sull’art. 36 Cost. «ha rappresentato un essenziale elemento di compensazione rispetto all’astensionismo del legislatore: astensionismo tradottosi nell’assenza sia di una legislazione sul salario minimo che di un procedimento legale attuativo dell’art. 39, seconda parte, Cost. idoneo ad assicurare alla contrattazione collettiva di categoria l’efficacia soggettiva erga omnes».

 In questo modo, «si è prodotto il notevole effetto di assicurare una tutela di matrice collettiva attraverso un tipico rimedio individuale, quale il ricorso giurisdizionale, al quale qualsiasi dipendente ha la possibilità di accedere invocando un parametro oggettivo, di agevole prova nel processo qual è, per l’appunto, la parte economica del Ccnl di categoria».

Il rimedio giurisprudenziale ha allontanato, o meglio rinviato, per un lungo periodo la necessità di un intervento legislativo sui minimi salariali, non imposto data la mancanza di una riserva di legge, ma non precluso. Difatti, in Italia, come in altri Paesi con elevata diffusione della contrattazione collettiva, l’intervento del legislatore sulla retribuzione si è concentrato, in particolare, in settori di lavoro difficilmente raggiungibili dal sindacato e nei quali era più concreto il rischio di trattamenti retributivi al ribasso[6]; la disciplina per legge del salario ha interessato, in tempi relativamente recenti, il lavoro dei soci di cooperativa (l. n. 142/2001 come modificata dal dl n. 248/2007, convertito in l. n. 31/2008), le collaborazioni a progetto, ora abrogate (la l. n. 92/2012 aveva modificato l’art. 63 d.lgs n. 276/2003 e previsto che il compenso per i co.co.pro. dovesse essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito e, in ogni caso, non inferiore ai minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati), i lavoratori distaccati (d.lgs n. 136/2016) e, negli ultimi mesi, i cd. “riders”, o meglio «i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore di cui all’articolo 47, comma 2, lettera a), del codice della strada, di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, attraverso piattaforme anche digitali» (art. 47-bis dl n. 101/2019, convertito in l. n. 128/2019). Per essi, la disposizione appena citata ha previsto che fosse garantito «un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti da contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale».

Le leggi richiamate non fissano un salario legale, ma rinviano in via parametrica ai livelli salariali fissati dai contratti collettivi nazionali di settore o categoria affine, in tal modo senza creare alcun rischio di interferenza eteronoma sull’azione sindacale e sulle dinamiche contrattuali, ma anzi con funzione di sostegno e riconoscimento di tale ruolo.

3. Il contenuto dell’art. 36 Cost.

L’art. 36 Cost. comprende due principi: quello della proporzionalità e quello della sufficienza della retribuzione; il primo legato alla funzione corrispettiva, e più propriamente al sinallagma contrattuale, e il secondo espressione della funzione sociale della retribuzione e, quindi, del valore sociale assegnato al lavoro dalla Carta costituzionale[7].

Si tratta di due facce ricomposte in una nozione unitaria di retribuzione che tiene insieme le due funzioni, rispondenti rispettivamente a una logica economicistica e a una logica sociale[8].

 L’unitarietà della nozione emerge dalla stessa lettera dell’art. 36 Cost. e, specificamente, dall’espressione «e in ogni caso», che lega il segmento normativo della proporzionalità a quello della sufficienza.

Tale espressione è stata tradizionalmente letta come finalizzata ad attribuire alla “sufficienza” la funzione di correttivo della “proporzionalità”, nel senso che la retribuzione dovesse restare sufficiente anche quando la prestazione non fosse esigibile (ad esempio, per festività o ferie) oppure fosse impossibile (a causa di malattia, infortunio, gravidanza).

In realtà, la locuzione «e in ogni caso» sembra esprimere qualcosa di più, specie se letta in correlazione all’esigenza di assicurare al lavoratore e anche alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.

La sintesi tra i due principi dovrebbe essere intesa nel senso che «la retribuzione, che deve essere proporzionata, non può non essere sempre sufficiente, quindi financo nelle ipotesi in cui, a causa dell’estrema modestia del valore della prestazione lavorativa, l’applicazione del principio proporzionalistico rischi di evidenziare un compenso talmente ridotto da non consentire al lavoratore di soddisfare in modo minimamente dignitoso le necessità essenziali»[9].

È, questa, una lettura in senso accentuativo della funzione sociale della retribuzione, che non ha trovato concreta applicazione ed è rimasta, al pari dell’art. 3, comma 2, Cost., di natura essenzialmente programmatica.

Così come è rimasta sullo sfondo la normativa sovranazionale, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il cui art. 23, par. 3, stabilisce che «ogni individuo ha diritto ad una remunerazione equa e soddisfacente che assicuri a lui stesso e alla sua famiglia una esistenza conforme alla dignità umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale», dalle Carte sociali europee[10], fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, nel vuoto di competenza dell’ordinamento europeo in materia retributiva, riconosce (art. 31, par. 1)  il diritto di ogni lavoratore a «condizioni di lavoro sane, sicure, dignitose».

La giurisprudenza costituzionale sull’art. 36 ha inizialmente adottato una nozione unitaria di “giusta retribuzione” capace di tenere insieme proporzionalità e sufficienza[11].

Nel suo complesso, tuttavia, l’attuazione per via giurisprudenziale dell’art. 36 Cost. ha finito per sovrapporre e confondere i caratteri della proporzionalità e della sufficienza, facendo peraltro registrare non poche contraddizioni e incertezze, oltre a una certa timidezza.

La giurisprudenza ha elaborato il concetto di retribuzione “adeguata” utilizzando come parametro le tariffe salariali dei contratti collettivi nazionali della categoria o di quella affine[12].

Il richiamo al contratto collettivo non ha comportato alcuna normativizzazione del parametro, né l’attribuzione di efficacia erga omnes alla regolazione collettiva, cosa che avrebbe determinato la violazione dell’art. 39, comma 4, Cost. nella sua valenza impeditiva. Il contratto collettivo è stato utilizzato solo quale parametro esterno,ai fini del giudizio di adeguatezza della retribuzione quanto a proporzionalità e sufficienza, ed è stato solitamente individuato in base a regole di esperienza, senza nessun automatismo.

Tali concetti sono stati ribaditi costantemente dalla giurisprudenza: ai fini del giudizio di adeguatezza della retribuzione dei lavoratori subordinati ai principi di proporzionalità e sufficienza, la valutazione deve essere compiuta sulla base del solo art. 36 Cost. e con riferimento al singolo rapporto individuale; il giudice del merito può assumere come criterio orientativo un contratto collettivo non vincolante per le parti, può fare riferimento agli importi previsti da un contratto collettivo locale o anche aziendale. In tale operazione, il giudice non è vincolato ad alcun automatismo e apriorismo, ad alcuna gerarchia fra contratti di diverso livello (l’inderogabilità opera solo nei confronti delle clausole difformi dei contratti individuali, ai sensi dell’art. 2077 cc) né a un principio di parità di trattamento tra lavoratori, non desumibile dall’art. 36 Cost.[13], salvi ovviamente i principi legali di non discriminazione e il rispetto delle regole di condotta negoziale secondo correttezza e buona fede.

Dal punto di vista giuridico, l’applicazione delle clausole collettive quale parametro, in luogo di quelle pattuite individualmente, è stata affermata attraverso il combinato disposto fra l’art. 36 Cost. e l’art. 2099, comma 2, cc (secondo cui, in mancanza di norme corporative o di accordo, la retribuzione è determinata dal giudice), utilizzando il meccanismo di sostituzione automatica delle clausole di cui all’art. 1419, comma 2, cc (secondo cui la nullità di singole clausole non comporta la nullità del contratto quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative), e in virtù dell’applicazione diretta del precetto costituzionale[14].

Si è affermato[15] che la giurisprudenza ha dato il meglio di sé laddove ha esplicato la propria “vocazione proporzionalistica”, cioè ove ha proceduto ad accertare in fatto le mansioni svolte, attraverso il profilo quali-quantitativo della prestazione lavorativa, e a ricondurre quell’attività a un determinato livello retributivo all’interno del sistema contrattuale di classificazione, arrivando ad applicare la paga definita nel ccnl di settore o, in difetto di questo, da quello “affine”.

Nell’ambito di tale visione essenzialmente proporzionalistica, la giurisprudenza ha anche adottato criteri riduttivi. Ha, difatti, inteso la garanzia dell’art. 36 Cost. come riferita non alle singole voci retributive comprese nel contratto collettivo (in quanto presuntivamente eccedenti l’obiettivo di remunerazione della professionalità media del lavoratore), ma al trattamento economico globale, assestandosi sulla nozione di minimo costituzionale comprensiva solo di paga base, indennità di contingenza e tredicesima mensilità[16]. Peraltro, in modo non sempre omogeneo e coerente, come dimostra la posizione assunta a proposito degli scatti di anzianità, in alcune pronunce esclusi dalla nozione di retribuzione adeguata, in altre inclusi, secondo una più ampia applicazione dello stesso criterio proporzionalistico[17].

Nell’elaborazione giurisprudenziale, il canone della sufficienza della retribuzione è rimasto, invece, in secondo piano e dove è stato direttamente richiamato, ciò è avvenuto per lo più con finalità ribassiste[18], cioè per giustificare il decremento dei minimi salariali di derivazione contrattuale in base a valutazioni di ordine economico e ambientale.

In particolare, a partire dagli anni ottanta, una serie di pronunce si sono discostate dai parametri del contratto collettivo del settore di appartenenza o di quello affine, riducendo in maniera più o meno consistente il quantum retributivo fissato dal medesimo e facendo leva su criteri attinenti alle condizioni economico-finanziarie del datore di lavoro o al contesto ambientale in cui è resa la prestazione lavorativa, anche qui con indirizzi non sempre omogei[19].

Nella giurisprudenza di Cassazione, il criterio più utilizzato a fini di decremento della retribuzione contrattual-collettiva è stato quello relativo alle “piccole dimensioni dell’impresa” e all’assunto per cui l’applicazione dei minimi salariali del contratto collettivo avrebbe finito per mettere a rischio la sopravvivenza dell’azienda. In altri casi sono stati impiegati, sempre in un’ottica “ribassista”, criteri legati alle condizioni ambientali e territoriali in cui l’attività è svolta, ad esempio con riferimento allo stato di crisi economica oppure al costo del lavoro mediamente praticato nel locale mercato del lavoro.

La dottrina ha criticato l’atteggiamento prudente e conservatore della giurisprudenza, sia quanto alla nozione di minimo costituzionale, sul rilievo che l’adeguatezza deve considerarsi valutata dalle parti sociali in relazione al complesso delle voci che compongono la retribuzione e che non fosse ragionevole l’esclusione a priori di alcune componenti; sia quanto alla prassi di un adeguamento al ribasso dei minimi salariali individuali in ragione di fattori economico-ambientali che non dovrebbero, invece, trovare ingresso in sede di attuazione del precetto costituzionale, unificatore, dell’art. 36 Cost.

Si è trattato di un self-restraint della giurisprudenza condizionato, almeno in parte, dalla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. e dalla sua valenza impeditiva, costantemente affermata dalla giurisprudenza costituzionale.

Si è sostenuto[20] come vi sia una «una contraddizione in qualche modo insita nella stessa ratio dell’operazione di tutela costituzionale (…): l’esigenza di  sopperire alla carenza di un sistema di contrattazione collettiva efficace erga omnes, mai venuto in essere, non può giustificare l’aggiramento dell’art. 39, seconda parte, Cost.; l’interpolazione delle tariffe retributive del Ccnl o l’uso di parametri totalmente eccentrici, formalmente in esecuzione del potere equitativo, serve proprio ad evitare che la pratica giurisprudenziale sull’art. 36 Cost. finisca per introdurre un elemento di rottura della Costituzione formale, con riferimento appunto all’art. 39, seconda parte, Cost. Ciò spiega perché la giurisprudenza sull’art. 36 Cost. non abbia assunto (…) un’univoca ed oggettiva direttrice di adeguamento delle retribuzioni inique, facendo applicazione tout court dei minimi tabellari tratti dal Ccnl di categoria e perché, invece, abbia messo in atto una variegata serie di soluzioni applicative».

Con tutte le sue incertezze e incongruenze, la giurisprudenza ha comunque creato il concetto di retribuzione “costituzionalmente adeguata” e ha individuato nella disciplina salariale dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative il parametro adeguato a riempire di contenuto la formula dell’art. 36 Cost. In tale operazione, la giurisprudenza si è mossa in sintonia col percorso legislativo, che ai contratti collettivi aventi le suddette caratteristiche ha assegnato funzioni di integrazione e deroga alla legge, e anche, ad esempio, di individuazione del cd.“minimale contributivo” (art. 1 dl n. 338/1989, convertito in l. n. 389/1989).

4. La via giudiziale al salario minimo è a un punto di crisi

Nell’ultimo decennio, la contrattazione collettiva sembra aver cambiato volto.

Si è assistito a una progressiva frammentazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, alla moltiplicazione dei contratti collettivi sottoscritti per le stesse categorie (nel 2019 ne risultavano depositati presso il Cnel quasi 900)[21], alla deregolazione e aziendalizzazione, anche per via legislativa, della contrattazione, alla diffusione di contratti cd. “pirata”[22], siglati da organizzazioni sindacali prive di effettiva rappresentatività.

La progressiva erosione dei salari e il correlato aumento del fenomeno dei working poors sono solo alcuni degli effetti della crisi del sistema contrattuale, che rivela peraltro tutta la sua impotenza rispetto alle nuove forme di lavoro cd. “digitale” o tramite piattaforme.

Il parametro del contratto collettivo nazionale di lavoro non costituisce più, in ogni caso, garanzia di una retribuzione adeguata. E ciò vale non solo per i contratti firmati da sigle sindacali minoritarie, ma anche per alcuni contratti collettivi sottoscritti dai sindacati storici[23].

La giurisprudenza di merito si è trovata, di recente, ad affrontare il problema della compatibilità con l’art. 36 Cost. delle tariffe salariali previste da contratti collettivi nazionali sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil, in special modo nel settore cooperativo.

Il giudice del lavoro del Tribunale di Milano (sentenza n. 1977/2016, confermata in appello con sentenza n. 1885/2017) ha esaminato il caso di un lavoratore che, in base ai diversi datori di lavoro di volta in volta subentrati nell’appalto per la gestione del servizio di reception e portineria, si era visto applicare, pur continuando a svolgere le medesime mansioni, i seguenti contratti collettivi: nel 2010 il ccnl Servizi di pulizia industriale (retribuzione lorda mensile di euro 1.243,23); nel 2012 il ccnl Multiservizi integrati (retribuzione lorda mensile di euro 1.301,94); nel febbraio 2014 il ccnl per i dipendenti di proprietari di fabbricati (retribuzione lorda mensile di euro 1.049,00); nel luglio 2014 il ccnl per i dipendenti delle imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari – Sezione servizi fiduciari (retribuzione lorda mensile di euro 715,17).

Il Tribunale ha preso atto di un decremento salariale intervenuto nell’arco di pochi anni come pari al 32 per cento circa; ha ritenuto che, per un lavoratore impiegato quasi a tempo pieno (93,57 per cento) «una paga oraria di euro 4,40 lordi [...] non [fosse] manifestamente sufficiente a fargli condurre un’esistenza libera e dignitosa e a far fronte alle ordinarie necessità della vita». Ha quindi proceduto a individuare la giusta retribuzione, ai sensi dell’art. 36 Cost., utilizzando quale parametro esterno le previsioni sul salario di uno dei contratti collettivi precedentemente applicati al rapporto di lavoro.

Nella sentenza appena citata, si legge che il principio di sufficienza della retribuzione dettato dall’art. 36 Cost. «impone che al lavoratore venga assicurato non solo un minimo vitale, ma anche il raggiungimento di un tenore di vita socialmente adeguato». Il giudice del lavoro del Tribunale di Torino, con la sentenza n. 1128/2019, ha deciso sulla domanda proposta da un lavoratore dipendente che, in ragione del subentro nell’appalto di diversi datori di lavoro, si era visto applicare, a parità di mansioni e di orario di lavoro, prima il ccnl Multiservizi e poi il ccnl Vigilanza, con decurtazione della retribuzione lorda mensile da euro 1.237,89 per 14 mensilità (a febbraio 2015) a euro 930,00 per 13 mensilità (a febbraio 2015).

Il giudice ha accertato che la retribuzione annua (euro 12.090,00) corrisposta al dipendente in base all’art. 23 della sezione Servizi fiduciari del ccnl Vigilanza (in vigore dal 2013) era sensibilmente inferiore (di circa un terzo) rispetto a quella prevista per analoghe mansioni dai vari contratti collettivi nazionali tradizionalmente impiegati nel settore dei servizi di portierato, controllo degli accessi e guardiania; in particolare, il ccnl Multiservizi, il ccnl Proprietari di fabbricati, il ccnl Terziario, distribuzione e servizi. Ha aggiunto che il valore netto della retribuzione (euro 687,38 al mese) era ampiamente inferiore al tasso-soglia di povertà assoluta (che secondo l’Istat, nel 2015, per un cittadino senza familiari conviventi in una grande area metropolitana del Nord Italia, era di euro 984,64) e ha precisato che tutti i contratti collettivi richiamati risultavano sottoscritti dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale.

Il Tribunale ha ritenuto che «la consistenza dello scostamento tra la retribuzione erogata al ricorrente e quella che egli avrebbe percepito per lo svolgimento delle stesse mansioni, con lo stesso orario di lavoro, in forza degli altri contratti collettivi applicabili appare senza dubbio idonea a far cadere la presunzione di conformità all’art. 36 di cui la prima gode in ragione del fatto di essere corrispondente a quella prevista dall’articolo 23 della sezione Servizi Fiduciari del c.c.n.l. Vigilanza, la quale è stata a sua volta concordata da organizzazioni sindacali che possono certamente qualificarsi come maggiormente rappresentative. È certamente tale da mettere in seria crisi la presunzione di proporzionalità il fatto che, nello stesso periodo e con riferimento alle stesse mansioni e ad un identico orario di lavoro, ben tre altri contratti collettivi dotati della stessa rappresentatività prevedessero retribuzioni superiori, in media, di oltre un quarto».

Particolarmente significativo è il rilievo che la decisione in esame ha assegnato al requisito di sufficienza della retribuzione.

Facendo riferimento al tasso-soglia di povertà assoluta calcolato dall’Istat nell’anno 2015, il Tribunale ha calcolato come la retribuzione lorda annua di euro 12.090,00 percepita dal ricorrente, corrispondente a euro 8.248,58 netti annui, ovvero a euro 687,38 netti mensili, fosse «di tutta evidenza (…) idonea a coprire appena il 70% dell’importo mensile necessario al medesimo per sostenere le spese di vita essenziali» e, quindi, risultasse in radice non in grado di assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa, non essendo emersi, all’esito di un’accurata indagine svolta attraverso l’ascolto dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali, l’esistenza di altri aspetti del trattamento economico e normativo di cui al ccnl applicato idonei a compensare e giustificare la severa riduzione della retribuzione tabellare.

La conclusione adottata dal Tribunale di Torino è stata quella di affermare l’inadeguatezza della retribuzione corrisposta in base al ccnl Vigilanza per contrarietà all’art. 36 della Costituzione.

Le sentenze esaminate, se da un lato esaltano il recupero giurisprudenziale del criterio di sufficienza della retribuzione e della funzione sociale della stessa, nel contempo mettono a nudo la condizione di crisi della contrattazione collettiva e, specialmente, del ruolo di autorità salariale che essa ha tradizionalmente rivestito.

Siamo di fronte a una specie di eterogenesi dei fini: i contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, un tempo parametro della retribuzione proporzionata e sufficiente, sono ora dichiarati nulli, quanto alle tariffe salariali, per contrarietà a quella stessa norma costituzionale di cui si presumeva fossero naturale attuazione.

Emerge, in altre parole, la debolezza e l’incapacità delle organizzazioni sindacali, nelle condizioni date dal mercato del lavoro, di contrattare un costo del lavoro adeguato a garantire livelli di sufficienza della retribuzione.

 A ben guardare, è lo stesso concetto di retribuzione, quale emerge dai contratti collettivi analizzati dai Tribunali di Milano e Torino, che risulta alterato: un salario non più espressione di una positiva funzione redistributiva svolta dalla contrattazione collettiva, ma che si avvicina e si confonde con gli istituti tipici del welfare, di protezione contro la soglia di povertà.

È vero che la questione salariale, specie in giurisprudenza, si è posta prevalentemente con riguardo al lavoro alle dipendenze di società cooperative, ma questo non sposta – e, semmai, aggrava – il problema.

Proprio nel settore del lavoro dei soci di cooperative, il legislatore è intervenuto nel 2007[24], imponendo trattamenti retributivi non inferiori ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, consapevole della vulnerabilità dei lavoratori, in genere con modesta professionalità, occupati alle dipendenze di piccole imprese nell’ambito di complesse catene di appalti e subappalti. Ed è proprio la contrattazione collettiva al ribasso, sottoscritta dalle confederazioni storiche, al di sotto del minimo costituzionale a denunciare il punto di crisi del sistema contrattuale.

Se il meccanismo che affida alla contrattazione collettiva il compito di attuare, al di là dell’art. 39 Cost., il diritto di ogni lavoratore a una retribuzione proporzionata e sufficiente mostra profonde debolezze, occorre interrogarsi, anche alla luce del panorama europeo e nel difficile contesto di strutturale crisi economica, sulla alternativa rappresentata dall’intervento del legislatore.

5. Il salario minimo legale

La diffusione del lavoro povero quale effetto, oltre che di una legislazione privativa delle tutele lavoristiche, della debolezza del sistema di contrattazione collettiva, con fenomeni di shopping contrattuale e dumping salariale, e della atavica mancanza di controlli da parte degli organismi istituzionali, ha reso impellente nel nostro ordinamento una riflessione sulle misure di contrasto alla decrescita salariale.

In una prima fase, il dibattito è stato alimentato dal disegno di legge n. 183 del 2014 che, all’art. 1, comma 7, lett. g, ha previsto la «introduzione, eventualmente anche  in  via  sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei  settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».

Rimasta inattuata in tale punto la legge delega, il dibattito è proseguito, sia pure mostrando livelli altalenanti di interesse, con i recenti disegni di legge[25].

Si è da più parti sottolineata l’esigenza di allineamento ai Paesi europei, anche in ragione della Convenzione Oil n. 26/1928 in tal senso[26]; si è avanzata l’idea di un salario minimo europeo.

La recente disciplina sul reddito di cittadinanza, in cui è definita «congrua» un’offerta di lavoro che preveda una retribuzione «superiore di almeno il 10 per cento del beneficio massimo fruibile da un solo individuo, inclusivo della componente ad integrazione del reddito dei nuclei residenti in abitazione in locazione»[27], pari cioè a 858,00 euro mensili, sembra anticipare la necessità di un intervento legislativo sul salario minimo.

Un aspetto preliminare che il tema del salario minimo legale pone è quello della compatibilità costituzionale.

La nostra Costituzione, come già precisato, non ha introdotto una riserva di legge in materia retributiva e neppure una riserva in favore della contrattazione collettiva, rinunciando a individuare in modo cogente la strada attraverso cui si sarebbe dovuta garantire l’attuazione del suo art. 36. Quest’ultima disposizione, pertanto, non costituisce ostacolo all’introduzione di un salario minimo previsto per legge.

Più complessa è la verifica di compatibilità con l’art. 39 Cost. di una legge introduttiva del salario minimo, non tanto nell’ipotesi in cui questo assumesse la forma, diffusa in molti Paesi europei, di un salario minimo interprofessionale, senza distinzioni per categoria o qualifica, ma laddove venisse individuato tramite rinvio mobile alla contrattazione collettiva.

Su questa seconda opzione, una parte della dottrina ha messo in guardia dal rischio di contrasto con l’art. 39 Cost. È vero che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 51 del 2015[28], a proposito dell’art. 7, comma 4, dl n. 248/2007 citato in tema di soci lavoratori di cooperative, ha giudicato legittimo il rinvio mobile operato dalla legge ai minimi contrattuali adottati quali parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, del trattamento economico proporzionato e sufficiente. Ma si è obiettato[29] che tale meccanismo, ove esteso al di là dei casi particolari e specifici come le cooperative (o le clausole sociali negli appalti pubblici), con imposizione per legge del trattamento economico di un determinato contratto come minimo inderogabile uniforme nella categoria, realizzerebbe di fatto un’estensione erga omnes della disciplina contrattuale.

Da un diverso punto di vista, e proprio in forza della citata pronuncia della Corte costituzionale, si è escluso ogni pericolo indotto dalla valenza impeditiva dell’art. 39, comma 4, Cost. in ragione dell’utilizzo del contratto collettivo come parametro esterno e, soprattutto, si è negata ogni compressione che, per opera del legislatore, potrebbe derivare ai principi di libertà e pluralismo sindacale; ciò sia in ragione dello spazio di libertà esercitabile dalle organizzazioni sindacali con la previsione nei contratti collettivi di trattamenti retributivi diversi, purché non inferiori ai minimi normativi, e sia perché l’intervento legislativo tutelerebbe un altro principio fondamentale, cioè la parità di trattamento tra tutte le imprese e i lavoratori del settore col contrasto a forme di competizione salariale al ribasso[30].

In questa direzione pare utile sottolineare come la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 51 del 2015, si sia preoccupata di segnare una precisa linea di demarcazione tra le leggi che recepiscono i contratti collettivi e ne estendono gli effetti erga omnes, come la cd. “legge Vigorelli”, oggetto della pronuncia della Corte cost. n. 106/1962 ed espressamente richiamata dal giudice remittente, e le leggi che rinviano ai trattamenti economici complessivi minimi previsti dai contratti collettivi quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, della retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell’art. 36 Cost.

La maggiore resistenza all’introduzione di un salario minimo legale sembra provenire dal mondo sindacale, per le implicazioni che una normativa sui trattamenti retributivi potrebbe produrre sul ruolo della contrattazione collettiva, acuendo il fenomeno, già ampiamente radicato, della desindacalizzazione del rapporti di lavoro.

Tuttavia, la crisi economica ormai di carattere strutturale unita alla deregolazione normativa e agli effetti perversi delle dinamiche contrattuali, riassumibili nell’ossimoro del lavoro povero, sembrano segnare il punto di arrivo della lunga fase dell’autonomia dell’ordinamento sindacale e del ruolo della contrattazione quale autorità salariale.

È forse ora di pensare all’attuazione della seconda parte dell’art. 39 Cost. e a una legge sulla rappresentanza sindacale, ma è certamente ora di imboccare una nuova strada, in cui il principio di sufficienza della retribuzione sancito dall’art. 36 Cost. possa trovare un solido baluardo nella legge, in grado di apprestare un sistema di tutela universale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, non soggetto a rapporti di forza squilibrati e a variabili mercatistiche incontrollabili. Così che si possa garantire “in ogni caso” a chi lavora un’esistenza libera e dignitosa e riaffermare che il lavoro povero non ha spazio nella nostra Costituzione, nel diritto internazionale e nelle Carte europee.

[1] Cfr. www.nascitacostituzione.it/02p1/03t3/036/index.htm?art036-016.htm&2.

[2] Cfr. Corte cost., n. 106/1962: «Occorre subito avvertire che la Corte non ritiene fondata la tesi, richiamata da quasi tutte le ordinanze di rimessione e sostenuta dalla difesa delle parti interessate, secondo la quale l’ora richiamato art. 39 contiene una riserva, normativa o contrattuale, in favore dei sindacati, per il regolamento dei rapporti di lavoro. Una tesi siffatta, segnatamente se enunciata in termini così ampi, contrasterebbe con le norme contenute, ad esempio, nell’art. 3, secondo comma, nell’art. 35, primo, secondo e terzo comma, nell’art. 36 e nell’art. 37 della Costituzione, le quali – al fine di tutelare la dignità personale del lavoratore e il lavoro in qualsiasi forma e da chiunque prestato e di garantire al lavoratore una retribuzione sufficiente ad assicurare una vita libera e dignitosa – non soltanto consentono, ma insieme impongono al legislatore di emanare norme che, direttamente o mediatamente, incidono nel campo dei rapporti di lavoro: tanto più facilmente quanto più ampia è la nozione che la società contemporanea si è costruita dei rapporti di lavoro e che la Costituzione e la legislazione hanno accolta».

[3] G. Ricci, La retribuzione costituzionalmente adeguata e il dibattito sul diritto al salario minimo, in Lav. dir., n. 4/2011, p. 637.

[4] Cfr. Cass., n. 461/1952; Corte cost., n. 30/1960.

[5] G. Ricci, La retribuzione costituzionalmente adeguata, op. cit., p. 642.

[6] T. Treu, La questione salariale: legislazione sui minimi e contrattazione collettiva, «Centre for the Study of European Labour Law» (CSDLE) “Massimo D’Antona”, working paper n. 386/2019, pp. 6 ss.

[7] M.V. Ballestrero, Retribuzione sufficiente e salario minimo legale, in Riv. giur. lav., n. 2/2019, pp. 240-241; P. Pascucci, La giusta retribuzione nei contratti di lavoro, oggi, relazione al Congresso AIDLaSS del 17 maggio 2018, pp. 7 ss. (www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2018/05/Relazione-Pascucci-3.pdf).

[8] Cfr. Cass., n. 24449/16, in motivazione: «l’art. 36, 1° co., Cost. garantisce due diritti distinti, che, tuttavia, “nella concreta determinazione della retribuzione, si integrano a vicenda”: quello ad una retribuzione “proporzionata” garantisce ai lavoratori “una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell’attività prestata”; mentre quello ad una retribuzione “sufficiente” dà diritto ad “una retribuzione non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d’uomo”, ovvero ad “una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuto, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. In altre parole, l’uno stabilisce “un criterio positivo di carattere generale”, l’altro “un limite negativo, invalicabile in assoluto”. La Corte territoriale ha tenuto conto della duplice valenza del precetto costituzionale, ed ha ritenuto che il mancato adeguamento della retribuzione all’aumentato costo della vita nel corso del lungo periodo lavorativo fosse idoneo a rendere il percepito non più proporzionato al valore del lavoro, secondo la valutazione che le stesse parti inizialmente ne avevano fatto, con un’inevitabile ricaduta anche sul mantenimento dell’idoneità ad assolvere alle funzioni di soddisfacimento delle esigenze di vita».

[9] P. Pascucci, La giusta retribuzione, op. cit., p. 16.

[10] Carta sociale europea del 1961 (revisionata nel 1996: parte II, punto 4); Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali del 1966 (art. 7); Carta dei diritti sociali fondamentali del 1989 (art. 5).

[11] Corte cost., n. 559/1987: «l’assumere che il principio di corrispettività nel rapporto di lavoro si risolve meccanicamente, salvo deroghe eccezionali, in una relazione biunivoca tra prestazione lavorativa e retribuzione urta contro il concetto di retribuzione assunto dall’art. 36 Cost., che non è – come questa Corte ha più volte precisato – mero corrispettivo del lavoro, ma compenso del lavoro proporzionale alla sua quantità e qualità e, insieme, mezzo normalmente esclusivo per sopperire alle necessità vitali del lavoratore e dei suoi familiari, che deve essere sufficiente ad assicurare a costoro un’esistenza libera e dignitosa. Per realizzare tale funzione della retribuzione, il legislatore può provvedere non solo mediante strumenti previdenziali e di sicurezza sociale, ma anche imponendo determinate prestazioni all’imprenditore: ciò per la ragione che nel rapporto il lavoratore impegna non solo le proprie energie lavorative ma – necessariamente ed in modo durevole – la sua stessa persona, coinvolgendovi una parte dei suoi interessi e rapporti personali e sociali».

[12] Cfr. Cass., n. 25889/2008: «Nel rapporto di lavoro subordinato la retribuzione prevista dal contratto collettivo acquista, pur solo in via generale, una “presunzione” di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza».

[13] Cfr. Cass., nn. 7752/2003 e 17421/2018;

[14] Cfr. Cass., n. 2245/2006: «Alla stregua dell’art.36, primo comma, Cost. il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Di conseguenza, ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore a questa soglia minima, la clausola contrattuale è nulla e, in applicazione del principio di conservazione, espresso nell’art. 1419, secondo comma, cod. civ., il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri dell’art. 36, con valutazione discrezionale. Ove, però, la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto ad usare tale discrezionalità con la massima prudenza, e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche e politiche sottese all’assetto degli interessi concordato dalle parti sociali». Cfr. anche Cass., n. 2672/2005.

[15] G. Ricci, La retribuzione costituzionalmente adeguata, op. cit., p. 645.

[16] Cfr. Cass., nn. 15148/2008 e 21274/2010.

[17] Nel primo senso, cfr. Cass., nn. 5519/2004 e 27138/2013; nel secondo senso, cfr. Cass., nn. 18584/2008 e17399/2011: «In tema di adeguamento della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost., il giudice del merito, anche se il datore di lavoro non aderisca ad una delle organizzazioni sindacali firmatarie, ben può assumere a parametro il contratto collettivo di settore, che rappresenta il più adeguato strumento per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione, anche se limitatamente ai titoli contrattuali che costituiscono espressione, per loro natura, della giusta retribuzione, con esclusione, quindi, dei compensi aggiuntivi e delle mensilità aggiuntive oltre la tredicesima. La giusta retribuzione deve essere adeguata anche in proporzione all’anzianità di servizio acquisita, atteso che la prestazione di lavoro, di norma, migliora qualitativamente per effetto dell’esperienza; ne consegue che il giudice può ben attribuire gli scatti di anzianità non per applicazione automatica, ma subordinatamente all’esito positivo dell’indagine volta a garantire l’adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost. in considerazione del miglioramento qualitativo nel tempo della prestazione».

[18] G. Ricci, La retribuzione costituzionalmente adeguata, op. cit., p. 647.

[19] Cfr. Cass., n. 903/1994: «Ai fini della determinazione della giusta retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost. il giudice, ove non ritenga di adottare come parametro i minimi salariali stabiliti dalla contrattazione collettiva, può discostarsene, ma deve fornire specifica indicazione delle ragioni che sostengono la diversa misura da lui ritenuta conforme ai criteri di proporzionalità e sufficienza posti dalla norma costituzionale: d’altro canto, la determinazione della retribuzione spettante in misura inferiore ai suddetti minimi non può comunque trovare motivazione nel richiamo a condizioni ambientali e territoriali, ancorché peculiari del mercato del lavoro nel settore di riferimento, perché il precetto costituzionale è rivolto ad impedire ogni forma di sfruttamento del dipendente, anche quando trovi radice nella situazione socio-economica del mercato del lavoro» (nella specie, la sentenza impugnata, cassata dalla Suprema corte, aveva utilizzato come parametro i minimi salariali della contrattazione collettiva, ridotti del 25 per cento in considerazione «dell’ambiente socio-economico depresso e del costo della vita»). Più di recente, Cass., n. 896/2011: «Ai fini della determinazione dell’equa retribuzione dei dipendenti di una piccola impresa operante nel Mezzogiorno ai sensi dell’art. 36 Cost., costituisce parametro ordinario di riferimento la retribuzione minima fissata dalle parti sociali in sede di contrattazione collettiva, la cui elaborazione ha tenuto conto anche dell’esistenza e delle esigenze delle piccole imprese, nonché delle difficoltà in cui possono versare quelle operanti in alcune zone del paese. Non a caso quelli previsti dalla contrattazione collettiva sono minimi salariali. Ne consegue che è irrazionale e insufficiente la motivazione della sentenza di merito che ritenga adeguata la retribuzione del lavoratore inferiore ai minimi della contrattazione collettiva di settore, facendo generico riferimento, disancorato da elementi concreti, alle retribuzioni correnti nelle piccole imprese operanti nel meridione d’Italia invece che a quelle della specifica categoria». In senso contrario, cfr. Cass., n. 17520/2004: «Nel determinare la retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell’art. 36 Cost., il giudice di merito, assunti i minimi salariali indicati dal contratto collettivo nazionale quali parametri di riferimento, può legittimamente, secondo una valutazione non censurabile in Cassazione se non sotto il profilo della logicità e congruità della motivazione, discostarsi da essi in senso riduttivo, tenuto conto di una pluralità di elementi, quali la quantità e qualità del lavoro prestato, le condizioni personali e familiari del lavoratore, le tariffe sindacali praticate nella zona, il carattere artigianale e le dimensioni dell’azienda».

[20] G. Ricci, La retribuzione costituzionalmente adeguata, op. cit., p. 643 e riferimenti bibliografici ivi riportati.

[21] Cnel, XXI Rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2019, p. 323 (totale: 883, di cui 25 accordi economici collettivi per i lavoratori autonomi – dato aggiornato al 12 novembre 2019), www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2019/12/cnel-xxiii-rapporto-mercato-del-lavoro-contrattazione-collettiva.pdf.

[22] G. Centamore, Contratti collettivi o diritto del lavoro pirata?, in Var. temi dir. lav., n. 2/2018, pp. 471 ss.

[23] A. Lassandari, Oltre la grande dicotomia? La povertà tra subordinazione e autonomia, in Lav. dir., n. 1/2019, pp. 81 ss.

[24] Art. 3, comma 1, l. n. 142/2001, come modificata dal dl n. 248/2007, convertito in l. n. 31/2008: «Fermo restando quanto previsto dall’articolo 36 della legge 20 maggio 1970, n. 300, le società cooperative sono tenute a corrispondere al socio lavoratore un trattamento economico complessivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine, ovvero, per i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato, in assenza di contratti o accordi collettivi specifici, ai compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo».

[25] Enzo Martino, Il salario minimo fissato per legge, in questa Rivista online, 18 giugno 2019, www.questionegiustizia.it/articolo/il-salario-minimo-fissato-per-legge_18-06-2019.php.

[26] La Convenzione n. 26 del 1928 è stata ratificata dall’Italia con l. n. 657/1962; la Convenzione n. 131 del 1970 non è stata ratificata.

[27] Cfr. art. 4, comma 9-bis, dl. n. 4/2019, convertito con modificazioni in l. n. 26/2019.

[28] Corte cost., n. 51/2015, in motivazione: «Il censurato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, congiuntamente all’art. 3 della legge n. 142 del 2001, lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost. Tale parametro è richiamato – e dunque deve essere osservato – indipendentemente dal carattere provvisorio del medesimo art. 7, che fa riferimento “alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative”. Nell’effettuare un rinvio alla fonte collettiva che, meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative, l’articolo censurato si propone di contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza (art. 36 Cost.) la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative (fra le tante, la sentenza già citata della Corte di cassazione n. 17583 del 2014)».

[29] M.V. Ballestrero, Retribuzione sufficiente, op. cit., p. 253.

[30] G. Orlandini, Legge, contrattazione collettiva e giusta retribuzione dopo le sentenze 51/2015 e 178/2015 della Corte costituzionale, in Lav. dir., n. 1/2018, pp. 11 ss.