Magistratura democratica

Testimonianze di studenti dei corsi di clinica legale

L’esperienza della Clinica legale dell’Università di Firenze in materia di protezione internazionale

di Ndeye Sokhna Diouf[1]

La «Scuola di Giurisprudenza» di Firenze offre in collaborazione con «L’altro diritto – Centro universitario di carcere, devianza, marginalità e governo delle immigrazioni» tre tipologie di clinica legale, incentrate su:

  • i diritti dei richiedenti protezione internazionale;
  • la protezione dei diritti da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte Edu);
  • la protezione dei diritti delle persone in esecuzione penale.

 

L’approccio “clinico” è un metodo di insegnamento che prevede la presa in carico e l’analisi dei casi concreti, permettendo così agli studenti di applicare gli insegnamenti acquisiti nel tempo. Esso nasce negli Stati Uniti e, negli ultimi anni, ha iniziato a diffondersi in tutta Europa come modello di formazione giuridica che sperimenta il law in action. È una rivisitazione dei paradigmi tradizionali di insegnamento per la formazione del giurista generalmente utilizzati ed ha la funzione di consentire allo studente una conoscenza che benefici dell’affiancamento dell’approccio pratico a quello teorico. La Clinica sulla protezione internazionale alla quale ho partecipato è coordinata da Emilio Santoro, docente ordinario di Filosofia e Sociologia del diritto nei corsi di laurea della Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, nell’ambito dei quali insegna anche Argomentazione giuridica e Diritto degli stranieri (ha, inoltre, fondato e dirige «L’altro diritto»).

Per partecipare alla clinica è necessario superare una selezione, che prevede il possesso di determinati requisiti: la conoscenza della lingua inglese e il superamento di alcuni esami di profitto, quali filosofia del diritto, diritto degli stranieri, diritto dell’Unione europea e diritto internazionale. Verranno, poi, selezionati 25 studenti tra quelli che hanno presentato la domanda. La clinica prevede un totale di 225 ore, di cui 48 in aula e 177 di attività pratica.

Nella prima fase, ovvero quella teorica, durata circa un mese, abbiamo seguito le lezioni in aula, cui hanno partecipato anche alcuni operatori dei Cas. Durante queste ore abbiamo appreso i principi in materia di protezione internazionale e ci sono stati consegnati materiali didattici sul diritto d’asilo e sulle procedure connesse, nonché sulle fonti documentali per la preparazione delle richieste di asilo. La scelta di unire studenti e operatori è stata ottima al fine di permettere un dibattito e un riscontro diretto con riguardo alle tematiche trattate. Inoltre, il numero limitato dei partecipanti ha permesso una migliore comprensione delle lezioni, lasciando spazio a eventuali domande e chiarimenti. Avendo ricevuto una preparazione sull’insieme della normativa che interessa la protezione internazionale, affrontare la parte pratica ha avuto un impatto meno disorientante oltre a rendere la materia, grazie alle conoscenze sviluppate, oggetto di stimolo e di forte interesse.

La seconda fase della Clinica prevede una scelta da parte dello studente nello svolgere un’attività pratica presso:

  • il Tribunale di Firenze, collaborando con giudici impegnati nella definizione dei procedimenti sui dinieghi delle commissioni territoriali, con la possibilità di far parte dell’Ufficio del processo della sezione specializzata in materia di immigrazione.
  • i principali gestori dei centri di accoglienza straordinaria, dove i richiedenti protezione internazionale sono accolti in attesa della definizione del loro status. In questo caso, gli studenti verificano di persona il rispetto dei diritti delle persone che sono prese in carico dal sistema di accoglienza e collaborano alla preparazione dell’audizione davanti alla commissione territoriale e allo studio di eventuali percorsi di regolarizzazione sul territorio nazionale.

 

Avendo optato per il lavoro in Tribunale, ho collaborato direttamente con i singoli giudici, svolgendo per loro la fase preparatoria dell’audizione e di predisposizione della traccia del provvedimento; ho imparato a raccogliere le informazioni su Paesi di origine attraverso le COI («Country of origin information») e la giurisprudenza relativa al singolo caso.

Ho iniziato la Clinica quasi per caso, leggendo la e-mail dell’Università il giorno prima della scadenza e inviando subito la domanda, in quanto le attività proposte erano tutte molto interessanti. Ho, poi, scelto i diritti dei richiedenti protezione internazionale perché la tematica mi interessava molto; inoltre, essendo di grande attualità in questo momento storico, volevo capirne di più, perché quello che leggevo sui media non era sufficiente: avevo bisogno di un impatto più diretto, e questa era l’occasione giusta.

Ho trovato la parte teorica molto interessante, potendo conoscere in maniera più dettagliata la normativa sulla protezione internazionale (leggi, convenzioni, direttive, decreti, etc.). La partecipazione degli operatori ha permesso di avere un confronto non solo a lezione, ma anche al di fuori e, soprattutto, ha permesso di non ridurre lo scambio di opinioni a uno dialogo esclusivo fra studenti. Non sono, inoltre, mancate occasioni per continuare a parlare dell’argomento nelle pause o a seguito delle lezioni.

Finita la parte teorica è arrivato il momento tanto atteso: l’esperienza in tribunale, che mi avrebbe permesso di avere un contatto diretto con tutto quello che avevo imparato, ma – soprattutto – di avere un contatto diretto con le persone.

Il giudice affidatario, sin dal primo giorno, mi ha dato due procedimenti da leggere e un modello di scheda del processo che avremmo dovuto impostare per la preparazione della fase istruttoria, in particolare dell’audizione della persona richiedente asilo. Una settimana dopo abbiamo assistito al suo esame. La prima udienza è stata molto emozionante. Avendo preparato la scheda, conoscevo bene la vicenda; quando la richiedente è entrata e ha iniziato a raccontare la sua storia, ho avuto subito un nodo alla gola. Per chi, come me, ha un alto livello di sensibilità empatica, quello era il luogo giusto per imparare a controllare le emozioni. Fra le tante cose che ho imparato, riuscire a mettere da parte le proprie reazioni è stato di fondamentale importanza. Avere davanti persone con un vissuto totalmente diverso dal proprio fa scattare tanti pensieri ed emozioni. Per quanto una storia possa essere complessa, la sofferenza del richiedente è l’unica condizione ammessa e chi deve giudicare ha un ruolo molto difficile, perché quello che prova non deve influenzare la decisione. Ho ammirato il sangue freddo mostrato dai giudici. Quello è stato il momento più difficile, ma anche il più umano che la Clinica mi ha offerto.

Poi c’è la preparazione delle schede, che prevede anche la ricerca di informazioni sui Paesi di origine dei richiedenti asilo. Ho imparato a conoscere più città dell’Africa, del Bangladesh, del Pakistan nei mesi di tirocinio che in anni di studio della geografia a scuola. Conoscere usanze, tradizioni, culture, religioni, il ruolo e la visione della donna presso alcune popolazioni, oltre ai diversi contesti politici di quei Paesi, costituisce un arricchimento che mi porto dietro tutt’ora. La fase di ricerca delle COI è di fondamentale importanza al fine di valutare la credibilità dei richiedenti, e i giudici tendono molto a soffermarsi su questo delicato aspetto, con i relativi approfondimenti.

Infine, è stato importante e altamente formativo mettersi alla prova individuando la decisione giusta da prendere e quale status eventualmente riconoscere, argomentando in coerenza con i fatti accertati e secondo la disciplina vigente.

Consiglio la Clinica legale perché, in un percorso lungo come quello previsto dalla Laurea magistrale in Giurisprudenza, poter fare un’esperienza pratica con un metodo di insegnamento diverso da quello che offre solitamente l’università è un vantaggio non indifferente. Inoltre si ha la possibilità di imparare direttamente dai giudici. È un’ottima opportunità di crescita professionale e personale, permette di mettere in atto le proprie conoscenze e stimola la capacità di ragionare. Oltretutto, l’organizzazione della Clinica non interferisce nel percorso di studio: gli orari erano accessibili e anche i giudici hanno permesso una buona flessibilità, venendo incontro alle esigenze del tirocinante.

Infine, devo ammettere che la Clinica è impegnativa perché i giudici ci hanno dato fiducia e attribuito responsabilità sin dall’inizio, in modo da poter inserire il lavoro svolto direttamente nel loro sistema: un impegno che non va sottovalutato ma che, d’altro canto, gratifica molto.

Dalla Clinica ho imparato che la soluzione si può trovare se si approfondiscono il fatto e il diritto: se la legge presenta una difficoltà, questa si potrà superare ricorrendo comunque alle norme – ordinarie o costituzionali, interne o internazionali. Pazienza e perseveranza sono due elementi indispensabili.

Ho voluto consultare alcuni miei colleghi che hanno partecipato alla Clinica, per non restituire un punto di vista univoco, e sono emerse queste impressioni:

Pietro: «esperienza istruttiva, è “palestra” dove mettersi in gioco e mettere in gioco ciò che si studia, applicandolo. Il contatto diretto e quotidiano con il magistrato, la partecipazione alle camere di consiglio, lo studio dei molteplici fascicoli e l’approfondimento di questioni giuridiche sempre diverse, la conoscenza del modo di ragionare dei magistrati e del loro approccio alle cause, aiutano a essere responsabili delle proprie decisioni. Stare a contatto con il giudice mi ha insegnato a essere imparziale. Un’ottica nuova e affascinante per studiare il diritto concretamente».

Virginia: «Quello che mi è piaciuto di più è stato il contatto con la parte più nobile del diritto in un momento storico importante. I giudici hanno una grande responsabilità umana – questo sempre, ma ancor di più in questa materia. È stata un’esperienza importante, che mi ha messo alla prova e mi ha dato belle soddisfazioni. Tempo permettendo, lo rifarei anche domani!»

Silvia: «Il mio pensiero riflette molto quello di Virginia. Nel momento politico in cui ci troviamo, la Clinica mi ha dato la possibilità di conoscere la materia della protezione internazionale con gli occhi “puri” del diritto, fuori da qualsiasi influenza mediatica… E devo dire che mi sono proprio innamorata! La possibilità di affiancare un giudice è stata un’esperienza profonda, mi ha portato a riflettere non solo sull’impatto enorme che il diritto può avere in una materia simile, ma anche sulla professionalità con cui i giudici conciliano il loro fondamentale ruolo di garante con il loro lato umano».

Alla luce di quanto hanno riferito i miei colleghi e della mia personale esperienza, ne esce un quadro unicamente positivo, a dimostrazione che la Clinica ha portato solo vantaggi, migliorandoci come studenti, come giuristi, ma soprattutto come persone.

 

 

La «Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza» dell’Università di Roma Tre: un “laboratorio di teoria e pratica dei diritti”

di Alisea Neroni[2]

La «Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza» dell’Università di Roma Tre costituisce un “laboratorio di teoria e pratica dei diritti” nel quale gli studenti uniscono agli studi teorici momenti concreti di pratica legale. Affiancati da avvocati esperti del settore, essi risolvono casi reali, incontrano direttamente le persone interessate e forniscono assistenza legale gratuita a richiedenti asilo e rifugiati. Occasione unica di formazione e crescita personale, la Clinica rappresenta un luogo di difesa e di affermazione dei diritti all’interno degli spazi dell’Università.

Quando mi sono iscritta al corso era l’ottobre 2016, frequentavo il quarto anno di università ed ero appena rientrata da un semestre Erasmus trascorso in Belgio. Non avevo effettiva consapevolezza di cosa si trattasse, ma credevo che la Clinica sarebbe stata una valida occasione per rinnovare l’esperienza, sino ad allora solo sfiorata durante gli studi all’estero, della commistione tra il consueto approccio teorico allo studio del diritto e un metodo pratico, di lavoro sul campo, fatto di casi e persone reali. Il corso, infatti, prevede sia lezioni frontali volte a fornire le nozioni di base sul diritto dell’immigrazione e sul diritto internazionale dei rifugiati, che pomeriggi di pratica legale presso lo sportello di orientamento legale per migranti, sede operativa della Clinica. Ma per me, la Clinica legale è stata questo e molto di più.

Il corso di «Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza» dell’Università di Roma Tre è un insegnamento opzionale della Facoltà di Giurisprudenza, inserito nell’ambito del settore disciplinare di Filosofia del diritto. Nell’anno accademico 2016/2017, esso si sviluppava su due livelli: da un lato, lezioni relative alle norme italiane ed europee sul diritto dell’immigrazione, successivamente strutturate intorno a casi reali selezionati allo sportello; dall’altro, lezioni a carattere più teorico aventi ad oggetto le questioni principali sulla migrazione trattate nei dibattiti contemporanei, come il diritto alla cittadinanza, la libertà di movimento, i regimi di controllo delle frontiere e la globalizzazione. L’impostazione è rimasta analoga anche negli anni successivi, poiché il corso mira sia a permettere agli studenti e alle studentesse di confrontarsi, forse per la prima volta, con veri e propri casi giuridici, che a inserire il fenomeno migratorio all’interno di una cornice teorica e filosofica. Fiore all’occhiello di numerosissimi atenei italiani, le cliniche legali sono nate nel solco del movimento studentesco statunitense degli anni sessanta di sostegno ai diritti civili, e si caratterizzano tradizionalmente per un approccio critico e attivista.

La Clinica legale, però, mi ha permesso di formarmi non solo come studentessa o come operatrice legale, ma anche e soprattutto a livello personale, e questo è accaduto grazie a tutte le persone che hanno vissuto quel luogo insieme a me, e che insieme ne costituiscono gli organi vitali. Quando mi sono iscritta al corso, le lezioni erano tenute da Enrica Rigo, docente coordinatrice della Clinica e, due anni dopo, relatrice della mia tesi di laurea, e da Jacopo di Giovanni, avvocato esperto di immigrazione, dal 2012 collaboratore della Clinica. A volte a fare lezione venivano ex studenti della Clinica e membri di “Diritti di Frontiera”, associazione di studenti e studentesse nata poco dopo la Clinica con l’obiettivo di sostenerla e approfondirne i contenuti scientifici, di cui sono diventata socia mentre ancora seguivo il corso. Nel 2017, ha iniziato a collaborare con la Clinica Tatiana Montella, avvocatessa impegnata nella tutela delle donne vittime di tratta e di violenza, e anche lei anima viva della Clinica legale. Ho condiviso con queste persone, e con tante altre che hanno attraversato lo sportello, i momenti più significativi della mia formazione individuale, passata per le numerose contraddizioni che si incontrano nei percorsi di affermazione dei diritti delle persone migranti.

Le nozioni e le capacità acquisite durante il corso vengono messe in pratica ogni giovedì nella stanza 1.02 dell’edificio “Tommaseo”, presso lo sportello di orientamento legale per migranti (in Via Ostiense 139, a pochi passi dalla fermata della metro “Garbatella” e dalla sede centrale della Facoltà di Giurisprudenza). Lì, accanto ai suoi organi e alle sue anime, c’è il cuore pulsante della Clinica: i suoi studenti. Essa infatti si fonda su un metodo chiamato learning by doing (“imparare facendo”), un approccio didattico mutuato dalla tradizione statunitense delle legal clinics, che unisce la prospettiva teorica con attività volte alla messa in pratica delle nozioni apprese. Per accedere all’esame orale è, poi, necessario che chi ha frequentato il corso svolga un tirocinio di almeno 8 ore presso lo sportello, ma non sono solo questi fattori a determinare il ruolo cruciale degli studenti. Ho vissuto sulla mia pelle, e percepito su quella dei miei compagni e compagne, le emozioni (a volte contrastanti) che derivano dal senso di responsabilità della presa in carico di un utente: la voglia di mettersi in gioco e di fare tutto ciò che è nelle proprie possibilità per tutelare i diritti degli assistiti, la paura di un errore, il timore nel relazionarsi. Più spesso, però, la consapevolezza dell’importanza delle nostre azioni, il senso di complicità con la persona coinvolta, non più un “utente da assistere”, ma un alleato in un atto di giustizia, che sia la pretesa di un foglio in un municipio di periferia, o un ricorso in Cassazione. Gli studenti della Clinica legale ne costituiscono, insomma, il “nocciolo duro”, grazie alla loro voglia di agire, al loro interesse verso un ambito disciplinare nel quale è cruciale che oggi chiunque, in particolare chi è giurista, assuma una posizione.

Nel 2017, mi sono iscritta alla selezione per diventare borsista della Clinica, bandita ogni anno anche grazie al contributo finanziario erogato dalla Fondazione “Charlemagne”. Ai colloqui sono selezionati quattro tra i partecipanti al corso del semestre precedente e si attribuiscono loro due compiti principali: gestire lo sportello e le richieste degli utenti, e formare gli studenti del semestre successivo, insieme ai quali si coordinerà lo sportello nei mesi a venire.

La fase in cui sono stata borsista della Clinica è stata una delle più felici della mia vita, sicuramente la più felice dell’intero periodo universitario. Allo sportello si eroga un servizio gratuito e altamente professionalizzato a persone che versano in condizioni di sostanziale impossibilità ad esercitare autonomamente i propri diritti fondamentali, e lo si fa con grande impegno e passione da parte di tutti coloro che sono coinvolti. Soprattutto, questa esperienza – ed è ciò che la rende non paragonabile ad altre esperienze di tutela e assistenza –, si realizza all’interno dell’università, è messa in pratica direttamente dagli studenti, dai primi abitanti e attori di quell’istituzione, di cui viene rivendicato il ruolo di “culla” dei diritti.

La Clinica è, poi, luogo di incontro, crocevia dal quale sono passate, dal 2012 a oggi, centinaia di persone con il vissuto della migrazione alle spalle, varco per l’apertura dell’università ai bisogni sociali. La Clinica legale non è solo un momento professionalizzante per chi vi prenda parte, né unicamente un servizio specializzato e gratuito reso a circa cento persone ogni anno: è uno spazio pubblico, dove si sostengono i principi su cui la nostra società si basa, dove si creano nuove alleanze tra chi compone tale società, dove si insegna – a chiunque lo attraversi – la difesa dei diritti.

È, infine, uno spazio mobile di studio e di ricerca, un affacciarsi su esperienze impossibili da vivere sui libri e fra i muri di una biblioteca. Con la Clinica legale ho conosciuto i territori dello sfruttamento lavorativo nelle campagne dell’Agro Pontino, il tempio della comunità sikh situato a Borgo Hermada, e ho avuto l’opportunità di partecipare alle cerimonie e alle assemblee sindacali che vi si tengono regolarmente. Insieme ad altri studenti, mi sono recata nelle aree meridionali del caporalato, nei ghetti improvvisati che popolano le campagne lucane e in quella città, che sorge su una pista aerea abbandonata nel foggiano, che è il ghetto di Borgo Mezzanone. Ho trascorso, tramite la Clinica e Diritti di Frontiera, una settimana di formazione rivolta a operatori e operatrici della migrazione svoltasi nelle città di Ceuta e di Siviglia, nell’ambito del progetto europeo «The Route of Solidarity». Attraverso la Clinica e l’Associazione ho preso parte a conferenze, seminari, giornate di studio e confronto, ho svolto la funzione di interprete all’interno delle aule di tribunale, fatto interminabili file in numerose e diverse amministrazioni pubbliche (una vera “palestra di vita”), e ho partecipato a udienze nell’aula bunker del carcere di Rebibbia.

Essere parte attiva e integrante della Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza è stata, per me, un’occasione di crescita personale, di formazione individuale, di personalizzazione all’interno di una collettività, di sviluppo di nuove capacità relazionali. La Clinica legale non solo mi ha formata a livello scientifico e operativo, ma mi ha insegnato un nuovo modo di stare dentro ai luoghi e insieme alle persone, vincolandomi felicemente a una nuova solidarietà. Un insegnamento, credo, tra i più preziosi che potessi ricevere.

 

 

Cliniche legali: In cammino verso la scoperta della realtà, anche valoriale, oltre il manuale di diritto

di Mattia Gervasoni[3]

Nel corso dei primi anni di studi, durante la preparazione di un esame, mi sono sempre chiesto quanto un concetto appreso da un manuale di diritto sarebbe, poi, effettivamente servito dopo il percorso universitario e quale sarebbe stata l’utilità specifica della nozione di diritto assimilata in una futura prospettiva lavorativa. Tale interrogativo mi ha accompagnato lungo tutto il mio percorso di studio, finché non è stato proposto anche all’Università degli Studi di Milano il corso di «Clinica legale di giustizia penale».

Nonostante la decisione di prendere parte a questo nuovo corso sia stata immediata, inizialmente non avevo la percezione effettiva di ciò che mi aspettava, non ero a conoscenza delle concrete richieste che mi sarebbero state fatte una volta “salito a bordo” di questa nuova avventura. Benché “brancolassi nel buio”, intravedevo tuttavia nella partecipazione alla Clinica legale un momento in cui poter finalmente mettere in pratica tutto il bagaglio di nozioni assimilate nel corso degli anni universitari, un luogo dove poter passare dallo studio dei concetti generali di diritto alla loro concreta applicazione, confrontandomi con casi reali.

Per la prima volta veniva proposto un corso non ancorato alle solite lezioni frontali, ma si permetteva allo studente di essere protagonista di una vera e propria esperienza esterna all’aula di insegnamento, offrendogli la possibilità di sperimentare l’effettiva applicazione del diritto nella vita di tutti i giorni. Avevo il dovere di cogliere quest’occasione al volo, nella speranza che l’avventura potesse tramutarsi anche in un momento di arricchimento del mio bagaglio culturale.

Il corso di Clinica legale, tenuto dalla professoressa Angela Della Bella, coadiuvata dai dottorandi del Dipartimento “Cesare Beccaria” dell’Università di Milano, si articolava in due diverse proposte: lo studente poteva scegliere se affiancare un avvocato nella trattazione di un caso concreto[4] o dedicarsi, invece, a un percorso di “street law[5]. La prima proposta prevedeva che un gruppo ristretto di studenti, monitorato da un apposito tutor e supervisionato dall’avvocato di riferimento, si dedicasse allo studio di un fascicolo processuale ed elaborasse le possibili strategie per la soluzione del caso anche attraverso la redazione degli atti di volta in volta necessari e la presenza in udienza. La seconda proposta prevedeva, invece, l’assistenza giuridica a realtà milanesi impegnate nell’accoglienza di persone migranti sul territorio; in alcuni casi, il gruppo di studenti era affiancato a sportelli giuridici già presenti all’interno della struttura.

La scelta personale è ricaduta sulla seconda tipologia, in quanto ho intravisto nella possibilità di lavorare a diretto contatto con persone provenienti da diverse culture, e alle loro numerose problematiche giuridiche dovute all’ingresso in Italia, un momento di crescita non solo professionale, ma anche personale.

Il mio compito all’interno del corso di «Clinica legale di giustizia penale»– e nel limite delle conoscenze di uno studente di giurisprudenza – è stato quello di portare assistenza giuridica al Centro di consultazione etnopsichiatrica dell’Ospedale “Niguarda” di Milano.

Il servizio di consultazione etnopsichiatrica si trova all’interno del Dipartimento di salute mentale. Pensato come luogo di cura e prevenzione per le fasce più deboli, esso è nato a seguito dell’osservazione, già al volgere degli anni novanta, della crescente presenza di soggetti stranieri tra la popolazione senza fissa dimora esistente in Italia. Si è avvertita, perciò, la necessità di rispondere a questa realtà attraverso la predisposizione di un ausilio specifico per le persone immigrate, regolari o irregolari, più vulnerabili.

Il Centro va a colmare una lacuna presente nel servizio sanitario organizzato per i soggetti stranieri: prima della sua predisposizione, una persona immigrata che si recava al pronto soccorso non aveva possibilità di continuare le cure una volta dimessa. Il servizio di etnopsichiatria garantisce, invece, la prosecuzione delle cure necessarie al trattamento del disagio psichico del paziente anche dopo la dimissione dalla struttura ospedaliera. Il paziente può infatti rivolgersi direttamente al Centro quando ha bisogno di sostegno o può essere segnalato dalle strutture sanitarie con cui entra in contatto (pronto soccorso, asl, medico di base); dopo un primo contatto con la figura dello psichiatria, il paziente viene preso in carico da un’équipe composta da psicologi, educatori e assistenti sociali operanti nel centro, che ha il compito di tracciarne il profilo psicologico e di predisporre l’idoneo percorso di riabilitazione. Nel servizio di etnopsichiatria si trattano sia traumi primari, quelli direttamente derivanti da torture o violenze subite nel corso dell’iter migratorio, sia traumi secondari derivanti da problemi di adattamento culturale[6].

Nel reparto di etnopsichiatria, a differenza di altre realtà, non è presente uno sportello giuridico dove i soggetti, che si rivolgono al Centro per ricevere assistenza sanitaria, possano porre i propri quesiti a un legale. L’etnopsichiatria, infatti – come si è visto –, è un reparto ospedaliero creato per ascoltare e assistere i migranti che presentano disturbi psichiatrici prima del loro arrivo in Italia o che hanno sviluppato tali disturbi nel corso della migrazione, durante il viaggio, a seguito dello choc culturale dovuto al primo impatto con un luogo diverso dalla loro terra di provenienza.

Essendo nato come un distaccamento del reparto di psichiatria dell’Ospedale “Niguarda”, il Centro non svolge la funzione di assistenza legale verso i propri pazienti: il personale operante è composto da psichiatri, psicologi e assistenti sociali, che hanno il compito di curare, entro il proprio ambito di intervento specifico, i bisogni di queste persone, mentre non è stata invece prevista una figura legale da inserire nell’équipe di lavoro. Nondimeno, il personale del Centro, già troppo scarno per poter rispondere alle numerose richieste di assistenza sanitaria che pervengono quotidianamente agli uffici dell’ospedale, di fatto risulta essere concretamente impegnato anche nello svolgimento di pratiche legali e amministrative in favore dei propri pazienti. Lo psicologo o l’assistente sociale che prende in carico un soggetto portatore di un disturbo mentale diviene, per questa persona, un vero e proprio punto di riferimento, in conseguenza dello scellerato sistema di accoglienza che oggi l’Italia riserva ai soggetti che ivi richiedano asilo politico o protezione.

Immaginiamo per un attimo di essere, per una qualsiasi causa, costretti a dover abbandonare la nostra madrepatria ed essere spinti a compiere un viaggio, contraddistinto da violenza e incertezza, verso un futuro che ci è stato raccontato essere migliore. E, una volta arrivati a destinazione, in un luogo di cui non si conoscono lingua, persone e usanze, essere obbligati a dover aspettare anche per anni, in strutture che ricalcano in tutto e per tutto istituti penitenziari, il responso di una commissione che ha il compito di decidere sul nostro futuro, con lo “spettro” di poter essere respinti e riportati nel territorio da cui si era dovuti fuggire.

Solo immaginando di essere nei panni di un migrante, riesce naturale capire perché un soggetto che si trovi a vivere questa situazione, senza aver ricevuto alcuna assistenza all’arrivo in Italia, vedrà nella prima persona interessata alla sua condizione un punto di riferimento su cui riversare tutti i propri bisogni, anche quelli riguardanti le pratiche amministrative e legali che si trova ad affrontare per godere di un qualsiasi servizio in Italia – ad esempio, il semplice abbonamento ai mezzi di trasporto per spostarsi nella città che lo accoglie.

Questa situazione fa sì che il personale para-sanitario debba quotidianamente confrontarsi con le necessità amministrative e legali dei pazienti per trovare una soluzione, senza però possedere le competenze necessarie a garantire risposte adeguate. La presenza di noi studenti nel Centro rappresentava una risposta proprio a tale esigenza: cercare di offrire, attraverso la nostra conoscenza del diritto, un’assistenza al personale nell’affrontare un problema giuridico e/o amministrativo che coinvolgesse il paziente. Nei mesi trascorsi presso la struttura, ci siamo trovati a dover affrontare le problematiche giuridiche e amministrative più disparate: dalle più “banali[7] richieste di come ottenere un appuntamento in ambasciata, ai casi più complessi in i cui le pazienti, soprattutto giovani madri che, una volta giunte in Italia, si vedono togliere i loro figli, richiedevano al Centro assistenza, informazioni e aiuto per poter riottenere l’affido[8].

Ma le richieste ad oggi più pressanti all’interno del Centro, soprattutto a causa della recente approvazione del cd. “decreto sicurezza”[9], riguardano i permessi di soggiorno. Infatti i pazienti, una volta scaduto il loro permesso, si rivolgono al Centro per ricevere supporto nel corso del procedimento di rinnovo dello stesso. I problemi sono nati con l’avvento della nuova legislazione, che ha eliminato il permesso di soggiorno concesso per ragioni umanitarie, il quale era spesso richiesto e concesso a soggetti che presentassero problemi di salute – come, appunto, le persone sottoposte a cure psichiatriche presso il reparto di etnopsichiatria[10].

Questa problematica, ossia la prospettiva futura di quello che era il permesso di soggiorno per motivi umanitari, è quella che più ci ha interessato e coinvolto durante la permanenza presso il Centro. Le nostre ricerche, sollecitate dalle richieste del personale del reparto, si sono indirizzate verso l’analisi del recente decreto sicurezza e le modifiche alla legislazione concernente il rilascio del permesso di soggiorno.

Il decreto sostituisce la protezione umanitaria con cinque specifiche tipologie di permesso di soggiorno indirizzate a determinate categorie di persone: per casi speciali[11], per chi necessita di protezione speciale[12], per chi proviene da un Paese soggetto a una «contingente ed eccezionale calamità», per chi si è contraddistinto per «atti di particolare valore civile» e per coloro che necessitano di cure mediche a causa del loro stato di salute gravemente compromesso.

Il permesso per cure mediche[13], di durata di un anno e rinnovabile nel caso persista il grave stato di salute, è stato, per ovvie ragioni, quello con cui ci siamo maggiormente confrontati durante il nostro “lavoro” presso il Centro di etnopsichiatria. Tale strumento, infatti, si è rivelato a una prima analisi il più idoneo, tra le nuove tipologie di permesso di soggiorno, a sostituire quello che, fino a settembre delle scorso anno, veniva concesso per ragioni umanitarie e che permetteva alla maggior parte dei pazienti del Centro la regolare permanenza sul suolo italiano. A seguito di un’analisi più approfondita, è emerso però come, in realtà, il permesso per cure mediche risulti essere, in primo luogo, svantaggioso per colui che lo richiede e, in seconda battuta, anche molto arduo da ottenere. Il principale svantaggio si sostanzia nel fatto che, a colui che gode di tale permesso, non è consentito l’accesso al mondo del lavoro. Si va, così, a creare una situazione per la quale una persona gravemente malata che risieda in Italia al fine ricevere le cure mediche necessarie, se non mantenuta da familiari o associazioni, non ha mezzi per provvedere al proprio sostentamento. Un secondo svantaggio consiste nel fatto che il permesso di soggiorno per cure mediche ha durata annuale: una durata così breve non garantisce quella stabilità necessaria affinché una persona possa iniziare una nuova vita in Italia. Il richiedente potrebbe essere passibile di espulsione ogni anno, nel caso non fossero più considerate «gravi» le sue condizioni di salute e, di conseguenza, non fosse rinnovato il permesso.

In aggiunta a tutto ciò, dall’analisi dell’esperienza pratica si evince come il permesso per cure mediche sia rilasciato solo in caso di gravità assoluta di salute poiché rimesso alla discrezionalità della questura; inoltre, molto spesso, la malattia psichiatrica non è considerata idonea per l’integrazione del grave stato di salute.

Non potendosi perseguire la strada del permesso per cure mediche, il personale del Centro deve ricorrere ad altre strade e ha il compito di ingegnarsi per trovare una modalità che consenta la permanenza nel Paese ai loro pazienti e garantisca loro anche di proseguire nel programma terapeutico. Non bisogna dimenticare che le persone che si rivolgono al Centro sono vittime di una patologia psichiatrica, malattia assolutamente equiparabile a quella di tipo fisico, e che, per lo stesso motivo, hanno gravi difficoltà nella ricerca di una stabile occupazione.

Vorrei ora, dopo la descrizione della mia esperienza all’interno della «Clinica legale di giustizia penale», concludere questo breve scritto con alcune considerazioni personali sull’importanza che questo corso ha avuto nella mia formazione sia di professionista che, un domani, entrerà nel mondo del diritto, sia di cittadino.

In primo luogo, un aspetto fondamentale del corso consiste nel non essere un’esperienza da affrontare individualmente: in questo percorso, affascinante quanto complesso, sono stato accompagnato da due splendide compagne di viaggio, Claudia e Sofia, e sono stato indirizzato nel lavoro dalla guida sapiente della nostra tutor, Giulia Mentasti. Uno dei principali obiettivi del corso è, infatti, imparare l’arte del lavoro di gruppo, che costituisce oggetto autonomo di valutazione.

Ho trovato, nel continuo confronto con le mie colleghe, nello studio condiviso dei casi che ci erano sottoposti e nella ricerca di una possibile soluzione, un’opportunità di crescita. L’incontro con una varietà di personalità e di metodi di lavoro ha contribuito a migliorare la qualità della nostra attività: saper lavorare in gruppo è stata, appunto, una qualità tanto importante quanto complessa da acquisire. La condivisione dell’esperienza con altre persone mi ha insegnato che è fondamentale saper ascoltare l’opinione altrui essendo disposti ad accettare che possa essere migliore della propria; ho, inoltre, scoperto quanto valga mettere a disposizione il proprio bagaglio di esperienza e conoscenza affinché, attraverso l’unione di vissuti, saperi e professionalità tra loro diversi, si possa contribuire insieme alla costruzione della strada più efficace per pervenire alla soluzione di un caso.

Quella della Clinicasi è rivelata essere, inoltre, un’esperienza difficilmente comprimibile e definibile all’interno dei confini di un semplice corso di studio, poiché essa rappresenta un modo completamente rivoluzionario di intendere l’arte dell’insegnamento: è infatti reciso il cordone ombelicale che collega l’assimilazione di nozioni giuridiche alla lezione frontale; lo studente è messo a confronto, in prima persona, con l’utilizzo concreto di quanto normalmente si apprende dalla manualistica tradizionale; si passa dal sapere formale al sapere (del) fare.

Non viene modificata solo la modalità di insegnamento, ma anche quella di apprendimento delle studente: l’aver affrontato il tema delle problematiche afferenti alla nuova disciplina dei permessi di soggiorno da un diversa prospettiva ha fatto che sì il mio approccio al decreto sicurezza fosse completamente diverso da quello che sarebbe seguito allo studio della stessa normativa con il solo fine di esporla durante un esame. Mi sono, così, trovato “di fronte al testo”, nell’intento di esaminare, parola per parola, quanto scritto nella legge, cercando di analizzarla e interpretarla per rispondere a un’esigenza pratica: determinate persone necessitavano del mio contributo per poter ottenere un documento fondamentale alla loro permanenza in Italia. Così facendo, la mia attività di studio non è stata fine a se stessa, ma ha avuto un immediato risvolto pratico e spero abbia contribuito a migliorare il vissuto di quelle persone.

Una tale tipologia di lavoro fa sì che si inneschi un vero e proprio processo di responsabilizzazione dello studente: tutto ciò che è analizzato e studiato dovrà poi essere riportato a persone “esterne”, che fanno pieno affidamento su quanto sarà loro riferito. Operare in un tale sistema ha generato in me un profondo senso di responsabilità: il mio lavoro avrebbe dovuto spingersi oltre la “superficie” delle cose ed essere sempre approfondito e dettagliato; per la prima volta, ero responsabile di quanto appreso non solo nei miei confronti, come quando si affronta un esame universitario, ma anche verso altre persone che confidavano nelle mie ricerche.

Lo studio del diritto “sui libri”, fatto di definizioni concettuali e dibattiti dottrinali, è sicuramente necessario e indispensabile, ma non sufficiente a garantire una corretta formazione allo studente che, una volta conseguita la laurea, dovrà confrontarsi con il mondo del lavoro. La persistente presenza, in Italia, di un’educazione universitaria che non prevede esperienze pratiche esterne all’aula di lezione fa sì che un giovane giurista non possieda l’elasticità mentale necessaria ad affrontare le problematiche che caratterizzano la realtà.

Ma la partecipazione alla Clinica non si è limitata a portare in dote un arricchimento delle mie abilità e conoscenze professionali: è stata soprattutto un momento decisivo nel processo di sviluppo della mia persona, come essere umano e come cittadino. Di questo sarò per sempre grato ad Alice e a Maria[14], che mi hanno preso per mano e accompagnato nel viaggio all’interno della complessa realtà in cui si trova a vivere la popolazione immigrata nel nostro Paese.

Al di là di quanto riportato in maniera superficiale dai media o propagandato, in modi anche peggiori, da persone che non si fanno scrupoli a far politica sulla pelle dei più deboli, grazie alla mia esperienza al Centro di etnopsichiatria sono potuto entrare in contatto con il “popolo silenzioso” che, lontano da ogni riflettore, ogni giorno mette il proprio tempo e il proprio impegno a disposizione di tutte quelle persone che chiedono solo di essere ascoltate e aiutate al loro arrivo in Italia, per essere poi indirizzate verso una vita autonoma e dignitosa.

I dati statistici sono chiari: il fenomeno dell’immigrazione di persone dall’Africa verso l’Europa è solo agli inizi e il numero di persone che, ogni anno, chiederà di entrare all’interno dei confini del continente sarà in continuo e costante aumento[15]. Diviene, perciò, necessario che anche l’Italia inizi a fare i conti con la situazione geopolitica mondiale al fine di adottare una politica non di chiusura, ma al contrario di apertura e di regolazione dei flussi di ingresso all’interno dello Stato; ad oggi, la principale emergenza collegata al fenomeno dell’immigrazione in Italia si rivela essere la gestione delle persone che entrano nel nostro territorio.

La maggior parte di questa popolazione non ha altra pretesa se non quella di essere accolta e indirizzata verso la ricerca di un lavoro che permetta di condurre una vita onesta in uno Stato nel quale – a differenza dello Stato di provenienza – sia permesso esercitare tutti i diritti fondamentali. Tuttora, le strutture di prima accoglienza sono assolutamente insufficienti e i soggetti, una volta fatto ingresso in Italia e non ricevendo assistenza, sono abbandonati a se stessi. Così facendo, si indirizza una considerevole parte di queste persone verso il mondo criminale, soprattutto quello collegato allo spaccio di droga. Il crimine finisce, infatti, per apparire come l’unico strumento capace di assicurare mezzi minimi di sostentamento.

Durante l’esperienza presso il Centro di etnopsichiatria, mi sono reso conto che l’obiettivo primario consiste nel porre in primo piano una caratteristica che dovrebbe essere innata in ogni persona, ossia l’umanità: la solidarietà reciproca, la comprensione e l’indulgenza verso l’altro. Tale umanità deve tornare a essere la bussola capace di orientare il legislatore nella scrittura di policies che tengano conto dei bisogni sia di coloro che arrivano sia di quei cittadini che, in maniera appassionata e, molto spesso, senza alcun fine di lucro, dedicano la propria vita all’aiuto della popolazione immigrata.

Il diretto contatto con questo mondo, così frequentemente dimenticato nel quotidiano, ma che esiste e si sviluppa parallelamente alle nostre vite; l’incontro con persone che dedicano spontaneamente il loro tempo, anche fuori dall’orario di lavoro, alle esigenze altrui; la relazione diretta con i migranti e i loro vissuti: per chiunque, questa esperienza porta con sé un arricchimento culturale e, a maggior ragione, può avere un impatto efficace sulla “personalità in divenire” che è propria di uno studente. Un simile percorso, in un contesto così difficile, ha la forza di incidere positivamente sulla formarsi della coscienza civica di una persona.

Così come l’architetto, quando progetta un edificio, deve preoccuparsi che le fondamenta siano solide, è necessario che ogni giovane che contribuisce alla creazione del mondo che verrà domani, disponga di altrettante basi sicure da cui partire per tracciare e costruire il suo e il nostro futuro. L’esperienza della «Clinica legale di giustizia penale»assolve a questa funzione, permettendo a un giovane studente come me di sollevare la testa da manuali e piattaforme digitali e di tuffarsi nella realtà concreta, con tutte le sue difficoltà e sofferenze, in modo da scoprirla e conoscerla in profondità. Se il futuro è “nelle nostre mani”, affrontare tale sfida ha la forza di educare all’importanza per il rispetto degli esseri umani, anche se portatori di culture e vissuti diversi. Un insegnamento che assume efficacia fondamentale nella creazione di un mondo più giusto e più umano.

 

 

Testimonianza breve sulla nostra esperienza all’interno della Clinica legale «Salute, ambiente e territorio» dell’Università degli Studi di Perugia

di Christel Nocchi, Chiara Pallozzi Lavorante eMartina Sforna[16]

Il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Perugia, nel suo piano formativo, offre la possibilità a noi studenti e studentesse di prendere parte al progetto di “clinica legale”, che può valere come esame a scelta del piano di studi o, in alternativa, come attività di tirocinio curriculare.

Studentesse del terzo anno, abbiamo deciso di partecipare a questa attività spinte dalla curiosità verso un’iniziativa profondamente diversa dai “tradizionali” corsi istituzionali che siamo abituate a frequentare fin dal primo anno, nonché stimolate dal nome e dall’ambito di rilevanza della nostra clinica: «Salute, ambiente e territorio».

Infatti, la tutela dell’ambiente rappresenta un tema difficile e, forse, necessitante di una maggiore sensibilizzazione in ambito universitario e scolastico, così da educare le nuove generazioni al rispetto di un bene comune di tale importanza. Più di tutto, però, ci ha mosso il desiderio che accomuna la maggior parte dei giovani giuristi iscritti alle facoltà di giurisprudenza: quello di sentirsi già – per un giorno alla settimana e per le ore che ci hanno tenute impegnate in questo progetto – giovani professionisti e di cominciare a imparare, così, quei mestieri che hanno accompagnato, nei nostri sogni, la scelta di studiare una materia così affascinante nella sua applicazione pratica.

Nell’ambito di questa nostra esperienza di clinica legale, abbiamo avuto la possibilità di occuparci di più questioni giuridiche, con effetti e risvolti in ambiti diversi. La nostra esperienza da “clincians” ha preso avvio approfondendo un argomento di scottante attualità, posto alla nostra attenzione da un comitato di cittadini e lavoratori di Taranto: la critica e complessa situazione dello stabilimento Ilva (ora ArcelorMittal). Il nostro approfondimento ha riguardato, in modo particolare, le procedure di svolgimento del referendum dei lavoratori sulla base del quale è stato stipulato l’accordo sindacale che ha, poi, dato vita al contratto di affitto dell’azienda Ilva. Tale lavoro ci ha consentito di studiare e analizzare il contratto collettivo applicato in azienda, nonché i risvolti dello stesso e delle procedure di affitto d’azienda, nei confronti sia dei lavoratori, diretti interessati, sia della collettività che vive intorno a quella realtà industriale.

Ci siamo, inoltre, cimentate in un’intensa attività di drafting legislativo: in collaborazione con altri studenti, dottorandi e professori, abbiamo lavorato alla stesura di un progetto di legge regionale per la creazione di “eco-distretti”, ossia modelli di gestione del territorio orientati all’introduzione di forme di partecipazione a livello locale e di modelli di economia circolare. Svolgere attività di drafting legislativo richiede, anzitutto, una minuziosa attività di ricerca e studio di progetti e atti legislativi già adottati in altre realtà locali. Il drafting impone al clinician, abituato a studiare e a leggere atti legislativi da giurista, uno sforzo intellettuale: si devono assumere le vesti di legislatore, con tutte le difficoltà connesse, in particolare relativamente alla scelta dei vocaboli e dei termini giuridici idonei a esprimere precisamente un concetto. Questo ci ha consentito il confronto con i testi legislativi con uno spirito critico diverso, cogliendo anche le difficoltà e le intenzioni sottese alle parole usate dal legislatore.

Partecipare attivamente al progetto di Clinica legale «Salute, ambiente e territorio» durante l’anno accademico appena concluso ha senz’altro arricchito il nostro sapere, o meglio, “saper fare” giuridico. In qualità di clinicians, abbiamo potuto incrociare le nostre conoscenze, acquisite mediante il più tradizionale studio di manuali che accompagna il percorso universitario, con casi pratici riguardanti persone e questioni non più unicamente astratte e generali, ma concrete e particolari. Abbiamo sperimentato cosa significhi trovarsi realmente di fronte a un cliente e alle sue esigenze, sviluppare un ragionamento critico rispetto al caso a noi presentato, cercando una soluzione ai quesiti proposti. Per far ciò, come già anticipato, ci siamo cimentate in un insieme di attività piuttosto eterogenee (dall’analisi di complessi contratti alla redazione di pareri) con cui finora, nel nostro iter, non avevamo avuto occasione di confrontarci, ma che rappresenta ciò che effettivamente sarà parte del nostro futuro di giuriste. In questo senso, allora, progetti come la Clinica legale dell’Ateneo perugino rappresentano strumenti in grado di colmare quella mancanza di concretezza e praticità così spesso lamentata dagli studenti in giurisprudenza.

Collaborare al progetto della Clinica ha significato anche imparare a rispettare le scadenze, a lavorare in gruppo, a cercare compromessi, a presentare e sostenere efficacemente le proprie idee o conclusioni di fronte a più persone.

Da sottolineare, infine, il piacevole clima creatosi all’interno della Clinica: che fossimo studenti, dottorandi o docenti, siamo stati posti tutti sullo stesso piano, e ciò ha facilitato in maniera non indifferente il dialogo e il confronto al fine di fornire la migliore assistenza possibile ai nostri clienti.

[1] Laureanda in Diritto degli stranieri presso l’Università degli Studi di Firenze.

[2] Dottoressa in giurisprudenza, già studentessa del corso di «Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza» presso l’Università degli Studi Roma Tre.

[3] Dottore in Giurisprudenza all’Università Statale di Milano e già clinician presso lo stesso Ateneo; attualmente tirocinante presso il Tribunale di Milano.

[4] L’externship o field-placement clinic si caratterizza per lo svolgimento delle attività della clinica legale all’esterno dell’università (studio legale, impresa o tribunale). Attraverso questa tipologia, gli studenti sperimentano un contatto diretto con la professione al di fuori dell’ambiente accademico. Cfr. G. Smorto (a cura di), Clinica legale. Un manuale operativo, Edizioni Next, Palermo, 2015.

[5] Per “street law”s’intende quel genere di attività nelle quali gli studenti sono impegnati a educare una comunità o un gruppo su una particolare area del diritto, ovvero su specifici argomenti di particolare interesse e sui relativi risvolti giuridici. Cfr. G. Smorto (a cura di), Clinica legale, op. cit.

[6] «L’esperienza migratoria viene a rappresentare uno choc culturale ed identitario in cui il soggetto si trova di fronte alla sfida di dover ridefinire il proprio progetto di vita, di delinearne le coordinate nello spazio e nel tempo; si tratta di una vera e propria rottura traumatica della continuità narrativa biografica che il migrante deve riuscire a ricomporre, ricreando una unità narrativa intellegibile, attraverso l’elaborazione del lutto della separazione dal gruppo originario, dai legami costituiti durante l’infanzia e interiorizzati nella sua costruzione psico-affettiva, pena lo smarrimento identitario ed anche il rischio di caduta nell’abisso psicotico quale estremo tentativo di dare senso ad un’esperienza alienante. Il trovarsi in un sistema di relazioni che il soggetto migrante non riesce ad interpretare e che lo vive come corpo estraneo, l’assenza di una rete famigliare di supporto, possono alimentare vissuti di inferiorità sociale e di minorazione culturale che finiscono per tradursi in quella estrema solitudine in cui la persona finisce per diventare estranea a se stessa generando varie forme di disagio psichico»: così L. Cimino, Migrazione e salute mentale: un problema emergente, in Rivista di criminologia, vittimologia e sicurezza, vol. IX, n. 1/2015, p. 61.

[7] Una precisazione sulla parola “banale”: viene qui usata per indicare come, per una persona nata e cresciuta in Italia che ha padronanza della lingua e conosce perfettamente il luogo in cui risiede, la richiesta di documenti o certificazioni risulti essere un’attività di routine quotidiana; ma, per una persona che si ritrova catapultata in un mondo completamente diverso dal suo e di cui non conosce la lingua, anche la sola richiesta di una certificazione di nascita diventa un’impresa che può richiedere anche più giorni. Ecco perché il personale del Centro di etnopsichiatria assume un ruolo fondamentale per orientare persone che, diversamente, non saprebbero come muoversi nelle maglie dell’apparato amministrativo italiano.

[8] Quando ci si trova ad affrontare casi molto complessi, il Centro richiede assistenza ad avvocati che operano in questo ramo del diritto, i quali generosamente mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie conoscenze per risolvere le questioni più intricate.

[9] Il 27 novembre, la Camera ha approvato il ddl n. 840/2018, il cd. “decreto sicurezza e immigrazione” nella versione in cui era stato modificato e approvato dal Senato, il 7 novembre, con 396 voti a favore. A favore del testo, sul quale il Governo aveva posto la fiducia, hanno votato i deputati di Lega e Movimento 5 stelle, Forza Italia e Fratelli d’Italia, mentre hanno votato contro i deputati del Partito democratico, Liberi e Uguali e alcuni deputati del Movimento Cinquestelle. Vds. A. Camilli, Cosa prevede il decreto sicurezza e immigrazione, Internazionale, 27 novembre 2018, www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/11/27/decreto-sicurezza-immigrazione-cosa-prevede.

[10] Il primo articolo del decreto contiene nuove disposizioni in materia di concessione dell’asilo e prevede, di fatto, l’abrogazione della protezione per motivi umanitari, che era prevista dal Testo unico sull’immigrazione (Tui). Prima della conversione in legge del decreto, la questura concedeva un permesso di soggiorno ai cittadini stranieri che presentavano «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano», oppure alle persone che fuggivano da emergenze come conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in Paesi non appartenenti all’Unione europea. Tale permesso aveva la durata di due anni e consentiva l’accesso al lavoro, al servizio sanitario nazionale, all’assistenza sociale e all’edilizia residenziale pubblica. In argomento, vds. ancora A.Camilli, Cosa prevede il decreto, op.cit.

[11] Rilasciati in altre ipotesi in cui, finora, era rilasciato un permesso per motivi umanitari: a) protezione sociale delle vittime di delitti oggetto di violenza o grave sfruttamento, che sono in pericolo per avere collaborato o essersi sottratte ai condizionamenti dell’organizzazione criminale e partecipino a un programma di assistenza e integrazione sociale; b) vittime di violenza domestica che denuncino l’autore del reato; c) particolare sfruttamento lavorativo su denuncia, da parte del lavoratore sfruttato, del datore di lavoro. Vds. P. Bonetti, Immigrazione, i 5 nuovi tipi di permessi di soggiorno danno al titolare una condizione giuridica più precaria, Il Sole 24 ore,31 ottobre 2018, www.ilsole24ore.com/art/immigrazione-5-nuovi-tipi-permessi-soggiorno-danno-titolare-condizione-giuridica-piu-precaria-AE6eJfXG.

[12] Rilasciato su richiesta della commissione territoriale per la protezione internazionale allorché non si riconosca allo straniero lo status di rifugiato o quello di protezione sussidiaria, ma si ritenga impossibile il suo allontanamento per il rischio di subire persecuzioni o torture. P. Bonetti, Immigrazione, op. ult. cit.

[13] Hanno diritto al permesso per cure mediche gli «stranieri che versano in condizioni di salute di eccezionale gravità, accertate mediante idonea documentazione, tali da determinare un irreparabile pregiudizio alla salute degli stessi, in caso di rientro nel Paese di origine o di provenienza. In tali ipotesi, il questore rilascia un permesso di soggiorno per cure mediche, per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, comunque non superiore ad un anno, rinnovabile finché persistono le condizioni di salute di eccezionale gravità debitamente certificate,valido solo nel territorio nazionale» (art. 19, comma 2, lett. d-bis, Tui).

[14] Entrambe operatrici delCentro di consultazione di etnopsichiatriadell’Ospedale “Niguarda” di Milano.

[15] Lo studio, commissionato dal Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’Onu (Replacement Migration: is it a solution to declining and ageing populations?, Undesa, 2001, www.un.org/en/development/desa/population/publications/ageing/replacement-migration.asp), afferma che nel 2050, nella sola Italia, il numero della popolazione immigrata sarà pari a 40 milioni di persone, andando così a formare un terzo della popolazione complessiva.

[16] Studentesse al quarto anno presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Perugia, già studentesse del corso di clinica legale «Salute, ambiente e territorio».