Magistratura democratica

Populismo, religioni, diritto

di Nicola Colaianni
Il populismo politico è fatto di una materia prima che non sempre si scorge: il senso del religioso o del sacro, che anima la visione olistica, senza corpi intermedi, del popolo. Il populismo politico ha bisogno di simboli e attinge all’antico immaginario religioso. L’intreccio è minaccioso sul piano del diritto perché punta a scardinare le norme fondamentali dello Stato costituzionale, in particolare l’eguaglianza dei cittadini nelle loro differenti culture e identità. A contrastare l’antipluralismo congenito del populismo si erge il principio di laicità, con il suo contenuto di rispetto delle diversità e, per questo aspetto, di limite della sovranità popolare.

1. Alla ricerca del popolo

«Ma che cos’è questo popolo?»: quasi riecheggiante quella celebre di Pilato «Che cos’è la verità?» – poi affrontata in conclusione del suo primo saggio sulla democrazia[1] – è la domanda che poneva un secolo fa Hans Kelsen. Un’illusione, egli rispondeva, che gli individui che lo compongono vi aderiscano «con tutto il loro essere» tanto da farne un tutt’uno. La supposta unità è una finzione giuridica perché solo normativa, è un postulato etico-politico necessario per giustificare la soggezione di un certo numero di soggetti allo stesso ordinamento. Nella realtà si riscontra non l’unità ma la pluralità di differenze e contrasti di genere, di lingua, di religione, di condizioni sociali, di cultura: people come persone, non come popolo.

Alla stessa riflessione probabilmente molti secoli prima il padre della Chiesa Cipriano fu indotto dall’osservazione della realtà del “popolo di Dio” – l’antico Israele e, secondo il cristianesimo, la Chiesa universale – che si presenta come «un popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»[2]: un’unità ideale, più che effettiva, un postulato a sua volta per giustificare l’appartenenza allo stesso ordinamento di tanti fedeli diversi per lingua, cultura, condizioni personali e sociali. Lo stesso si può dire della Umma – il popolo, la nazione – islamica, che se si è sparsa in tutto il mondo è perché ha saputo convivere con le grandi differenze di lingua, di cultura, di costumi, di assetti istituzionali. Le “religioni del libro”, cristianesimo, ebraismo e islam, che hanno in comune il ceppo abramitico e peraltro sono le più diffuse nell’Occidente europeo e nordamericano, sono dunque religioni di popolo nello stesso senso, plurale, suggerito a Kelsen dal principio di realtà.

Ma, come un fiume carsico, riappare ad intermittenza e sta ora attraversando la sua “fase di sfondamento”[3] la corrente politica che vede nel popolo un’entità unitaria e omogenea per pensiero e volontà, una comunità depositaria di valori positivi generati da lunghe tradizioni e generatori di legami forti, capaci di offrire un senso comune di identità e di appartenenza. Non che vengano negate le differenze ma le si vedono combinate naturalmente, prodigiosamente in un tutt’organico: il modello è quello descritto nell’apologo di Menenio Agrippa, dove tutte le membra contribuiscono alla salute del corpo, anzi devono contribuire perché, come riporta Tito Livio, «quasi unum corpus discordia pereunt concordia valent».

Questa visione olistica della società, con una identità non porosa ma granitica, è comune anche alle religioni. Non può non impressionare che l’apologo di Menenio Agrippa venga rivisitato dall’apostolo Paolo nella prima lettera ai Corinzi «E in realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi» (I Cor. 12, 13; in Gal. 3, 27-28 aggiungerà che «non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù»). Ciò non significa che Paolo ignorasse quelle differenze di cultura, di genere, di condizioni personali e sociali. Egli era consapevole anche della differenza di opinioni, che nella chiesa di Corinto aveva dato origine a partiti: «ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!”» (I Cor. 1, 12). Predicava evidentemente un’unità ideale, un traguardo che sempre si allontana ogni volta che si pensa di aver raggiunto. Ma nella storia della Chiesa è prevalsa la lotta, anche cruenta, contro le differenze per raggiungere l’unanimismo del popolo di Dio, cioè un populismo religioso.

Esiste allora un nesso tra populismo politico e populismo religioso? O, per porre la stessa questione in termini non filosofici ma storici, l’attuale diffusione di idee e politiche populistiche anche in un’area come quella europea, finora presidiata dal pluralismo dei partiti, dipende (anche) dal nesso tra politica – ieri pluralistica, oggi populistica – e religione? E l’ordinamento giuridico ne subisce il riflesso, vi si adegua o in qualche misura vi resiste? Più radicalmente, ha risorse per resistere?

Un’avvertenza preliminare è che è impossibile individuare una nozione unica di religione, non ne esiste una definizione giuridicamente appagante[4]. Neppure il riferimento alla divinità è comune: per esempio, ne prescinde il buddhismo, pur ordinariamente riconosciuto come religione al punto che in Italia due sue denominazioni riconosciute come confessioni religiose (l’Unione buddhisti italiani e la Soka Gakkai) hanno concluso intese con lo Stato. È opportuno, quindi, prendere in considerazione, come del resto intuibile dai riferimenti fatti prima, le sole “religioni del libro”, che non solo sono le più diffuse nell’Occidente europeo e nordamericano ma anche hanno il comune connotato di religioni di popolo, che sull’unità del popolo di Dio investono la loro missione. Per altro verso molti e diversi sono anche i populismi politici. Ma, a differenza che per le religioni per le quali manca una nozione comune, qui gioca il “complesso di Cenerentola”, che nella celebre conferenza alla London School of Economy Isahia Berlin introdusse nel dibattito sul populismo: il principe va ancora alla ricerca del piede, il modello storico che calza perfettamente la scarpa, di cui è in possesso, ma quell’idea, la scarpa, ce l’ha[5]. Ai fini della valutazione comparativa è opportuno, quindi, evidenziarne i caratteri più vicini a quelli delle religioni considerate tanto a volte da sembrare da esse derivati: a conferma della tesi di Carl Schmitt secondo cui «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»[6]. A quelli da lui portati ad esempio, l’onnipotenza del legislatore e lo Stato di eccezione, ben potrebbe aggiungersi il concetto, contrastato da Kelsen, del popolo come società naturale preesistente all’ordinamento giuridico perché “popolo di Dio”, creato da Dio.

2. Il popolo politico

Dell’idea di populismo è essenziale nei modelli contemporanei appunto il richiamo alla comunità, per dir così, primordiale, precedente l’ordinamento giuridico, naturalmente virtuosa e dotata di valori, poi offuscati dalle artificiose distinzioni partitiche e dall’élite al potere. Ma, siccome i popoli sono numerosi, il proprio, quello a cui si appartiene, viene prima di tutti gli altri. Emblematico è lo slogan America first, che riprende il nome del movimento degli oppositori nel 1940 all’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale, alimentato da un sentimento pro-nazista e antisemita[7]: e il razzismo è causa di chiusura e di esclusione. L’uso, che di quello slogan fa il presidente americano Trump, esprime appunto lo storico eccezionalismo americano in termini non di libertà e ideali ma di unità: more as an identity than an idea[8]. Inteso in questo senso di unità e appartenenza, l’eccezionalismo è tipico del populismo: ogni popolo si ritiene first rispetto agli altri, si pone prima degli altri. Una priorità, questa, che alimenta un nazionalismo aggressivo ed escludente, benché non si traduca necessariamente in superiorità e quindi in mire espansionistiche.

Ma è all’interno dell’ordinamento nazionale la trasformazione più rilevante operata dal populismo. Esso narra di una lotta tra due gruppi omogenei al loro interno e portatori di interessi e valori opposti: il popolo naturalmente virtuoso, la massa del “noi”, e l’élite o la casta o l’establishment, cioè “loro”, quei pochi, l’1 per cento[9], il non-popolo che ne espropria la sovranità. Come rendere protagonista il popolo, dato che nessuna forza politica potrebbe mai avere alle spalle quella massa del 99%, non è un problema perché il populismo coltiva la pulsione a fare del suo popolo il popolo intero tout court[10]. Ove poi conquisti la maggioranza (non si dice del variegato popolo ma solo) dei votanti il leader populista con un abuso di posizione dominante si arroga il moral monopoly of representation di tutto il popolo, del real people[11]. Il rapporto tra popolo e leadership è diretto e immediato, secondo il modello della democrazia diretta invece che rappresentativa. Basta dare voce al popolo, il quale, siccome omogeneo, indifferenziato[12], di un solo sentire, è capace di dare un mandato chiaro e distinto, non ambiguo[13]. Mandato, perciò, vincolante, che chiunque può eseguire nelle istituzioni, anche se alla prima esperienza e senza una specifica competenza (del resto, di questi tempi anche generalmente misconosciuta[14]).

Conseguenza della democrazia diretta è l’anti-pluralismo[15]. Il costituzionalismo democratico, riconoscendo le differenze interne al popolo, esclude che le scelte politiche possano promanare direttamente e immediatamente da un inesistente popolo unitario e indifferenziato. Nell’organizzazione sociale narrata dal populismo, invece, non occorrono corpi intermedi, come le formazioni sociali in cui l’individuo svolge la sua personalità, con differenti interessi, valori, origini (gli stessi partiti sono “comitati elettorali da montare e smontare”[16]). Il principio di eguaglianza costituzionale funziona da norma di riconoscimento delle differenze personali esistenti e, proprio perché attribuisce ad esse tutte  uguale valore, si pone come il vero fattore di unità del popolo, sempre in corso di realizzazione attraverso il bilanciamento tra eguaglianza e differenze. Nella visione populistica, viceversa, l’unità è precostituita, antecedente all’ordinamento, e quindi l’eguaglianza è declinata come egualitarismo (“uno vale uno” o “io valgo quanto te” di Berlicche[17]) per cui l’individuo si confonde con l’intero. A risentirne sono le minoranze che non vogliono o non possono integrarsi e perciò diventano gruppi di non appartenenza al “vero” popolo, i cui interessi possono essere legittimamente ignorati. Non a caso, è stato osservato[18], «in campagna elettorale i populisti rivolgono la loro ira soprattutto contro i gruppi etnici o religiosi che non riconoscono come parte del “vero” popolo». È l’opposto del costituzionalismo, che si preoccupa delle minoranze, dei più deboli perché ciascuna persona continui ad essere un individuo diverso dagli altri e nondimeno sia uguale alle altre, non discriminata per la sua differenza: a ciò sono funzionali i diritti fondamentali, a garantire i più bisognosi di protezione contro le maggioranze e i poteri, sono i diritti del più debole.

3. Il popolo religioso

Il popolo è elemento centrale anche nelle religioni monoteistiche. Come s’è detto ricordando la lettera paolina, esso è un corpo organico, vivente, in cui le diversità delle funzioni e dei carismi individuali non ostacola ma anzi si coordina al fine del benessere dell’insieme. L’appartenenza al popolo è naturale, nell’ebraismo e nell’islam avviene per nascita: da madre ebrea o da padre musulmano, rispettivamente. Per gli ebrei la legge italiana ne trasse la conseguenza della loro appartenenza di diritto alla comunità israelitica di residenza[19]. In ogni caso la naturalità dell’appartenenza religiosa ha reso ebraismo e islam due fenomeni non solo religiosi ma anche culturali e politici. L’ebraismo non è definibile come semplice confessione religiosa – ancorché a tale definizione si sia dichiaratamente acconciato al solo scopo di concludere un’intesa con lo Stato – perché è un fenomeno più vasto «di cultura e di religione, di tradizioni e di norme di comportamento, di popolo e di storia»[20]. L’Islam, analogamente, è anche un sistema giuridico e comportamentale, comunemente ritenuto caratterizzato dalla sovrapposizione di società e Stato sulla religione: din – dunja – dawla, ancorchè per un processo storico non essenziale come dimostrato da alcune voci dissonanti di giuristi e teologi islamici[21].

Un processo del genere è avvenuto anche nel cristianesimo, pur caratterizzato da un’appartenenza soggettiva non biologica e obbligatoria per nascita che sarebbe contraria al principio canonistico «Nemo ad fidem amplectandam invitus cogatur». Il popolo perciò non è uno Stato di natura, come nelle altre due religioni abramitiche, ma si forma nel corso di un processo storico dipendente dalla volontà umana che trova espressione appunto in un atto volontario costituito dal battesimo. Senonché la prassi del battesimo dei bambini, diventato largamente la forma abituale di celebrazione, ha reso quasi naturale, per nascita, l’appartenenza alle chiese cristiane (con qualche eccezione, come quella delle chiese battiste). Ciò spiega perché nella medievale respublica gentium christianarum il legame tra ordine religioso e ordine giuridico abbia prodotto un ius commune: per dirla con Calasso, «nel mondo della legalità, l’unità spirituale dell’Europa nasce»[22]. Con la riforma tridentina, nel prendere atto della frantumazione dell’ordine medievale in una pluralità di ordinamenti anche religiosi, la chiesa cattolica accentua i suoi caratteri mondani di società giuridica, organizzata, visibile, perfetta: la Chiesa – confermerà ancora tre secoli dopo l’ultimo papa prima del Concilio – come popolo composto «organicamente» e «gerarchicamente»[23].

Questa progressiva opera di “culturizzazione” del “popolo di Dio” – cristiano, ebraico o musulmano – percorre la stessa strada imboccata dal populismo e porta ad analoghe conseguenze, prima viste. Ogni chiesa è prima rispetto alle altre. Basta pensare al principio (rappresentativo di un solipsismo di Stato, come direbbe Kelsen[24]): Prima sedes a nemine iudicatur (can. 1404 cod. iur. can.). L’eccezionalismo tipico del populismo appare davvero la trasposizione secolare di quello religioso, per cui ogni religione, sottolineando più l’identità che la fede, si proclama come unica via di salvezza escludendo le altre: extra Ecclesiam nulla salus. Analogamente, la visione armonica e olistica del popolo («un cuore solo e un’anima sola», nella versione idilliaca degli Atti degli apostoli 4, 32) non sopporta differenze politiche e, soprattutto, religiose. Le distinzioni ammesse sono sublimate nell’unità di fondo, per cui «i battezzati, nonostante vi siano differenze di riti e di disciplina, formano tutt’insieme un sol corpo sociale, cioè il corpo mistico di Gesù Cristo»[25]. Nelle organizzazioni religiose, analogamente all’atteggiamento del populismo politico, si diffida del pluralismo, specialmente in materia di interpretazione del libro sacro. Il dissenso, la “irregolarità”, l’eresia vengono combattuti come dimostra la storia delle religioni ancor oggi perché in definitiva il magistero è attribuito ad un ceto specializzato, che nella chiesa cattolica si concentra nell’episcopato e soprattutto nel sommo pontefice.  

Il superamento della rappresentanza, che si è visto come obiettivo del populismo, è di stretta derivazione religiosa e, in particolare, cattolica, nella quale la potestas del pontefice è suprema, plena, immediate, universalis (can. 331 cod. iur. can). Come ben descritto da Carl Schmitt, qui vale non il principio di rappresentanza ma il principio di rappresentazione. La chiesa non ha istituzioni rappresentative, i suoi organi esponenziali non traggono dal popolo dei fedeli l’autorizzazione ad esercitare i poteri loro conferiti dalla legge. Essi li esercitano solo grazie al fatto che la Chiesa «ha la forza della rappresentazione. La Chiesa rappresenta la civitas humana, rappresenta in ogni attimo il rapporto storico con l’incarnazione e con il sacrificio in croce di Cristo, rappresenta Cristo stesso in forma personale, il Dio che si è fatto uomo nella realtà storica»[26].

Certamente, questo quadro è parziale e non riflette i mutamenti intervenuti nelle religioni anche a livello apicale. Tra i quali colpisce maggiormente, date le condizioni di partenza più autoritaristiche, quello legato al secondo Concilio Vaticano e al superamento della visione della Chiesa come società perfetta[27] in favore della ripresa continuità con la visione patristica, spirituale e storica, del popolo di Dio, che non è già precostituito ma «che tutti gli uomini sono chiamati a formare»[28]. Ma neppure si possono trascurare le voci dell’Islam moderno, non di rado perciò messe a tacere con la violenza fisica, le quali ritornano alle radici spirituali dell’Islam, che «Dio voleva che fosse una religione, ma gli uomini hanno voluto farne una politica»[29]. Ancorché un aspetto essenziale dell’Islam sia lo sguardo a ritroso, nella convinzione che la verità più profonda è stata già rivelata e che in quel momento della storia unico ed esaustivo (di qui un fondamentalismo religioso quasi strutturale) s’è riversato «ogni evento fondamentale che tocchi il nucleo della vita dell’uomo»[30]. In ogni caso, non certo a questi approfondimenti del messaggio religioso presta attenzione il populismo politico. Esso si appropria delle idee e dei simboli religiosi convenienti alla sua visione, che sono quelli portati avanti dalle correnti tradizionaliste e conservatrici e si identificano con quelli sopra passati in rapida rassegna.

4. L’intreccio populistico ereditato

Il nesso tra populismo politico e populismo religioso appare evidente al punto che da taluno è stato definito addirittura “incestuoso”[31] perché questa comunanza di caratteri sembra maturata in seno alla stessa “famiglia”, in un orizzonte culturale e spirituale condiviso. Il bisogno di identità e di comunità, la credenza in una comunità necessaria per la redenzione e al contempo omogenea, incontaminata, indifferenziata, disintermediata al proprio interno, sono caratteri comuni che destinano i due populismi all’incontro. Un incontro non solo ideale ma, per dir così, demografico perché il popolo di riferimento – a differenza di quello degli Stati – è lo stesso, individualmente composto dalle stesse persone. Ciò spiega la storica fusione dei due populismi, politico e religioso, negli Stati arabi o nel movimento sionista, che è recentemente riuscito a sancirla anche formalmente con l’approvazione della «Basic Law: Israel as the Nation State of the Jewish People» del 14 luglio 2018. Ma, se pur non fisiologica a causa del processo storico di tendenziale separazione tra politica e religione, ugualmente realizzabile è quella fusione nei paesi dell’Occidente come è reso evidente dalla storia, tra altre, del diritto italiano. Essa non dipende tanto dal principio di ascendenza westfaliana (cuius regio eius et religio), scolpito nell’articolo 1 dello Statuto albertino «La religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Non c’è dubbio che questo principio abbia non solo legittimato ma anche incrementato un certo confessionismo di costume continuato pur dopo la svolta costituzionale in favore dell’eguale libertà di tutte le confessioni religiose (articolo 8)[32] ma d’altronde non impedì l’introduzione del matrimonio civile come unica forma giuridicamente rilevante o la soppressione di corporazioni religiose ed enti ecclesiastici.

La fusione dei populismi si realizzò, o si ripristinò, solo con la “conciliazione” tra Chiesa e Stato fascista, con cui la Chiesa ritenne di «aver ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio»[33]. Il progetto era stato lapidariamente definito da Alfredo Rocco, il futuro ministro della giustizia in un articolo di qualche mese precedente la “marcia su Roma”: «Assuma lo Stato un contenuto religioso, difenda apertamente quella religione cattolica che è la fede dell’immensa maggioranza degli italiani. Cessi la Chiesa dall’ingerirsi nella politica interna dello Stato italiano per indebolirlo, gli dia anzi il suo aiuto leale per il mantenimento civile e nazionale»[34]. In effetti, in un Paese diviso e alla ricerca di una forte identità, individuata dai fascisti nella tradizione imperiale di Roma, la cattolicità era un collante già esistente: si trattava di piegarla al progetto politico[35], rinunciando al programma separatistico dello Stato liberale: il che andava incontro alle pretese espresse in forma di anatema dal Sillabo del 1864, come darà atto il pontefice con il famoso riconoscimento della linea anti-liberale all’«uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare»[36].

Naturalmente, la pulsione manichea ed esclusiva di ogni populismo, la logica amico – nemico, non consente un rapporto autenticamente pacificato. L’accordo, quindi, è vissuto come strumentale per l’affermazione della superiorità di ciascun populismo rispetto all’altro, per impadronirsene, si potrebbe dire, secolarizzandolo o sacralizzandolo. «Lo Stato fascista – affermò Mussolini nel suo discorso alla Camera[37] – rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il cattolicesimo lo integra, e noi lo dichiariamo apertamente, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola». A questo cattolicesimo come religione secolare facente parte integrante del fascismo il pontefice subito replicò dipingendo un fascismo ideologicamente e praticamente cattolico: «Lo Stato fascista, tanto nell’ordine delle idee e delle dottrine quanto nell’ordine della pratica azione, nulla vuol ammettere che non s’accordi con la dottrina e con la pratica cattolica; senza di che lo Stato cattolico non sarebbe né potrebbe essere»[38].

Al di là delle reciproche rivendicazioni e strumentalizzazioni il Concordato è un atto che dichiara di basarsi su un senso comune di tipo religioso proprio del popolo. In disparte le norme agevolatrici ed esoneratrici a favore della Chiesa come apparato e dei suoi vari enti, emblematiche sono le norme sull’efficacia civile del matrimonio e della giurisdizione ecclesiastica matrimoniale (articolo 34) e quelle sull’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche (articolo 36). La volontà dello Stato è di «ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo». Il solo matrimonio civile, introdotto dal moderno Stato liberale, non ha dignità o comunque essa non risponde alle tradizioni cattoliche: attribuire efficacia civile a quelle tradizioni non è liberale riconoscimento di una pluralità di forme matrimoniali, è recupero della dignità che l’istituto aveva sempre avuto. Un’opzione, quindi, tipica del populismo, che ambisce a presentarsi con una purezza derivante direttamente dalle antiche tradizioni di un popolo omogeneo e virtuoso.

Il richiamo della tradizione cattolica è alla base anche dell’introduzione dell’insegnamento religioso cattolico nelle scuole. Non come insegnamento facoltativo ma obbligatorio perché la dottrina cattolica è posta a «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica». Nella visione populistica la religione è «un fattore di unità morale della Nazione», un «bene di civiltà» di «interesse generale» e «della più alta importanza, anche per il raggiungimento dei fini etici dello Stato», da tutelare quindi «per sé medesima, cioè come istituzione»[39]. La dottrina cattolica diventa così oggetto di tutela penale. A differenza del codice Zanardelli, che prevedeva solo il vilipendio personale del credente, punibile peraltro a querela di parte (articolo 141), o del ministro di culto (articolo 142), il codice Rocco introdusse il vilipendio della religione cattolica, cioè del suo contenuto dogmatico e morale: precisamente la «dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica», lo stesso oggetto dell’istruzione religiosa introdotta nelle scuole dal Concordato.

E, coerentemente, alla tradizione, esaltata dal populismo, si richiama la stessa Corte costituzionale nella sua prima decisione in argomento per giustificare il sistema di tutela contenuto nel codice penale, che «ha fondamento nella rilevanza che ha avuto ed ha la Chiesa cattolica in  ragione della antica ininterrotta tradizione del  popolo italiano, la quasi totalità del quale ad essa sempre appartiene»[40]. E a questa totalità, con cui populisticamente l’individuo si confonde, non farà fatica, vista la sua giurisprudenza nel corso del ventennio fascista, ad allinearsi la Cassazione, richiamando il sentimento religioso collettivo, tutelato quale «patrimonio altamente sociale» per i suoi «valori etico-spirituali»[41]. L’ormai insostenibile “anacronismo” di questa posizione sarà rilevata solo all’alba del nuovo secolo come «riflesso del principio di laicità che la Corte costituzionale ha tratto dal sistema delle norme costituzionali, un principio che assurge al rango di "principio supremo" (sentenze nn. 203 del 1989, 259 del 1990, 195 del 1993 e 329 del 1997), caratterizzando in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e tradizioni diverse (sentenza n. 440 del 1995)»[42].

5. L’intreccio populistico in atto

L’anacronismo con cui la Corte ha bollato la norma emblematica del populismo politico-religioso non deve indurre a pensare che, anche per altri profili, questo sia un residuo del passato. Il populismo è una costante nella produzione normativa pur nella società ormai evidentemente multiculturale e multireligiosa, constatata dalla Corte costituzionale. Ancora nell’accordo di revisione del 1984 la persistente assicurazione dell’insegnamento religioso cattolico, sebbene previsto come facoltativo a richiesta dello studente e non più obbligatorio salvo esonero, viene giustificata sul presupposto che «i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano». Di nuovo, è il popolo il protagonista: con il suo patrimonio e quella sua virtuosa omogeneità, che sotto il profilo cultural-religioso è di tradizione cattolica.

E, significativamente, è il «rispetto della tradizione locale», in cui «i valori della religione cattolica sono stati sempre profondamente radicati», che il Governo italiano invoca nel giudizio di fronte alla Grande Camera della Corte europea dei diritti umani[43] per difendere l’esposizione del crocifisso negli edifici pubblici, scolastici in ispecie: un simbolo religioso perciò incompatibile con il principio di laicità, secondo la Cassazione[44], ma compatibile, secondo il Consiglio di Stato, perché esprime «l’elevato fondamento dei valori civili sopra richiamati (…) certamente laici, quantunque di origine religiosa»[45]. Secondo il Governo la scelta di «mantenere il crocifisso è stata stimata come la più adeguata per conservare, in una società pluralistica, la pace religiosa e sociale» in quanto esso «rispecchia un dato culturale ed è coerente con il sentire comune della popolazione italiana», con la «sensibilità media (l’unica riconosciuta dalla legge)». E rivendica la propria «posizione migliore per apprezzare i sentimenti religiosi delle persone in un tempo e in un dato contesto». Con il che il potere politico non solo riesuma il sintagma “sentimento religioso” del vecchio codice Rocco, pur laicamente abbandonato nella riforma del 2006 sui delitti contro le confessioni religiose, ma, con una forma di neo-giurisdizionalismo, dichiara la propria competenza a valutare e tutelare la qualificazione religiosa del sentimento delle persone.

Unità politica ed omogeneità religiosa tornano così a sovrapporsi in materia di simboli religiosi. Il populismo ha bisogno di simboli per agganciare la comunità unanime e pura, che vuole restaurare, all’antico immaginario religioso. E il crocifisso, com’è scritto nella relazione ad una proposta di legge presentata alla Camera da un gruppo di deputati leghisti, «rimane per migliaia di cittadini, famiglie e lavoratori il simbolo della storia condivisa da un intero popolo», fa parte dei ≤simboli e i valori che sono parte integrante della nostra storia, della cultura e delle tradizioni del nostro Paese».  Perciò la proposta populista è di estendere l’esposizione del simbolo non solo nelle «università e accademie del sistema pubblico integrato d’istruzione» (ciò che non osò fare neppure il fascismo, limitatosi ad introdurre il crocifisso nelle sole aule scolastiche oltre che in quelle giudiziarie e negli uffici pubblici in genere) ma in ogni angolo del sistema pubblico[46]. D’altronde, il riferimento di ogni atto politico direttamente al popolo (sedicente «avvocato del popolo» il presidente del Consiglio, «manovra del popolo» la legge finanziaria, così definita da un suo vice) ben è espresso e comunicato con una simbologia religiosa (si pensi al giuramento pronunciato in campagna elettorale dall’altro vicepresidente del consiglio sventolando una corona di rosario e mostrando un volume della Costituzione italiana e del Vangelo: «Mi impegno e giuro di essere fedele al mio popolo, ai 60 milioni di italiani e di farlo rispettando gli insegnamenti contenuti nella Costituzione e nel sacro Vangelo. Io lo giuro, lo giurate con me?»[47]).

Il progetto di appropriazione culturale dell’identità religiosa a sostegno di una politica di reazione all’assetto normativo raggiunto negli ultimi cinquant’anni su temi eticamente sensibili si sovrappone, sia pure in maniera non espressa, anche a dottrine etiche delle religioni, opportunamente secolarizzate e utilizzate strumentalmente. Emblematico è il caso della dottrina sulla famiglia, elaborata da tutte le religioni sul presupposto che essa è la cellula della società: il primo nucleo comunitario della Umma sovrapersonale e sovraterritoriale, secondo l’islam; analogamente, istituzione che «precede qualsiasi riconoscimento da parte della pubblica autorità»[48] nel cristianesimo. Il populismo ne trae la conseguenza che perciò essa è «normalmente capace di equilibri e bilanciamenti che la norma giuridica deve saper rispettare quanto più possibile». Ne occorre, quindi, «una progressiva de-giurisdizionalizzazione», che assegna al giudice un “ruolo residuale” in favore del protagonismo di un mediatore, obbligatorio e a spese delle parti, e, nell’intento di restituire «in ogni occasione possibile ai genitori il diritto di decidere sul futuro dei loro figli», ne stabilisce in realtà non una condivisione ma piuttosto uno spacchettamento dell’affido in nome del pari diritto soggettivo alla genitorialità. Questo distopico esito è proposto nel disegno di legge 735/18 di iniziativa parlamentare leghista sulla premessa della celebre immagine di Jemolo della famiglia come «isola che il mare del diritto può solo lambire»[49]: una similitudine che «ha incontrato una fortuna inquietante»[50] grazie a interpretazioni – invero, fuori del contesto dell’autore – di tipo «comunitarista» intese a sottrarre allo Stato in nome di un pluralismo normativo l’intervento in determinati ambiti della vita sociale, come la famiglia (e a contrastare la rivendicazione, portata avanti soprattutto dai movimenti femministi, del privato come pubblico).

Nella retorica populista l’identità religiosa, ridotta a cultura, si presta pure ad essere presentata come fondamento non solo della comunità nazionale ma anche della più generale civiltà occidentale, in quanto cristiana: ovviamente dando importanza al belonging without believing. In tal caso il “noi” e “loro” è funzionale all’affermazione che solo la cultura occidentale (cristiana, anche se laicizzata) ha dignità culturale, e perciò è universale, mentre le altre non sono culture ma subculture. Questa posizione non compare in enunciati legislativi, è propria del dibattito politico ma non solo dei polemisti[51] perché affiora anche nella giurisprudenza, in cui si riscontrano asserzioni quali: «sub-culture relative ad ordinamenti diversi da quello italiano»[52]. Vero è che prevalentemente la Cassazione ha isolato pronunce del genere, individuando la soluzione dei conflitti in quella che «armonizza i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificatore della centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l’instaurazione di una società civile»[53].

Tale corretta soluzione, tuttavia, viene giustificata con la realtà di una “società multietnica”. Si produce così una confusione tra cultura ed etnia, attraverso la quale s’insinua di nuovo la retorica della civiltà giuridica (dell’etnia) occidentale come universale. Nella molto discussa sentenza sul kirpan[54] si argomenta, invero, che«In una società multietnica», appunto, «la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l’identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell’articolo 2 della Cosituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante. È quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamentela compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina». Si tratta di un vistoso obiter dictum, la condanna del porto del kirpan essendo argomentata (sia pure in maniera non convincente) tecnicamente con riferimenti normativi e giurisprudenziali. Aver utilizzato, come già nelle altre pronunce riferite, i luoghi comuni populistici[55], adattati al mondo globalizzato, non delinea, certamente, un diritto vivente ma evidenzia il pericolo del formarsi di fronte all’ondata populista di quella «funesta docilità degli animi appassionati all’affermare appassionato di molti», che mise nei guai il buon Renzo[56].

6. L’assalto dell’anti-pluralismo

Per tornare al complesso di Cenerentola si può evincere dalla breve analisi fatta che, ferma restando la difficoltà di rinvenire un piede che la calzi perfettamente, la scarpa del populismo politico è fatta di una materia prima non sempre considerata nella sua importanza: che si potrebbe definire il senso del religioso o del sacro. Questo anima la visione organica del popolo intero, simile al corpo umano (come nell’apologo di Menenio Agrippa e nelle lettere di Paolo), un macro-antropo che si regolerebbe naturalmente senza bisogno di sovrastrutture giuridiche. Il populismo, in ultima analisi, adombra una sorta di diritto naturale – un riflesso di quello divino – precedente quello legislativo, statale, e di questo più efficace, come per esempio ritenuto nella citata proposta di legge sull’affidamento dei figli.

L’appropriazione culturale di dottrine e simboli religiosi si risolve normalmente in un’espropriazione del significato autentico che ad essi danno le organizzazioni religiose in quanto “quel che è di Dio” viene ideologizzato. Così il populismo assume le vesti di una nuova fede secolare ma strutturata come le religioni: una leadership infallibile, che detiene il monopolio della retta linea politica ed è dotata perciò del potere disciplinare esclusivo fino alla “scomunica” del dissenziente. Una visione religiosa, analogamente secolarizzata, è, del resto, quella di un popolo unitario, non attraversato da divisioni, con individui in rapporto diretto, e sottomesso, con il sovrano o la leadership senza l’intermediazione di una pluralità di formazioni sociali. L’uguaglianza dei cittadini riposa sulla loro comune identità, non ne presuppone la diversità. In quest’ottica, s’è osservato, il populismo diventa una minaccia per la democrazia perché ne scardina il fondamento della irriducibile diversità dei cittadini per opinioni politiche, condizioni personali e sociali, lingua e così via, secondo le previsioni dell’articolo 3 della Costituzione[57].

Questa visione antipluralista si scontra frontalmente con quella pluralista dello Stato costituzionale di diritto. Qui la personalità del singolo si svolge nelle formazioni sociali e la sovranità popolare è la risultante di una serie di conflitti e compromessi tra i soggetti sociali, di cui la Costituzione detta la disciplina: «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Limiti che, com’è noto, possono giungere addirittura a paralizzare il potere legislativo, come per esempio in materia di trattamenti sanitari per cui «la legge non può in alcun modo violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» (articolo 32 Cost.). Si tratta di quei campi dominati dalla coscienza di ciascun individuo, nei quali la maggioranza non ha ingresso e potere decisionale: la parte di popolo che essa rappresenta non ha modo di esercitare la sua sovranità, perché questa non si coagula ma si frammenta e ritorna in capo a ciascun soggetto. La sovranità popolare, invece, nella visione populistica si esercita tendenzialmente in maniera diretta senza filtri e senza limiti di materia[58]. All’insofferenza verso il pluralismo delle formazioni sociali si accompagna, quindi, quella verso l’equilibrio tra i poteri proprio del costituzionalismo.

Un’insofferenza che i due populismi, religioso e politico, condividono. La visione religiosa non conosce la divisione dei poteri. Il papa cattolico, emblematicamente, è dotato della plenitudo potestatis e assomma in sé la triplice funzione legislativa, giudiziaria e di governo. Ciò spiega la mancanza di un organo legislativo collegiale nella Chiesa[59]. Analogamente, il populismo politico svolge un’opposizione sempre più esplicita nei confronti del Parlamento, di cui non solo preconizza il superamento per obsolescenza in un futuro più o meno prossimo ma ne attua in concreto lo svuotamento, riducendone progressivamente l’attività legislativa e trasferendola, attraverso leggi di delega con generici princìpi e criteri direttivi, al Governo[60].

L’insofferenza poi è marcata nei confronti del potere giudiziario, mossa da una comune diffidenza nei confronti dell’attività interpretativa dei giudici. Si può ricordare, per il verso religioso, il caso del vescovo segretario della Conferenza episcopale italiana, che accusò senza mezzi termini di ribellione alla legge il giudice che aveva ritenuto autorizzabile la diagnosi pre-impiantatoria degli embrioni[61]. Numerosi, per l’altro verso, sono i casi politici. Forse il più emblematico è quello del diniego di autorizzazione a procedere per sequestro di persona di 177 immigrati nei confronti di un ministro per aver egli agito nel preminente interesse pubblico. Questa asserita causa di giustificazione di carattere generale, che implica quindi il riconoscimento dell’esistenza della condotta antigiuridica sottraendone la cognizione alla magistratura, trova populisticamente la sua ratio nel consenso elettorale ricevuto dalla maggioranza, che la può utilizzare ad libitum [62]. S’è abbattuta in tal caso «la più grande barriera contro gli eccessi della democrazia», costituita secondo Tocqueville dai «legisti» contro la «tirannide della maggioranza»[63].

7. L’antidoto della laicità

Possiede gli anticorpi per contrastare questa distorsione del diritto lo Stato costituzionale, in particolare il nostro sorto dalla rottura con un populismo di tipo totalitario? Con riguardo specificamente all’influenza del populismo religioso, oggetto di queste riflessioni, esso in effetti offre la barra del dualismo tra i “poteri” spirituale e temporale contro la “norma ad una dimensione”[64]. Il dualismo è un prodotto della storia, che per il costituzionalismo non è negoziabile e non va perciò disperso in campo giuridico. È ciò che l’ebreo, e perciò “diverso”, Taubes voleva far comprendere al totalitario Schmitt: «Capite che cosa volevo da Schmitt? Volevo mostrargli che la divisione fra potere terreno e potere spirituale è assolutamente necessaria e che senza questa delimitazione l’Occidente esalerà il suo ultimo respiro. Questo volevo che capisse, contro il suo concetto totalitario»[65]. Ed è ciò che il costituzionalismo esprime con il principio fondamentale di laicità dello Stato nella sua accezione essenziale di “distinzione di ordini distinti”, per cui lo Stato incontra il «divieto di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso per rafforzare l’efficacia dei propri precetti»[66]: il che implica il divieto di  adottare norme civili vuoi in esecuzione di precetti religiosi vuoi in traduzione secolarizzata di visioni del mondo religiose. La laicità, intesa come pluralistica e quindi non esclusivista à la française, cieca alle differenze, consente di non disconoscere l’esistenza o la legittimità delle differenti culture e identità dei vari soggetti sociali ed è idonea a garantire le distanze tanto quanto a stabilire i punti di contatto tra individui e gruppi in antagonismo pluralistico.

Può rappresentare questo principio, rinvenuto dalla Corte costituzionale negli strati profondi della Costituzione, un antidoto anche nei confronti dell’intreccio tra populismi sotto il profilo qui considerato? Teoricamente sì, perché il carattere di principio supremo, non modificabile neppure con procedimento di revisione costituzionale, riconosciutogli dalla Corte e il rispetto delle diversità e del pluralismo, che ne costituisce il contenuto, configurano chiaramente uno dei limiti posti all’esercizio della sovranità popolare. Ma non è facile. Finora la laicità s’è misurata soprattutto con il suo oppositore storico: il confessionismo, ispirato in Italia principalmente al cattolicesimo. Su questo terreno è stata valorizzata dalla giurisprudenza e ha dato buona prova di funzionalità, benché non bisogna trascurare l’indebolimento del clericalismo dacché il Pontefice attuale ha riconosciuto le conseguenze del pluralismo: «rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti», con l’unico limite che tale rispetto non «metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose» (il Papa parla non solo pro domo sua, dal momento che cita anche sinagoghe e moschee)[67]. Certo, nuovi fondamentalismi avanzano, in particolare gli islamismi che prendono di mira proprio il dualismo sul quale si basano gli ordinamenti occidentali, ma non c’è motivo di temere oltre misura per la tenuta della laicità: anzi la giurisprudenza, come s’è visto, dimostra di essere talvolta finanche oltranzista.

Vero è, d’altro canto e in generale, che nello Stato secolarizzato la religione viene liberata dalla sua funzione di legittimazione del potere politico perché, come ha scritto di recente Habermas, «la responsabilità dell’integrazione dei cittadini passa ormai dalla religione alle norme fondamentali dello Stato costituzionale, che s’iscrivono in una cultura politica comune»[68]. Senonché il populismo religioso esercita una forte capacità di attrazione sulle forze politiche che esattamente quelle norme fondamentali vogliono scardinare in nome del ritorno ad un passato in cui il popolo era asseritamente pacificato in natura e non per effetto della posizione di quelle norme.  Di conseguenza la laicità deve guardarsi dal “fuoco amico” degli stessi organi dello Stato che invece dovrebbero rivendicarla e rispettarla. Significativo è l’esempio del crocifisso, di cui s’è riferita la proposta di obbligatoria esposizione in ogni luogo pubblico: come ha ben osservato il direttore della rivista dei gesuiti «La civiltà cattolica», esso «è usato come segno dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto al passato: se prima si dava a Dio ciò che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare ad impugnare e brandire quel che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici»”[69].

Per tener fermo il disegno costituzionale occorre allora un grande ed inedito sforzo politico e culturale, ma consapevole che i populismi non nascono semplicemente dalla prava volontà di forze politiche reazionarie nei confronti del modello costituzionale, e finanche liberale, dello Stato. Certo, ci sono gli imprenditori della paura, ma la paura esiste a causa del disagio sociale determinato da una crescita economica diseguale e dalla diffusa ansia demografica per l’”incontro migratorio”[70] che si va preparando tra Africa ed Europa ed è foriero di una scommessa sulla tenuta del rapporto tra eguaglianza e diversità. Se non sapranno sostenere il confronto con questi problemi reali il principio liberale di separazione e il pluralismo sociale saranno scossi fin dalle fondamenta. E con essi la laicità, che come principio giuridico è estremamente vulnerabile. La laicità, invero, funzionerà come antidoto al populismo tanto più a lungo e con maggior vigore quanto i cittadini crederanno che sia miglior partito lottare per essa.

[1] H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, (1929), in Id., La democrazia, Il Mulino, Bologna, 1995, pp. 58 ss. e p. 151.

[2] Cipriano, De Oratione Dominica, XXIII, in Patrologia latina, a cura di J.P. Migne, in documentacatholicaomnia.eu, IV, 553, attualizzato dalla citazione che ne ha fatto il Concilio Vaticano II, cost. Lumen gentium (1965).

[3] L. Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano, 2017, pp. 131 ss., cui si rinvia anche per un prospetto dei risultati ottenuti da partiti populisti in diversi paesi europei.

[4] Riferimenti in N. Colaianni, Il concetto di religione nella giurisprudenza costituzionale, in forumcostituzionale.it, 2015, ora in Id., La lotta per la laicità. Stato e Chiesa nell’età dei diritti, Cacucci, Bari, 2017, pp. 85 ss.

[5] “We must not suffer from a Cinderella complex, by which I mean the following: that there exists a shoe – the word ‘populism’ – for which somewhere there must exist a foot. There are all kinds of feet which it nearly fits, but we must not be trapped by these nearly-fitting feet. The prince is always wandering about with the shoe; and somewhere, we feel sure, there awaits it a limb called pure populism» (http://berlin.wolf.ox.ac.uk/lists/bibliography/bib111bLSE.pdf).

[6] C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 61.

[7] Cfr. K. Calamur, A Short History of ‘America First’,   in theatlantic.com, 21 gennaio 2017. Intorno a questi caratteri si svolge la trama del romanzo fantapolitico di P. Roth, Il complotto contro l’America, Einaudi, Torino, 2004.

[8] «He promised that America’s example “will shine for everyone to follow”, but he defined that example not in terms of our liberties or ideals, but in terms of unity» (J. Goldberg, What Trump Means When He Says, “America First”, in nationalreview.com, 25 gennaio 2017.

[9] Queste immagini percentuali, rinomate per l’uso fattone dai manifestanti di Occupy Wall Street, si devono – per vero, in una prospettiva economica di prevenzione di politiche populistiche - a J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Einaudi, Torino, 2013, pp. XI e 3 ss.

[10] L. Zanatta, Il populismo, Carocci, Roma, 2013, pp. 18 ss.

[11] J-W. Müller,  Capitalism in One Family, in London Review of Books, 2016, n. 23, p. 10. (il titolo si riferisce al populismo di Trump, ma nello studio si esaminano anche le posizioni di Farage, Berlusconi e Grillo).

[12] Il populismo perciò non è di destra, di sinistra o di centro, come dimostra per l’Italia M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017.

[13] Il popolo può «develop a singular judgment, a singular will, and hence a singular, unambiguous mandate»: J-W. Müller, What Is Populism?, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2016, p. 77.

[14] Cfr. T. Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, Luiss University Press, Roma, 2017, in particolare per gli effetti sulla democrazia pp. 209 ss.

[15] «Populism is the enemy of pluralism, and thus of modern democracy (…),  which stands or falls with the protection of pluralism»: W.A. Galston, Anti-Pluralism: The Populist Threat to Liberal Democracy (Politics and Culture),  Yale University Press, New Haven & London, 2018., p. 11.

[16] G. De Rita – A. Galdo, Prigionieri del presente. Come uscire dalla trappola della modernità, Einaudi, Torino, 2018, p. 71.

[17] Secondo il quale «L’io valgo quanto te è un mezzo utile per la distruzione delle società democratiche» (C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche e il brindisi di Berlicche. Corrispondenza immaginaria e altri scritti, Jaca book, Milano, 1990, p. 147).

[18] Y. Mounk, Popolo vs democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 49.

[19] Art. 4 Rd 1731/1930, poi dichiarato illegittimo per contrasto con il principio della libertà di associazione da Corte cost. 239/1984.

[20] G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia. Dal diritto all’uguaglianza al diritto alla diversità, Einaudi, Torino, 1983, p. 81.

[21] Perentorio l’ex giudice della Corte suprema egiziana M. S. al-‘Ašmāwī, L’Islam politico, nell’antologia curata da P. Branca, Voci dell’Islam moderno. Il pensiero arabo-musulmano fra rinnovamento e tradizione, Genova, Marietti 1820, 2001, pp. 292 ss.: «Dio voleva che l’islam fosse una religione, ma gli uomini hanno voluto farne una politica».

[22] F. Calasso, Il diritto comune come fatto spirituale, 1948, in rivistaitalianaperlescienzegiuridiche.it, 2015. Conf., anche se critico sull’uso insistito dell’aggettivo “legislativo”, P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 229.

[23] Pio XII (E. Pacelli), Enc. Mystici corporis Christi , 29.6.1943, in vatican.va.  

[24] H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas, Milano,1994, p. 392.

[25] V. Del Giudice, Nozioni di diritto canonico, Giuffrè, Milano, 1962, p. 54.

[26] C. Schmitt, Cattolicesimo romano e forma politica, Il Mulino, Bologna, 2010 (1923), p. 38.

[27] Si può ricordare la definizione classica di Roberto Bellarmino della Chiesa come «l’assemblea degli uomini, che professano la medesima fede cristiana, tenuta insieme dalla comunione dei medesimi sacramenti, sotto la guida dei legittimi pastori e specialmente del romano Pontefice» (De Controversiis, III, De Ecclesia, II, Venezia, 1596).

[28] Conc. Vat. II, cost. Lumen gentium, cit., n. 13.

[29] M.M. Taha, La seconda missione dell’Islam, Bologna, Emi, 2002, pp. 6 ss., il quale per queste idee innovatrici fu condannato a morte e giustiziato il 18 gennaio 1985.

[30] S. Al-Azm, La tragedia del diavolo. Fede, ragione e potere nel mondo arabo, Luiss University Press, Roma, 2016, p. 15.

[31] Zanatta, Il populismo, cit., pp. 48 ss.

[32] Solo nel 1984, nell’accordo di revisione del Concordato lateranense, “si considera non più in vigore” quel principio

[33] Pio XI (A. Ratti), Allocuzione ai professori e studenti dell’Università cattolica, 13 febbraio 1929, in vatican.va

[34] A. Rocco, Chiesa e Stato, in Il resto del Carlino, 4 aprile 1922.

[35] «La tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo»: B. Mussolini, Scritti e discorsi, II, La rivoluzione fascista, 23 marzo – 28 ottobre 1922, Hoepli, Milano, 1934, pp. 183 ss.

[36] Pio XI (A. Ratti), Allocuzione, cit.

[37] Atti parlamentari, Camera, Discussioni, leg. XXVIII, tornata 13 maggio 1929, pp. 129 ss.

[38] Pio XI (A. Ratti), Chirografo al card. Pietro Gasparri, 30 maggio 1929, in vatican.va.

[39] Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, citata in V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, VI, Utet, Torino, 1993, p. 6

[40] Corte cost. 30 novembre 1957, n. 125.

[41] Cass. 24 febbraio 1967, Pasalini; 23 novembre 1967, Nobilini.

[42] Corte cost. 20 novembre 2000, n. 508

[43] Corte europea dei diritti umani, 18 marzo 2011, Lautsi ed altri c. Italia, che “assolverà” l’Italia per il pluralismo educativo comunque assicurato nelle scuole. Per una sintesi critica dell’intera vicenda si può vedere, volendo, N. Colaianni, Diritto pubblico delle religioni. Eguaglianza e differenze nello Stato costituzionale, Il Mulino, Bologna, 2012, pp. 79 ss.

[44] Cass. 6 aprile 2000, Montagnana.

[45] Cons. Stato 13 febbraio 2006, n. 556. Pochi mesi prima una motivazione storico-secolarizzante del genere, a giustificazione di un monumento ai dieci comandamenti per il loro ruolo formativo dell’ordinamento giuridico statunitense, era stata rigettata da U.S. Supreme Court, McCreary County v. Aclu of Kentucky, 545 U.S. 844 (2005).

[46] «Negli uffici delle pubbliche amministrazioni e degli enti locali territoriali, nelle aule nelle quali sono convocati i consigli regionali, provinciali, comunali, circoscrizionali e delle comunità montane, nei seggi elettorali, negli stabilimenti di detenzione e pena, negli uffici giudiziari e nei reparti delle aziende sanitarie e ospedaliere, nelle stazioni e nelle autostazioni, nei porti e negli aeroporti, nelle sedi diplomatiche e consolari italiane e negli uffici pubblici italiani all’estero» (A.C. 387/2018).

[47] Cfr. milano.corriere.it, 24.2.2018. Per le citazioni precedenti v. ilblogdellestelle.it, 11.12.2018; ansa.it, 5.6.2018.

[48] Catechismo della Chiesa cattolica, in vatican.va, n. 2202.

[49] La frase completa è «un’isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto» perché «La famiglia è la rocca sull’onda, ed il granito che costituisce la sua base appartiene  al mondo degli affetti, agl’istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto» (A. C. Jemolo, La famiglia e il diritto, ora in Id., Pagine sparse di diritto e storiografia, Giuffrè, Milano, 1957, p. 241).

[50] S. Caprioli, La riva destra dell’Adda, lettura a F. Vassalli, Del Ius in corpus del debitum coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, Forni, Bologna, 1981, p. 4. Ma non mancano letture non riduttive: cfr. anche per altri richiami E. Dieni, Il diritto come «cura». Suggestioni dall’esperienza canonistica, in Statoechiese.it, 2007.

[51] Per non trarre riferimenti dal dibattito corrente basta richiamare O. Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, Milano, 2001, p. 91.

[52] Cass. pen. 3398/1999 in una sentenza peraltro convincente nel suo dispositivo. Correttamente una settimana dopo Cass. civ. 12077/1999 parla di «diversità culturale». Ma dieci anni dopo la posizione stravagante ricompare in Cass. pen. 32824/2009.

[53] Cass. pen. 14960/2015.

[54] Cass. 24084/2017.

[55]Cfr. A. Bernardi, Populismo giudiziario? L’evoluzione della giurisprudenza penale sul kirpan, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2017, n. 2.

[56] A. Manzoni, I promessi sposi, Rizzoli, 2014 (1840), cap. XIII, p. 435.

[57] Cfr. Müller, What Is Populism? , cit., p. 3: «Populism becomes a threat to democracy, whichrequires pluralism and the recognition that we need to find fair terms of living together as free, equal, but also irreducibly diverse citizens.».

[58] Incontrerebbe per esempio, solo i limiti del referendum abrogativo quello propositivo, di cui alla proposta di legge costituzionale A.C. 1173/2018 approvata in prima lettura alla Camera: esso perciò potrebbe avere ad oggetto anche i diritti delle minoranze e le fattispecie penali.

[59] Sulla svolta a partire dal secolo XIX in favore della visione monocratica e autoritaria del Ministero petrino v. R. Lill, Il potere dei papi. Dall’età moderna a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2008. 

[60] Nel suo primo anno l’attuale Parlamento ha ridotto l’attività legislativa di circa due terzi e, se saranno approvati dieci disegni di legge di delega già presentati, “ci si potrà chiedere allora che cosa è restato al Parlamento” (S. Cassese, Elezioni, un anno dopo, in Corriere della sera, 3 marzo 2019).

[61] La dichiarazione di mons. Betori è reperibile in Agensir.it del 25 settembre 2007: «Mi sembra molto strano che un giudice possa giudicare a prescindere da una legge e da una sentenza della Corte costituzionale, ed emettere poi un giudizio che sconfessa sia la legge, sia la sentenza». La sentenza criticata era di Trib. Cagliari 24 settembre 2007, poi seguito da Trib. Firenze 17 dicembre 2007.

[62] Cfr. il limpido intervento di L. Ferrajoli al XXII congresso di Magistratura democratica, 1 marzo 2019, Il populismo penale nell’età dei populismi politici, in questo fascicolo.

[63] A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1992 (1835-1840), p. 268, che così continua a p. 272: «Quando il popolo americano si lascia trascinare dalle passioni e si abbandona alle proprie idee, i legisti gli fanno sentire un freno quasi invisibile che lo modera e lo trattiene».

[64] P. Prodi, Unastoria della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, il Mulino, Bologna, 2000, spec. pp. 480 ss.

[65] J. Taubes, La teologia politica di san Paolo, Adelphi, Milano, 1997, p. 186.

[66] Corte cost. 334/96 (ma cfr. ovviamente la prima sentenza 203/1989).

[67] Francesco (J. M. Bergoglio), esortazione Evangelii gaudium, in vatican.va, 24 novembre 2013, n. 203.

[68] J. Habermas, Filosofia e religioni sfidano la globalizzazione, a cura di M. Foessel, in Vita e pensiero, 2016, n. 2, p. 54.

[69] A. Spadaro, Il Popolo? È un progetto comune, colloquio con G. Genna, in L’Espresso, 3 febbraio 2019, n. 6, p. 41.

[70] L’espressione è di S. Smith, Fuga in Europa. La giovane Africa verso il vecchio continente, Einaudi, Torino, 2018, p. 109, che stima in 150 milioni gli africani che partiranno per l’Europa entro il 2050.