Magistratura democratica

Clinica legale della disabilità, terzietà e giustizia

di Paolo Heritier

A partire dal dibattito sull’inserimento della disabilità come “nuova frontiera della giustizia”, fondata sull’accostamento proprio della teoria della capacità di Martha Nussbaum, l’articolo si propone di proporre un criterio di misurazione altro da quello meramente economico-rawlsiano per l’inclusione del disabile nella società. Legittimato dall’impostazione innovativa della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, il criterio proposto è quello di un accostamento disciplinare unitario al tema della disabilità, anche tramite il metodo clinico legale di insegnamento universitario, similmente a quanto avvenuto nel campo della bioetica. Metodo al cui interno trova posto forse un rovesciamento anche del senso della “terza” missione dell’Università, intesa come cura del luogo del Terzo dentro e fuori l’Università.

1. Oltre le misurazioni della disabilità di Rawls e Nussbaum?

Che la questione della disabilità sia percepita ormai come questione centrale di riflessione sulla giustizia appare ormai indicazione scontata, quasi banale. Non solo nel senso che si pongono radicali problemi di giustizia per il modo in cui le amministrazioni, le imprese, i giudici, gli Stati, tutti i cittadini considerano e trattano i disabili, in altre parole per come, al di là delle grandi dichiarazioni di principio, in realtà, nei tribunali, negli ospedali, nelle scuole, nelle imprese e nelle case è ancora percepito il problema della disabilità. Residua qui ancora quel perbenismo e fascino del politicamente corretto per cui il disabile dovrebbe solo avere diritti pari a quelli del (presunto) non disabile. Per inciso, l’adozione di questa terminologia, parlare di disabili e non disabili invece che di abili, disabili, diversamente abili, e molte altre denominazioni della realtà fenomenologica normalmente conosciuta come “disabilità”, dovrebbe essere giustificata adeguatamente, ma non è questa la sede, e mi limiterò a enunciare due punti in tema:

1) qualsiasi denominazione della galassia di situazioni profondamente differenti tra loro, spesso neppure confrontabili, denominata abitualmente disabilità ha senso solo se intesa come provvisoria rispetto a una determinata situazione (soggettiva, culturale, linguistica), come espressione di una evoluzione inarrestabile (ad esempio prima handicap, poi disabilità, poi diversabilità ecc.). Definire, una volta per tutte, la terminologia mi pare da un lato impossibile e concettualmente errato.

2) In questa condizione, a partire dalla lettura filosofico-giuridica del fenomeno della disabilità, mi paiono esservi buone ragioni per adottare una terminologia di tipo “negativo”, rovesciando l’impostazione del tema. A fronte dei deliri transumanisti e postumani oggi considerati come le “normali” prosecuzioni dello scientismo moderno[1] e del progresso scientifico, il fenomeno della disabilità mi pare antropologicamente manifestazione, sia pure del tutto peculiare e bisognosa di specifica attenzione e specifiche azioni normative e politiche, della condizione strutturalmente mancante dell’essere umano[2]. Pertanto occorrerebbe parlare di diverse forme di disabilità proprio dell’uomo, fondando per una “via negativa” la condizione del disabile (tornerò sul punto) e non facendo riferimento a una presunta condizione di “‘abilità” di qualcuno, se non come condizione meramente temporanea e provvisoria.

In ogni caso, chiudendo il complesso inciso, che ne richiederebbe a sua volta molti altri, e riprendendo il filo del discorso, come è ampiamente noto, dopo l’adozione, sul piano giuridico, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità e, sul piano teorico, la pubblicazione pressoché contemporanea del volume di Martha Nussbaum Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie[3], la questione della disabilità (e più in generale della vulnerabilità) è divenuta un elemento centrale della contemporanea teoria della giustizia. Nel testo della Nussbaum, infatti, il problema della disabilità è legato a una critica radicale al più rilevante contributo sul problema della giustizia negli ultimi cinquant’anni: il modello rawlsiano del “velo di ignoranza” come tentativo di fondare una teoria della giustizia come equità.

Le parole della filosofa indo-americana non possono essere fraintese: «… Rawls omette dalla situazione della scelta politica fondamentale le forme più estreme di bisogno e di dipendenza che gli esseri umani possono provare, sia fisiche sia mentali, sia permanenti sia temporanee. Questa non è una svista: è un disegno intenzionale. Come vedremo, Rawls riconosce il problema posto dall’inclusione dei cittadini con menomazioni gravi, ma sostiene che tale questione possa essere risolta in un momento successivo, dopo che i principi politici fondamentali sono stati scelti. Questo differimento fa una grande differenza nella sua concezione della distribuzione politica»[4].

La ragione per cui Rawls non include il disabile nel momento della finzione del contratto sociale fondatore è, fondamentalmente, il suo essere legato a una concezione ancora tradizionale del contrattualismo, secondo la quale le ragioni per discostarsi dallo stato di natura è il trarre benefici della cooperazione reciproca, e ove i benefici sono definiti con una visione economica assai tradizionale[5]. Includendo il disabile nel suo modello verrebbe meno «un mezzo semplice e chiaro di misurazione di chi è il meno agiato nella società»[6], con gravi conseguenze sul profilo del reciproco vantaggio in casi di situazioni di disabilità rare o gravi, ove le misure adottate non posso essere difese con argomenti di tipo economicistico, ma morali. Ed è esattamente quello che la Nussbaum, appoggiandosi sulla dottrina economica di Sen, cerca di compiere: sviluppare una lista della capacità che presuppone da un lato l’adozione di un argomento morale e non economico, legato a una visione più ampia dell’umano, ed in grado di consentire al tempo stesso qualche forma di misurazione utile per l’adozione di politiche pubbliche. Al tempo stesso Nussbaum si rende perfettamente conto della provvisorietà e della modificabilità di questa lista di capacità, da non confondere con una sorta di nuovo diritto naturale (se concepito come fisso e stabile). Come afferma esplicitamente, ad esempio a proposito del livello di soglia richiesto da ogni capacità richiesta ad ogni cittadino, «l’approccio, nell’elaborazione proposta dalla mia teoria filosofica, specifica questa soglia solo in modo generale e approssimativo: sostengo, infatti, che il livello di soglia possa spostarsi leggermente nel corso del tempo e che, per essere appropriato alle capacità, possa essere diversamente stabilito nei suoi confini, nelle diverse società, in relazione al proprio passato storico e alle proprie condizioni attuali»[7].

Senza poter estendere in questa sede l’analisi critica dell’accostamento delle capacità, qualche considerazione embrionale può essere svolta. Per Nussbaum tale accostamento è semplicemente un tipo di approccio giuridico, proprio dei diritti umani[8], dottrina politica relativa a un modo umanistico di concepire i diritti fondamentali e non solo una teoria morale fondata su valori[9]. Esso tiene conto delle necessità di una cura individualizzata[10] fondata su una concezione aristotelica e non kantiana della dignità, che riconosce l’evoluzione del corso della vita della dipendenza da altri (prima da bambini, e in maniera diversa nella terza età)[11], richiedente tuttavia una qualche lista delle capacità sia pur modificabile (“provvisoria e aperta”[12]), come si è visto. 

2. Per una svolta affettiva tra giustizia e disabilità

Muovendo da un’altra concezione critica della prospettiva rawlsiana[13], combinata con la prospettiva della cosiddetta svolta affettiva[14], mi pare possibile, pur riconoscendo l’interesse della prospettiva di Nussbaum, provare a formulare ipotesi di ricerca che, rilevando alcuni elementi critici nella sua prospettiva, provino ad andare oltre, indicandone anche l’utilità per l’individuazione di una metodologia di ricercazione e insegnamento per la clinica legale della disabilità e della vulnerabilità.

Dupuy rileva come l’accostamento rawlsiano sia riferibile più ad automi che a persone concrete. L’epistemologo di Stanford nota come Rawls «costruisce esattamente i suoi consociati sotto velo di ignoranza come degli artefatti – è l’espressione (“artificial person”) che egli utilizza nei suoi testi più recenti. Questi artefatti ignorano buona parte di quel che sanno le loro controparti in carne ed ossa»[15]. Al problema dell’artificializzazione dell’umano, già insisto nella prospettiva hobbesiana del pensiero come calcolo e dalla successiva meccanizzazione della mente indotta dallo sviluppo della cibernetica e del suo sviluppo nelle scienze cognitive[16], oltre a Rawls, non sfuggono neppure dunque contrattualismo e positivismo giuridico, anch’esso legato inevitabilmente alle letture di Hobbes, notoriamente operate da Kelsen e da Bobbio nel dar vita al paradigma che ha dominato la cultura giuridica della seconda metà del secolo scorso.

In realtà, in relazione allo sviluppo delle neuroscienze, già Damasio, nei suoi L’errore di Cartesio[17] e Alla ricerca di Spinoza[18], ha esaurientemente indicato come il modello dualista concernete la separazione tra mente e corpo sia sempre più problematico rispetto allo sviluppo delle neuroscienze contemporanee[19]. In Archeologia della mente, Jaak Panksepp, studiando il rapporto tra il cervello animale e quello umano – proprio un’altra delle questioni indicate accanto alla disabilità da Nussbaum come le attuali frontiere della giustizia – ha posto il problema della qualità affettiva dei sentimenti di base sollevando la questione di «come l’esperienza grezza – la coscienza fenomenica per dirla con i filosofi – emerge dalle attività cerebrali»[20], inteso come lo hard problem delle neuroscienze in generale. La prospettiva di Nussbaum, in fondo, cerca di compiere, nella sua critica a Rawls, un itinerario simile, dal punto di vista della riabilitazione delle scienze umane contro i miti della misurazione economica per mantenere democratiche la società e i sistemi educativi[21].

In questa prospettiva, forse oltre la stessa impostazione della Nussbaum, il tema della disabilità, inteso come questione di giustizia, deve a mio avviso essere riletto a partire dalla svolta affettiva nel diritto e anche in metafisica. Come indica Sequeri nel già citato Deontologia del fondamento, oltre il classico linguaggio ontologico del diritto naturale e del lessico dei trascendentali, la tradizionale ontologia del fondamento, recependo le istanze critiche di Spinoza e di Nietzsche, nel tentativo di superare la prospettiva positivistica che riduce il giuridico a mero sistema di forze e di interessi, pone la questione della giustizia come sovratrascendentale del senso, come una deontologia del fondamento fondata sulla rivalutazione etica dell’Altro (oltre che sulla nozione di generazione, ma non è possibile qui sviluppare il punto). La tradizionale categoria di fondamento, in altre parole, deve assumere un tratto affettivo, relazionale, indicando come il sistema degli affetti, lungi dal costituire un mero riferimento estetizzante, politicamente o semplicemente buonista, costruisca un sistema di forze in grado di intervenire proprio sul piano della riattivazione del legame sociale: ponendosi oltre la mera riduzione contrattualistica e utilitaristica del patto sociale e anche oltre alla posizione di Nussbaum. Non si tratta però di sostituire alla retorica dell’identità una nuova contro retorica dell’Alterità, nota Sequeri, ma di porre una prospettiva che indichi come il tema dell’affezione e della relazione sia il luogo dell’emergere della giustizia affettiva nel luogo stesso del fondamento del patto sociale: «Come una volta l’Uno fu accreditato di essere principio di perfezione e di somma bontà, adesso lo è l’Altro, ma lo spostamento è puramente formale. Credo che si debba essere più pazienti, più generosi, fare più fatica e fare un buon lavoro qui per mostrare, intrinsecamente dal punto di vista del Logos, che la questione che decide la moralità è la questione della giustizia degli affetti»[22]. Proprio qui si inserisce il tema della svolta affettiva e, seguendo, e forse oltrepassando, la stessa prospettiva della Nussbaum, il ruolo della disabilità e della Terzietà nel progetto della clinica legale. L’inclusione del disabile è l’inclusione di ogni altro in un contesto sociale che mostra come nessuno può vivere da solo e bastare a se stesso e in cui “la vita indipendente” di ciascun (presunto abile) è necessariamente limitata, contro i miti individualistici di certo contrattualismo ma anche di quelli collettivistici e nihilistici postmoderni che rifiutano la stessa categoria di soggetto. 

Il tema della disabilità, può quindi essere letto a partire, pertanto, non solo dalla prospettiva della capacità, che potrebbe riproporre un qualche criterio di misurazione, certamente più ampio di quello economicistico-utilitarista in qualche modo criticata e ispirata a una concezione di persona umanistica, ma non suscettibile di risolvere ultimamente il problema della necessità di un criterio di distinzione tra chi giunge a determinati standard di prestazione e chi non vi giunge[23]. Pur se problematico e certo non ancora sufficientemente individuato, appare opportuno provare a ricercare un tale criterio con gli strumenti di valutazione della giustizia propri della cultura giuridica, rivolgendosi quindi alla figura della Terzietà.

Se la teoria della capacità per Nussbaum è una modalità di ripensare i diritti umani del disabile in chiave inclusiva, il rovesciamento di prospettiva che mi pare interessante è quello di configurare il progetto di inclusione del “disabile” come l’opposto della robotizzazione dell’umano proposto a tutti dalla società contemporanea.  Nel mio testo dedicato al concetto di “dignità disabile”[24], ho provato a proporre l’idea, certo equivocabile[25], che la disabilità sia uno stato che in certi momenti della vita, è proprio di ciascun uomo, almeno nella fase che precede la morte, qualora questa giunga in maniera non improvvisa o in giovane età. La condizione di disabilità è pertanto una situazione non “patologica”, ma paradossalmente “normale” dell’umano, anche se fortemente problematica e mai desiderata: il linguaggio per parlarne non dovrebbe pertanto essere espresso in termini di abilità, diversabilità, capacità, ma partendo dall’idea di un’eguaglianza fondata sulla prospettiva della necessaria condivisione di ciascuno almeno di momenti o periodi di “disabilità” di livello diverso nell’arco della vita – certo in cui la diversità, il momento, le condizioni variano in maniera tale da quasi non poter neppure concepire la categoria unitariamente e dal non consentire di assimilare questa situazione a chi lo è in modo permanente. L’unica maniera di negare il problema sarebbe appunto quello di sfuggire il profilo della mancanza e della disabilità propria di ogni vita nella società cosiddetta postmortale[26] della meccanizzazione della mente e dell’uomo concepito come l’altro del robot, non più l’altro speculare  pensato a immagine e somiglianza del divino o dell’animale[27], ma della macchina, sognando un uomo trasformatosi in mente/software codificabile (e pertanto indefinitamente replicabile o “scaricabile” su qualsiasi hardware non corporale) sulla base della centralità “cartesiana” del pensiero concepito come calcolo, e non come “affetto”.

In altre parole, neppure la prospettiva qui abbozzata, dell’abbandonare il linguaggio “positivo” della “lista di capacità” per adottare la prospettiva dei differenti gradi di disabilità propri di ognuno dei consociati costituenti la società (e dunque il patto fondatore di essa) può essere pensata come risolutiva di una questione, quella della disabilità, che nella sua drammaticità non è risolvibile semplicemente mediante l’adozione di misure, di cure, ma che rivela un fondo che può divenire (ma non necessariamente) uno degli abissi della soggettività propria dell’individuo mortale e che pur deve fondare un modo di vivere sociale e azioni positive per l’inclusione di tutti, nel momento – o durante tutto il periodo – in cui sono “disabili”. Concordo sul punto con Monceri, laddove propone, nella sua critica ai Disability Studies, di sostituire il termine “disabilità” con il sostantivo “disabilitazione” e l’aggettivo “disabilitato”, in grado di «permettere di mantenere viva la consapevolezza del processo che conduce alla nominazione di qualcosa come “disabilità” e di qualcuno come “disabile” in quanto prodotto di molteplici sottrazioni operate a partire dal termine “abilità” che caratterizzerebbe la situazione o condizione dell’individuo umano “normale o standard”»[28]. In questo senso Monceri indica come dalla nozione di impairment, menomazione, si debba produrre un mutamento verso la “disabilitazione”, al fine di indicare come non v’è menomazione senza una qualificazione socialmente riconosciuta in tal senso[29].

3. Per una visione unitaria del diritto della disabilità fondata sulla terzietà nella clinica legale

Se epistemologicamente appare corretto far apparire sullo sfondo della questione della disabilità o della “disabilitazione” un fondo irrisolvibile e non eliminabile del problema, resta indubbiamente il fatto che la posizione della Nussbaum, ispirata a un’idea di “giustizia positiva” e di azioni positive da compiere per eliminare discriminazione si deve basare su un dato, seppur provvisorio e modificabile, da considerare sufficientemente autorevole e sensato da poter ispirare una normativa e un’azione pubblica. In questo senso la proposta conclusiva che vorrei indicare come frutto, ma anche come base dell’esperienza di ricercazione condotta e ampiamente in corso di elaborazione, condotta insieme al collega Davide Petrini e ai tutors e agli esperti nella Clinica Legale della disabilità e della vulnerabilità presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Torino[30], è l’adozione di un criterio di misurazione alternativo a quello proposto da Rawls, e modificato da Nussbaum: non fondato su un criterio basato su un sapere economico o utilitaristico, ma su un parametro propriamente giuridico, la nozione di Terzietà.

Il quadro successivo alla menzionata Convenzione Onu in tema di diritti dei disabili e l’adozione delle normative e delle politiche sulla disabilità che ne sono scaturite può essere indicato con efficacia a partire da una semplice constatazione, che attiene all’ambiguità stessa dell’effettività dei diritti umani a fronte del primato dell’economico e delle sue ragioni nelle nostre società, come già constatato nelle critiche operate da Nussbaum verso la concezione di Rawls. Il processo di attuazione dei contenuti della Convenzione Onu non si esaurisce certo nella loro ricezione da parte delle legislazioni nazionali o sovranazionali, ma nel complesso compito di messa in pratica della visione che tale normative implicano, e che spesso significano profondi mutamenti non solo nella rappresentazione sociale dei processi concreti di “disabilitazione”, ma anche dei modi in cui il diritto viene pensato, interpretato, applicato. Se infatti la Convenzione afferma decisamente che gli svantaggi provati dalle persone con disabilità sono il prodotto di fattori sociali e ambientali, interagenti con le menomazioni individuali, ponendo barriere alla piena partecipazione e in generale all’inclusione[31], come precisano Lawson e Priestley, il diritto può essere parte della soluzione (enabling law) o parte del problema (disabling law) della disabilità, laddove «la disciplina del diritto è solamente un relativamente recente invitato al banchetto dei disability studies»[32]. Uno dei maggiori problemi che si riscontrano in tema di diritto della disabilità è precisamente la mancanza di un accostamento unitario come disciplina. Disperso in diversi settori dell’ordinamento giuridico, dal diritto civile a quello amministrativo e del lavoro, fino al diritto penale e tributario, il problema del diritto della disabilità è quello della sua frammentazione. Come osserva il magistrato Giorgio Latti, collaboratore della clinica legale, il rischio è la mancanza di una disciplina ispirata all’unità della persona, cui consegue inevitabilmente «il difetto di coordinamento che spesso si osserva tra i servizi coinvolti, con diversi profili, nella vita di una persona con disabilità» che suggerisce «un’attività di elaborazione delle norme che le inserisca in un sistema omogeneo, ispirato da alcuni principi fondamentali»[33]. In altre parole, se il testo della convenzione, nel configurare la disabilità come relazione sociale e fondando unitariamente il diritto della disabilità sul diritto alla vita indipendente e alla piena inclusione[34], può essere accostato in prospettiva al processo di deistituzionalizzazione successivo all’approvazione della legge Basaglia[35], il quadro normativo, l’interpretazione e la sensibilità dei giudici, le prassi delle pubbliche amministrazioni coinvolte sembrano spesso ancora ispirate da una visione in cui i diritti sanciti e recepiti dalla normativa nazionale, a fronte della situazione di crisi economica, o più semplicemente di una visione desueta del fenomeno ‘disabilità’ rappresentano poco più di un’opzione possibile. Come efficacemente indicano Marchisio e Curto «è come se il piano del diritto sbiadisse mano a mano che si avvicina alle pratiche, rendendo la piena cittadinanza per le persone con disabilità un’opzione di cui i tecnici possono valutare l’opportunità»[36].

A fronte di questa situazione, può apparire come uno strumento minimo come la clinica legale possa essere utile nel contribuire a formare una nuova classe di operatori della giustizia sensibile alla prospettiva giurisprudenziale e applicativa evolutiva sopra indicata. Se come precisa Petrini, oggi il senso della clinica legale nell’insegnamento della giurisprudenza consiste nell’indirizzare verso un metodo casistico legato a una motivazione umanistica[37], può essere opportuno indicare come, nel caso specifico della disabilità, la particolare posizione della clinica legale si ponga in stretto rapporto con la nozione di terzietà. Legata al realismo giuridico e al common law, la clinica legale costituisce un metodo, pensato in analogia con la clinica medica, in cui lo studente assiste a “operazioni legali”, con lo scopo, come indicato già da Jerome Frank, di insegnare il lato umano dell’amministrazione della giustizia, fondandolo sulla centralità del cliente come protagonista della storia legale e come agente narrativo nella ricostruzione del fatto e nella costruzione di una strategia difensiva[38]. Proprio il tratto “inclusivo” della relazione con il cliente che si esperimenta nella clinica appare un elemento adeguato alla tutela del disabile o dell’associazione di disabili, condotta attraverso un metodo narrativo ispirato alle Law and Humanities[39], a sua volta legato a una metodologia topica e retorico-argomentativa nel processo come strumento di controllo del ragionamento a partire dal principio del contraddittorio[40]. Senza peraltro dimenticare la distinzione tra la “rappresentazione della situazione” e “l’analisi giuridica del caso”: nella metodologia della clinica gli studenti sono invitati a “rappresentarsi” il caso in modo umanistico girando un documentario che ne illustra alcune specificità, ma, nel momento in cui lo analizzano dal punto di vista giuridico, devono naturalmente riprendere una posizione “terza”, in una dialettica tra relazione e distanza che sembra poter indicare  il senso della differenza fra giustizia e semplice condivisione umanistica di un dramma. Il dilemma metodologico in cui si svolge il dibattito tra sostenitori di una formazione positivistica tradizionale e di un metodo casistico è stato efficacemente sintetizzato da Jacab, che nota come il problema della tradizionale didattica frontale è che di fronte a essa gli studenti sono passivi, e ciò causa una bassa efficienza dell’insegnamento a fronte di un costo ridotto, visto l’elevato numero di utenti per una lezione. D’altra parte il metodo casistico e clinico tende a poter essere esteso a pochi studenti, e richiede quindi l’impego di risorse economicamente considerevoli per essere esteso a tutti, e inoltre rischia di coprire solo parte degli insegnamenti di cui lo studente necessita, assorbendo altresì così tanto tempo «that no time is left for the study and discussion of the fundamental philosophy, ethical bases, or the social context of the law»[41]. Jacab, usando le parole del romanziere ceco Capek, attribuisce all’educazione giuridica il seguente dilemma metodologico «”Every man should know something about everything and everything about something”. The question is whether there remains enough time to learn “everything about something” if you have to learn “something about everything”»[42]. Il problema sembra lo specchio della questione indicata in precedenza da Latti come il contrasto tra un accostamento olistico e unitario alla questione della disabilità, fondato su una concezione della persona, metodo suggerito dalla Convenzione Onu e dai suoi testi applicativi, e uno giurisprudenziale o amministrativo, in cui il tema della disabilità viene considerato come una delle molteplici norme positive da applicare rispettando i vincoli della misurazione economica (e dunque implicitamente dimenticando la questione di giustizia connessa alla posizione del disabile). Intorno a questo dilemma, l’ipotesi che propongo conclusivamente è quella di ricorrere a una teoria della terzietà nella clinica legale della disabilità e della vulnerabilità. Senza poter approfondire il punto, la teoria del Terzo come tratto metodologico caratterizzante il diritto in quanto tale, proposta da Kojève[43], e non solo per l’operato del giudice o dell’amministrazione, nella forbice aperta del rapporto tra diritto e politica[44], tra neutralità e azione positiva, deve essere riletta alla luce del problema dell’applicazione concreta delle norme della Convenzione Onu. A fronte di una concezione economicistica oggi prevalente da parte della giurisprudenza e della pubblica amministrazione, non può essere infatti accettata una valutazione riduzionista e basata su argomenti di ordine principalmente economico delle istanze di giustizia sollevate da disabili o da associazioni di disabili che si vedono negati i diritti loro ascritti da testi di valore universale come la Dichiarazione Onu. D’altra parte indubbiamente tali problemi riferiti al bilancio economico dello Stato devono essere tenute in conto, ma all’interno di una logica di riorganizzazione delle strutture che non veda tutelati gli interessi di fatto dominanti, ma la posizione del disabile, e idealmente di ogni cittadino, considerato come potenziale disabile: oltrepassando qualsiasi differenza di posizione tra il cittadino presunto “normale” e il “disabile”. Di fronte a questa situazione, il ruolo della clinica legale mi sembra quello di cercare una posizione di terzietà che si pone tra il politico e il giuridico, in cui al mito positivistico della posizione neutra della terzietà si ponga una concezione che propone un confronto tra diverse accezioni di terzietà. In cui, per semplificare un tema analizzato altrove, può trovare spazio una teoria della retorica della ragione come quella proposta dal filosofo Jean Robelin[45], che articola una concezione del terzo come “noi” (politica, comunitaria), che si contrappone a una figura del luogo terzo come l’impersonale “si” (giuridica e inaccessibile, a cui gli operatori – compresi i giudici – si possono solo avvicinare e mai dominare o possedere)[46] e che mi pare raggiungere da un lato le istanze della concezione della giustizia di Sequeri, d’altro lato i rilievi vichiani volti alla riabilitazione del metodo retorico nella costruzione di una Scienza Nuova, della figura del Terzo, contro le visioni di Cartesio e di Spinoza. Nella dialettica e nella tensione tra diverse figure di terzietà (politica del “noi”, impersonale del “si”) si può forse porre quel processo di progressivo avvicinamento alle istanze della giustizia come trasformazione della società di cui è portatrice la questione della disabilità come questione di giustizia che interessa l’intera società. E, forse, lo stesso superamento di una misurazione meramente economicistica dell’interesse in una concezione in cui, al di là dei meri numeri del calcolo economico, venga ridato spazio a quell’ideale di terzietà come forma di valutazione giuridica adeguata dell’interesse sociale, legata al sapere giuridico e al posto del Terzo. In questo contesto, fra e contro la terzietà del giudice e della pubblica amministrazione, anche la “terzietà” della prospettiva della Clinica Legale (del sapere universitario) può forse condurre a individuare interpretazioni innovative e al tempo stesso ordinamentali di quella radicale provocazione che la Convenzione Onu ha aperto e che rimane una sfida alle prassi interpretative esistenti[47]. In questi tempi forse di nuova barbarie economicistica, nel concepire in senso meramente funzionalistico la cosiddetta “terza missione” dell’università[48] – accanto a quelle tradizionali della formazione e della ricerca, quella di un dialogo con la società e della realizzazione d’un’economia della conoscenza – porre la questione della retorica della ragione e fare un riferimento al problema dell’unità della ragione mi sembra a un tempo provocatorio e opportuno. In questo senso, vorrei, in modo certo contingente e limitato alla metodologia di una Clinica Legale della disabilità intesa come clinica della terzietà, riferirmi e rovesciare il significato di “terza missione” dell’Università, intendendola come “missione della cura del Terzo”. Nel senso precisamente della costruzione contingente di uno spazio in cui l’università prova a introdursi, come Clinica Legale, nell’analisi di casi – e nella violazione dei diritti dei disabili spesso perpetrata nelle amministrazioni e nei tribunali – ponendosi come sapere che si pone nel processo di comunicazione giuridico e rappresentativo, culturale, osservabile tra i singoli disabili o le associazione di disabili e l’amministrazione dello Stato, di cui pur l’Università fa parte, seguendo una metodologia ispirata alla costruzione di una retorica della ragione e del diritto di ispirazione vichiana[49]. Provando a costruire una prospettiva di terzietà critica auspicata – tutta da realizzare, rispetto alle pretese a volte meramente rivendicative delle associazioni o al diniego di diritti spesso perpetrato dalle amministrazioni adducendo ragioni economiche e necessità di rispetto di vincoli di bilancio – mediante il piccolo contributo apportabile alla costruzione di un diritto della disabilità e della vulnerabilità considerato filosoficamente in senso unitario, e non frammentato e disperso nei singoli settori dell’ordinamento. Ove il problema della disabilità possa divenire, come precisa Nussbaum, una nuova frontiera della giustizia, ascrivibile a livello disciplinare alla filosofia del diritto proprio come la bioetica, ma in senso differente da essa, proprio per il suo porre la questione della Terzietà come retorica della ragione fondato sull’uso del metodo retorico del contraddittorio di fronte al luogo inaccessibile della verità e della giustizia e non a quello del mero possesso della forza proprio del diritto positivo.

[1] Mi riferisco variamente ovviamente alle prospettive di autori come Kurzweil, Max More, Bostrom, che richiederebbero un’analisi approfondita. Mi limito a rinviare per una visione panoramica a G. Hottois - J-N. Messa - L. Perbal (a cura di), Encyclopédie du trans/posthumanisme. L’humain et ses préfixes, Vrin, Paris, 2015.

[2] Mi limito al classico A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1983.

[3] M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia. Disabilità, nazionalità, appartenenza di specie, Il Mulino, Bologna, 2007.

[4] M. Nussbaum, op.cit., p. 126.

[5] M. Nussbaum, op.cit., p. 138.

[6] M. Nussbaum, op.cit., p. 133.

[7] M. Nussbaum, op.cit., p. 197.

[8] M. Nussbaum, op.cit., p. 11.

[9] M. Nussbaum, op.cit., p. 173.

[10] M. Nussbaum, op.cit., pp. 185, 187.

[11] M. Nussbaum, op.cit., p. 176.

[12] M. Nussbaum, op.cit., p. 183.

[13] Espressa nel libro di un altro autorevole protagonista del dibattito filosofico politico americano, J.P. Dupuy, Avevamo dimenticato il male? Pensare la politica dopo l’11 settembre, Giappichelli, Torino, 2010, in particolare nel capitolo Kant presso gli artefatti e Hobbes presso gli automi, pp. 48-63. Di Dupuy si veda anche All’origine delle scienze cognitive. La meccanizzazione della mente, Mimesis, Milano, 2015.

[14] P. Sequeri, Deontologia del fondamento, seguita da Verso una svolta affettiva nelle Law and Humanities e nelle neuroscienze, Giappichelli, Torino, 2016. Del volume, apparso in versione provvisoria solo come e-book, uscirà nel 2019 l’edizione definitiva accresciuta e modificata, in più volumi. Le indicazioni devono essere quindi intese come riferite a un programma di ricerca in corso di elaborazione.

[15] J.P. Dupuy, Avevamo dimenticato il male?, cit., p. 51.

[16] Dupuy riassume così “Il credo cibernetico”: «1. Pensare è una forma di computazione. Il calcolo richiesto non è l'operazione mentale di un essere umano che manipola simboli applicandovi regole, come quelli della addizione o della moltiplicazione; invece si tratta di quello che una particolare classe di macchine fa - macchine tecnicamente concepite come “algoritmi”. In virtù di ciò, il pensare raggiunge l'ambito del meccanico. 2. Le leggi fisiche possono spiegare perché e come la natura  – in alcune delle sue manifestazioni, non limitate esclusivamente al mondo umano – ci appare contenere significato, finalità, direzionalità, e intenzionalità». J.P. Dupuy, All’origine delle scienze cognitive, cit., p. 14. I deliri trasumanisti alla Kurzweil non sembrano che continuare il tratto criptoreligioso (si pensi al Wiener di N. Wiener, Dio & Golem s.p.a.. Cibernetica e religione, Bollati Boringhieri, Torino, 1991), di questa credenza riduzionista, estremizzandone gli elementi irrazionalisti ammantandoli di scientismo e di teorie comunicative oggi alla moda.

[17] A. Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano, 1995.

[18] A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano, 2003.

[19] «Spinoza aveva descritto un dispositivo funzionale che la scienza moderna sta rivelando essere un dato di fatto: gli organismi viventi hanno la capacità di reagire emozionalmente a oggetti ed eventi diversi… Può darsi infatti che Spinoza avesse intuito i principi alla base dei meccanismi naturali responsabili delle manifestazioni parallele della mente e del corpo». A. Damasio, Alla ricerca di Spinoza, pp. 23,24.

[20] J. Panksepp - L. Biven, Archeologia della mente. Origini neuroevolutive delle emozioni umane, Raffaello Cortina, Milano, 2014, p. 51. In una nota della prefazione i curatori A. Clarici e A. Alcaro, a p. VII, precisano come il termine “affetto” in Panksepp «denota la natura primaria, di base appunto, delle sensazioni legate alle emozioni. Panksepp insiste molto sul carattere primigenio degli affetti di base in quanto retaggio dell’evoluzione e presenti in tutti gli animali. Il termine “affetto” raccoglie quindi in sé tutta una serie di sfumature che possono essere rese anche con i termini  sensazione, emozione, affettività, e altri consimili, in una gradazione che esprime l’elaborazione che questi processi affettivi subiscono nel loro passaggio attraverso le strutture più antiche del cervello fino a ad arrivare alle loro forme più sofisticate nella corteccia cerebrale, espresse dalle emozioni complesse (oltre alla capacità, unica del genere umano, di poter “pensare e comprendere le proprie emozioni” nella coscienza riflessiva o estesa). L’opera di Panksepp è permeata dal concetto che tutto lo spettro dell’emotività (e poi della cognitività) umana ha al suo centro l’espressione più nucleare di questi fondamentali processi affettivi primari».

[21] Si vedano M. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno delle scienze umanistiche, Il Mulino, Bologna, 2014; Creare capacità. Come liberarsi dalle dittature del PIL, Il Mulino, Bologna, 2014 e Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo e l’educazione contemporanea, Il Mulino, Bologna, 2006.

[22] P. Sequeri, Deontologia del fondamento, cit., p. 14.

[23] Sul quale non a caso Sequeri ha a lungo lavorato teoreticamente fondando un metodo orchestrale per la cura relazionale e affettiva della disabilità, insieme all’ingegnere-psicologa-musicista Licia Sbattella, una delle realtà con cui la clinica legale dell’Università di Torino collabora stabilmente. Si veda L. Sbattella, La mente orchestra. Elaborazione della risonanza e autismo, Vita e Pensiero, Milano, 2006; L. Sbattella, Ti penso, dunque suono. Costrutti cognitivi e relazionali del comportamento musicale, Vita e Pensiero, Milano, 2013.

[24] P. Heritier, La dignità disabile. Estetica giuridica del dono e dello scambio, Dehoniane, Bologna, 2014.

[25] Lo slogan “siamo tutti disabili” detto da colui che viene considerato come normodotato in relazione a certi parametri può risuonare, al pari di qualsiasi altra definizione in tema, come gravemente offensivo nei confronti di chi socialmente viene considerato come disabile, specie se “grave”. Una definizione terminologica esaustiva e non provvisoria, come comprende bene Nussbaum, appare del tutto irraggiungibile, il che non elimina la rilevanza degli spostamenti terminologici nel costruire una rappresentazione sociale diversa attraverso la normatività del linguaggio.

[26] Ultimamente radicata in una negazione della morte propria del transumanesimo, ma in generale dello scientismo assurto a sostituto della religione. Si veda C. Lafontaine, Il sogno dell’eternità. La società postmortale. Morte, individuo e legame sociale nell’epoca delle tecnoscienze, Medusa, Milano, 2009.

[27] P. Heritier, L’immagine analogica del robot nelle neuroscienze normative, in P. Sequeri, La tecnica e il senso. Oltre l’Uomo?, Glossa, Milano, 2015, pp. 193-230.

[28] F. Monceri, Etica e disabilità, Morcelliana, Brescia, 2017, p. 13.

[29] F. Monceri, Etica e disabilità, cit., p. 109.

[30] Su quest’esperienza di ricercazione, il numero 1/2018 di Teoria e Critica della Regolazione sociale, La “nuova” attualità di Vico e la clinica legale della disabilità. Diritto e metodo umanistico, a cura di F. Di Donato e P. Heritier, Mimesis, Milano, in corso di pubblicazione, in cui le diverse competenze, giuridiche, psicologiche, pedagogiche, comunicativo-cinematografiche degli esperti che collaborano stabilmente alla clinica sono presentate.

[31] E. Flynn, Disabled Justice? Access to Justice and the UN Convention on the Right of Person with Disabilities, Routledge, Oxon, New York, 2016, p. 6.

[32] A. Lawson - M. Priestley, The social model of disability: question for law and legal scholarship?, in P. Blanck - E. Flynn (a cura di) Routledge Handbook of Disability Law and Human Rights, Routledge, London, New York, 2017, p. 15, traduzione nostra.

[33] G. Latti, I diritti esigibili. Guida normativa all’integrazione sociale delle persone con disabilità, Franco Angeli, Milano, 2019, pp. 15, 16.

[34] Per questo aspetto rinvio alla prospettiva del Centro per la vita Indipendente, altra realtà che collabora con la clinica legale. Si veda C. M. Marchisio, N. Curti, Senza Muri. Attivare il territorio per promuovere i diritti, Aracne, Roma, 2012; C. M. Marchisio - N. Curti, Costruire futuro. Ripensare il dopo di noi con l’Officina della Vita Indipendente, Erickson,  Trento, 2017.   

[35] C.M. Marchisio - N. Curti, Costruire futuro, cit., pp. 28 ss.

[36] C.M. Marchisio - N. Curti, Focus. La clinica legale della disabilità e della vulnerabilità. Esperienze, in TCRS 1/18, La “nuova” attualità di Vico e la clinica legale della disabilità, cit., in corso di pubblicazione. Si veda anche nello stesso numero, il resoconto di un caso studiato nella clinica, L. Salvadori, Argomentazione ed interessi metagiuridici: le contraddizioni delle norme e degli interpreti nella tutela dei diritti delle categorie vulnerabili. Anna ha il diritto di andare al cinema?

[37] «Come dimostra la nostra esperienza, gli studenti non ne possono veramente più delle modalità didattiche tradizionali. Digeriscono a stento, e solo perché non possono farne a meno, ore e ore di didattica frontale, finalizzate ad imparare una quantità sterminata di nozioni riportate in un manuale. E se si offre loro un modo diverso di affrontare lo studio del diritto positivo, sono in grado di fare grandi sacrifici, di dedicare molto più tempo e soprattutto risorse ed energie, pur di sperimentare un approccio concreto, casistico, che rende conto del fatto che l’ordinamento giuridico vigente non costituisce uno dei capitoli di “Finzioni” di Borges, ma è una realtà che quotidianamente entra (talora con drammaticità impareggiabile) nelle esistenze dei cittadini, soprattutto di quelli, appunto, più vulnerabili», D. Petrini, in Focus. La clinica legale della disabilità e della vulnerabilità. Esperienze, cit. in corso di pubblicazione. Nella sterminata bibliografia in tema di cliniche legali, F. Di Donato - F. Scamardella, Il metodo clinico legale. Radici teoriche e dimensioni pratiche, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016; A. Maestroni, Accesso alla giustizia, solidarietà e sussidiarietà nelle cliniche legali, Giappichelli, Torino, 2018.

[38] F. Di Donato, L’approccio clinico-legale fra visioni pionieristiche e future sfide, in F. Di Donato - F. Scamardella, Il metodo clinico legale, cit., p. 18.

[39] F. Di Donato, La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo della “narrazione” nel processo, Franco Angeli, Milano, 2008; A. Amsterdam - J. Bruner, Minding the Law. How Courts Rely on Storytelling, and How Their Stories Change the Way We Understand the Law – and Ourselves, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 2000.

[40] M. Manzin, Argomentazione giuridica e retorica forense. Dieci riletture sul ragionamento processuale, Giappichelli, Torino, 2014; A. Giuliani, La filosofia retorica di Vico e la nuova retorica, in Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli, Libreria Scientifica, Napoli, 1974, pp. 142-160.

[41] A. Jacab, Dilemmas of Legal Education: a Comparative Overview, in Journal of Legal Education, Vol. 57, 2/2007), p. 258.

[42] A. Jacab, op. cit., 253.

[43] Nel suo celebre, A. Kojève, Linee di una fenomenologia del diritto, Jaca Book, Milano, 1989.

[44] N. Bobbio, ll Terzo assente, Saggi e discorsi sulla pace e della guerra, Sonda, Torino, 1989, a cura di P. Polito; P. Portinaro, Il terzo. Una figura del politico, Franco Angeli, Milano, 1986.

[45] J. Robelin, Pour une rhétorique de la raison, Kimé, Paris, 2006.

[46] Sul punto si veda l’interessante contributo del giudice A. Costanzo, in B. Montanari, Luoghi della filosofia del diritto. Idee, strutture, mutamenti, Giappichelli, Torino, 2012, pp. 117-144.

[47] Si vedano, più diffusamente, J. Robelin, La retorica giuridica come produzione politica del luogo del terzo, e P. Heritier, Provvidenza vichiana e metodo clinico legale della terzietà, in La nuova attualità di Vico e la clinica legale della disabilità, cit, in corso di pubblicazione.

[48] Per un inquadramento del problema P. Prodi, Università dentro e fuori, Il Mulino, Bologna, 2013; A. Baccini, Valutare la ricerca scientifica. Uso ed abuso degli indicatori bibliometrici, Il Mulino, Bologna, 2010; F. Bertoni. Universitaly. La cultura in scatola, Laterza, Roma-Bari, 2016.

[49] P. Heritier, Vico e le law and humanities nella clinica legale della disabilità e della vulnerabilità, in F. Di Donato - F. Scamardella, Il metodo clinico-legale. Radici teoriche e dimensioni pratiche, Edizioni Scientifiche, Napoli, 2016, pp. 113-138.