Magistratura democratica

Lo status di rifugiato
e l’identità politica dell’accoglienza

di Stefano Celentano

Il concetto di dignità della persona, e l’elaborazione sociopolitica dello spessore dei suoi diritti fondamentali si misurano anche sul grado di protezione che i singoli contesti nazionali intendono accordare a quegli individui stranieri che, in determinati momenti e contesti storici, per cause oggettive o soggettive, si trovano in condizioni di grave pregiudizio se non in pericolo di vita. L’identità politica di un ordinamento nazionale si misura anche dalle modalità con cui, quale strumento deputato anche al dialogo internazionale, intende porsi come soggetto garante dei diritti fondamentali delle persone che transitano sul suo territorio, e che, per necessità evidenti, debbano esservi accolte e protette. L’elaborazione culturale del concetto di rifugiato, prende le mosse dalla Convenzione di Ginevra, ne supera la cornice storica, e si modella sulla base delle dinamiche sociopolitiche delle comunità nazionali in uno alla elaborazione internazionale dei diritti della persona. La definizione giuridica di “rifugiato” presenta margini di interpretazione che si ampliano o si restringono a seconda delle condizioni politiche e delle pratiche di riconoscimento sociale, e per evitare che l’eccesso di discrezionalità nazionale si traduca in una discriminazione nel riconoscimento dei diritti della persona, occorrerebbe non superare la prospettiva secondo la quale il “rifugiato” esisterebbe come una categoria sociologica direttamente prodotta dai trattamenti, istituzioni e pratiche della persecuzione o dell’oppressione che costringono gli esseri umani alla fuga.

1. Genesi storica ed evoluzione del concetto di “rifugiato”. L’attuale quadro normativo

La definizione di rifugiato, e l’identità storico-politica del relativo concetto, prendono le mosse dalla Convenzione di Ginevra del 1951, dal protocollo relativo allo status di rifugiato, sottoscritto a New York il 31.1.1967 (reso esecutivo in Italia con la Legge 14 febbraio 1970 n. 95), documenti che ancora oggi rappresentano i soli strumenti internazionale a carattere universale che la contengono.

L’esigenza storico-sociale posta a base della Convenzione di Ginevra era rappresentata dalla volontà di attribuire una condizione giuridica più stabile a quegli stranieri o apolidi, sfollati o fuggitivi perché temevano di rientrare in patria dopo gli svolgimenti politici, etnici e territoriali successivi alla Seconda guerra mondiale, e nel clima della Guerra fredda; tale considerazione rende evidente come, nel tempo, la definizione di rifugiato, offerta alla comunità internazionale per le esigenze rappresentate, si sia poi arricchita ed evoluta, in termini qualitativi e quantitativi, dai fenomeni storici e migratori delle epoche successive. Ed infatti, il testo originario contenuto nella Convenzione di Ginevra fu integrato dapprima con il Protocollo di New York del 1967, e poi, per via giurisprudenziale, da interpretazioni sempre più estensive della nozione di rifugiato da parte dei numerosi stati firmatari e delle relative Corti nazionali, per giungere necessariamente ad essere superato nella sua formulazione originaria e definitivamente privato di ogni interpretazione restrittiva.

L’originaria definizione, contenuta all’art. 1 lett. A comma 2 della Convenzione, prevedeva che fosse considerato rifugiato «colui che, a seguito di avvenimenti verificatisi anteriormente al 1 gennaio 1951, temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo paese, ovvero che, non avendo la cittadinanza e trovandosi al di fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra[1]». Con la sottoscrizione del protocollo di New York del 1967, la riserva temporale – «avvenimenti verificatisi anteriormente al 1 gennaio 1951» – è stata definitivamente accantonata, con la conseguenza che gli Stati contraenti o aderenti alla Convenzione si sono impegnati al rispetto dei relativi obblighi anche per eventi successivi e futuri, che fossero ascrivibili nella clausola di inclusione prevista dalla Convenzione[2].

Venendo al contenuto della previsione della Convenzione, va preliminarmente chiarito che essa non contiene norme di carattere procedurale circa l’ammissione al territorio del richiedente o la procedura di esame della domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma impone il divieto di respingere il rifugiato verso i luoghi in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate o poste comunque in pericolo: l’art. 33 disciplina infatti il principio di non respingimento, un principio di portata generale che trova la sua applicazione sia nelle ipotesi di espulsione e/o respingimento tecnicamente intese, sia in qualsiasi altra forma di allontanamento forzato verso un territorio non protetto, ipotesi tra le quali vanno annoverate le misure di estradizione o di trasferimento informale del soggetto[3].

Conseguentemente, eventuali violazioni di tale principio generale si configurano anche nel caso di non ammissione alla frontiera ed in ogni altra condotta, materiale o giuridica, che rischi di rinviare un rifugiato verso luoghi non sicuri, sia qualora venga rinviato verso il paese di origine, sia qualora venga rinviato verso altri Stati ove abbia comunque motivo di temere minacce per la propria vita o libertà per uno o più motivi contemplati dalla norma, o dal quale rischi di essere ulteriormente rinviato verso simili pericoli.

Dunque, può affermarsi che il richiedente lo status di rifugiato abbia un diritto soggettivo perfetto all’ingresso sul territorio dello Stato di accoglienza, quantomeno al fine di far esaminare ed accertare la sua situazione personale dalla competente autorità; per tale motivo, è evidente che il riconoscimento dello status di rifugiato ha natura meramente dichiarativa e non costitutiva della relativa condizione: l’obbligo di protezione del richiedente sorge nel momento in cui la sua condizione personale soddisfa i requisiti previsti dall’art. 1 lett. A) della Convenzione, indipendentemente dall’intervenuto o meno riconoscimento formale dello status da parte dello Stato di protezione[4]. Sul punto, una recente pronuncia della Corte di cassazione, nel ribadire il pieno diritto di accesso alla procedura di asilo da parte del soggetto bisognoso della protezione internazionale, ha affermato che le autorità hanno l’obbligo tassativo di astenersi dall’assumere provvedimenti di espulsione o respingimento che possano impedire la definizione del procedimento di asilo, affermando che «dal predetto quadro normativo emerge incontestabilmente che il cittadino extracomunitario giunto in condizioni di clandestinità sul territorio nazionale e come tale suscettibile di espulsione ex art. 13 comma 2 Tu 286/98 abbia il diritto di presentare istanza di protezione internazionale e che l’Amministrazione abbia il dovere di riceverla (inoltrandola al Questore per le determinazioni di sua competenza) astenendosi da alcuna forma di respingimento e da alcuna misura di espulsione che impedisca il corso e la definizione della richiesta dell’interessato innanzi alle Commissioni designate ed in ossequio al dettato di legge».

L’evoluzione sociopolitica del fenomeno delle migrazioni e del riconoscimento delle differenti forme di protezione internazionale, nel passato più recente, prende le mosse da un programma politico elaborato dal Consiglio europeo a Tampere nell’ottobre del 1999, programma finalizzato alla creazione di un regime comune di asilo; il programma prevedeva una prima fase, che avrebbe avuto termine nel 2005, tesa alla armonizzazione dei quadri giuridici degli Stati membri in materia di asilo con l’adozione di standards comuni relativi anche alla definizione di rifugiato (e della tre forme di protezione internazionale), oltre che alla disciplina concreta del sistema di accoglienza.

In questa volontà internazionale, che traccia una chiara identità politica del sistema di accoglienza, si colloca il Trattato di Lisbona e l’introduzione del concetto di “asilo europeo”; il Consiglio europeo, nel dicembre 2009 ha poi adottato il Programma pluriennale per lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia per il periodo 2010-2014, che mira alla costruzione del sistema Comune europeo di asilo – Ceas, anche con l’obbiettivo di arrivare ad un livello equivalente in tutti gli Stati membri per ciò che concerne le procedure di accoglienza, quelle di determinazione dello status. In questa ottica sono stati definiti: 1) La direttiva 2001/55E sulla protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati provenienti da Paesi non appartenenti all’Ue e che non possono fare rientro nel Paese di origine, che dà al Consiglio la facoltà di deliberare di volta in volta misure eccezionali finalizzate ad apprestare forme di tutela immediata, favorendo il burden sharing, ovvero un equilibrio degli sforzi fra gli Stati che ricevono sfollati o che subiscono le conseguenze della accoglienza degli stessi: 2) la direttiva 2003/09/Ce sulle condizioni minime di accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati, che definisce le condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo, condizioni che devono garantire un livello di vita dignitosa e condizioni di vita analoghe in tutti gli Stati membri; 3) la direttiva 2004/83/Ce sulla attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, che fissa criteri comuni per l’attribuzione delle diverse forme di tutela, assicurando un livello comune di prestazioni[5] ; 4) la direttiva 2005/85/Ce sulle norme minime applicate nei vari stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato (cd. Direttiva procedure) che disciplina i principi minimi delle norme di carattere procedurale per il riconoscimento e la revoca degli status di protezione internazionale, con l’obiettivo di limitare i movimenti secondari dei richiedenti asilo tra gli Stati membri che possono derivare dalle diversità delle normative interne.

Il quadro di riferimento normativo si compone, poi, della direttiva 2003/86/Ce relativa al diritto al ricongiungimento familiare, , e di due coppie di regolamenti che compongono il cd. “sistema Dublino”, e segnatamente il Regolamento 343/03 e quello 407/02, nonché il regolamento Eurodac 2725/00 ed il suo regolamento di attuazione 1560/03, sul confronto delle impronte digitali e sulla efficace applicazione del regolamento Dublino.

Non ultima, la direttiva 2011/95/Ue del Parlamento europeo e del Consiglio del 13.12.2011 recante norme sulla attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta. La direttiva in esame ha l’evidente «“protezione all’interno del Paese di origine», « appartenenza ad un determinato gruppo sociale», di eliminare le differenze tra i vari Stati membri nel livello di diritti e prerogative concessi ai rifugiati ed ai beneficiari di protezione sussidiaria, in riferimento alla durata del titolo di soggiorno, all’accesso alla assistenza sanitaria e sociale ed al mercato del lavoro, e di rafforzare l’accesso effettivo ai diritti, tenendo conto dei problemi specifici di integrazione dei beneficiari di protezione internazionale.

La direttiva 2004/83/Ce del Consiglio europeo, del 29 aprile 2004 (Norme minime sulla attribuzione a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta) ha avuto come obiettivo principale quello di garantire uno standard minimo di protezione uniforme in tutti i Paesi dell’Unione, armonizzando la nozione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra del 1951[6] e prevedendo una forma complementare di protezione, per tutte quelle ipotesi in cui il richiedente, privo dei requisiti per essere ammesso alla protezione convenzionale, fosse ugualmente meritevole di tutela pubblica ai sensi della normativa internazionale; e così, seguendo questo modus operandi, la nozione di protezione internazionale oggi prevede e comprende al suo interno due distinti status, quello di rifugiato e quello della protezione sussidiaria, e consente a chi ne faccia richiesta, di ottenere il riconoscimento dello status maggiormente appropriato alla sua condizione giuridica, sulla base di una richiesta indifferenziata di protezione. Dunque, la direttiva citata non introduce uno status uniforme ed unico in materia di protezione internazionale, ma costruisce una cornice giuridica di norme minime allo scopo di assicurare, da una parte, che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e, dall’altra, che un livello di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri[7].

Ben oltre la scadenza temporale prevista, l’ordinamento italiano ha recepito la predetta normativa a mezzo del d.lgs 251/2007, che risolve in senso positivo alcuni dubbi interpretativi e recepisce nozioni importanti sinora non previste all’interno della normativa nazionale, rinunciando quasi in via generale all’esercizio delle numerose facoltà previste dalla direttiva comunitaria che avrebbero consentito di introdurre nell’ordinamento italiano misure derogatorie o più sfavorevoli per i richiedenti asilo, e talvolta rinunciando ad attuare norme della direttiva che appaiono ambigue.

2. La condizione di rifugiato: elementi costitutivi

L’originaria definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra all’art. 1, lett. A, è stata letteralmente ripresa dal legislatore comunitario all’art. 2, comma 1, lett. C, della Direttiva 2004/Ce e dal legislatore italiano nell’art. 2, comma 1, lett e), del d.lgs 251/2007.

Tale definizione si applica soltanto ai cittadini extracomunitari ed agli apolidi, atteso che gli stati membri dell’’Unione, con il Protocollo sull’asilo per i cittadini dell’Unione europea, si sono reciprocamente riconosciuti come Paesi d’origine sicuri a tutti i fini giuridici e pratici connessi all’asilo.

Gli elementi essenziali per il riconoscimento dello status di rifugiato sono dunque contenuti nella cd. clausola d’inclusione della nozione di rifugiato (art. 1, lett. A, comma 2 ,della Convenzione di Ginevra) e sono: a) il timore fondato; b) la persecuzione; c) l’impossibilità e/o la non volontà di avvalersi della protezione dello stato di cittadinanza e/o di residenza; d) la presenza al di fuori del Paese di cittadinanza o di residenza abituale. Per il riconoscimento dello status occorre il preventivo accertamento, che avviene alternativamente con la decisione adottata dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale[8], oppure con un provvedimento della autorità giudiziaria ordinaria, in accoglimento del ricorso proposto ai sensi dell’art. 35 d.lgs 25/2008 e 19 d.lgs 150/2011 avverso la decisione negativa della Commissione; al riconoscimento dello status consegue il diritto ad ottenere i rilascio di un titolo di soggiorno della durata di cinque anni, rinnovabile, con una serie di diritti ed obblighi.

2.1. Il timore fondato

È il primo elemento costitutivo della definizione di rifugiato, e può essere qualificato come timore ragionevole di essere perseguitato per motivi di carattere etnico, religioso, o a causa della appartenenza ad un determinato gruppo sociale, a causa della nazionalità oppure per le opinioni politiche, nell’ipotesi di rientro nel Paese di cittadinanza, oppure di dimora abituale nel caso di apolidia. È l’elemento pregnante la condizione di rifugiato, ed è caratterizzato da una componente tipicamente soggettiva (il timore, uno stato mentale), e da una oggettiva, la fondatezza del timore, che si basa, con un accertamento necessariamente rigoroso, su elementi oggettivi e circostanze esterne, senza le quali la proiezione mentale del “timore” non acquista rilevanza giuridica e pubblica, e resta relegata nella sfera soggettiva poiché giuridicamente irrilevante ed ingiustificata. L’operazione di riscontro della fondatezza del timore è una operazione senza dubbio complessa che, da un lato, risente della considerazione per cui l’elemento soggettivo è inseparabile da una valutazione della personalità del richiedente, basata sulle sue caratteristiche personali e degli eventi che hanno caratterizzato il suo vissuto e le sue esperienze di vita globalmente intese, anche al fine di valutarne la attendibilità e la credibilità[9], e dall’altro, richiede una valutazione delle dichiarazioni rese dal richiedente alla luce delle informazioni esistenti sul Paese d’origine, informazioni che costituiscono il primo degli elementi essenziali per verificare la verosimiglianza del rischio di persecuzione; sotto tale ultimo profilo, è utile evidenziare come il legislatore nazionale, in recepimento della normativa comunitaria, abbiam previsto l’obbligatorietà dell’uso di informazioni aggiornate sulla situazione dei Paesi d’origine[10].

Questi criteri interpretativi sono stati recepiti all’art. 3, comma 3, lett. C, del d.lgs 251/2007 che, ai fini dell’esame individuale della domanda di protezione internazionale, impone la valutazione della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare la condizione sociale, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave, e, al successivo comma 5, lett c, prevede che qualora le dichiarazioni del richiedente siano ritenute coerenti e plausibili e non siano in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, pur in assenza di prove, i fatti narrati potranno essere considerati veritieri (presunzione di buona fede del richiedente asilo).

L’esame del requisito in oggetto deve dunque basarsi su una valutazione del rischio del richiedente di subire comportamenti persecutori nella ipotesi di rientro nel suo paese di origine, valutazione che consiste necessariamente in una rigorosa prognosi futura, sebbene l’esperienza individuale del richiedente sia utile ad accertare l’esistenza concreta del timore di persecuzione; ovviamente, non è necessario che la persona abbia già effettivamente patito persecuzioni nel passato, poiché potrebbe essere riuscita ad evitarle o a fugarle, ma è invece necessario che il timore concreto di patirle sussista in relazione ad una concreta prospettazione futura, soprattutto laddove altre persone dello stesso ambiente sociale o familiare del richiedente, o nella sua medesima situazione soggettiva, le abbiano già patite, ovvero quando risulti in modo certo che, nel paese di origine del richiedente, ne siano colpiti in modo ricorrente e sistematico individui che si trovano nella sua medesima situazione, o che appartengono allo stesso gruppo religioso o politico o etnico. Parimenti, è pienamente plausibile che una persona potrebbe avere effettivamente subito persecuzioni in passato e tuttavia non temere più di subirne ancora in futuro; ciò accade, ad esempio, quando le persecuzioni subite siano remote nel tempo e senza più alcun plausibile rapporto con la attualità poiché, nel frattempo, la situazione del Paese di origine è radicalmente mutata in melius, e dunque sussistono chiare indicazioni in senso contrario che il timore di ricevere nuove persecuzioni possa essere effettivamente fondato[11]. A tale ultima considerazione, fa però eccezione la previsione contenuta nel Manuale dell’Unhcr, al paragrafo 136, secondo cui, in base ad un principio di carattere umanitario, non si può rimpatriare un individuo che sia stato colpito, in prima persona o indirettamente attraverso i suoi familiari, da atroci forme di persecuzione di cui stia ancora soffrendo il trauma o patendo le conseguenze dal punto di vista morale e psicologico.

Al fine di corroborare la sua istanza di riconoscimento dello status più alto di protezione internazionale, il richiedente è tenuto a presentare, unitamente alla domanda di protezione, o comunque appena disponibili, tutti gli elementi e la documentazione necessaria a motivare la domanda, tra cui certamente vanno ricomprese le dichiarazioni e tutta la documentazione in suo possesso in relazione alla sua età, alla condizione sociale, anche dei congiunti[12]. Infine, poiché il timore è per definizione una percezione meramente soggettiva, è necessario valutarne la fondatezza anche alla luce della situazione individuale del richiedente, accertando nel concreto se il timore da lui espresso sia fondato o comunque verosimile in relazione ad un individuo che si trovi nelle sue medesime condizioni fisiche, psicologiche, economiche sociali e culturali.

L’elaborazione giurisprudenziale, sul punto, è arrivata ad affermare, nel settembre del 2012 che, nelle ipotesi in cui il richiedente non sia stato già perseguitato o abbia subito minacce serie di persecuzione, ai sensi dell’art. 4, par. 4, della direttiva “Qualifiche”, devono comunque essere considerati seri indizi della fondatezza del timore, nel valutare l’entità del rischio del richiedente di subire effettivamente atti di persecuzione nel contesto di provenienza, la possibilità che il richiedente rinunci alla condotta e/o a comportamenti e/o ad atti che lo potrebbero esporre a tale rischio, ragion per cui è sufficiente che le autorità competenti «alla luce della situazione personale del richiedente, considerino ragionevole ritenere che, al suo ritorno nel Paese d’origine, egli compirà atti religiosi che lo esporranno ad un rischio effettivo di persecuzione»[13].

2.2. La persecuzione

È il secondo elemento fattuale necessario per il riconoscimento dello status di rifugiato, ma non tutte le condotte persecutorie sono rilevanti ai fini del suo accertamento, bensì solo quelle poste in essere per uno dei motivi specifici indicati dalla Convenzione di Ginevra, e dunque per motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, opinioni politiche.

La Convenzione del 1951 non prevede una definizione letterale di persecuzione, ma dalla lettura combinata degli artt. 1, lett. a, comma 2 e 33, può ritenersi che ogni minaccia al diritto alla vita o alla libertà personale dell’individuo, praticata per ragioni di razza, religione, nazionalità, o per l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per la propria fede politica, possa sempre qualificarsi in concreto come condotta persecutoria [14].

Il concetto di persecuzione va però necessariamente ancorato ai mutamenti storico-sociali delle singole comunità ed alle relative dinamiche relazionali, ragion per cui esso va interpretato in maniera flessibile, adattabile e sufficientemente aperta, così che possa riflettere la natura evolutiva delle forme di persecuzione, ed appaia in concreto come un concetto “socialmente orientato”.

Nel tentativo di offrire una certa delimitazione della portata e del contenuto del concetto di persecuzione, il legislatore italiano, all’art. 7, comma 1, del d.lgs 251/2007 ha affermato che gli atti persecutori debbano consistere in una violazione grave dei diritti umani fondamentali, a causa della loro gravità oppure a causa della loro pluralità, chiarendo che possono alternativamente essere sufficientemente gravi (o per la loro natura, o per la loro frequenza) da rappresentare una evidente violazione dei diritti umani fondamentali ed in particolare quelli inderogabili, oppure costituire la somma di diverse misure, tra cui le violazioni dei diritti umani, il cui impatto complessivo determini in capo all’individuo un effetto analogo a quello derivante da una grave violazione dei suoi diritti fondamentali. E così, è possibile ipotizzare due tipologie differenti di persecuzioni: a) la persecuzioni intesa come violazione grave di diritti umani; b) la persecuzione posta in essere con pluralità di atti con analogo effetto pregiudizievole e lesivo sulla persona.

Alla prima categoria, possiamo ascrivere gli atti persecutori a danno delle libertà democratiche garantite dalla Carta costituzionale e i diritti fondamentali della persona garantiti dalle Convenzioni internazionali con riferimento esplicito, ma non esaustivo, ai diritti inderogabili elencati all’art. 15, par. 2, della Convenzione sui diritti dell’uomo e della libertà fondamentali [15] , e nella valutazione del quantum di gravità della persecuzione dovrà tenersi conto della persistenza della violazione, della sua durata e della sua intensità.

Nella seconda categoria, invece, rientrano gli atti persecutori posti in essere attraverso una somma di comportamenti che, presi singolarmente non hanno particolare gravità, ma che nel complesso possono dare luogo ad un effetto pregiudizievole inteso come grave violazione dei diritti umani fondamentali. A questa categoria appartengono sovente gli atti discriminatori o le disparità di trattamento, che, ove reiterate nel tempo, possono raggiungere una gravità tale da essere considerati atti persecutori ai danni di diritti umani fondamentali[16].

Venendo alle singole tipologie di condotte persecutorie, va evidenziato preliminarmente che l’art.7, comma 2, d.lgs 251/2007 ne prevede una esemplificazione non esaustiva, che non va dunque identificata come un numerus clausus. L’elencazione comprende:

  1. atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale, ogni qualvolta quest’ultima venga utilizzata come strumento persecutorio a motivo della religione, delle opinioni politiche o della nazionalità delle donne stesse. Le cronache dell’orrore ci riportano casi di stupri sistematici praticati come strategia bellica o come forme di pulizie etniche, perpetrati dunque non come violenza di genere, ma per motivazioni etniche o religiose. Differenti sono le ipotesi di violenza di genere, perpetrata invece sulla base del genere sessuale di appartenenza, e che comprende parimenti azioni che infliggono grave danno o sofferenza fisici, mentali o sessuali, minacce di tali atti, coercizione e altre forme di grave privazione della libertà[17];
  2. provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, aventi natura discriminatoria o attuati con modalità discriminatorie: in questa categoria rientrano le violazioni del diritto di difesa, le leggi che impediscano a chiunque di esercitare un determinato diritto fondamentale, anche se paradossalmente esse di per sé non discriminano poiché trattano in modo analogo persone che si trovano in situazioni oggettivamente identiche. Sul punto, l’art. 7 cit. stabilisce che ogni atto persecutorio è tale non perché discrimina, ma perché comporta la violazione di determinati diritti fondamentali garantiti dalle norme costituzionali ed internazionali in vigore per l’Italia; l’art. 32, comma 2, del d.lgs 25/2008 considera quali gravi motivi che legittimano il riconoscimento dello status di rifugiato anche le discriminazioni o le repressioni di comportamenti non costituenti reato per l’ordinamento italiano, ma che risultano invece perseguibili nel Paese di origine, anche ove esso sia definito in termini di sicurezza;
  3. azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie: non rientrano in tale tipologia le pene previste per i reati di diritto comune e le persone che fuggono per sottrarsi alle conseguenze penali della commissione di un reato di tal genere non possono essere considerati rifugiati, a meno che possa essere inflitta una pena eccessiva rispetto alla violazione commessa, utilizzando quale parametro di riferimento la legge dello stato di accoglienza ed i principi del diritto internazionale dei diritti dell’uomo. Sotto tale profilo, sono potenzialmente persecutorie e repressive le legislazioni che vietano o puniscono come reato il proprio orientamento sessuale, e nella specie omosessuale[18], e la pena che miri a colpire un determinato gruppo di persone per uno dei motivi indicati nella convenzione di Ginevra, ad esempio a scopo di intimidazione politica o nei confronti di un certo gruppo etnico o di coloro che professano una determinata religione[19]. È evidente che, per compiere l’operazione di valutare la natura sproporzionata o discriminatoria dell’azione giudiziaria o della sanzione penale, occorre valutare in concreto il fatto addebitato all’individuo e non il titolo formale del reato contestato, con una valutazione in concreto del fatto storico e non della norma asseritamente violata. La sproporzione delle pene irrogate può derivare già dal tipo di reato o dal tipo di pena, ma anche dalla lesione del diritto di difesa nel processo nel contraddittorio e davanti ad un giudice imparziale, terzo ed indipendente, e dunque dalla concreta impossibilità di difendersi in modo effettivo;
  4. rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridici e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria;
  5. azioni giudiziarie o sanzioni penali come conseguenza del rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissioni di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’art. 10, comma 2[20]; vengono qui in rilievo i crimini contro la pace, i crimini di guerra o i crimini contro l’umanità ovvero reati gravi o atti particolarmente crudeli, o contrari alle finalità ed ai principi delle Nazioni unite. Il comportamento omissivo e rifiutante del richiedente asilo, pur essendo illecito nel suo ordinamento giuridico di appartenenza, viene considerato dagli standard internazionali come un legittimo esercizio del diritto di libertà finalizzato a sottrarsi alla eventuale commissione di crimini odiosi[21];
  6. Atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia. In questo ambito rientrano il reclutamento dei bambini soldato, i matrimoni forzati o precoci, le mutilazioni genitali femminili e la violenza di genere.

Dalla elencazione esaminata, appare evidente come le difficoltà di carattere economico non costituiscono di per sé una persecuzione, ma possono diventarlo esclusivamente laddove siano espressione e conseguenza diretta di una persecuzione, di una discriminazione così grave da potersi considerare persecutoria, ed in tali specifiche ipotesi esse possono essere considerate rilevanti ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato.

Particolare risalto, all’esito dell’esame di tali ipotesi di persecuzione, deve essere dato all’art. 3 della Cedu, che garantisce una tutela ben più ampia rispetto a quella offerta dagli artt. 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, atteso che esso contiene un divieto inderogabile, ed una tutela che va affermata sempre, ed indipendentemente dalla condotta personale dello straniero, ragion per cui, ogni qualvolta siano stati dimostrati motivi sostanziali per cui la persona possa subire un rischio di trattamento disumano e degradante qualora venga allontanato verso un determinato Stato, lo Stato accogliente viola un obbligo della Convenzione ed è obbligato ad accoglierlo, ospitarlo e offrirgli concreta tutela e protezione. Tale obbligo non può trovare bilanciamento neanche nelle ipotesi in cui su costui gravi il sospetto di appartenenza ad organizzazioni terroristiche, poiché le sue specifiche condotte non possono essere considerate in quanto non intaccano il rischio che subirebbe lo straniero in caso di allontanamento[22].

Va da sé che, laddove torture, maltrattamenti o pene inumane siano arrecati senza che vi siano concreti motivi di persecuzione che legittimino il riconoscimento dello status di rifugiato, al richiedente va accordata la forma di tutela della protezione sussidiaria, oppure, laddove si trovi in una situazione che configuri il divieto o la revoca o la cessazione o l’esclusione del riconoscimento dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, gli andrà rilasciato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, laddove egli corra il rischio, in ogni caso, di subire torture o maltrattamenti nel Paese di invio.

2.3. L’autore della persecuzione

Rispetto agli orientamenti restrittivi maturati a seguito della sottoscrizione della Convenzione di Ginevra – che riconoscevano esclusivamente come autore della persecuzione lo Stato, un agente statale, o un agente privato connivente con l’autorità pubblica – la direttiva “Qualifiche”, all’art. 6, come poi recepito letteralmente dall’art. 5, del d.lgs 251/2007, dà una definizione uniforme di responsabile della persecuzione e di danno grave, prevedendo che esso possa essere, alternativamente, lo Stato, un partito o una organizzazione che controlla lo Stato o una parte consistente del suo territorio, o un soggetto non statuale, laddove lo Stato o un partito di esso non possa o non voglia fornire protezione ai sensi dell’art. 6, comma 2, contro persecuzioni o danni gravi.

Dunque, il persecutor può essere statale, con la conseguenza che il timore del richiedente sarà de facto fondato attesa la logica impossibilità di chiedere allo Stato stesso protezione, oppure potrà essere non statale, ed in questa ipotesi, per ottenere protezione in un diverso stato, sarà sufficiente che quello di origine non voglia o non sia in grado di fornirla; nella pratica, qualora uno Stato “non voglia” fornire protezione, significa che esso tollera o addirittura sostenga l’azione o l’omissione dell’agente non statale responsabile della persecuzione; qualora invece esso “non possa” fornire protezione, vorrà dire che sia incapace o impossibilitato a fornirla nel concreto, poiché si caratterizza per un sistema inadeguato di protezione nazionale e per un meccanismo inefficace nell’individuare, perseguire e sanzionare le condotte persecutorie praticate al suo interno.

Va altresì chiarito che la persecuzione può provenire sia da atti provenienti da una autorità statale riconosciuta, che da una organizzazione che esercita di fatto il potere sulla zona in cui vive il richiedente protezione, anche se ciò avvenga in regime di occupazione militare o durante un conflitto armato. Infine, indipendentemente dalla natura statale o non del persecutore, è del tutto irrilevante che sussista o meno un intento persecutorio nella sua condotta; la finalità persecutoria, infatti, non compare né nella definizione di rifugiato della Convenzione di Ginevra, né in quella letteralmente trasposta nella direttiva “qualifiche”, ma la sua eventuale presenza accertata potrà considerarsi come un valido riscontro del fondato timore del richiedente.

Infine, è plausibile che il persecutor possa essere un agente terzo, estraneo alla organizzazione ufficiale dello Stato, coincidendo talvolta con la comunità di appartenenza se non addirittura con la rete familiare o con segmenti non organizzati della popolazione civile.

Nel vaglio rigoroso della mancanza di volontà o di possibilità nell’apprestare idonea protezione al soggetto perseguitato, si valuterà in concreto la natura della protezione offerta sia dallo Stato che dai partiti o organizzazioni, comprese quelle internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, tenendo ben evidenziato che la protezione di cui al comma 1 consiste nella adozione di adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave, e nell’accesso da parte del richiedente a tali misure[23].

2.4. I motivi della persecuzione

Il riconoscimento dello status di rifugiato può avvenire soltanto nelle ipotesi di fondato timore di subire atti persecutori compiuti per uno dei cinque motivi indicati dall’art. 1, lett. A, comma 2, della Convenzione di Ginevra, come ripresi dall’art. 8, comma 1, del d.lgs 251/2007, che ne definisce ulteriormente il contenuto, e che sono: razza, religione, nazionalità, particolare gruppo sociale, opinione politica. L’elencazione è tendenzialmente esaustiva, sebbene una lettura “socialmente orientata” dei singoli motivi può portare ad applicazione più ampie. La mancanza di un legame teleologico tra la persecuzione ed uno dei motivi di cui sopra costituisce il discrimen con la semplice violazione dei diritti umani, che, pur non consistendo in persecuzioni ai sensi della Convenzione di Ginevra, sono comunque meritevoli di protezione ai sensi dell’art. 14 del d.lgs 251/2007, e possono dar luogo alla protezione sussidiaria.

Tale nesso teleologico ha valenza interna, laddove si valuta la sussistenza in capo al richiedente delle caratteristiche etniche, razziali, nazionali, sociali o politiche che provocano la persecuzione, e valenza esterna, laddove si valuta ciò che il soggetto persecutor attribuisce al richiedente in termini di motivi per la persecuzione. La persecuzione, ovviamente, può avvenire anche per più motivi concomitanti, e spetterà alla autorità preposta all’accertamento dello status di rifugiato il compito di individuare il singolo motivo o i motivi della persecuzioni sulla base delle dichiarazioni del richiedente e della situazione sociopolitica del paese di provenienza.

La razza:costituisce una discriminazione fondata sulla razza «ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica»[24].

È utile, nel diritto internazionale dei rifugiati, interpretare il termine “razza” nella sua accezione più ampia possibile, ricomprendendovi ogni gruppo etnico, a cui nel linguaggio corrente viene riferito tale termine[25], atteso che spesso la persecuzione si fonda sulla percezione del persecutore della diversità razziale del soggetto perseguitato, diversità che però può essere reale o presunta. Il legislatore nazionale, all’art. 8, comma 1, del d.lgs 251/2007 ha ulteriormente definito le regole di interpretazione ed il contenuto del termine razza, ricomprendendovi anche le considerazioni inerenti il colore della pelle, la discendenza o l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico, e pertanto, allo stato, per persecuzioni razziale deve intendersi sia una persecuzione fondata sulla appartenenza ad una presunta razza, sia quella fondata su considerazioni relative al colore della pelle, ad una particolare discendenza, anche solo presunta, o ad una origine nazionale o etnica.

La religione: il sistema internazionale dei diritti umani tutela il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione nel senso più ampio possibile, includendovi la facoltà di cambiare credo religioso, di professare la propria fede, di manifestarla sia in ambito pubblico che in privato; allo stesso modo, è tutelato il diritto a non professare alcuna religione e a non conformarsi all’osservanza di riti, usanze e precetti, anche se praticati in modo massiccio e tendenzialmente univoco.

La direttiva qualifiche, e il d.lgs 251/2007, all’art.8, comma 1, lett. C, chiariscono il concetto di persecuzione per motivi religiosi, evidenziando, in primo luogo, che essa può avere ad oggetto «le convinzioni teiste, non teiste o ateiste, la partecipazione a o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente che in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritto»[26].

La persecuzione fondata su motivi religiosi può assumere differenti forme, tra cui il divieto di appartenere a determinate comunità religiose, a quello di professare e celebrare il culto, a dare una istruzione religiosa, o semplicemente nella adozione di atti discriminatori nei confronti di chi professa uno specifico credo, se non addirittura in pratiche di conversione forzata[27].

Va tuttavia chiarito che la Corte di giustizia ha affermato che solo talune forme di violazione del diritto alla libertà religiosa integrano atti persecutori[28]: infatti, le restrizioni e le limitazioni all’esercizio del diritto alla libertà di religione previste dalla legge non possono essere considerate di per sé atti persecutori, perché coperte dalla riserva di cui all’art. 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali. Dunque, secondo la Corte di giustizia, una violazione del diritto alla libertà di religione può costituire una persecuzione soltanto qualora il richiedente, a causa dell’esercizio di tale libertà personale corra un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato o sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di un soggetto autore della persecuzione[29].

La nazionalità: il termine non coincide con il concetto giuridico di cittadinanza, ma ricomprende in sé anche l’appartenenza ad un determinato gruppo etnico, culturale o linguistico, quasi da essere assimilato a quello di razza; per tali ragioni, la persecuzione per motivi di nazionalità può concretizzarsi in atteggiamenti pregiudizievoli ed ostili diretti contro una minoranza etnica o linguistica, e spesso può coincidere con quella per opinioni politiche, allorquando un movimento politico si identifica con una particolare nazionalità.

Il legislatore nazionale, all’art. 8, comma 1, lett. C, d.lgs 251/2007 ha specificato l’ampiezza del termine nazionalità ancorandola a quello di identità culturale, etnica o linguistica, alle origine geografiche comuni o politiche.

L’appartenenza ad un determinato gruppo sociale:è il motivo persecutorio che ha dato origine a differenti problemi interpretativi, atteso che sussistono differenti criteri per l’individuazione del concetto di gruppo sociale: il primo criterio è basato sulla percezione esterna che il persecutor ha di un gruppo di persone, per cui il gruppo condivide una caratteristica che lo rende riconoscibile all’esterno o lo contraddistingue, e che ne identifica la diversità. Il secondo criterio è invece quello della “autodefinizione”, basato dunque su una percezione interna delle caratteristiche storiche, innate o immutabili che contraddistinguono un determinato gruppo sociale[30].

Il gruppo sociale, dunque, si caratterizza per il possesso identitario di caratteristiche obbiettive, immodificabili e irrinunciabili senza grave sacrificio, ragion per cui anche gruppi molto numerosi di individui possono essere considerati gruppo sociale ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, e persino il genere femminile, in determinate situazioni sociali, inteso nella sua interezza, può essere considerato tale laddove seriamente esposto al rischio di persecuzione. Inoltre, possono segnalarsi casi in cui all’interno di un gruppo molto ampio, vi è un sottogruppo a rischio d persecuzione per alcune ulteriori caratteristiche (ad es. le donne accusate di adulterio, le donne nubili, le donne lavoratrici).

Particolarmente significativa è poi la appartenenza ad un gruppo per motivi di orientamento sessuale, una delle caratteristiche tristemente utilizzate per la persecuzione delle minoranze: il legislatore nazionale ha stabilito che «in funzione della situazione del paese di origine, un particolare gruppo sociale piò essere individuato in base alla caratteristica comune dell’orientamento sessuale, fermo restando che tale orientamento non includa atti penalmente rilevanti ai sensi della legislazione italiana». Alla luce di ciò, in molti Stati, persone appartenenti al gruppo Lgbti (lesbiche, gay, bisessuali, transgender e interssessuati) sono potenzialmente esposti a persecuzione, anche giudiziaria e sono soggetti a discriminazione determinata da atti normativi[31].

In ogni caso, vanno pertanto considerati atti persecutori la repressione o la discriminazione di una persona a causa del suo sesso o della sua vita sessuale o delle sue pratiche sessuali svolte in privato tra adulti consenzienti, o di un suo eventuale orientamento sessuale o transessuale, mentre non possono considerarsi atti persecutori la prevenzione o la repressione degli atti osceni in luogo pubblico o della pedofilia o della pedopornografia o dell’incesto, della necrofilia o della violenza sessuale, secondo la configurazione prevista dalla legislazione nazionale.

L’interpretazione estensiva del motivo di persecuzione in esame consente di includervi anche gruppi di individui trattati come inferiori agli occhi della legge, in modo che lo stato applica la legge in modo discriminatorio o rifiuta di invocare la legge a tutela di tale gruppo o comunque ne tollera la persecuzione da parte di agenti privati; si tratta della situazione in cui versano molte donne vittime di violenza domestica, compresa la violenza sessuale e le mutilazioni genitali femminili, in quegli stati in cui le donne non hanno tutela effettiva contro tali abusi[32].

Infine, va evidenziato che l’Ancur ha indicato come gruppi socialmente riconoscibili in cui gli individui sono percepiti nella società in base alla loro appartenenza ad esso anche i membri di una famiglia per legami di sangue, matrimoni e relazioni di parentela (circostanze in rilievo nelle faide tra famiglie o tra clan), i minori di strada in particolari condizioni di fragilità, come i bambini di strada, i minori affetti da Hiv, o quelli oggetto di reclutamento da parte delle forze armate o di bande paramilitari, nonché le persone con disabilità mentale[33].

L’opinione politica: è il motivo di persecuzione che si riferisce alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente potenziali persecutori e alle loro politiche o ai loro metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti. Il concetto di opinione politica allude sia alla sfera politica propriamente intesa, sia a qualsiasi pensiero o convinzione su di una qualunque materia o questione di rilevanza pubblica o sociale, che possa suscitare la reazione dei potenziali agenti di persecuzione, anche se non si m è mai tradotto in atti concreti[34].

Per aversi persecuzione alla luce del motivo in esame, occorre che l’opinione sia stata a pretesto per compiere atti discriminatori, repressivi o punitivi avverso la persona che la esprime e la fa propria[35].

L’assenza di protezione dello Stato di cittadinanza e/o di residenza: l’assenza di protezione da parte del Paese di origine può dipendere sia da ragioni oggettive che soggettive, atteso che può dipendere da circostanze indipendenti dalla volontà del richiedente ed oggettivamente determinate da situazioni contingenti (quali lo stato di guerra nel Paese o una guerra civile) oppure da ragioni soggettive, qualora sia il richiedente stesso che non voglia avvalersi della protezione del Paese di provenienza, per ragioni strettamente collegate al timore ragionevole posto alla base della domanda di protezione, presumibilmente riconducibili al fatto che le autorità dello stato sono i soggetti responsabili o comunque complici della persecuzione stessa.

Sotto tale aspetto, alcune Corti nazionali hanno elaborato il concetto di «alternativa di fuga interna», ovvero la concreta possibilità per il richiedente di ricevere protezione in una diversa parte del Paese di origine. Tale criterio, che non compare nella convenzione di Ginevra, tende ad escludere la possibilità di riconoscere lo status di rifugiato a colui che può ottenere protezione idonea nel suo Paese di origine, rifugiandosi in una diversa parte del territorio nazionale rispetto a quella di specifica provenienza o rispetto a quella che è teatro delle persecuzioni. Tale criterio, espressamente indicato all’art. 8 della Direttiva Qualifiche, che ha previsto la mera facoltà degli Stati membri di recepirlo ed applicarlo, non è stato oggetto di recepimento in Italia, ragione per cui, le Commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria non possono escludere l’accertamento positivo di tali condizioni soggettive per la mera possibilità del richiedente di trasferirsi in una zona sicura del Paese di origine[36].

Condizione essenziale per il riconoscimento dello status di rifugiato è che il richiedente si trovi al di fuori del Paese di cui ha cittadinanza, o da quello di residenza abituale nel caso di apolidia, mentre è irrilevante se il timore ragionevole di subire persecuzioni sia sorto prima o dopo l’uscita dal Paese di provenienza. Tale condizione non ammette alcuna deroga, e per tali motivi, non rientrano potenzialmente nella categoria dei rifugiati, i cosiddetti sfollati interni, o internally displaced persons (Idp), cioè coloro che, pur meritevoli di tutela per lo stesso motivo dei rifugiati, non sono riusciti a varcare i confini dello Stato e si trovano ad essere bloccati nello stato di cittadinanza o residenza abituale, privi di forme di protezione; coloro non hanno uno specifico statuto giuridico, e sono soggetti alla sovranità dello stato di cittadinanza.

Va altresì sottolineato che la Convenzione di Ginevra non richiede che l’uscita dal Paese di origine si realizzi prima che sorga il pericolo di persecuzione, potendo esso emergere anche quando il richiedente si trova all’estero, per cui è irrilevante ai fini del riconoscimento della protezione, che il soggetto possa essere qualificato rifugiato già al momento della uscita dal Paese di origine. La figura del “rifugiato sur place”, di cui all’art. 5 della Direttiva Qualifiche, attuata dal legislatore nazionale all’art. 4 del d.lgs 251/2007, prevede infatti che il rischio di subire persecuzioni possa derivare da avvenimenti verificatisi dopo la partenza del richiedente, o da attività svolte dal richiedente dopo la sua partenza dal Paese di origine; invero, tale seconda ipotesi è quella che più può prestare il fianco a potenziali abusi, qualora il soggetto predisponga una serie di attività finalizzate in concreto ad ottenere il riconoscimento dello status, ed a tal riguardo la direttiva qualifiche ha concesso la facoltà agli stati membri di non riconoscere lo status di rifugiato qualora sia evidente che il timore di subire persecuzioni è basato su circostanze determinate dal richiedente stesso dopo la partenza dal Paese di origine[37].

3. Le clausole di esclusione dello status di rifugiato

La Convenzione di Ginevra individua una serie concreta di ipotesi in presenza delle quali non è possibile riconoscere lo status di rifugiato; tali ipotesi, disciplinate all’art. 1, paragrafi D, E ed F, sono riproposte in maniera sostanzialmente identica all’art. 12 della Direttiva Qualifiche, e recepiti dal legislatore nazionale all’art. 10 del d.lgs 251/2007.

La prima di esse concerne l’ipotesi in cui non ci sia la necessità evidente di attivare la protezione internazionale perché il richiedente beneficia già della assistenza o della protezione delle Nazioni unite, poiché la sua condizione rientra nel campo di applicazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, relativo alla protezione o assistenza di un organo o di una agenzia della Nazioni unite diversi dall’ Unhcr; ai fini della applicazione concreta di tale ipotesi, occorre che il soggetto abbia già materialmente ricevuto la protezione in esame. Sino al 2013, la principale categoria di persone potenzialmente interessate da questa clausola di esclusione è stata costituita dai profughi palestinesi che beneficiano di protezione da parte dell’Unrwa[38].

La seconda ipotesi concerne il caso dei cd. “quasi cittadini”, cioè coloro che sono considerati dalle autorità competenti del Paese in cui hanno stabilito la loro residenza come aventi diritti ed obblighi connessi al possesso della cittadinanza di detto Paese; la ratio di tale ipotesi di esclusione consiste nella evidente mancanza del bisogno di protezione perché il soggetto gode ed esercita, in modo concreto, questi diritti, potendo usufruire di un’altra protezione statale. L’ipotesi in esame è prevista dall’art. 12, comma 1, lett. B, della Direttiva Qualifiche.

L’ambito più esteso di clausole di esclusione attiene ai motivi di non meritevolezza. L’art. 1, lett. F), della Convenzione di Ginevra individua tre distinte ipotesi di non meritevolezza, tutte poi recepite dapprima dalla direttiva 2004/83/Ce e poi dall’art. 10, comma 2, d.lgs 251/2007; tutte le ipotesi in questione attengono alla commissione da parte del richiedente di gravi condotte, e specificamente: a) crimini contro la pace, crimini di guerra o contro l’umanità, come definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini; b) reati gravi, commessi al di fuori del territorio italiano e prima del rilascio del permesso di soggiorno quale rifugiato, o atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con chiaro obiettivo politico, che possano essere qualificati reati gravi[39]; c) atti contrari alle finalità ed ai principi della Nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli artt. 1 e 2 della carta delle Nazioni unite.

La prima delle ipotesi contemplate ha carattere aperto, atteso che il concetto di crimine contro la pace, la guerra o contro l’umanità va enucleato ed adeguato ai mutamenti storici e sociopolitici al momento di presentazione della domanda di protezione; occorre ricordare che in tale ipotesi è sufficiente che vi sia un mandato di cattura internazionale disposto da uno dei Tribunali o Corti internazionali per tali crimini perché il richiedente sia immediatamente consegnato alla Corte stessa, senza che abbia alcun diritto a rimanere nel territorio dello stato durante l’esame della domanda[40].

La seconda casistica attiene invece a quei casi in cui il richiedente lo status non potrà ottenerlo «ove sussistano fondati motivi per ritenere che abbia commesso al di fuori del territorio italiano, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, un reato grave ovvero che abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possano essere qualificati come reati gravi»; la clausola di esclusione non trova dunque applicazione laddove il crimine sia stato commesso nello stato di accoglienza, fatta salva la possibilità per lo stato ospitante di procedere contro il soggetto secondo le regole del sistema penale interno. Va precisato che la gravità del reato, ed il relativo giudizio che la accerta è operazione interpretativa diversa dall’esame della pericolosità del richiedente, ma è una valutazione oggettiva ancorata ai parametri della pena edittale non inferiore nel minimo a quattro anni e nel massimo a dieci. Tuttavia, è necessario che tale valutazione venga operata in senso conforme alla Costituzione ed alle norme internazionali vigenti, ragione per cui, in primo luogo ed in ossequio al principio di non colpevolezza di cui all’art. 27, comma 2 Cost., dovrà trattarsi di sentenza definitiva di condanna, ed in tal senso sarà sufficiente che lo Stato interessato faccia valere tale titolo esecutivo mediante l’invio alla autorità italiana di una documentata richiesta di estradizione o di esecuzione del mandato di cattura europeo e che su tale istanza si svolga la doverosa verifica degli organi giudiziari italiani anche a tutela del divieto di estradizione per reati politici ex art. 10, comma 4, Cost. In secondo luogo, in conformità al divieto di estradizione per reati politici, al divieto di pena di morte e a quello di subire torture o trattamenti inumani e degradanti, per consentire l’esclusione dello status di rifugiato, occorre che il reato per cui il soggetto sia stato condannato non preveda la pena di morte, né pene o trattamenti disumani e degradanti, e che la sentenza sia stata emessa a seguito di un giudizio in cui lo straniero abbia effettivamente esercitato il suo diritto di difesa.

L’ultima ipotesi di esclusione concerne la commissione di atti contrari ai principi delle Nazioni unite, e dunque atti, metodi e pratiche di terrorismo, posti in essere anche con condotte di mera incitazione, pianificazione o finanziamento[41]. Soggetti attivi di tali condotte possono essere possono essere tanto soggetti pubblici, quanto autori di atti terroristici o di altre forme di grave violazione dei diritti umani fondamentali[42].

4. Le cause di cessazione dello status di rifugiato

Il legislatore nazionale ha recepito integralmente le cause di cessazione dello status di rifugiato previste nella direttive qualifiche, ed all’art. 9 del d.lgs 251/2007 ha stabilito che, sono tali: a) la riassunzione volontaria della protezione nel Paese di cittadinanza; b) il riacquisto volontario della cittadinanza del Paese di origine; c) l’acquisto volontario della cittadinanza italiana o della cittadinanza di diverso Paese; d) il ristabilimento volontario nel Paese rispetto a cui sussisteva il timore di persecuzione; e) la possibilità di godere della protezione del Paese di cittadinanza a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato; f) la possibilità di godere della protezione del Paese di dimora abituale, nel caso dell’apolide, a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato.

Le prime quattro ipotesi sono le cosiddette cause di cessazione volontaria dello status, dipendendo esse da un cambiamento delle circostanze personali del rifugiato spesso conseguenti ad una sua iniziativa privata; sono queste le cause più frequenti, che tuttavia è auspicabile lasciarle ancorate a due componenti essenziali; il libero arbitrio espresso dal rifugiato e la condizione di sicurezza del soggetto anche in mancanza della protezione internazionale ed in virtù, ad esempio, dell’acquisto della mera cittadinanza.

Le ulteriori ipotesi alludono, invece, ad un cambiamento delle circostanze oggettive nello stato d’origine, tale da rendere ingiustificata e non più necessaria la protezione internazionale; in tali ipotesi, non sarà il rifugiato ad esprimere il desiderio di rinunciare alla protezione, ma il Paese di asilo che provvederà a revocare lo status, a patto che il cambiamento delle circostanze abbia natura non temporanea e tale da eliminare il fondato timore di persecuzione che aveva giustificato il riconoscimento dello status di rifugiato[43]. Occorre dunque un cambiamento di circostanze, fondamentale, stabile, duraturo ed effettivo[44]. L’onere probatorio della sussistenza di un cambiamento significativo e non temporaneo delle circostanze grava sempre e soltanto sullo stato di asilo.

L’operatività delle cause di cessazione è bloccata in virtù della sussistenza di gravi motivi umanitari che impediscano il ritorno del richiedente asilo nel Paese di origine; questo perché la cessazione dello status va dichiarata sulla base di una valutazione individuale di ogni singolo caso, sicché occorre verificare se un determinato Paese di origine o di residenza, eventualmente divenuto sicuro e capace di garantire protezione a tutti i suoi cittadini o residenti, non sia eventualmente ancora insicuro in relazione al soggetto interessato.

La cessazione è dichiarata con decreto della Commissione nazionale per il diritto di asilo, a cui la competenza è attribuita ai sensi dell’art. 5, d.lgs 25/2008, dopo lo svolgimento di una procedura che deve svolgersi nel rispetto di tutte le garanzie procedurali previste per le procedura di riconoscimento della protezione internazionale, nonché nel rispetto delle norme in materia di partecipazione del privato al procedimento amministrativo di cui alla L. 241/90; occorre dunque un avviso scritto dell’inizio del procedimento, con la indicazione del suo oggetto e dei motivi specifici, e il soggetto avrà il diritto di prendervi parte, di essere ascoltato e di produrre documentazione scritta[45].

Il decreto potrà essere impugnato dinanzi al Tribunale ordinario del capoluogo del distretto di Corte d’Appello in cui ha sede la Commissione territoriale che lo ha pronunciato; l’applicazione delle cause di cessazione non determina automaticamente il rimpatrio dell’interessato, che potrà ottenere il rilascio di un permesso di soggiorno a diverso titolo, in presenza di requisiti previsti in via generale dal testo unico delle leggi sull’immigrazione.

5. Il contenuto dello status

La decisione sulla concessione dello status, sia essa adottata in via amministrativa dalla Commissione territoriale, o in fase giurisdizionale dinanzi al giudice ordinario, ha natura meramente ricognitiva e non costitutiva dello status, e, nel caso di accoglimento in via amministrativa, non necessita dell’esplicazione delle motivazioni per cui essa è adottata, l’obbligo di motivazione sussiste solo per le ipotesi di diniego.

Lo status è rinunciabile da parte dell’interessato, ai sensi dell’art. 34, d.lgs 25/2008, con conseguente decadenza di tutti i diritti ad esso connessi; tuttavia, la rinuncia allo status non determina necessariamente il rimpatrio dell’interessato nel Paese di origine o di precedente dimora abituale, ma il richiedente potrà ottenere un titolo di soggiorno con diversa natura.

La direttiva 2004/83/Ce disciplina il contenuto della protezione internazionale all’interno del capo VII, dagli artt. 20 al 34, recepiti nell’ordinamento nazionale agli artt. 19/30 del d.lgs 251/2007. Le disposizioni prendono le mosse dal contenuto della Convenzione di Ginevra, come ribadito dall’art. 19 cit., in cui si chiarisce che i diritti in essa stabiliti non possono essere in alcun modo pregiudicati dalle norme di cui al decreto, e che la loro applicazione deve avvenire sulla base di una valutazione individuale delle specifiche situazioni di vulnerabilità, tra le quali devono essere certo ricomprese quelle dei minori, dei disabili, degli anziani, delle donne in stato di gravidanza , dei genitori singoli con figli minori[46].

La prima delle posizioni di vantaggio del rifugiato, è il suo diritto pieno a ricevere la più ampia informazione sui diritti e doveri connessi al suo status, informazioni che gli dovranno essere rese oralmente durante il colloquio con la commissione, e successivamente, dopo la decisione positiva, mediante la consegna dell’opuscolo predisposto dalla Commissione nazionale per il diritto d’asilo in una lingua che può presumersi possa essere conosciuta dall’interessato, o comunque in una delle quattro lingue principali.

Il rifugiato ottiene un permesso di soggiorno per motivi di asilo da parte della Questura della Provincia in cui dimora, della durata di cinque anni, rinnovabile alla scadenza, senza alcuna previa verifica della commissione territoriale competente circa la permanenza delle condizioni che hanno consentito il rilascio, atteso che l’eventuale mutamento delle circostanze giustificano non il rifiuto del rinnovo del permesso ma la cessazione dello status, ai sensi dell’art. 9 d.lgs 251/07.

Il permesso di soggiorno prevedrà anche la iscrizione automatica dei figli del rifugiato di età inferiore ai 15 anni. La permanenza per oltre cinque anni sul territorio nazionale, in veste di rifugiato, in presenza di tutti i requisiti previsti dalla L. 91/92 può dare diritto all’acquisto della cittadinanza italiana.

Al rifugiato è rilasciato un libretto di viaggio, documento equipollente al passaporto, che gli consentirà di circolare liberamente all’interno dell’area Schengen e nei territori degli altri Stati in cui è valida ed operativa la Convenzione di Ginevra, documento tra l’altro idoneo alla identificazione, rilasciato dalla Questura competente al rilascio del permesso di soggiorno.

L’assistenza amministrativa offerta al rifugiato ha carattere generale, e si applica ogni qualvolta egli, per l’esercizio di un diritto, necessita della assistenza di una autorità straniera a cui non può però rivolgersi; in tali ipotesi, i documenti e le attestazioni sono rilasciati dalle autorità del Paese in cui sono ospitati, oltre ai normali documenti di identità, qualora essi non possiedano un valido titolo di viaggio (art. 27 Convenzione di Ginevra)[47]. Ai fini della iscrizione anagrafica, il rifugiato è sottoposto alle medesime condizioni previste per l’iscrizione anagrafica dei cittadini italiani, per cui il presupposto è comunque la sussistenza di una dimora abituale nel comune ove si fa richiesta, ed ai fini della iscrizione anagrafica dello straniero, è comunque richiesta l’esibizione del permesso di soggiorno, ed è considerata dimora abituale anche la documentata accoglienza per almeno tre mesi in un centro di accoglienza (art. 6, comma 7, Tu)[48].

Al rifugiato, spetta altresì un regolare accesso al mercato del lavoro, potendo egli godere del medesimo trattamento previsto per il cittadino nazionale in materia di lavoro subordinato, autonomo, per l’iscrizione agli albi professionali, alla formazione professionale e per il tirocinio sui luoghi di lavoro; gli è altresì concesso l’accesso al pubblico impiego alle medesime condizioni previste per i cittadini comunitari.[49]

Anche per le forme di assistenza sociale, il rifugiato ha i medesimi diritti e facoltà del cittadino comunitario[50]: potrà beneficiare della concessione dell’assegno sociale, dei trattamenti pensionistici riservati agli invalidi civili, dell’assegno di maternità e di quello per il nucleo familiare con tre figli minori e di ogni altra prestazione anche economica prevista per i cittadini italiani a livello regionale, provinciale o comunale. Tra le forme assistenziali, deve rientrare anche la possibilità di accedere agli alloggi di edilizia residenziale pubblica del credito per l’acquisto della prima casa di abitazione[51].

Il titolare dello status , al pari dei beneficiari della protezione sussidiaria, ha diritto al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sanitaria, ragion per cui è previsto l’obbligo di iscrizione al Ssn per gli stranieri che abbiano chiesto il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno per protezione internazionale, con conseguente iscrizione anella azienda sanitaria locale del Comune di dimora[52].

Infine, l’art. 26 del d.lgs 251/07 garantisce il diritto all’accesso alla istruzione, per cui i minori titolari dello status hanno diritto di accedere agli studi di ogni ordine e grado secondo le modalità previste per il cittadino italiano, e l’iscrizione scolastica potrà essere richiesta in qualsiasi momento dell’anno. Analoghi principi sono fissati per le iscrizioni universitarie dei maggiorenni.

La norma in esame si occupa anche della complessa questione attinente al riconoscimento dei diplomi, certificati ed altri titoli conseguiti dal titolare dello status nel Paese di origine, prevedendo la applicazione delle disposizioni previste per il riconoscimento di titoli conseguiti all’estero dai cittadini italiani. Occorrerà dunque richiedere la dichiarazione di valore in loco, che è un documento di natura esclusivamente ricognitiva ed informativa ma non costituisce riconoscimento del titolo; successivamente, il Ministero competente o l’Università o l’ufficio scolastico potrà decretarne il riconoscimento della qualifica e del titolo compreso.

5.1. Il diritto alla unità familiare

L’art. 22 del d lgs 251/07 tutela il diritto al mantenimento dell’unità familiare del beneficiario della protezione internazionale, mentre il diritto al ricongiungimento familiare del titolare dello status di rifugiato è disciplinato dall’art. 29 bis del d.lgs 286/98.

Vanno considerati familiari del rifugiato, i soggetti appartenenti al suo nucleo familiare, già costituito prima dell’arrivo nel territorio nazionale, e specificamente il coniuge, i figli minori del beneficiario a patto che siano non sposati ed a suo carico (con piena equiparazione tra i figli minori naturali, adottati o affidati); tali soggetti, ai sensi dell’art. 22 del d.lgs 251/07 hanno i medesimi diritti del titolare dello status, ed in loro favore è rilasciato un permesso di soggiorno per motivi di famiglia, a nulla rilevando l’eventuale pregressa condizione di irregolarità di soggiorno nel territorio, a patto che, tuttavia, non ricorrano per essi le circostanze di cui agli art. 11, 13 e 17 che determinerebbero, da sole, l’esclusione o il diniego dello status. Inoltre, nello specifico, per i figli minori conviventi con il richiedente asilo, l’art. 6, comma 2, d.lgs 25/2008 sempre estendere gli effetti della decisione sulla domanda presentata dal genitore e dunque l’automatico riconoscimento dello status riconosciuto al genitore, anche perché in base all’art. 31 del Tu, i figli minori seguono la più favorevole condizione dei genitori e sono iscritti sino a 1 anni sul permesso di soggiorno del genitore.

La disciplina del ricongiungimento familiare con il rifugiato è invece quella espressamente prevista dall’art. 29 bis Tu; nello specifico, il rifugiato, a differenza di altri beneficiari di forme di protezione, non dovrà dimostrare la concreta disponibilità di un alloggio conforme ai requisiti igienico sanitari, nonché di idoneità abitativa né di un reddito minimo annuo; la prova del vincolo familiare sarà invece fornita da certificazioni rilasciate dalle rappresentanze diplomatiche italiane nel Paese di origine, ai sensi del dPR 200/67 , art. 49[53].

Va tuttavia evidenziato che, il soggetto pubblico o privato persecutore del rifugiato, a seguito del suo espatrio, in genere rivolge le sue attenzioni oppressive ai familiari del rifugiato al fine di ricattarlo e di favorirne il ritorno in patria, e tra le forme più immediate di ricatto vi è il ritiro del passaporto, con conseguente impossibilità di costoro di espatriare in modo regolare; per evitare tale sacrificio, e l’eventualità che essi siano costretti a rimanere segregati nel paese di origine, l’art. 30 comma 1 del Tu, prevede il permesso di soggiorno per motivi familiari ai familiari del rifugiato in possesso dei requisiti per il ricongiungimento, anche a prescindere dalla regolarità del loro soggiorno, e dunque anche laddove siano arrivati sul territorio nazionale privi di documenti.

Conclusioni

La necessità che si dia al concetto di rifugiato una lettura socialmente orientata, e politicamente connessa ai fenomeni migratori ed alle loro continue mutazioni sociali e geografiche, impone di abbandonare scelte ed opzioni ideologiche al tema della migrazione necessitata, ed impone altresì di affrontare il relativo fenomeno sociale come una questione che va risolta con un unico criterio di azione prioritario: il rispetto della dignità delle persone, ed il diritto alla qualità della vita di ciascuno, qualità che può essere legittimamente ricercata anche al di fuori dei confini geografici di appartenenza.

Ma la politica istituzionale pare essere lontana da questo approccio, che invece ha il pregio di rispondere ad una opzione culturale basata sulla elaborazione dei diritti, ed in primis sui dei diritti della persona oggettivamente fonti di tutela del singolo, a prescindere dalla sua provenienza geografica.

Nel summit sui Balcani tenutosi nel luglio 2017 a Trieste, il presidente francese Macron ha affermato: «Molto spesso nel dibattito pubblico confondiamo i rifugiati politici con i migranti economici, che però sono cosa diversa. È un dovere per noi accogliere chi chiede asilo perché rischia la vita nel proprio Paese. Ma non possiamo accogliere chi per motivi economici cerca di venire a vivere nel nostro Paese. Questa è una realtà molto diversa, non ricade negli stessi diritti e doveri. Sul piano morale la Francia non cederà allo spirito di confusione imperante». La dichiarazione ha suscitato molte polemiche perché, in effetti, la categoria di forced migration è piuttosto controversa, ma ha comunque il merito di portare in primo piano un problema che va affrontato di petto. La mancata distinzione, però, che porta non pochi ad accusare i rifugiati di essere migranti economici travestiti, contribuisce a fornire un alibi alla evoluzione in senso restrittivo delle politiche migratorie e a danneggiare proprio chi avrebbe titolo a ricevere accoglienza, protezione e asilo, nell’ottica di quella elaborazione giuridica sui diritti delle persone che è diritto vivente a cui occorre uniformarsi anche nelle scelte politiche.

È vero che, in molte circostanze, la difficoltà di accertare quale sia la dimensione prevalente rende la divisione essenzialmente convenzionale. I migranti per motivi di lavoro e i rifugiati si muovono entro condizioni e regimi giuridici diversi, e tuttavia, molto spesso povertà e conflitti sono in un rapporto di stretta osmosi, atteso che sottosviluppo e malgoverno, impoverimento e guerre endemiche sono spesso strettamente collegati. E tuttavia, la distinzione analitica tra migrazione volontaria e migrazione forzata ha il vantaggio di richiamare l’attenzione sul diverso valore che va riconosciuto alle rivendicazioni, e ai diritti, dei migranti economici rispetto a quelli dei rifugiati: questi ultimi, a differenza dei primi, non hanno avuto alcuna scelta riguardo alla decisione di abbandonare il proprio Paese, e sono pertanto titolari di uno specifico diritto che, prima di avere valenza giuridica, ha natura e spessore sociale e morale, ed è così che deve essere socialmente inteso. Ed è per questo che il diritto, riconosciuto ai governi a livello internazionale di regolare discrezionalmente l’arrivo degli stranieri, può – e deve – essere limitato dalla sottoscrizione di obblighi contratti volontariamente, come la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, che impone, come si è visto, agli Stati firmatari l’impegno a non procedere al rimpatrio forzato dei rifugiati e dei richiedenti asilo nel paese di origine quando ciò possa comportare un chiaro pericolo per la loro vita e la loro libertà.

Ciò posto, è evidente che il concetto di rifugiato sia tanto descrittivo quanto normativo. Anzi, mai come in questo caso definire equivale a prescrivere, cioè a compiere un atto performativo, nel senso che, più che descrivere una realtà (presuntivamente) oggettiva, si tratta di costruire la realtà che si intende definire e che può mutare a seconda del contesto e del punto di vista adottato, con la conseguenza che il percorso e la sensibilità politica di ogni comunità sociale ha il compito essenziale di dare senso e ampiezza al termine “rifugiato”. Per esempio, se ci si colloca nella prospettiva dei Governi dei Paesi di arrivo che tentano di giustificare procedure di espulsione agli ingressi di confine e di non applicare il più importante principio posto a tutela dei rifugiati, ossia quello del non-refoulement, la definizione descrittiva e normativa di rifugiato sarà quanto più restrittiva possibile, sia in senso procedurale sia sostanziale. Non a caso, per depoliticizzare le cause del loro spostamento è stato coniato il termine di bogus refugees, dei cosiddetti “finti rifugiati”, migranti irregolari che “saltano la fila” e approfittano dei sistemi nazionali d’asilo per regolarizzare la loro presenza. Siccome la Convenzione di Ginevra obbliga gli Stati firmatari ad attuare il principio di non-refoulement, i settori dell’opinione pubblica e del mondo politico che propendono per una politica generalizzata di chiusura, anche contraria al rispetto dei diritti della persona, accusano i rifugiati di essere in realtà dei migranti economici che sfruttano la richiesta di asilo, allo scopo strumentale di aggirare le politiche migratorie decise dagli Stati: una lettura superficiale, semplicistica, e poco rispettosa della più profonda a attenta considerazione per cui disagio sociale, pericolo per la sicurezza e necessità economiche sono spesso circostanze che convivono tra loro e che gravano sulla vita reale dei migranti. Per tali motivi, e proprio per suggerire e sostenere una operazione politico-culturale di segno opposto, è quanto mai necessario distinguere e affrontare senza reticenze il problema di stabilire con termini certi chi, tra i migranti, possa essere annoverato alla categoria dei rifugiati, anche laddove si dia ad essa una lettura elastica e socialmente orientata, nonostante il quadro normativo di riferimento che è stato sin qui esaminato.

Ma c’è una ulteriore ragione che alimenta discussioni e polemiche. I rifugiati sono persone che si sono viste costrette ad attraversare un confine internazionale e che non possono fuggire dal Paese d’origine se non ricevono accoglienza in un altro Paese. Il risultato è che il riconoscimento dello status di rifugiato dipende dai luoghi e dalle circostanze e risulta spesso assoggettato a dinamiche regolative fortemente discrezionali, che rendono talvolta arbitrario il processo di produzione normativa. nonostante l’oggetto dell’osservazione, su cui si costruiscono le scelte politiche, sia identico Sono gli Stati a decidere se riconoscere a uno specifico fenomeno migratorio un carattere volontario oppure se attribuirne valenza politica e forzata. È perciò evidente che il senso della definizione categoriale eccede ogni criterio descrittivo di appartenenza. La definizione giuridica di “rifugiato” presenta margini di interpretazione che si ampliano o si restringono a seconda delle condizioni politiche e delle pratiche di riconoscimento sociale, e per evitare che l’eccesso di discrezionalità nazionale si traduca in un discrimen per il riconoscimento dei diritti della persona, occorrerebbe non superare la prospettiva secondo la quale il “rifugiato” esisterebbe come una categoria sociologica direttamente prodotta dai trattamenti, istituzioni e pratiche della persecuzione o dell’oppressione che costringono gli esseri umani alla fuga, senza che tale categoria possa essere svilita, ridotta o ridimensionata da una lettura che non riconosca, a seconda del singolo Stato che affronta politicamente il fenomeno, gli elementi gravi ed oggettivi delle pur differenti forme di persecuzione e di oppressione. Il faro ed il criterio interpretativo per evitare questo rischio, è il concetto di dignità umana, un concetto base della civiltà e dei rapporti internazionali che mai dovrebbe essere formulato con prospettazioni al ribasso.

Infine, il tentativo, virtuoso, di proporre il concetto in una chiave onnicomprensiva risulta problematico fin dall’inizio a causa del messaggio implicito che le rappresentazioni a esso associato tendono a evocare. I sociologi e gli antropologi, non meno degli attori non governativi che operano sul campo, hanno spesso rivelato una malcelata insofferenza per le definizioni di tipo giuridico, dal momento che richiamano alla mente masse informi di esseri umani spogliati della loro umanità e suggeriscono immagini di dipendenza, impotenza e miseria. L’idea di rifugiato che ha monopolizzato l’immaginario collettivo evoca uno scenario di devastazione e perdita, che condanna le vittime a uno stato di inazione e passività. Naturalmente, le storie inenarrabili di dolore e devastazione non sono una finzione e riguardano milioni di persone, ma la tendenza a trasformare gli individui in semplici corpi sofferenti privi di soggettività presenta un rischio non da poco: da una parte, quello di considerare come un ‘vero’ rifugiato soltanto chi corrisponde allo stereotipo della “nuda vita”, vulnerabile e indifesa, e dall’altra, quello di dissolvere l’aura di compassione ed empatia che circonda le ‘vittime’ non appena agiscono da non-vittime, e ciò quando non manifestano il comportamento passivo considerato «normale» per le vittime, con conseguente calo della attenzione sociale e del giusto riconoscimento del fenomeno. Letture sociali, queste, figlie di un approccio superficiale al fenomeno migratorio, e ad una inaccettabile tendenza a richiedere forme stereotipate di migrazione e di migranti, senza nutrire un approccio al tema più fluido e più rispettoso delle diversità di vita con cui veniamo a contatto.

Tuttavia, prendere atto dei mutevoli confini semantici della categoria, del suo carattere costitutivo e non semplicemente dichiarativo, non fa venir meno l’esigenza pratica, politica e morale di individuare uno strumento giuridico in grado di proteggere esseri umani in fuga da ciò che può loro accadere nello spazio del male. Ciò che va comunque costantemente ribadito è che, nel caso del rifugiato, il problema della definizione rappresenta molto di più che una semplice questione di semantica e il problema di chi vada o non vada incluso nella categoria può segnare la differenza, in certi casi, tra la vita e la morte, o tra differenti tipologie di vita anche a scapito della dignità del vivere. In ogni caso, una definizione di tipo essenzialistico non è praticabile perché tende a essere avulsa dai bisogni reali, correlata a un ideal-tipo immaginato e decontestualizzato che si presta alla standardizzazione e alla burocratizzazione, approcci inaccettabili sia socialmente che giuridicamente. Ed allora, il rispetto della dignità umana e della dignità del vivere, il diritto al futuro e la necessità che i diritti della persona non subiscano pregiudizi né nei luoghi di partenza, né in quelli di arrivo, sono i criteri a cui ispirare una politica dell’accoglienza più coraggiosa, meno populista, e maggiormente rispettosa dei principi giuridici di civiltà e della elaborazione sociale e giuridica del diritto alla vita.

Ma non è neppure auspicabile, perché la diversità delle definizioni può servire tanto a soddisfare le differenti esigenze dei vari attori in campo, quanto la sua natura strutturalmente mutevole e adattabile.

[1] La lett. B del citato articolo specifica che «per avvenimenti verificatisi anteriormente al 1 gennaio 1951 possano intendersi gli avvenimenti verificatisi anteriormente al 1 gennaio 1951 in Europa, oppure gli avvenimenti verificatisi anteriormente al 1 gennaio 1951 in Europa o altrove, opzione che ciascuno degli Stati contraenti ha potuto scegliere al momento della firma, della ratifica o dell’adesione alla Convenzione».

[2] La limitazione geografica (art. 1, lett. B) è stata poi rimossa in Italia, con la Legge 28.2.1990 n. 39, e permane soltanto per un numero limitatissimo di Stati contraenti: Brasile, Paraguay e Turchia.

[3] Il principio subisce delle deroghe nelle ipotesi di cui agli artt. 32 e 33, comma 2, che consentono l’espulsione del rifugiato «per ragioni di sicurezza nazionale e ordine» e qualora «per motivi seri, egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede o costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di questo Paese».

[4] La natura dichiarativa dello status di rifugiato è stata univocamente chiarita dalla sentenza 17 Dicembre 1999 n. 907 delle Sezioni unite della Corte di cassazione, che hanno affermato. «La qualifica di rifugiato politico ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 costituisce, come quella di avente diritto all’asilo (dalla quale si distingue perché richiede, quale fattore determinante, un fondato timore di essere perseguitato, cioè un requisito non richiesto dall’art. 10, comma 3, Cost.) una figura giuridica riconducibile alla categoria dello “status” e dei diritti soggettivi, con la conseguenza che tutti i provvedimenti assunti dai competenti organi in materia hanno natura meramente dichiarativa e non costitutiva, e le controversie riguardanti il riconoscimento della posizione di rifugiato (così come quelle sul riconoscimento del diritto all’asilo) rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, una volta definitivamente abrogato dall’art. 46 L. 40/98, l’art. 5 dl n. 416/89, convertito con modificazioni dalla L. 39/90 (abrogazione confermata dall’art. 47 del Tu d.lgs 286/98) che attribuiva al giudice amministrativo la competenza per l’impugnazione del provvedimento di diniego dello status di rifugiato» (cfr. anche Cass. 5055/2002 , 8423/2004, 11441/2004, 27319/2008).

[5] Tale documento si prefigge, tra gli altri, lo scopo di evitare il fenomeno dell’asylum shopping, ovvero della ricerca dello Stato membro con una disciplina più favorevole per l’accertamento delle esigenze di protezione.

[6] Definita nel Considerando della Direttiva in parola, come «la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa ai rifugiati».

[7] Considerando n. 6 della Direttiva in esame.

[8] Investita della richiesta di protezione internazionale da parte della Questura, su richiesta presentata dall’interessato ad un Ufficio di polizia di frontiera o alla Questura stessa.

[9] Cfr. parr. 40 e 41 Manuale Unhcr, ragion per cui occorre valutare se il timore espresso dal richiedente sia verosimile per un individuo che si trovi nelle concrete condizioni fisiche, psicologiche, economiche, sociale e culturali della persona interessata

[10] Cfr. art.8, comma 3, d.lgs 25/2008, secondo cui «ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise ed aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese d’origine del richiedente».

[11] Art. 3, comma 4, del d.lgs 251/07, recita testualmente che «il fatto che il richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni, salvo che si individuino elementi o motivi per ritenere che le persecuzioni o i danni gravi non si ripeteranno».

[12] Art. 3, commi 1 e 2 d.lgs 251/2007.

[13] Corte di Giustizia, sentenza della Grande Sezione nelle cause riunite C-71/11 e C-99/11 Bundesrepublik, Deutschhland/Y.Z. 5 settembre 2012.

[14] Inoltre, l’interpretazione della Convenzione di Ginevra, anche alla luce della normativa internazionale in materia di diritti umani, consente certamente di affermare che, per le stesse ragioni, devono considerarsi persecuzioni anche altre gravi violazioni dei diritti umani (par. 45 Manuale Unhcr)

[15] Il diritto alla vita (art. 2), alla protezione dalla tortura, dalle pene e dai trattamenti inumani o degradanti (art. 23), alla protezione dalla riduzione in schiavitù o servitù (art. 4), alla legalità ed alla irretroattività delle incriminazioni penali e delle pene (art. 7), alla libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 9) e alla vita privata e familiare (art. 8).

[16] Par. 54 Manuale Unhcr «È solo in circostanze particolari che la discriminazione determina persecuzione. Ciò avviene se le misure discriminatorie implicano conseguenze gravemente pregiudizievoli per la persona colpita, ad esempio, da serie restrizioni del diritto di guadagnarsi la vita, di praticare la propria religione o di avere accesso alle strutture scolastiche disponibili per la generalità dei cittadini».

[17] Alla violenza di genere si ascrivono le violenze intrafamiliari, comprese le percosse, lo sfruttamento sessuale, l’abuso sessuale delle minori in luogo domestico, la violenza legata alla dote, lo stupro da parte del marito, le mutilazioni genitali femminili e altre pratiche dannose per la salute della donna, la violenza all’interno della comunità di appartenenza, quella giustificata da parte dello Stato o delle istituzioni, ovunque essa si verifichi (Unhcr, Violenza sessuale e di genere nei confronti di rifugiati, rimpatriati e sfollati interne. Linee guida per le prevenzione e la risposta).

[18] Cass. 20.9.2012 n. 15981, Cass, 25.7.2007 n. 16417.

[19] Cass. Ordinanza 17576/2010, che ha statuito che la persecuzione politica sussiste anche quando vengano legalmente adottate sanzioni penali all’esito di un regolare processo a carico di chi ha espresso mere opinioni politiche.

[20] Recenti pronunce di merito hanno concesso lo status di rifugiato, a cittadini ucraini che hanno rifiutato l’arruolamento, richiamati a prestare servizio di leva come riservisti (cfr. Trib. Palermo 29.3.2018, Trib. Torino 25.8.2017, Trib. Perugia 13.3.2018, che ha esteso il riconoscimento dello status anche al coniuge del riservista).

[21] In Italia, pur essendo la diserzione un reato militare, il nostro ordinamento prevede il dovere del militare di non eseguire un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce manifestamente reato.

[22] Cedu, sent. 15.11.1996, Chabal/United Kingdom; sent. Grand Chamber 28.2.2008, Saadi/Italy.

[23] Nella nuova Direttiva Qualifiche è stato precisato che tale protezione contro persecuzioni o danni gravi deve essere “effettiva e non temporanea” (art. 7, comma 2, Direttiva 2011/95/Ue)

[24] Tale definizione è contenuta nella Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 21.12.1965, e poi ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 13.10.1975 n. 654, a decenni di distanza dalle odiose Leggi razziali promulgate in epoca fascista.

[25] Par. 68 Manuale Unhcr.

[26] Cfr., tra le più recenti pronunce di merito, Trib. Trieste 30.1.2018, che ha concesso lo status di rifugiato ad un cittadino della Repubblica popolare cinese, perseguitato per motivi religiosi, nonché Trib. Bari 29.3.2017, che ha riconosciuto lo status ad un cittadino iraniano, convertito ad altra religione.

[27] Par. 71,73 Manuale Unhcr.

[28] Sentenza resa dalla Grande Sezione nella cause riunite C.7/11 e C-99/11 Bundesrepublik Deutschland/Y.Z, del 5.9.2012.

[29] Sotto tale profilo, al Corte di giustizia ha sottolineato come, qualora la partecipazione a cerimonie pubbliche di culto, singolarmente o in gruppo, possa comportare la concretizzazione di siffatte lesioni, la violazione del diritto alla libertà di religione può configurarsi come sufficientemente grave.

[30] L’art. 8, comma 1, lett. D, del d.lgs 251/2007 chiarisce che i due criteri sono alternativi tra loro, per cui il gruppo sociale «è quello costituito da membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure condividono una caratteristica o una fede che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che una persona non dovrebbe essere costretta a rinunciarvi, oppure è quello che possiede una identità distinta nel paese di origine perché vi è percepito come diverso dalla società circostante».

[31] Cass civile, sez. VI ord. 209.2012 n. 15981, afferma che «l’esistenza di norme penali che puniscono gli atti omosessuali costituisce di per sé una condivisione generale di privazione del diritto fondamentale di vivere liberamente la propria sfera sessuale ed affettiva, il che rappresenta una violazione di un diritto fondamentale sancito dalla nostra Costituzione, dalla Cedu e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e che si riflette automaticamente sulla condizione individuale delle persone omosessuali ponendole in una situazione di oggettiva persecuzione tale da giustificare la concessione della protezione richiesta». Recentissime pronunce di merito, nel solco di un percorso giurisprudenziale ormai risalente nel tempo, hanno confermato il riconoscimento dello status di rifugiato a persone omosessuali, provenienti da Paesi in cui l’omosessualità è reato punito con la reclusione, quali la Nigeria (Trib. Bologna 6.3.2018, Trib. Roma 17.11.2017), il Gambia (Corte appello Bologna 23.2.2018), il Pakistan (Trib. Lecce 25.10.2017), il Camerun (Corte app. Trieste 18.9.2017), il Senegal (Trib. Bologna 11.5.2017).

[32] Cfr. Trib. Brescia 24.1.2018, che, con riferimento allo Stato del Senegal, ha riconosciuto lo status di rifugiato ad una donna vittima di violenza domestica; Trib. Milano 24.7.2017, che ha riconosciuto lo status ad una cittadina nigeriana, vittima di mutilazioni genitali, e Trib. Messina, 11.8.2017, che ha concesso la status di rifugiata ad una donna nigeriana vittima di tratta.

[33] Unhcr, Elegibility, Guidelines for assessing the internationale Protection Needs of Asylum- Seekers from Colombia, 2010.

[34] Tra le pronunce di merito più recenti, vanno segnalate Corte appello Napoli, che ha riconosciuto lo status di rifugiato ad un cittadino del Bangladesh, perseguitato per motivi politici, e Trib. Salerno 24.2.2017, che ha concesso lo status ad un cittadino del Mali, oggetto di persecuzione nel suo Paese di matrice jihadista.

[35] Cass, Sez VI civ. ord. 2.7.2010 n. 17576 ha affermato che la persecuzione politica sussiste anche quando vengano legalmente adottate sanzioni penali all’esito di un regolare processo a carico di chi ha espresso mere opinioni politiche, mentre ha affermato che non può essere considerata persecuzione la repressione adottata con sanzione penale dell’attività di incitamento alla violenza.

[36] Cass. civ, 25.1.2012 n. 2294.

[37] Art. 5, comma 3, Direttiva 2004/83/Ce, di tale facoltà il legislatore italiano non si è avvalso, sebbene riconosca una specifico fumus persecutionis alle sole ipotesi in cui l’autorità accertatrice verifiche che le attività adottate costituiscono l’espressione e la continuazione di convinzioni ed orientamenti già manifestatisi nel Paese di origine, di modo che la continuità di tali espressioni rappresenti la garanzia rispetto ad eventuali strumentalizzazioni ed abusi da parte del richiedente.

[38] United Nations Relkief and Work Agency for Palestin Refugees in the Near East: trattasi di un’agenzia che offre protezione a quei palestinesi che rientrano nella definizione di rifugiato o di sfollato, all’interno di cinque aree geografiche: Libano, Giordania, Siria, Cisgiordania e striscia di Gaza.

[39] La gravità in parola è valutata anche tenendo conto della pena prevista dalla legge italiana per il reato non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni.

[40] Art. 7, comma 2, lett. B9, d.lgs 25/2008.

[41] Direttiva 2004/83/CE e considerando n. 22.

[42] A tal proposito si segnala Corte di giustizia dell’Ue, sentenza 9.11.2010 n. 111, con cui la Corte ha ritenuto che, per poter considerare sussistenti le cause di esclusione, l’autorità competente deve valutare che sia effettivamente ascrivibile al ricorrente una responsabilità individuale per atti commessi dall’organizzazione terroristica durante il periodo in cui ne faceva parte, e chiarisce che, a tal fine, si deve esaminare il ruolo effettivamente svolto dal soggetto nella partecipazione ad atti terroristici, la sua posizione all’interno dell’organizzazione stessa e l’eventualità che fosse sottoposta a pressioni o altre forme di condizionamento. La Corte specifica anche che gli Stati membri possono riconoscere il diritto d’asilo in forza del loro diritto nazionale ad una persona esclusa dallo status di rifugiato in virtù delle clausole di esclusione, a patto che tale forma di tutela non comporti un rischio di confusione con lo status di rifugiato ai sensi della direttiva.

[43] Art.9, comma 2 d.lgs. 251/2007.

[44] Corte di giustizia, 2.3.2010 sentenza n. 16, Salahadin Abdulla, cause riunite 175/08- 176/08- 178/08- 179/08: La Corte ha affermato che «ai fini della valutazione di un cambiamento delle circostanze, le autorità competenti dello Stato membro devono verificare, tenuto conto della situazione individuale del rifugiato, che il soggetto o i soggetti che offrono protezione … abbiano adottato adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori, che quindi dispongano, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione e che il cittadino interessato, in caso di cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a detta protezione».

[45] Art. 33 d.lgs 25/2008.

[46] Art. 19, comma 2, d.lgs 251/07.

[47] La Commissione nazionale per il diritto di asilo, con nota prot. 1409/CS del 24.4.2009 ha affermato che «la certificazione della Commissione che ha riconosciuto lo status agli interessati, unitamente ai relativi permessi di soggiorno rilasciati dalla Questura di residenza possono sostituire, a parere dello scrivente, a tutti gli effetti la documentazione che non può essere richiesta dalle autorità del loro Paese di origine».

[48] In ogni caso, trova applicazione l’art. 2 della Legge 24.12.1954 n. 1228 come modificato dalla L. 94/2009.

[49] Art. 15, comma 1, d.lgs 251/07.

[50] Art. 27, d.lgs 251/07.

[51] Art. 31 Direttiva Ue sulle Qualifiche, in conformità all’art. 21 della Convenzione di Ginevra.

[52] Art. 42 dPR 394/1999.

[53] Cfr. Trib. Perugia 24.5.2017, secondo cui il genitore del rifugiato, ai fini del rilascio del visto di ingresso per ricongiungimento familiare, non deve provare di essere a carico del figlio.