Magistratura democratica

Quali Consigli giudiziari

di Andrea Natale

Quale che sia stato il sistema di governo della magistratura (auto o etero-governo), storicamente si è sempre previsto l’intervento di un organo decentrato, più vicino alle realtà territoriali (pur nella differenza di attribuzioni e di composizione di tali organi). Il presente contributo indaga allora su quale ruolo possano oggi giocare i Consigli giudiziari nel sistema di autogoverno, rilevando come tali istituzioni siano oggi da considerare «compartecipi nell’esercizio della amministrazione della giurisdizione», tanto da entrare in rapporti talora dialettici con i dirigenti degli uffici giudiziari. Le diversità di interpretazione del ruolo dei Consigli giudiziari emergono – più che sul piano normativo – soprattutto sul piano delle prassi, ove le diverse interpretazioni e concezioni del ruolo dell’autogoverno decentrato si confrontano, essendo influenzate dalle diverse impostazioni culturali emergenti nel corpo della magistratura.

1. L’irrinunciabilità di un livello decentrato nel sistema di governo della magistratura

Sin dagli albori dell’Italia unita, le leggi in materia di ordinamento giudiziario hanno sovente previsto articolazioni decentrate, variamente denominate, ma, comunque, collocabili «in una linea di sostanziale continuità[1]» con gli odierni Consigli giudiziari.

Era, dunque, ben presente – sin dall’origine dell’esperienza unitaria – l’importanza di prevedere articolazioni decentrate nel sistema di governo della magistratura[2].

Le attribuzioni di tali organi erano essenzialmente consultive e risultavano ancillari a deliberazioni demandate per lo più al sostanziale potere decisionale del potere esecutivo; le competenze dei progenitori dei Consigli giudiziari avevano principalmente ad oggetto lo status e la carriera dei magistrati, perché era anzitutto attraverso quelli snodi – status e carriera – che si governava la magistratura. 

La previsione di un livello di “governo decentrato” della magistratura – in parte composto da magistrati – ha probabilmente rappresentato un primo passo nel cammino verso l’affermazione di un minimo di autonomia della magistratura dal potere esecutivo (con una punta piuttosto avanzata nel 1907, con la previsione di una – minoritaria – componente elettiva nei Consigli giudiziari istituiti presso i tribunali e presso ciascuna corte di appello)[3]. Ma – ad esser franchi – il livello di autonomia di tali organi restava comunque modesto: le leggi in materia di ordinamento giudiziario, nella neonata Italia unita, riflettevano pur sempre lo spirito dei tempi e il dettato statutario: la giustizia emanava dal Re e il corpo della magistratura era composto da funzionari dello Stato con un’impronta culturale fortemente burocratica; la magistratura era poi significativamente influenzabile dal potere esecutivo che aveva rilevanti poteri sulla nomina e sulla carriera dei magistrati[4].

Con il tramonto dello stato liberale e con l’avvento del fascismo, ovviamente, si registra un’ulteriore gerarchizzazione nel corpo della magistratura e si accentuano i profili di subordinazione della funzione giudiziaria al potere esecutivo. Per quanto ora di nostro interesse, i Consigli giudiziari presso i tribunali (più diffusi sul territorio e dunque più pericolosi, poiché periferici e meno “controllabili” dal potere centrale), vengono soppressi; i Consigli giudiziari presso le Corti di appello non vengono soppressi, ma, ovviamente, viene esclusa la eleggibilità dei suoi componenti, designati dal primo presidente della Corte di appello (che, però, veniva nominato con decreto reale, sentito il Consiglio dei ministri, con la conseguenza che i presidenti di Corte di appello erano inseriti a pieno titolo in un circuito fiduciario che li legava al potere politico); tali organi conservano funzioni per lo più burocratiche e consultive in materia di status e carriera dei magistrati[5].

È del tutto evidente che – in quella temperie storica – tali organi non potevano costituire un presidio per l’autonomia della magistratura, quanto piuttosto uno degli anelli della catena di controllo che veniva esercitato sulla stessa.

Caduto il regime fascista, nel periodo transitorio, viene emanato il Rd.lgs 31 maggio 1946 n. 511 (cd. Legge sulle guarentigie). Alcuni degli aspetti più odiosi del previgente assetto dell’ordinamento giudiziario vennero rimossi o temperati; per quanto di interesse in tema di autogoverno decentrato, con la legge sulle guarentigie si previde l’istituzione di Consigli giudiziari presso ciascuna corte di appello, con competenze essenzialmente consultive rispetto alle determinazioni che sarebbero state demandate al Consiglio superiore della magistratura e per lo più in materia di status e carriera dei magistrati (con qualche marginale competenza anche in materia disciplinare). È però indicativo del mutato spirito dei tempi il fatto che la legge sulle guarentigie abbia reintrodotto l’elettività di alcuni dei componenti del Consiglio giudiziario[6] e abbia previsto una qualche forma di partecipazione al procedimento da parte del magistrato interessato ad un parere del Consiglio giudiziario[7].

A margine dei lavori dell’Assemblea costituente e nel corso dei lavori della stessa (principalmente nell’ambito dei lavori della cd. Commissione dei settantacinque, seconda sottocommissione)si ragionò anche sulla possibilità di inserire nel testo della Carta un qualche riferimento ad organismi decentrati di autogoverno; infine – come è noto – prevalse l’opinione negativa[8] e nessun riferimento ai Consigli giudiziari fu introdotto in Costituzione (sebbene vi sia chi ha comunque ritenuto che la VII disposizione transitoria[9] abbia attribuito un «indiretto riconoscimento di rilievo costituzionale»[10] ai Consigli giudiziari)[11].

L’assetto dei Consigli giudiziari rimase poi immutato sino all’approvazione della legge 12 ottobre 1966, n. 825, che rideterminò le modalità di composizione dei Consigli giudiziari. Nel cinquantennio successivo – con una non sempre organica serie di interventi di normazione primaria e di normazione secondaria di matrice consiliare – i Consigli giudiziari vennero via via investiti di ulteriori competenze: in materia di formazione dei magistrati (soprattutto degli uditori giudiziari); di formulazione di pareri in materia di valutazioni di professionalità per l’attribuzione delle qualifiche ed in materia di pareri per il conferimento di uffici direttivi e semi-direttivi; in materia di magistratura onoraria, e via seguitando.

Nel contesto di un excursus storico sull’esperienza dei Consigli giudiziari, non può, però, tacersi che essi vennero anche investiti – infine con fonte di rango primario – di rilevanti funzioni consultive in materia di organizzazione degli uffici giudiziari.

Con legge n. 479 del 1987 si introduce nella legge istitutiva del Csm l’art. 10 bis (Formazione delle tabelle degli uffici giudiziari); l’art. 10 bis inserisce – nel procedimento di approvazione delle tabelle – anche un intervento dei Consigli giudiziari, posto che le tabelle degli uffici vengono approvate «in conformità delle deliberazioni del Consiglio superiore della magistratura, assunte sulle proposte formulate dai presidenti delle Corti di appello, sentiti i Consigli giudiziari…»[12]. Anche in materia tabellare, le attribuzioni e il ruolo dei Consigli giudiziari sono stati poi disciplinati dal Csm con maggior grado di dettaglio attraverso abbondanti interventi di normazione secondaria[13].

La rassegna – non breve, benché inevitabilmente superficiale – che precede è funzionale a mettere in luce un aspetto: la previsione di un sistema di governo della magistratura che passi attraverso un livello territorialmente decentrato rappresenta una costante abbastanza significativa delle leggi in materia di ordinamento giudiziario.

Degli antenati dei Consigli giudiziari sono mutati – nel tempo – le denominazioni, le strutture, le composizioni, i criteri di selezione, le funzioni e gli interlocutori. Soprattutto, nel tempo, si sono trasformati i livelli di autonomia o di dipendenza dal potere politico del circuito decentrato di amministrazione della giustizia. Ma non si è (quasi) mai rinunciato ad un organo di prossimità che esercitasse funzioni ausiliarie rispetto a quelle di chi esercitava il governo della magistratura (sia che si trattasse di etero-governo della magistratura da parte del contingente potere politico, sia che si trattasse – come ora – di governo autonomo della magistratura).

Occorre allora chiedersi quale ruolo debbano avere oggi i Consigli giudiziari e quale senso debba avere oggi la loro azione.

2. Le “riforme” del triennio 2005-2007: i Consigli giudiziari oggi

Gli sviluppi più recenti sono certamente noti e di essi si darà qui conto in modo estremamente sintetico[14]: nel corso del triennio 2005-2007, l’ordinamento giudiziario subisce una profonda trasformazione (con l’approvazione della legge delega n. 150 del 2005 e l’approvazione dei decreti delegati nel corso del 2006, poi emendati – in parti non trascurabili – nel corso del 2007).

Per quanto di rilievo sul tema dei Consigli giudiziari, ci si limita a ricordare che essi sono stati riformati dal decreto legislativo n. 25 del 2006 (“regnante” il ministro Castelli), poi modificato con legge n. 111 del 2007 (sotto il Ministero della giustizia presidiato dall’on. Mastella).

Gli aspetti maggiormente significativi di tali interventi normativi sono – in sintesi – rappresentati: (a) dalla istituzione del consiglio direttivo della Corte di cassazione; (b) dalla composizione dei Consigli giudiziari allargata anche a membri non togati (avvocati nominati dal Consiglio nazionale forense e professori universitari)[15]; (c) dall’istituzione presso il Consiglio giudiziario di una sezione autonoma per la magistratura onoraria, composta anche da magistrati onorari individuati su base elettiva; (d) dalla previsione di una composizione dei Consigli giudiziari «a geometria variabile» (allargata ai membri non togati per la trattazione degli affari attinenti questioni di organizzazione degli uffici; ristretta ai soli membri togati per tutti gli altri affari) [16]; (e) dalla previsione di un sistema elettorale per i membri togati strutturato come competizione elettorale articolata su due categorie – giudicante e requirente – e disciplinata da un sistema elettorale di carattere proporzionale a liste contrapposte (con superamento del previgente sistema elettorale di tipo maggioritario); (f) dalla previsione di nuove competenze, in precedenza non previste[17].

Nell’esercizio della loro autonomia regolamentare[18] tutti i Consigli giudiziari hanno – con diversità di accenti – colto l’importanza della loro collocazione nel sistema del governo autonomo della magistratura; ne è testimonianza la cura dedicata – nei vari regolamenti – a delineare un sistema di regole di funzionamento che garantisca la trasparenza del funzionamento dell’organo collegiale: prevedendo la previa pubblicazione e comunicazione degli ordini del giorno delle sedute ai magistrati (e talora anche ai Consigli dell’ordine degli avvocati del distretto); prevedendo la pubblicazione dei verbali delle sedute consiliari; prevedendo la pubblicità delle sedute dei Consigli giudiziari (con possibilità di assistervi per magistrati ed avvocati e, in un caso, anche per gli organi di informazione)[19]; prevedendo, in taluni distretti, un diritto di tribuna per i componenti non togati, con possibilità di assistere anche alle sedute del Consiglio giudiziario che delibera in composizione “ristretta” (valutazioni di professionalità, pareri attitudinali et similia); prevedendo una rigorosa (talora più, talora meno) declinazione dei criteri di assegnazione degli affari ai singoli consiglieri giudiziari[20].

Si tratta di un dato comune ai regolamenti dei diversi Consigli giudiziari che è indicativo del fatto che ciascuno di tali organi – nell’esercizio della propria autonomia regolamentare, ma anche nella propria prassi[21] – ha colto il valore cruciale della trasparenza come prima condizione di legittimazione del governo autonomo della magistratura; l’amministrazione della giustizia – in ciascuno dei suoi passaggi – deve vivere in una casa di vetro; la trasparenza è infatti la precondizione per l’esercizio di un qualche controllo democratico sull’operato dei Consigli giudiziari, che sono pur sempre organi collegiali composti (almeno in parte) da persone elette.

3. I Consigli giudiziari nel cuore dell’autogoverno

I Consigli giudiziari sono tradizionalmente intesi come organi ausiliari del Csm, a questo funzionalmente subordinati e chiamati essenzialmente ad esprimere meri pareri, spesso necessari, ma non vincolanti per i componenti non togati[22].

Sennonché, una simile visione del ruolo dei Consigli giudiziari, seppure giuridicamente corretta, appare eccessivamente schematica[23], ove si guardi alla realtà effettuale.

È stato acutamente – quanto schiettamente – osservato che «il contributo conoscitivo [offerto dai Consigli giudiziari] costituisce ormai la fonte presupposto pressoché immancabile e determinante di ogni provvedimento del Csm, il cui controllo, in assenza di specifiche doglianze dell’interessato o di controinteressati, ovvero di dati informativi aliunde acquisiti di segno contrario o comunque non del tutto omogenei, si riduce in pratica “a zero”; con il che la sostanziale ratifica del parere dell’organo ausiliare rende tale atto decisivo ai fini della delibera finale»[24].

Del resto, già il Consiglio superiore della magistratura aveva constatato una «realtà evidente»: per una moltitudine di fattori – tra essi «il numero delle decisioni e delle scelte amministrative e operative da compiere a diretto contatto con le situazioni locali», con conseguente «costante sovraccarico del Consiglio» – «il modello di autogoverno della magistratura sin qui sperimentato, imperniato su un centro unico ed assolutamente preminente – il Csm – non è più sufficiente, da solo, a soddisfare le molteplici esigenze di una moderna ed efficiente amministrazione della giurisdizione»[25].

Le attribuzioni assegnate ai Consigli giudiziari pongono dunque questi ultimi al “centro” del sistema del governo autonomo della magistratura, i cui contenuti si sono – nel corso dei decenni – arricchiti: se un tempo il governo della magistratura si esprimeva soprattutto nell’esercizio di competenze in materia di status e carriera dei magistrati (e, come visto, queste erano le principali funzioni esercitate dai Consigli giudiziari sino ai tardi anni sessanta del secolo scorso), ora il governo autonomo della magistratura si esprime anche – e forse soprattutto – con l’esercizio di rilevantissime competenze in materia di organizzazione degli uffici giudiziari con ricadute immediate sui contenuti stessi della funzione giurisdizionale. 

Ne è conferma il fatto che lo stesso Consiglio superiore giunge ad affermare che «i Consigli giudiziari realizzano una forma di compartecipazione nell’esercizio della funzione valutativa rimessa al Consiglio superiore della magistratura» e a ritenere – ancor più nettamente – che «i Consigli giudiziari siano in grado di fornire al Consiglio superiore della magistratura, nell’ambito della compartecipazione nell’esercizio della amministrazione della giurisdizione, un sempre più analitico e conferente contributo di conoscenza sulle diverse realtà giudiziarie locali»[26]; si badi: compartecipazione nell’esercizio dell’amministrazione della giurisdizione.

Se – nei fatti – le cose stanno così (e, effettivamente, stanno proprio così), appare chiaro che non può in alcun modo essere condivisa una lettura minimalista del ruolo dei Consigli giudiziari nel sistema di governo autonomo della magistratura. Al pari dell’esercizio della giurisdizione, anche l’attività svolta nei Consigli giudiziari – lungi dall’essere attività puramente tecnica, come talora la si vuole dipingere – non può che essere influenzata dalle diverse – e in confronto tra loro – impostazioni culturali in materia di autogoverno emergenti nel corpo della magistratura e, dunque, da un inevitabile tasso di politicità.

3.1. I pareri attitudinali e le valutazioni di professionalità

La manifestazione di diverse matrici culturali e di diverse idee sul modo di esercitare le funzioni di consigliere giudiziario si rileva – solo per fare un esempio facile – già dal modo di redigere una bozza di parere in una valutazione di professionalità[27]: un profluvio di aggettivi oppure la faticosa ricerca di dati oggettivi[28]? il mero recepimento – il copia incolla – dei rapporti informativi del “capo” dell’ufficio[29], oppure la lettura critica del rapporto informativo e la autonoma valutazione dei dati obiettivi risultanti dal fascicolo? l’elaborazione di una valutazione di professionalità estremamente sintetica (quasi a fotografare, come un tempo, una progressione in carriera con anzianità senza demerito), oppure una più minuziosa fotografia della professionalità del magistrato (sì da accumulare nel tempo elementi informativi sulla sua capacità; elementi, evidentemente, da riutilizzare allorquando il magistrato in questione formulerà domande per posti direttivi o semidirettivi)[30]?

Ancora, quanto alla redazione di pareri attitudinali (oltre ai quesiti retorici sopra segnalati): snocciolare acriticamente l’elenco di medagliette accumulate dall’aspirante dirigente nel corso della sua carriera o provare a verificare come egli abbia esercitato i ruoli di responsabilità organizzativa a lui attribuiti nel corso del tempo[31]? limitarsi ad “offrire una chance” all’aspirante dirigente diversamente bravo (tacendo eventuali criticità e confidando che – nella valutazione comparativa – il Csm agisca con saggezza), oppure spingersi sino ad offrire una chance all’ufficio che egli aspira a dirigere (riportando le criticità rilevabili dal fascicolo e risparmiando dunque a quell’Ufficio l’esperienza di esser organizzato da un dirigente non adeguato)? valutare il progetto organizzativo che l’aspirante dirigente predispone per l’ufficio che egli chiede di poter dirigere o lasciare che esso sia un mero elemento decorativo della domanda che valuterà – se lo vorrà – il Csm[32]?

L’esperienza insegna che vi sono molti modi di “scrivere un parere” e, purtroppo, insegna soprattutto che viene ora affermandosi una modalità di redazione dei pareri largamente – quando non integralmente – recettizia dei rapporti informativi dei dirigenti degli uffici; si tratta di un’opzione che esprime una certa matrice culturale, istintivamente fiduciosa nella sapienza di giudizio “dei capi” e che, almeno in parte, “tradisce” la  missione assegnata ai Consigli giudiziari in tema di valutazione della professionalità e delle attitudini dei magistrati.

Anche qua, dunque, si tratta di diverse impostazioni culturali.

3.2. I Consigli giudiziari e l’organizzazione degli uffici

Ma il terreno ove maggiormente si manifesta il rilievo dei diversi orientamenti culturali in materia di “compartecipazione alla amministrazione della giurisdizione” – verrebbe da dire: il tasso di politicità dell’azione istituzionale dei Consigli giudiziari (e dei suoi componenti) – è quello dell’organizzazione degli uffici giudiziari.

Il sistema tabellare – nel corso dei decenni – si è via via arricchito di contenuti sempre più pregnanti; schematicamente: se, in origine, esso era deputato a garantire l’indipendenza interna del singolo magistrato, la sua libertà da influenze gerarchiche nell’esercizio della giurisdizione, il rispetto del principio costituzionale della precostituzione del giudice naturale, in seguito esso si è progressivamente spinto a considerare – via via in misura preponderante e sotto la spinta del debito giudiziario accumulato nel corso dei decenni – gli aspetti di efficienza ed efficacia del sistema giustizia[33].

Si tratta allora di vedere quale ruolo debbano rivestire i Consigli giudiziari nell’ambito dell’attività di formazione e approvazione delle tabelle degli uffici giudiziari.

Come è noto, soprattutto a seguito delle riforme legislative del triennio 2005-2007, vi è stato un forte investimento sulla figura dei dirigenti degli uffici giudiziari: magistrati investiti della alta responsabilità di direzione e organizzazione di un ufficio giudiziario all’esito di una - sulla carta penetrante – procedura di valutazione (anche comparativa) dei requisiti attitudinali a rivestire quella funzione; magistrati che devono redigere un progetto, sentendo i magistrati di quell’ufficio e interloquendo con il Foro, considerando i bisogni dell’ufficio, analizzando quantitativamente e qualitativamente la domanda di giustizia, fissando obiettivi di risultato[34], da verificare all’esito del triennio di vigenza delle tabelle; magistrati che – ove abbiano svolto il loro ufficio in modo non adeguato – vedranno il loro lavoro valutato negativamente e verranno non confermati nell’incarico direttivo per il successivo quadriennio.

Sennonché…

Sennonché, il forte investimento operato sulle figure dirigenziali presenta luci ed ombre. Da un lato, si deve prendere atto del fatto che, successivamente alla “riforma”, la qualità dei dirigenti, la loro consapevolezza e il loro tasso di cultura organizzativa, possono dirsi sicuramente migliorati (quantomeno nella larga parte dei casi). Dall’altro lato, si deve però considerare che il forte investimento sulle figure dirigenziali ha partorito numerosi figli illegittimi: in primo luogo, la forte attribuzione di responsabilità – quantomeno sul piano formale – ai dirigenti comporta che, sempre più spesso, essi tendano ad assumere modalità organizzative estremamente (quando non eccessivamente) penetranti; lo sforzo di razionalizzazione di un servizio rischia così di scivolare progressivamente  in una nuova gerarchizzazione degli uffici giudiziari; in secondo luogo, la forte attribuzione di responsabilità ai dirigenti comporta talora il rischio che costoro si trovino a sollecitare “pieni poteri”, a chiedere “atti di fede”, ad evocare – talora abusando dei concetti – situazioni di necessità ed urgenza che rendono altrimenti inevitabile il tracollo degli uffici (almeno nelle prospettazioni)[35].

A tale “caricatura” della figura dirigenziale (non sempre ricorrente, ma nemmeno rara), si obietta osservando che i dirigenti sono assoggettati al vaglio degli organi del governo autonomo nel contesto dei procedimenti di conferma quadriennale al quale sono sottoposti i magistrati con incarichi direttivi e semi-direttivi. Ma è un’obiezione francamente poco persuasiva. In primo luogo, perché il tasso di non conferme di dirigenti è talmente modesto da far pensare che il controllo operato al momento delle conferme negli incarichi sia non troppo incisivo[36]. In secondo luogo – e soprattutto – per il fatto che, talora, i guasti che un dirigente inadeguato può procurare al suo ufficio sono tali da non poter attendere quattro anni e più per poi dovere solo prendere atto del fatto che – per quattro anni – quel dirigente ha fatto danni.

Detto in termini più espliciti: vi è il rischio che – aderendo alle richieste di atti di fede – progressivamente si ridisegni una magistratura piramidale, con – in ciascun ufficio – un capo che comanda e non un dirigente (che deve dirigere e coordinare), un responsabile dell’ufficio (che deve rispondere e rendere conto).

E qui si fa cruciale il ruolo dei Consigli giudiziari (prima ancora di quello del Consiglio superiore, se sono ancora vere – come è da temere – le parole di Viazzi citate in esordio di questo paragrafo, per cui il controllo concretamente effettuato dal Csm –  in assenza di un qualche “campanello d’allarme” – «si riduce in pratica “a zero”; con il che la sostanziale ratifica del parere dell’organo ausiliare rende tale atto decisivo ai fini della delibera finale»)[37].

Ed ecco allora che vengono a contare le differenze di approccio culturale nel sistema di autogoverno, anche a livello locale. Forse soprattutto a livello locale, ove è più immediata la percezione dei problemi, più agevole l’interlocuzione con i dirigenti, ma anche con i magistrati dell’Ufficio e il Foro.

A fronte di un progetto tabellare, si può, per esempio, prendere atto del fatto che la procedura di approvazione è stata rispettata e che tutti i servizi “sono coperti”; oppure si può considerare quali servizi (magari quelli che incidono su diritti fondamentali) abbiano maggiori necessità e, magari, provare a sindacare le scelte di distribuzione delle risorse umane ai vari settori o alle varie sezioni. A fronte di una variazione tabellare immediatamente esecutiva, ci si può chiedere se sussistano davvero i requisiti di urgenza o se, invece, non sarebbe stato possibile (e doveroso) provvedere alle variazioni con procedura ordinaria[38]. A fronte di un bando di concorso per tramutamenti interni ci si può chiedere – e (perché no?) si può chiedere ad un dirigente – la ragione per cui determinate posizioni vacanti non siano state messe a concorso o perché determinate posizioni tabellari di un ufficio risultino cronicamente scoperte.

Ecco allora che emerge il rilievo delle diversità culturali che si possono praticare nell’esercizio dell’autogoverno.

Schematicamente: da un lato, chi si accontenta –in modo notarile – del rispetto delle regole di normativa secondaria e si accontenta del fatto che siano state effettuate le riunioni preparatorie in vista dell’approvazione delle tabelle, che siano stati disciplinatamente raccolti i dati dei flussi o che siano ritualmente computate le percentuali di esonero dal lavoro giudiziario spettanti a presidenti di sezione, componenti del Consiglio giudiziario, formatori, Mag.Rif. e Rid; dall’altro lato, chi prova a valutare non solo la legalità tabellare di un progetto o di una variazione tabellare, ma prova ad immaginarne gli sviluppi, ipotizzare la sostenibilità e la adeguatezza di quel progetto tabellare, tenendo conto della domanda di giustizia riscontrabile in quello specifico circondario (posto che, per fare degli esempi, è in sede decentrata che si è maggiormente in grado di percepire se – in un circondario – la domanda di giustizia sia più urgente nel settore penale o in quello civile; nel settore commerciale o in quello della famiglia); con l’ulteriore rilievo che – ove si eserciti in modo responsabile (ma penetrante) tale dovere di controllo – si potrà rendere edotto il Consiglio superiore delle criticità rilevabili e, soprattutto, talora paralizzare l’immediata esecutività di una qualche variazione tabellare ritenuta improvvida (posto che alcune tipologie di variazione tabellare possono essere immediatamente esecutive solo in presenza di un unanime parere favorevole del Consiglio giudiziario).

3.3. I Consigli giudiziari come possibili promotori di dialogo tra gli uffici

Gli uffici giudiziari non sono isole sperdute nel grande Oceano. Gli uffici giudiziari – specie nel settore penale – costituiscono una filiera, in cui ciascun ufficio (i casi più evidenti: la Procura per il Tribunale; il Tribunale per la Corte di appello) entra in relazione con gli altri, alimentandone i flussi di lavoro e influenzando – con le proprie determinazioni organizzative – le scelte e i comportamenti degli altri uffici (“a monte” o “a valle”).

È una constatazione apparentemente banale, ma è muovendo da essa che il Consiglio superiore è riuscito a ritagliare residuali spazi di controllo del circuito di autogoverno sui progetti organizzativi delle procure della Repubblica, dopo l’abrogazione dell’art. 7 ter del Rd n. 12 del 1941 (legge ordinamento giudiziario)[39]. La recente circolare sugli Uffici di Procura non è al centro di questa riflessione; qui ci si limita ad evidenziare che – anche in tale ambito – il Consiglio superiore ha previsto un coinvolgimento – a più livelli – dei Consigli giudiziari: prima consentendo al procuratore che redige il progetto organizzativo della Procura di avvalersi della Commissione flussi istituita presso il Consiglio giudiziario[40], poi prevedendo che i progetti organizzativi siano trasmessi ai Consigli giudiziari per una formulazione di un parere; anzi, nell’ambito dell’iter di adozione del progetto organizzativo – che si conclude con una presa d’atto del Csm (eventualmente con rilievi ed osservazioni) – il passaggio al Consiglio giudiziario è definito lo snodo centrale[41].

Anche qui, dunque si manifesteranno le diversità di approccio culturale nell’affrontare le questioni di organizzazione degli uffici giudiziari, contrapponendosi visioni più ossequiose delle prerogative e responsabilità dei dirigenti a visioni che aspirano ad un controllo maggiormente penetrante da parte del circuito di autogoverno; con l’ulteriore complessità legata al fatto che l’organizzazione degli Uffici di Procura non può essere valutata avendo riguardo solo all’organizzazione interna della stessa, ma deve necessariamente estendersi alla considerazione delle conseguenze che determinate scelte organizzative rivestono sugli “uffici a valle”. È evidente che la considerazione delle interconnessioni tra i due uffici (Procura e Tribunale) trova la sua sede più adeguata proprio nel contesto delle attività del Consiglio giudiziario, organo di prossimità del sistema di governo autonomo della magistratura.

La questione dell’intensità (maggiore o minore) dell’intervento del circuito di autogoverno si ripresenta in modo non troppo dissimile allorché si volga lo sguardo ad un altro tema di enorme rilievo che impatta sulla interrelazione tra diversi uffici: la declinazione dei criteri di priorità in ambito penale[42]; qui – per evidenziare il ruolo che i Consigli giudiziari possono esercitare in tale materia – ci si limita a riportare un passaggio della delibera in materia di Linee guida in materia di criteri di priorità: «…in linea con l’approccio complessivo formulato alla questione nelle presente delibera, deve richiedersi il parere del Consiglio giudiziario (indicazione necessaria per la diversa sensibilità mostrata al tema dai Consigli giudiziari) anche per i provvedimenti in materia di priorità che non rivestano la forma tabellare (non incidano cioè sull’assegnazione dei giudici e sulla distribuzione degli affari); in linea con la delibera del 9 luglio 2014 che ha indicato la strada della conferenza distrettuale con la partecipazione anche di componenti esterne alla magistratura, appare utile ed opportuno a maggior ragione che l’organo locale di governo autonomo, arricchito anche da presenze di non togati, possa fornire ulteriori elementi di conoscenza e valutazione sia ai dirigenti che al Consiglio, la cui valutazione sarà correttamente di presa d’atto, con la possibilità di formulare però significativi rilievi, da destinare eventualmente alle valutazioni in altre sedi del dirigente»[43].

Tale indicazione, peraltro, si pone in linea di coerenza con altre precedenti affermazioni del Consiglio superiore della magistratura.

Trattando dei poteri di vigilanza dei Consigli giudiziari[44], il Csm ha sganciato tale attribuzione dell’autogoverno locale da una visione puramente sanzionatoria, tentando di proporre una interpretazione del potere di vigilanza in chiave promozionale; si legge nella delibera sui poteri di vigilanza: «si tratta di una vigilanza connotata dal carattere della collegialità, che si rivela funzionale anche alla diffusione di buone prassi ed alla verifica periodica dell’andamento degli uffici giudiziari, in una prospettiva che è non più soltanto di mero controllo ma è, soprattutto, di promozione di modelli organizzativi efficienti. In altri termini, ai Consigli giudiziari spetta, oltre che la verifica in ordine ad eventuali disfunzioni verificatesi nei singoli uffici, anche l’attivazione di meccanismi idonei a prevenire situazioni di disservizio, come pure la prospettazione di soluzioni possibili. (…) . Nell’esercizio della delicata attività in esame, i Consigli giudiziari devono valorizzare la loro dimensione distrettuale, che costituisce l’ottica attraverso la quale leggere ed inquadrare le peculiari condizioni di ciascuna realtà territoriale; ciò comporta anche favorire l’adozione di soluzioni organizzative “distrettuali”, che consentano ai singoli uffici giudiziari di superare la ristretta visuale della circoscrizione per accedere ad una visione d’insieme delle problematiche e delle risorse presenti nel distretto»[45].

4. Un filo rosso e qualche conclusione

La riflessione che si è qui proposta muove da alcune constatazioni, che qui ci si limita a ricordare in modo riassuntivo: (a) le competenze del sistema di governo autonomo della magistratura si sono via via arricchite: non più mero governo della “carriera”, ma anche “governo” ed organizzazione degli uffici; (b) anche il sistema tabellare si è progressivamente arricchito di contenuti: non più sistema di regole volto a preservare il principio della precostituzione del giudice naturale, ma sistema di regole che è anche e anzitutto funzionale ad una efficiente organizzazione degli uffici giudiziari; (c) l’organizzazione degli uffici giudiziari non può più muovere da una considerazione atomistica di ciascun ufficio giudiziario, ma – necessariamente – deve considerare le interdipendenze esistenti tra essi (non essendo per esempio razionale che, per esempio, un ufficio di Procura adotti criteri di priorità incoerenti con quelli adottati da un Tribunale e che quest’ultimo ne adotti alcuni che, per ipotesi, risultano incoerenti con quelli adottati dalla Corte di appello).

Come detto, ciascuno di questi snodi cade nel fuoco di controllo del governo autonomo della magistratura; ma si è anche detto che è un dato della realtà effettuale quello per cui si deve riconoscere che il Consiglio superiore ha una scarsa possibilità di operare in modo esauriente e pienamente consapevole il proprio approfondimento su questioni così complesse da poter essere meglio e più compiutamente apprezzate anzitutto da chi sta a contatto con la quotidiana esperienza degli uffici interessati.

Il fatto è che – se nel circuito di autogoverno decentrato – tutto tace, il Csm difficilmente potrà intervenire incisivamente.

Nei paragrafi che precedono si sono schematizzati diversi possibili approcci che il circuito di autogoverno – specie quello locale – può coltivare nell’esercizio delle sue funzioni; si tratta di partizioni forse eccessivamente schematiche e probabilmente manichee. Ma esse riflettono per davvero gli approcci che i consiglieri giudiziari manifestano – con diversità di sfumature – nell’esercizio del loro mandato.

La scelta che il circuito di autogoverno – di cui l’autogoverno decentrato è il primo snodo, spesso quello più consapevole – deve operare è se affidarsi ai “capi” o se chiedere ai dirigenti di rendere conto (sempre) dell’esercizio della loro discrezionalità organizzativa (alla quale si contrappone, inevitabilmente, la discrezionalità valutativa anzitutto dei Consigli giudiziari); qui sta la centralità del circuito di autogoverno; centralità che – è stato detto – «è ascrivibile al fatto che gli organi democratici di amministrazione della giurisdizione (Csm e Consigli giudiziari, la cui sostituzione è, allo stato inimmaginabile, ma che si accrescono o potrebbero accrescersi di nuove istanze, in sede locale) interagiscono con quelli che restano i poteri autocratici di cui sono titolari i capi degli uffici giudiziari (…), secondo linee dialettiche che sono e saranno il sale dell’organizzazione giudiziaria presente e futura»[46].

Attenzione: non si tratta di teorizzare una visione dei Consigli giudiziari come contropotere rispetto alle responsabilità e alle prerogative dei dirigenti degli uffici, né di sostituire le sensibilità organizzative emergenti in sede consiliare con le determinazioni di un dirigente. Si tratta piuttosto di interpretare il ruolo dei Consigli giudiziari come contrappeso alle prerogative dei dirigenti; si tratta di non “vivere” l’autogoverno locale come semplice passacarte dei dirigenti.

Qui sta una scelta culturale di fondo che diventa una scelta di politica dell’amministrazione della giustizia.

I Consigli giudiziari non possono limitarsi a valutare la pura legittimità dei provvedimenti organizzativi, confidando nella sapienza dei dirigenti (e riservandosi di valutarne negativamente l’operato dopo quattro anni); al contrario, è precisa responsabilità istituzionale dei consiglieri giudiziari procedere alla valutazione – con prudenza, equilibrio e rispetto delle altrui prerogative e responsabilità – del merito delle questioni, intervenendo mentre le cose accadono e non quando, purtroppo, sono già accadute.

I Consigli giudiziari non sono un Tar chiamato a valutare la legittimità dell’esercizio di un potere amministrativo; essi – come ricordato dal Csm in più occasioni –  sono compartecipi nell’esercizio della amministrazione della giurisdizione; sicché anche il merito può e deve essere considerato nelle valutazioni dei Consigli giudiziari; certo: una simile penetrante valutazione dovrà essere esercitata con il necessario self-restraint, con garbo istituzionale, con rispetto per le prerogative dirigenziali, con ascolto degli orientamenti provenienti da diverse impostazioni culturali; ma senza timidezza e, anzi, con serietà e, se necessario, con fermezza; anche perché non si può dire – come invece talora si dice – “aspettiamo di vedere come va questa variazione tabellare e, al limite, ce ne ricorderemo al momento della conferma del dirigente”; perché i dati ci dicono che – al momento della conferma – ce ne saremo dimenticati.

In questa prospettiva, i Consigli giudiziari – ove esercitino il loro ruolo in modo attivo – possono, da un lato, scongiurare disfunzioni; dall’altro, addirittura, promuovere il dialogo tra Uffici tra loro interconnessi, sì da promuovere soluzioni efficienti e con positivi effetti dell’esercizio della giurisdizione su scala distrettuale (e non solo circondariale).

L’essere poi il Consiglio giudiziario un organismo collegiale – composto pluralisticamente dalle diverse sensibilità culturali che si esprimono nel corpo della magistratura e aperto alla partecipazione di esponenti di avvocatura e accademia – sembra costituire un’ulteriore garanzia per l’esercizio di un intervento dell’autogoverno locale autenticamente rappresentativo e non auto-referenziale.

Resta da chiedersi se – non tanto gli organi istituzionali, ma – i singoli consiglieri giudiziari abbiano la concreta possibilità di esercitare simili compiti di penetrante controllo in modo sufficientemente sereno. Già il Csm – nella circolare sul decentramento – aveva colto la questione, segnalando che «non vi è dubbio che la “vicinanza” alle situazioni (di volta in volta professionali, organizzative, gestionali) su cui pronunciarsi è un fattore ambivalente. Da un lato, essa garantisce la piena conoscenza della realtà effettuale e la massima aderenza ai bisogni da soddisfare; dall’altro lato genera il rischio di lassismo, di compiacenze, di indebite indulgenze»[47].

Si tratta di un aspetto che attiene alla deontologia e alla struttura personale di ciascun membro di un Consiglio giudiziario e che, talora, effettivamente fa emergere qualche problematicità.

Certo è che ciascun consigliere giudiziario – ove partecipi all’istituzione non come singolo, come espressione di sé, ma come componente di un gruppo, come esponente di una linea culturale elaborata in modo collettivo – sarà maggiormente responsabilizzato e, dunque, meno incline a lasciarsi andare ad indebite indulgenze, compiacenze o lassismo.

Di qui il rilievo di un’articolazione del Consiglio giudiziario rappresentativa delle diverse sensibilità culturali e, dunque, del sistema elettorale di natura proporzionale a liste contrapposte previsto dall’attuale legislazione. Tale sistema, da un lato, offre un’ampia legittimazione al singolo consigliere (e introduce vincoli di coerenza tra prassi e programma elettorale); dall’altro lato, consente ai Consigli giudiziari di vedere composte nella discussione collegiale le diverse sensibilità e sfumature culturali.

Scriveva anni fa Nello Rossi – polemizzando con l’allora vigente sistema elettorale (maggioritario) dei Consigli giudiziari – che «se il Consiglio giudiziario è organo che valuta la professionalità di tutti i giudici, organizza la formazione dei giovani magistrati, concorre a garantire il rispetto del principio del giudice naturale; se il Consiglio giudiziario è organo che concorre all’amministrazione della giurisdizione attraverso la formulazione di giudizi informati, veritieri, persuasivi e controllabili sul lavoro professionale dei magistrati; se ciò è vero, allora, comporlo secondo criteri rigorosamente maggioritari, privarlo di quel pluralismo delle idee e delle culture che in magistratura ha ancora una cittadinanza e una dignità significa depotenziarlo e comprometterne la funzione. La professionalità non si valuta a colpi di maggioranza, ma tramite una discussione che tenga conto dei fatti e dei dati, delle sensibilità, dei punti di vista, delle specificità professionali; e una tale discussione può meglio svolgersi tra rappresentanti di diversi orientamenti ideali e culturali»[48].

Si tratta di considerazioni ancora attuali e vere; soprattutto in un momento storico in cui si tende a contestare in radice la stessa idea di rappresentanza nel circuito del governo autonomo della magistratura e in cui si tende a proporre una visione dell’ambito di intervento dei Consigli giudiziari ridotto a semplice controllo della “mera legalità tabellare”.

Il filo rosso che lega le varie questioni affrontate in questo – sin troppo lungo – contributo è dunque ora dipanato: la questione cruciale è la discrezionalità, il dovere di rendere conto.

Si allude alla discrezionalità dei dirigenti; ma si allude anche all’esercizio della discrezionalità da parte dei Consigli giudiziari nell’esercizio della funzione valutativa (in cui inevitabilmente si manifestano le diverse sensibilità culturali in tema di autogoverno).

Si allude al dovere che i dirigenti hanno di rendere conto del loro operato agli organi del circuito di autogoverno ai quali fa da contrappunto il dovere di rendere conto che i Consigli giudiziari – e i singoli consiglieri – hanno nei confronti dei magistrati che li hanno investiti di funzioni così importanti: rendere conto con la trasparenza dell’azione, con la pubblicità delle decisioni, con la leggibilità dei criteri, e, infine, con la fedeltà agli impegni proclamati prima della competizione elettorale (responsabilità elettorale).

Il tessuto di normazione primaria e secondaria legittima diversi modi di intendere il ruolo dei Consigli giudiziari e del ruolo di consigliere giudiziario; si tratta, allora, di tentare di inverare nei comportamenti tenuti nei luoghi istituzionali le proclamazioni che risuonano parlando di autogoverno diffuso, di autogoverno dal basso, di magistratura orizzontale.

[1] Il giudizio è di C. Azzali, I Consigli giudiziari, Cedam, Padova, 1988, p. 5.

[2] Si passa dalle cd. Commissioni di sindacato (Rd 25 ottobre 1864), composte dai dirigenti degli uffici, con il compito di informare il Ministro guardasigilli sul modo in cui i magistrati dell’ufficio esercitavano la loro funzione per giungere – con il Rd 3 ottobre 1873, n. 1595 – all’istituzione di commissioni locali, composte da alti magistrati e in diretta interlocuzione con il Ministro della giustizia, con competenze in materia di proposte di nomina, promozione e trasferimento di magistrati (e poi abolite con Rd 5 gennaio 1879, n. 4686). Con Rd 7 gennaio 1904, vengono istituiti organi denominati Consigli giudiziari; ma anche tali organi hanno una limitata autonomia rispetto alle prerogative ministeriali e avevano per lo più competenze in materia di carriera dei magistrati. Per un excursus storico (ed ulteriori riferimenti bibliografici), cfr. P.F. Bazzega, I Consigli giudiziari dopo la riforma dell’Ordinamento giudiziario, tesi di laurea, Università di Padova, anno accademico 2011-2012, pp. 10 ss., www.movimentoperlagiustizia.org/filedload/Bazzega.pdf.

[3] Con legge n. 511/1907 furono istituiti – presso i Tribunali e le Corti di appello – i Consigli giudiziari, composti da presidente, procuratore del Re, il presidente “anziano” di sezione e da due giudici eletti dall’Assemblea generale; anche tali Consigli giudiziari avevano essenzialmente competenze in materia di carriera dei magistrati, non diversamente dai Consigli giudiziari previsti dal Rd 14 dicembre 1921, n.1978. Cfr. P.F. Bazzega, cit., pp. 17 ss.

[4] Cfr. art. 68 dello Statuto albertino: «La Giustizia emana dal Re, ed è amministrata in suo Nome dai Giudici ch'Egli istituisce»; art. 69 Statuto albertino: «I Giudici nominati dal Re, ad eccezione di quelli di mandamento, sono inamovibili dopo tre anni di esercizio». Per un’analisi storica della composizione e della cultura del corpo della magistratura, della sua suddivisione in una magistratura alta e una bassa, dei legami tra magistratura e potere esecutivo nel periodo post-unitario e prima dell’avvento del fascismo, v. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012, capitoli 1-3.

[5] Rd 30 dicembre 1923, n. 2786. L’ordinamento Grandi Rd 30 gennaio 1941, n. 12 – tuttora formalmente ancora vigente, benché largamente novellato – non introdusse particolari novità con riferimento ai Consigli giudiziari, confermandosi l’esclusione del metodo elettivo.

[6] Cfr. art. 6 Rd.lgs 511 del 1946: «(1) Presso ogni Corte di appello è costituito un Consiglio giudiziario, presieduto dal primo presidente della Corte, e composto dal procuratore generale nonché' da cinque membri, di cui due con funzioni di supplente, di grado non inferiore a consigliere di Corte di appello o equiparato, eletti ogni due anni da tutti i magistrati degli uffici giudiziari del distretto, con le modalità da stabilirsi con regolamento. (2) In caso di mancanza od impedimento, il primo presidente ed il procuratore generale sono sostituiti dal magistrato che ne esercita le funzioni. (3) I magistrati che, per il numero dei suffragi raccolti, seguono quelli risultati eletti, vengono, nell'ordine e in numero non superiore a tre per effettivi e a due per i supplenti, chiamati a sostituire quelli che cessano dalla carica nel corso del biennio. (4) Alla scadenza del biennio cessano dalla carica anche i membri che abbiano sostituito altri durante il biennio medesimo. (5) Il Consiglio giudiziario costituito presso la Corte di appello è competente anche per i magistrati appartenenti alla circoscrizione della sezione distaccata. (6) Le funzioni di segretario del Consiglio giudiziario sono esercitate da un magistrato designato dal primo presidente della Corte di appello».

[7] Cfr. art. 4 Rd.lgs 511 del 1946: «(1) Quando viene richiesto il parere del Consiglio superiore della magistratura o del Consiglio giudiziario ai sensi dei precedenti artt. 2 e 3, della richiesta e dei motivi è data comunicazione all'interessato, il quale ha diritto di prendere visione e copia degli atti trasmessi al Consiglio superiore o al Consiglio giudiziario, e può presentare deduzioni e chiedere di essere sentito personalmente. (2) Il Consiglio superiore e il Consiglio giudiziario non possono provvedere se non decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione di cui al precedente comma».

[8] Anche per il prevalere – in seno ai costituenti – di una cultura che vedeva con sfavore il decentramento nel settore dell’amministrazione della giustizia.

[9] «Fino a quando non sia emanata la nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità alla Costituzione, continuano ad osservarsi le norme dell’ordinamento vigente».

[10] Così C. Pedrelli, I Consigli giudiziari, in E. Albamonte - P. Filippi (a cura di), Ordinamento giudiziario, Uteth giuridica, Milano, 2009, p. 91.

[11] Per la ricostruzione del dibattito svoltosi sull’opportunità di inserire un riferimento ai Consigli giudiziari nella Carta costituzionale – con un’interessante ricostruzione delle diverse posizioni emerse, precisi riferimenti agli atti parlamentari ed ulteriori indicazioni bibliografiche – v. sempre P.F. Bazzega, cit., pp. 26-34.

[12] Per una acuta riflessione sull’evoluzione del «diritto tabellare» dall’Italia post-unitaria ai giorni nostri, si rimanda a F.A. Genovese, Ordinamento giudiziario e diritto tabellare (dalle previsioni ordinamentali del 1865 all’ordinamento Grandi; dalla Costituzione alla disciplina vigente), in questa Rivista trimestrale, Franco Angeli, Milano, n.2, 2003, pp. 242 ss. I riferimenti all’introduzione dell’art. 10 bis menzionato nel testo si trovano a pp. 258 ss.

[13] Oltre all’inevitabile richiamo alle varie circolari sulle tabelle periodicamente emanate dal Csm, è doveroso il richiamo alla fondamentale Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari, approvata il 20 ottobre 1999 dal Csm.

[14] Per un’analisi meno superficiale, si rimanda alla lettura dell’obiettivo La controriforma dell’ordinamento giudiziario alla prova dei decreti delegati,pubblicato in questa Rivista trimestrale, Franco Angeli, Milano, n. 1, 2006, con contributi di L. Pepino, G. Santalucia, C. Castelli, P. Morosini, G. Gilardi, S. Erbani, L. Marini, B. Giangiacomo (quest’ultimo con un intervento specifico sul tema de I Consigli giudiziari, pp. 93 ss.). Si rimanda altresì a B. Giangiagiacomo, Le competenze dei Consigli giudiziari in materia tabellare, in questa Rivista trimestrale, Franco Angeli, Milano, n. 5, 2008, pp. 103 ss. e a S. Perelli, Quale consiglio giudiziario? Quattro anni dopo la riforma, in questa Rivista trimestrale, Franco Angeli, Milano, n. 1, 2011, pp. 92 ss. Varie delibere del Csm potrebbero essere menzionate; qui non si può omettere la menzione della delibera del Csm, 18 marzo 2009, Funzionamento dei Consigli giudiziari: risoluzione di indirizzo in relazione ad alcune problematiche comuni.

[15] Nell’originario testo dell’art. 9 d.lgs n. 25/2006 era previsto che tra i componenti dei Consigli giudiziari figurassero anche due membri nominati – con maggioranze qualificate – dai consigli regionali. È degno di nota il fatto che la norma nemmeno prevedeva la necessità che i membri nominati dai consigli regionali avessero una qualche qualificazione professionale in materia di amministrazione della giustizia; su tale ultimo aspetto, B. Giangiacomo, I Consigli giudiziari, cit., p. 99. Con la legge n. 111/2007 il riferimento ai membri di nomina puramente politica fu abrogato.

[16] Cfr. art. 16 d.lgs 25/2006, che – richiamando l’art. 15, comma 1, lett. a, d, f, d.lgs 25/2006 – prevede la partecipazione dei componenti non togati alle sedute dei Consigli giudiziari in cui si discuta di questioni organizzative (esame progetti tabellari e progetti organizzativi, anche degli uffici del giudice di pace) o di vigilanza sull’andamento degli uffici.

[17] Si rimanda al testo dell’art. 15 del d.lgs. 25/2006; di particolare rilievo l’attribuzione ai Consigli giudiziari – nella loro composizione allargata ai membri non togati – di competenze in materia di vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari del distretto (art. 15, comma 1, lett. d, d.lgs 25/2006); al riguardo si rimanda alla fondamentale risoluzione del Csm approvata in data 1 luglio 2010 sui Poteri di vigilanza dei Consigli giudiziari.

[18] Si discuteva, in dottrina, se i Consigli giudiziari avessero o meno autonomia regolamentare; tale autonomia è stata viceversa ripetutamente e nettamente riconosciuta dal Consiglio superiore della magistratura; si vedano, sul tema, la Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari, approvata il 20 ottobre 1999 dal Csm e la delibera sul Funzionamento dei Consigli giudiziari: risoluzione di indirizzo in relazione ad alcune problematiche comuni (delibera del Csm del 18 marzo 2009); in tale ultima delibera si àncora il fondamento della potestà regolamentare dei Consigli giudiziari direttamente al dettato dell’art. 97 Cost.

[19] Si allude alla previsione contenuta nel regolamento del Consiglio giudiziario presso il distretto di Corte di appello di Torino. Per inciso: tale possibilità non è mai stata coltivata dagli organi di informazione.

[20] Per ulteriori riflessioni sui regolamenti dei Consigli giudiziari, si rimanda, ancora, a S. Perelli, Quale consiglio giudiziario?, cit., pp. 92 ss. Si segnala che pressoché tutti i regolamenti dei Consigli giudiziari sono oramai pubblicati sul sito web di ciascun distretto di Corte di appello.

[21] Si allude, per esempio, alla delibera del Consiglio giudiziario di Genova del 3 dicembre 2013, con la quale il Consiglio giudiziario – con un atto di indirizzo rivolto a tutti i magistrati del distretto – ha esplicitato i criteri che avrebbe adottato nel valutare la tecnica redazionale dei provvedimenti giudiziari in caso di uso della funzione “copia-incolla”; si tratta di delibera di rilievo perché – proprio nella direzione di una accentuata trasparenza – ha esplicitato ex ante i criteri che avrebbe adottato nell’esercizio della sua funzione valutativa; sulla questione, v. D. Cappuccio, Copia e incolla e valutazioni di professionalità, in Questione giustizia online, 16 gennaio 2014, www.questionegiustizia.it/articolo/copia-e-incolla-e-valutazioni-di-professionalita_16-01-2014.php.

[22] «La relazione intercorrente tra i Consigli giudiziari e il Consiglio superiore rientra nello schema giuridico della funzione ausiliaria; non appare configurabile un rapporto di sovraordinazione gerarchica, ma solo funzionale, tra il Consiglio superiore della magistratura e gli organi collegiali decentrati»; Csm, delibera 18 marzo 2009, Funzionamento dei Consigli giudiziari, cit., 3 (corsivo nel testo).

[23] Il giudizio è di A. Rossi, Il consiglio giudiziario: natura, struttura, rapporti con il Csm. I poteri di autoregolamentazione dei Consigli giudiziari e i suoi limiti. I poteri del presidente del Consiglio giudiziario. Lo Status dei suoi componenti. La sindacabilità degli atti del Consiglio giudiziario, relazione all’incontro di studio sul tema I Consigli giudiziari, Ostia, 25-27 maggio 1995, p. 6, ripreso quasi testualmente anche nella già citata Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari, § 4.2(sebbene con riferimento al tema delle valutazioni di professionalità).

[24] L’osservazione riportata nel testo proviene da un ex componente del Csm: C. Viazzi, Il consiglio giudiziario: struttura e funzionamento. Autoregolamentazione e rapporto con il Consiglio superiore della magistratura, relazione all’incontro di studio sul tema Le competenze e le attività dei Consigli giudiziari, Roma, 19-20 maggio 2003; il passaggio riportato nel testo è a p. 19.

[25] Delibera del Csm 20 ottobre 1999, Risoluzione sul decentramento dei Consigli giudiziari, cit., pp. 2 ss.

[26] Csm, delibera 18 marzo 2009, Funzionamento dei Consigli giudiziari, cit., pp. 1 e 3 (corsivo nel testo).

[27] Sul tema delle valutazioni di professionalità, si rimanda all’obiettivo Le valutazioni periodiche di professionalità dopo la riforma del 2007, pubblicato in questa Rivista trimestrale, Franco Angeli, Milano, n. 6, 2013, con contributi di R. Sanlorenzo, D. Cappuccio, M.G. Civinini, A. Zamagni, M. Malerba, V. Borraccetti; in quello stesso obiettivo – con riferimento specifico al ruolo dei Consigli giudiziari nel sistema delle valutazioni di professionalità – cfr. E. Chinaglia, Il ruolo dei Consigli giudiziari nella realizzazione del sistema di valutazione delle professionalità: attualità, criticità, sfide, in questa Rivista trimestrale, Franco Angeli, Milano, n. 6, 2013, pp. 162 ss. Sul tema delle valutazioni di professionalità, v. anche G. Zaccaro, Valutazioni di professionalità dei magistrati: lacune del sistema e soluzioni, in La magistratura, nn. 1-2/2017, pp. 82-90, www.associazionemagistrati.it/doc/2639/valutazioni-di-professionalit-dei-magistrati-lacune-del-sistema-e-soluzioni.htm.

[28] E nei fascicoli e negli atti trasmessi per i pareri attitudinali e per le valutazioni di professionalità – a volerli leggere e valutare – ve ne sono…

[29] Ci si ostina a chiamarli “capi” (anche nei modelli di parere predisposti dal Csm), anche se sarebbe preferibile “il dirigente dell’Ufficio”, “il responsabile dell’Ufficio” o altre formule meno connotate gerarchicamente.

[30] Come, peraltro, sembra imporre la lettura del capo 2 della circolare sulle valutazioni di professionalità (approvata l’8 ottobre 2007, oggetto di numerose modifiche, il 25 ottobre 2017), secondo cui «il parere deve ricostruire con completezza le qualità del magistrato, al fine di consentire al Consiglio superiore la conoscenza dettagliata delle caratteristiche professionali, del tipo di lavoro effettivamente svolto e delle reali attitudini del magistrato medesimo, anche ai fini delle valutazioni per il tramutamento di funzioni, per il conferimento delle funzioni semidirettive e direttive – salvo quanto previsto dal capo XXI, punto 1 –, nonché per il conferimento delle funzioni di legittimità».

[31] Sul punto, v. A. Natale, Incarichi di collaborazione: non tutto ciò che è legittimo è opportuno, su Questione giustizia online, del 6 novembre 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/incarichi-di-collaborazione_non-tutto-cio-che-e-legittimo-e-opportuno_06-11-2017.php.

[32] È già capitato, per esempio, che il Consiglio giudiziario di Torino abbia espresso pareri attitudinali che, pur complessivamente positivi, mettevano in luce alcune criticità rilevabili proprio dalla lettura del progetto organizzativo predisposto dall’aspirante dirigente.

[33] Ciò anche per effetto della costituzionalizzazione – nel 2001 – del principio della ragionevole durata del processo: «è proprio su questo principio – osserva F.A. Genovese, Ordinamento giudiziario e diritto tabellare, cit., p. 254 (in nota 22) – che si diffonde la premessa alla Circolare sulle tabelle per il biennio 2002-2003, secondo la quale “Prioritaria appare – anche alla luce del principio ora anche formalmente enunciato dall’art. 111 della Costituzione – l’esigenza di assicurare la ragionevole durata dei processi .. Le proposte tabellari dovranno pertanto farsi carico di indicare i programmi organizzativi previsti per la definizione degli arretrati, a partire dai processi di più vecchia durata; quelli previsti per assicurare la trattazione degli affari più urgenti; i rimedi proposti per il riallineamento dei tempi di trattazione dei procedimenti”».

[34] Si pensi al tasso di complessità delle circolari sulle tabelle o ai programmi di gestione ex art. 37 dl n. 98/2011 che, annualmente, i dirigenti debbono predisporre (obbligatoriamente, per il settore civile; volendolo, per il settore penale); sui programmi di gestione, si veda Csm, delibera 2 maggio 2012 e s.m., Nuova normativa prevista dall'art. 37 dl 98/2011, commi 1, 2 e 3 in materia di gestione dei procedimenti civili per la definizione del “carico esigibile” di lavoro per i magistrati.

[35] Sulle variazioni tabellari – e sulla disciplina delle variazioni tabellari urgenti – si rimanda direttamente alla lettura degli artt. 37-40 della Circolare sull’acquisizione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017-2019.

[36] Sulle procedure di conferma quadriennali, v. M. Guglielmi, Le conferme quadriennali, in questa Rivista trimestrale, Franco Angeli, Milano, 2-3, 2013, pp. 248-262.

[37] V. supra, nota n. 24.

[38] Segnalava una tendenza ad eccedere nel ricorso a variazioni tabellari immediatamente esecutive già B. Giangiacomo, B. Giangiagiacomo, Le competenze dei Consigli giudiziari in materia tabellare, cit., p. 107.

[39] Si rimanda alla fondamentale Risoluzione del Csm del 12 luglio 2007 e, oggi, alla Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura (delibera Csm del 16 novembre 2017).

[40] Art. 3 Circolare sulla organizzazione degli Uffici di Procura.

[41] Si legge nella relazione introduttiva che la circolare sull’organizzazione degli uffici di procura «procedimentalizza l’iter di adozione del progetto organizzativo, il cui snodo centrale è costituito dal coinvolgimento dei Consigli giudiziari, organo di prossimità del governo autonomo, prima ancora che del Consiglio superiore della magistratura».

[42] Sul punto, si vedano: Criteri di priorità nella trattazione degli affari penali, risoluzione Csm del 9 luglio 2014 e Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti, Csm, risposta a quesito del 11 maggio 2016. V. anche R. Arata, Una nuova primavera per le priorità dopo l'approvazione del decreto legislativo sulla non punibilità per particolare tenuità del fatto?, su Questione giustizia online, 17 marzo 2015 www.questionegiustizia.it/articolo/una-nuova-primavera-per-le-priorita-dopo-l-approva_17-03-2015.php. .

[43] Csm, delibera 11 maggio 2016, Linee guida in materia di criteri di priorità , cit., paragrafo 4.

[44] Per cui v. Csm, risoluzione 1 luglio 2010, Poteri di vigilanza dei Consigli giudiziari.

[45] Csm, risoluzione 1 luglio 2010, Poteri di vigilanza dei Consigli giudiziari, paragrafo 2, p. 6 (corsivi di chi scrive).

[46] F.A. Genovese, Ordinamento giudiziario e diritto tabellare, cit., p. 255.

[47] Csm, Risoluzione sul decentramento, cit., in premessa.

[48] A. Rossi, Il consiglio giudiziario: natura, struttura, rapporti con il Csm, cit., p. 8.