Magistratura democratica

La conferma del dirigente: dall’analisi dei dati alla ricerca di una credibile prospettiva

di Daniele Cappuccio

La conferma quadriennale è uno dei pilastri su cui si regge il modello ordinamentale scaturito dalla riforma del 2006, basato sulla tendenziale temporaneità di tutte le funzioni giudiziarie e sulla concezione della dirigenza come servizio. Negli ultimi anni però, ancor più che in quelli di prima applicazione dell’istituto, i casi di non conferma sono divenuti del tutto sporadici. È un fenomeno fisiologico? Quali ne sono le cause? E quali i suggerimenti, in chiave di interpretazione delle disposizioni vigenti così come de iure condendo, per un suo più efficace utilizzo?

1. La conferma quadriennale all’interno del sistema: cenni

Nelle intenzioni del legislatore del 2006, il giudizio di conferma del dirigente alla scadenza del primo quadriennio di esercizio delle funzioni direttive o semidirettive avrebbe dovuto rappresentare una delle architravi su cui edificare il ­­rinnovato sistema ordinamentale.

Connaturato al concetto di temporaneità, esso costituisce il portato di una rinnovata concezione dell’assunzione e dello svolgimento dell’incarico apicale o semiapicale: una disciplina volta a contrastare il formarsi di centri di potere ed a riaffermare congruamente la natura di “servizio” della funzione di direzione dell’ufficio giudiziario, nella prospettiva di consentire l’avvicendamento non traumatico di dirigenti non rivelatisi pienamente all’altezza del compito e di stimolare il ricorso ad apporti nuovi e sempre diversi.

Con la temporaneità degli incarichi, cioè, si persegue la duplice finalità di responsabilizzare i magistrati investiti di compiti di direzione o di collaborazione direttiva, sottoponendoli ad una valutazione per accertare, sulla base del servizio prestato e dei risultati conseguiti, la loro idoneità a continuare a svolgere la relativa funzione, e al contempo di limitare la possibilità di svolgimento della relativa funzione nel medesimo ufficio.

A fronte di un dato di legislazione primaria (artt. 45 e 46 d.lgs n. 160/2006) alquanto scarno perché riferito esclusivamente all’oggetto della valutazione da parte del Csm ed agli effetti del giudizio negativo circa l’attività svolta dal magistrato, è stato il Csm a dettare le regole, sia procedimentali che di merito, oggi contenute nella Parte IV del Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, che presiedono alla verifica periodica, intesa ad accertare (art. 71, rubricato «Oggetto della valutazione») «la capacità organizzativa, di programmazione e di gestione dell’ufficio ovvero dei singoli settori affidati al magistrato, alla luce dei risultati conseguiti e di quelli programmati, nonché l’attività giudiziaria espletata dal magistrato, nella diversa misura in cui essa rilevi in relazione alla natura dell’incarico svolto di direzione o di collaborazione, alla funzione direttiva e alle dimensioni dell’ufficio», precisandosi peraltro, nel seguente art. 72, che «La capacità organizzativa deve essere valutata con riferimento ai risultati conseguiti nella gestione dell’ufficio e nel coordinamento dei  magistrati e alla capacità di efficace risoluzione dei problemi dell’ufficio, tenuto conto della relativa dimensione e delle risorse umane e finanziarie disponibili» e che «La verifica deve altresì riguardare la competenza tecnica, l’autorevolezza culturale e l’indipendenza da impropri condizionamenti, espresse nell’esercizio delle funzioni direttive o semidirettive».

Tangibile appare la scelta di campo operata dal Csm nell’ancorare il vaglio propedeutico alla decisione sulla conferma ad indicatori che, lungi dall’attestare l’abilità del magistrato nella mera gestione delle risorse, intendono saggiarne la specifica professionalità, per come già rilevato nel recente passato su questa Rivista[1], «con riguardo a tutti quei profili che denotano un approccio al ruolo autorevole e non autoritario, modalità trasparenti di esercizio delle prerogative che ne discendono, attenzione alla valorizzazione e al rispetto della professionalità dei magistrati e di ciascun componente dell’ufficio, capacità di creare coesione al suo interno in vista di comuni obiettivi di efficienza e di qualità della giurisdizione».

È questa una delle tappe dell’itinerario attraverso il quale trovano concreta attuazione i principi ispiratori della riforma ordinamentale, che consistono, innanzitutto, nella visione del conferimento dell’incarico direttivo o semidirettivo nell’ottica del “servizio” da garantire anziché delle pur legittime aspirazioni individuali al riconoscimento delle loro attitudini organizzative e nell’attribuzione al dirigente, in uno alle prerogative connesse alla funzione, delle relative responsabilità, connesse al conseguimento degli obiettivi previamente individuati ed agli strumenti a tal fine attivati.

2. Uno sguardo alle statistiche: todos caballeros?

Questione giustizia si è già occupata, alcuni anni orsono[2], di come, nel circuito del governo autonomo della magistratura, sia stata data attuazione alle previsioni normative in materia di conferma.

L’analisi delle statistiche, aggiornate al luglio 2013, e dell’interpretazione fornita dal Csm in ordine all’ambito applicativo della procedura di conferma ed ai suoi effetti ha preceduto, in quell’occasione, l’esame dei più rilevanti casi di non conferma, grazie al quale sono state tratte indicazioni in relazione sia agli elementi che, di volta in volta, sono stati considerati decisivi per l’esito della verifica che al percorso da seguire in vista di uno sviluppo e di un consolidamento dell’istituto coerenti con la ratio ad esso sottesa ed alle esigenze al cui soddisfacimento è preposto.

Quel lavoro funge, oggi, da punto di partenza per una indagine che, prendendo le mosse da quanto accaduto nell’arco del quadriennio nel frattempo decorso, si sforzi di fornire, da un canto, la chiave di lettura, sul piano ordinamentale e della politica giudiziaria, delle decisioni assunte e di individuare, dall’altro, il terreno da battere nella prospettiva di una più completa funzionalità dell’istituto.

Il primo elemento di interesse attiene senza dubbio al profilo statistico e quantitativo: se, invero, nel periodo oggetto dello studio citato – cioè dall’entrata a regime della riforma sino al luglio 2013 –, le delibere di non conferma avevano rappresentato una percentuale alquanto ridotta di quelle complessivamente adottate dal Csm (8 su 236 per i magistrati titolari di incarichi direttivi ed 8 su 261 per quelli investiti di funzioni semidirettive), nei successivi quattro anni e sei mesi – secondo le informazioni disponibili, aggiornate al 18 dicembre 2017 – sono state registrate appena 4 ulteriori delibere di conferma di direttivi e, addirittura, nessuna in relazione a titolari di incarichi semidirettivi.

Un dato, almeno a prima vista, eclatante che legittima, a primo acchito, più di una perplessità sul funzionamento del meccanismo disegnato dal legislatore ed evidenzia la sproporzione tra risorse impiegate e risultati conseguiti ed al quale, tuttavia, è bene riservare un approccio laico e scevro da pregiudizi.

La delibera di non conferma non costituisce, infatti, l’unica alternativa alla positiva delibazione della sussistenza delle condizioni affinché il magistrato interessato eserciti le funzioni per il secondo quadriennio, dovendosi considerare le ipotesi, tutt’altro che teoriche, in cui la procedura di conferma non abbia luogo – ovvero si concluda con una mera “presa d’atto” o con un “non luogo a provvedere” – in considerazione della rinuncia dell’interessato, attestata dall’omessa trasmissione, nei termini previsti, della autorelazione, ovvero del venir meno, per circostanze anche sopravvenute alla scadenza del quadriennio ma anteriori alla decisione consiliare (quale, ad esempio, la cessazione di appartenenza all’ordine giudiziario), della titolarità delle funzioni.

L’assoluta modestia percentuale delle decisioni di “non conferma” – così come di procedure connotate da più o meno spiccata problematicità e che, nondimeno, si concludono in senso favorevole al magistrato interessato – si presta, inoltre, ad essere letta quale benefico frutto del sistema di selezione della dirigenza giudiziaria introdotto nel 2006.

Ed invero, per quanto acceso sia – all’interno della magistratura, tra gli addetti del settore e nell’opinione pubblica – il dibattito sulla capacità di regole, metodi e prassi di garantire il miglior risultato in chiave di affidabilità, efficienza e trasparenza, la riforma dello scorso decennio ha prodotto, secondo un’opinione largamente diffusa, una generazione di dirigenti la cui qualità media è complessivamente superiore rispetto al tempo in cui la scelta era orientata soprattutto a valorizzare l’esperienza, intesa alla stregua di mera anzianità di servizio ovvero come pregresso svolgimento di analoghi incarichi.

Ne discende, allora, che meno frequente sia l’affidamento di incarichi direttivi o semidirettivi a magistrati che, alla prova dei fatti, si rivelino non idonei al proficuo svolgimento dei compiti loro affidati.

Sotto altro aspetto, può ipotizzarsi che la sempre più generalizzata consapevolezza della necessità di informare la conduzione degli uffici giudiziari e delle loro articolazioni interne ai canoni descritti dalla normativa di riferimento abbia indotto nei diretti destinatari un effetto conformativo complessivamente virtuoso e tale da rendere marginali i casi di conclamato deficit organizzativo e gestionale.

Ciò che, è evidente, sposta il fuoco dell’attenzione verso la disamina critica dei parametri utilizzati per l’accertamento della ricorrenza delle condizioni per disporre la conferma e di quelle che, viceversa, vi ostano e stimola il confronto - la cui vivacità, negli anni a noi più prossimi, non è, a dire il vero, mai scemata - sulle fonti di conoscenza allo scopo compulsabili in un contesto procedimentale caratterizzato, come di consueto in materia di autogoverno, da un elevato tasso di incomprimibile discrezionalità[3].

L’opportunità di agganciare ogni considerazione a precise realtà fattuali, oltre che a dati di carattere generale o di comune esperienza, consiglia di avviare la riflessione a partire dalle più recenti – e tuttavia risalenti al 2016 – delibere con cui il Csm ha deciso di non confermare per il secondo quadriennio due dirigenti di uffici, rispettivamente, giudicanti e requirenti.

3. Il caso del Tribunale di Asti

La delibera di non conferma del presidente del Tribunale di Asti, adottata dal plenum del Csm il 19 ottobre 2016, offre notevoli spunti per un utile approfondimento.

A fronte della rivendicazione, da parte dell’interessato, dei risultati conseguiti in termini di definizione dei procedimenti e contenimento dell’arretrato, il Consiglio rileva che le qualità richieste al dirigente attengono, vieppiù, alle «capacità gestionali nel rispetto dell’autonomia dei singoli giudici cui il procedimento è stato assegnato», alla «assoluta trasparenza nell’assegnazione dei procedimenti e, in genere, nell’organizzazione dell’ufficio in modo da rispettare non solo criteri di efficienza ma anche di precostituzione e rispetto del giudice naturale (non a caso presidiate da un complesso sistema tabellare)» ed alla «capacità di relazionarsi con varie componenti di un ufficio: magistrati, avvocati, personale di cancelleria».

L’organo di autogoverno ascrive, in particolare, al dirigente di avere posto in essere scelte e comportamenti costituenti «espressione di un modo di intendere ed esercitare le funzioni direttive contrastante con i valori e principi fondamentali fissati dalla normazione in materia».

Tanto gli si contesta di avere fatto, tra l’altro, per avere egli interferito nella gestione di un determinato procedimento penale sindacando, senza averne titolo alcuno ed in forme del tutto irrituali, le determinazioni processuali di uno dei giudici in servizio presso l’ufficio da lui diretto, instaurando una interlocuzione, del pari assolutamente impropria, con altri uffici giudiziari e tentando, infine, di influire sulla destinazione del fascicolo al fine di evitarne l’assegnazione a magistrato a lui sgradito, pure prevista in ossequio al principio del giudice naturale.

Tali condotte, prosegue il Csm, rappresentano «la più autentica espressione dell’incapacità di contenere le prerogative direttive in un alveo di legittimità che consenta il fondamentale rispetto della sfera di autonomia professionale dei magistrati dell’ufficio, e, più in assoluto, dei magistrati con i quali si interagisce».

Tanto, in un contesto che vede il magistrato incapace di governare la situazione di tensione venutasi a creare all’interno dell’ufficio e percepita diffusamente anche al suo esterno, al punto da cagionare anche il deterioramento delle relazioni con il ceto forense, e, sotto altro aspetto, tutt’altro che tempestivo e preciso nell’adempimento dei doveri connessi alla conduzione dell’ufficio, dall’adozione degli opportuni provvedimenti tabellari ed organizzativi al rispetto delle regole che presiedono alla distribuzione dei carichi di lavoro, spesso assente dall’ufficio e poco disponibile a farsi carico dei problemi di quotidiana insorgenza.

La vicenda è interessante sia per le modalità di accertamento dell’inidoneità che per la natura delle considerazioni poste a fondamento della decisione.

Sotto il primo versante, il Csm ha avuto agio a fondare la propria valutazione – peraltro in piena conformità al parere unanime del Consiglio giudiziario piemontese – sulla convergenza di plurime fonti di conoscenza, dalle dichiarazioni dei magistrati dell’ufficio a quelle dei vertici distrettuali della giurisdizione sino al contributo dei rappresentanti istituzionali della classe forense, che hanno agevolato una ricostruzione del quadro fattuale confortata, sul piano obiettivo, dalle riscontrate irregolarità nell’adozione dei provvedimenti organizzativi e dalle accertate violazioni alle regole tabellari.

Dal punto di vista, poi, della ratio della decisione, il Csm enuncia a chiare lettere come il raggiungimento di appaganti standard di produttività, ove pure conseguenza, almeno in parte, dell’abile conduzione dell’ufficio da parte chi, in un certo lasso temporale, è stato chiamato a dirigerlo, non elide la decisiva rilevanza, in vista della conferma, di fattori concorrenti e non meno importanti, quali quelli che attengono al rispetto dell’autonomia dei magistrati dell’ufficio e del principio del giudice naturale, alla gestione equa e trasparente delle risorse, al rifiuto di ogni deriva personalistica, al mantenimento di un clima di fiducia e collaborazione pur al cospetto di divergenze, dissapori e contrapposizioni personali.

4. Il caso della Procura della Repubblica di Matera

Indicazioni solo parzialmente sovrapponibili si traggono dalla delibera, risalente al 23 marzo 2016, con cui il Csm ha deciso di non confermare nell’incarico direttivo per il secondo quadriennio il procuratore della Repubblica di Matera.

Al cospetto, invero, di indicazioni complessivamente confortanti in ordine alla conduzione dell’ufficio sotto il profilo genericamente organizzativo ed ai risultati conseguiti, anche grazie ad un impegno diretto e costante nell’attività giurisdizionale, sul piano della produttività e dell’efficiente sfruttamento delle risorse umane, logistiche e tecnologiche, il Consiglio ha addebitato al dirigente gravi carenze, sotto il duplice profilo dell’omessa informazione e della violazione del protocollo d’intesa, nell’interlocuzione con la Direzione distrettuale antimafia e la Direzione nazionale antimafia.

Tale interlocuzione, in specie, sarebbe stata condizionata dalla personale interpretazione fornita dal magistrato in ordine a manifestazioni criminali verificatesi sul territorio dell’ufficio e ritenute – in contrasto con quanto ipotizzato dagli organi investigativi – avulse da fenomeni di delinquenza di matrice mafiosa e, quindi, prive di interesse per gli uffici aventi competenza in materia di criminalità organizzata.

Il Consiglio sottolinea, al riguardo, che le ravvisate difficoltà comunicative si sono protratte per più anni sebbene tempestivamente segnalate e che vano si è rivelato financo il ricorso ad apposite – ed ampiamente partecipate – riunioni di coordinamento, sicché l’esaltazione dell’autonomia del dirigente si è tradotta in una ferma riluttanza alla collaborazione, palesata anche in occasione dell’audizione innanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni di mafia, e, di conseguenza, nellaparcellizzazione delle indagini e nella dispersione degli elementi informativi acquisiti.

Considerato, d’altro canto, che il dirigente risultava avere, in qualche occasione, intessuto una non corretta dialettica processuale con alcuni avvocati, il Consiglio giunge ad avallare il parere espresso dalla maggioranza del Consiglio giudiziario lucano sulla premessa, innanzitutto, che la verifica quadriennale ai fini della conferma esige – in quanto diretta ad accertare se la prevalente e maggiore “idoneità” riconosciuta al dirigente designato all’esito di una selezione comparativa, si sia in concreto espressa ad un livello di professionalità adeguato ed appropriato alle esigenze dell’incarico che gli è stato conferito – una valutazione particolarmente pregnante dei requisiti di “professionalità” del dirigente, che abbia riguardo ai risultati ottenuti e alle specificità della posizione organizzativa occupata.

Il modello di dirigente delineato dalla riforma, rispondente a quello del magistrato investito di una funzione al “servizio” dell’ufficio, impone dunque – si legge nella delibera del Csm - che, in sede di conferma, si valutino non solo le carenze di requisiti “tecnici”, ma anche tutte le “inadeguatezze” manifestatesi in relazione all’insieme delle qualità che definiscono “l’attitudine direttiva”, come la capacità deldirigente di rendere, il più possibile, partecipate e condivise le scelte organizzative, di favorire la coesione interna all’ufficio in vista del perseguimento di obiettivi comuni di efficienza e funzionalità del servizio, e di promuovere e valorizzare – attraverso il confronto e la partecipazione - il contributo di ciascuno dei magistrati al buon andamento dell’ufficio.

La rilevanza che, ai fini della conferma, assume l’attività di “positivo coordinamento” dei magistrati appare – continua il Csm – del tutto coerente con il particolare rilievo che la normativa primaria e secondaria, nel definire l’attitudine direttiva, ha attribuito al rispetto «delle individualità e delle autonomie istituzionali» e della «sfera di autonomia professionale del giudice o del pubblico ministero», in quanto «proiezione, nell’ambito della organizzazione degli uffici giudiziari, dei principi della indipendenza e della imparzialità, correttamente intesi quali condizioni indefettibili per l’esercizio della giurisdizione»[4].

La valutazione di tale aspetto dell’idoneità organizzativa esige, per gli uffici di Procura, una particolare attenzione alle modalità di esercizio delle prerogative del dirigente e dei suoi poteri di intervento e di controllo per assicurare il «corretto, puntuale ed uniforme esercizio» dell’azione penale, che debbono salvaguardare l’autonomia professionale e l’indipendenza del sostituto[5].

Proprio l’accentuazione della posizione di sovraordinazione che la riforma ha attribuito al dirigente degli uffici di Procura conferisce una particolare rilevanza, nella valutazione dell’“adeguatezza professionale” del dirigente, alla capacità di esercitare le sue prerogative nel rispetto delle regole imposte a tutela dell’autonomia professionale e della dignità dei magistrati dell’ufficio, e di favorire, attraverso l’interlocuzione ed il confronto, una gestione dell’ufficio condivisa e partecipata.

In questa prospettiva, aggiunge ancora il Csm si è mossa la normativa secondaria, valorizzando fortemente il ruolo del dirigente nei rapporti con gli altri magistrati e la sua capacità di favorire «positive relazioni all’interno dell’ufficio», allo scopo sia di «garantire l’autonomia e l’indipendenza dei sostituti» sia di «stimolare una nuova cultura della dirigenza che operi verso una gestione trasparente ed efficiente dell’ufficio, capace – all’interno di un corretto rapporto tra potere e responsabilità – di coniugare la cultura delle garanzie a quella dei risultati»[6].

5. Un tentativo di lettura. Le proposte

Questi, dunque, i più recenti casi di non conferma, che hanno interrotto una sequela di centinaia di provvedimenti di segno opposto, adottati dal Consiglio in esito al positivo riscontro dell’attitudine del dirigente dell’ufficio o della sua articolazione interna ad assicurare, in chiave prognostica, un’adeguata conduzione per un ulteriore quadriennio.

Al cospetto di simili emergenze, il tema nevralgico investe l’effettiva capacità del sistema di intercettare, al momento della conferma, tutte le ipotesi connotate da deficienze più o meno marcate in capo al dirigente della cui conferma si discute.

La questione va posta, è bene chiarire, in termini problematici ed al precipuo fine di comprendere se e quali iniziative possano essere adottate, a quadro normativo vigente ed in chiave di riforma, per rendere più agevole l’emersione di eventuali elementi critici.

Si tratta di un obiettivo che si pone in linea di perfetta coerenza con il vigente impianto normativo che, tanto nella sua filosofia di fondo quanto nella disciplina di dettaglio, assegna all’opzione – chiaramente espressa dal legislatore e ribadita dal Consiglio in circolari e provvedimenti – per la temporaneità degli incarichi il ruolo di volano per una più efficace conduzione degli uffici giudiziari e, prima ancora, la qualifica come autentica e moderna concretizzazione del principio costituzionale (art. 107, comma 3) che vuole i magistrati distinti fra loro «solo per diversità di funzioni».

Ed è confortante notare come il Csm, nelle delibere sopra indicate ed in quelle precedenti di analogo contenuto (esaminate nel già citato articolo pubblicato sul numero 2-32013 di questa Rivista), non abbia esitato a cimentarsi nella concreta declinazione del concetto di «modello di dirigente», inteso alla stregua di complesso delle qualità che devono imprescindibilmente caratterizzare l’attività di chi è chiamato – in esito, va ricordato, ad una selezione comparativa – a condurre una determinata unità organizzativa, e che ciò abbia fatto assicurando la preponderante rilevanza di fattori distinti ed ulteriori rispetto a quelli ispirati ad una nozione di “efficienza” connotata in senso quantitativo e burocratico e non mancando di tener presente, più a monte, che la nozione di buon dirigente non coincide per necessità con quella di buon magistrato né ad essa si sovrappone.

Rifuggendo, allora, da un approccio radicalmente critico e cercando, piuttosto, di comprendere se e come sia possibile esaltare gli aspetti più convincenti della soluzione ordinamentale adottata dal legislatore del 2006, conviene spostare il mirino dell’indagine verso l’enucleazione delle basi di conoscenza su cui la decisione inerente alla conferma viene adottata e, più in generale, verso l’analisi della procedura adottata e delle prassi seguite.

Ciò, muovendo dal timore che l’irrisorio numero di delibere di non conferma – e, comunque, la bassissima percentuale di casi di non immediata soluzione – derivi, oltre  che dai fattori sopra enunciati (dal fatto, cioè, che i dirigenti meno adeguati, davanti alla concreta possibilità di non guadagnare la conferma, si sottraggono alla verifica, ad esempio non presentando l’autorelazione ovvero addirittura lasciando l’ordine giudiziario, e che la prospettiva di essere sottoposti ad un giudizio induce, di per sé, maggiore attenzione e scrupolo nell’esercizio delle funzioni direttive o semidirettive), dalla mancata emersione, nel corso del procedimento, di circostanze che, nondimeno, potrebbero orientarne l’esito.

Eppure, a leggere le disposizioni del Testo unico sulla dirigenza giudiziaria, si trae l’impressione che l’iter della conferma si snodi attraverso passaggi che garantiscano la completezza di acquisizione delle informazioni rilevanti.

Premesso, invero, che già la relazione introduttiva chiarisce che «il dato qualificante della procedura di conferma è quello dell’effettività della valutazione sulla base di quanto concretamente svolto dal titolare delle funzioni», nel senso indicato si pone, tra gli altri, l’art. 75, che prevede la richiesta di informazioni al presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati in merito ad eventuali fatti specifici e a situazioni oggettive rilevanti per la valutazione delle attitudini direttive riguardanti l’incarico oggetto di valutazione, informazioni estese ad una serie di profili, analiticamente dettagliati ed afferenti ai temi di più diretto rilievo ai fini della conferma nell’incarico.

All’autorelazione del magistrato della cui conferma si discute devono essere, poi, allegati, tra l’altro, i provvedimenti organizzativi di cui all’art. 77 ed il documento programmatico previsto dal successivo art. 78, nel quale il magistrato deve offrire un panorama completo di ciò che ha fatto, di quali risultati ha ottenuto, degli obiettivi che si prefigge per il secondo quadriennio e di come intenda realizzarli.

Di particolare utilità si rileva, inoltre, l’allegazione al rapporto informativo dei prospetti indicati all’art. 81, attinenti alla produttività dell’ufficio e dei singoli magistrati e ad eventuali ritardi nel deposito dei provvedimenti, e la previsione, pure inserita nell’art. 81, della necessità di illustrare, tra l’altro, quali misure siano state adottate dal dirigente per far fronte ad eventuali ritardi.

Ancora più penetranti sono i poteri riconosciuti al Consiglio giudiziario in vista della espressione del parere sulla conferma, che presuppone l’obbligatoria e preliminare acquisizione del vastissimo catalogo di atti e documenti elencati all’art. 83[7] destinato a mettere in chiaro la storia professionale del magistrato e, specificamente, ad apprezzarne, tramite l’esame dei provvedimenti adottati nell’espletamento della funzione organizzativa (cfr., in specie, le lettere d, i e l) e della considerazione loro riservata dal Csm, le modalità con cui egli ha esercitato l’incarico conferitogli.

Purtuttavia, se sul piano teorico non pare possa seriamente dubitarsi del fatto che la normativa primaria e secondaria garantisca valutazioni complete ed approfondite, l’esame della prassi consiliare, evincibile già dalla semplice lettura degli ordini del giorno del plenum, consiglia un approccio meno ottimista sulla effettiva circolarità delle informazioni acquisite all’interno del circuito dell’autogoverno in ordine all’esercizio delle funzioni direttive e semidirettive.

Il riferimento attiene non solo alle evenienze di più immediata lettura – quali quelle che attengono a precedenti e pendenze disciplinari – quanto, piuttosto, a quelle di minore evidenza perché concernenti, ad esempio, non approvazione o formulazione di rilievi su provvedimenti tabellari, di destinazione dei magistrati, assegnazione degli affari, applicazioni o supplenze ovvero le iniziative poste in essere (cc.dd. “piani di rientro”) per recuperare o contenere i ritardi o, ancora, tempestività e diligenza nella redazione dei rapporti informativi.

Un fenomeno, questo, che merita attenzione ancor maggiore ove si rifletta sul fatto che la previsione dell’art. 83 trova perfetto pendant in quelle delle circolari in materia, tra l’altro, di formazione delle tabelle degli uffici giudicanti[8] (cfr. artt. 17, 23, 42, 88, 104, 110), valutazione della professionalità dei magistrati[9] (cfr. Capi XIV, comma 5, e XV) ed organizzazione degli uffici requirenti[10] (cfr. artt. 8, comma 7, e 15, comma 8) che, in vista del giudizio sulla conferma, attribuiscono espressa rilevanza a determinati comportamenti eo omissioni del dirigente ovvero al giudizio espresso dal Csm sui provvedimenti da lui adottati.

In qualche caso, del resto, è stato il legislatore ad introdurre analoghe previsioni, ad esempio con l’art. 81-bis, comma 2, disp. att. cpc, in relazione al rispetto dei termini fissati nel calendario del processo, ed in materia di programmi di gestione ex art. 37 dl n. 982011.

Per quanto, sul punto, debbano evitarsi aprioristiche prese di posizione, non pare peregrino propugnare un ulteriore affinamento della capacità degli organi di autogoverno di sfruttare appieno, all’atto di decidere sulla conferma, l’intera gamma delle informazioni disponibili.

Un’esigenza, quella che si sta cercando di delineare, il cui soddisfacimento postula, innanzitutto, l’adeguatezza, non sempre garantita, delle strutture, di supporto e decisionali (si pensi, quanto alle prime, alla situazione di cronica difficoltà, solo alleviata dai recenti innesti di forze fresche, in cui versa l’intero apparato dell’amministrazione della giustizia e, in ordine alle seconde, alla virtualità che, nelle sedi afflitte da carichi più pesanti, colora l’esonero dal lavoro ordinario spettante ai componenti del Consiglio giudiziario), chiamate ad acquisire e valutare una ponderosissima congerie di documenti, ma che richiede, altresì, il consolidamento di un approccio, in primo luogo culturale, che guardi realmente alla funzionalità del servizio anziché alle individualità coinvolte.

Ormai sostanzialmente alle spalle lo sforzo straordinario richiesto a Consigli giudiziari e Quinta commissione del Csm in conseguenza dell’abolizione dell’istituto del trattenimento in servizio e della riduzione dell’età di collocamento a riposo dei magistrati ordinari, che ha determinato una forte accelerazione nel ricambio dei vertici degli uffici giudiziari, sarebbe, pertanto, auspicabile la destinazione delle risorse e delle energie così liberatesi all’attività propedeutica al giudizio sulla conferma, che potrebbe ricevere impulso attraverso, tra l’altro, un preventivo e più completo e tempestivo monitoraggio del coacervo di informazioni, relative al magistrato interessato, disponibili presso le varie articolazioni dell’autogoverno, nonché con il più frequente ricorso, all’occorrenza, all’audizione dell’interessato da parte della Commissione consiliare, strumento rivelatosi, in passato, assai utile per le lettura di situazioni non univoche in cui l’organo chiamato alla decisione finale aveva, a differenza di quello di “prossimità”, conoscenze meramente cartolari.

Un altro profilo critico attiene più direttamente all’oggetto della verifica della leadership del dirigente, la cui abilità va apprezzata, si è detto, con riferimento non solo e non tanto alla formale correttezza dei procedimenti adottati ed al raggiungimento di positivi risultati statistico-quantitativi, ma anche e soprattutto al talento nel valorizzare tutte le componenti dell’ufficio, mantenere la pace al suo interno, gestirlo in ossequio a canoni di partecipazione democratica, garantire il coordinamento con distinti uffici giudiziari e le altre istituzioni.

Caratteristiche e qualità il cui deficit, è facile osservare, è di più difficile emersione, dovendosi fare affidamento, in ultimo, su contributi dichiarativi e documentali allo stato non procedimentalizzati e la cui acquisizione resta, dunque, del tutto eventuale.

Si introduce, per questa via, il tema, de iure condendo, dell’ampliamento delle fonti di conoscenza da utilizzare ai fini della conferma e, specificamente, dell’acquisizione di informazioni da parte dei magistrati che operano nell’ufficio o nella sezione diretta dal magistrato della cui conferma si discorre: proposta, questa, che, di recente è stata sottoposta al dibattito interno alla magistratura e prospettata quale oggetto di una plausibile modifica della normativa secondaria.

Nel 2014, peraltro, il Csm, rispondendo al quesito sollevato da un Consiglio giudiziario in merito alla possibilità, a normazione vigente, di utilizzare un questionario da sottoporre ai magistrati appartenenti all’ufficio in occasione della conferma nelle funzioni semidirettive, al fine di acquisire elementi in merito agli indicatori delle attitudini dirigenziali non desumibili da produzioni documentali, ha fornito risposta negativa.

La ventilata introduzione di un apposito questionario, seppure ritenuta fonte di un positivo incremento delle fonti di conoscenza, apparirebbe, scrive il Csm, «inscindibilmente legata alla espressione, da parte dei magistrati interpellati, di veri e propri giudizi (positivo o carente) in relazione ai diversi indicatori presi in considerazione, con conseguente rischio di un appiattimento sulle posizioni del confermando o di un ampliamento dei conflitti tra i magistrati dell’ufficio».

Né, aggiunge l’organo di autogoverno, «appare opportuno consentire che, attraverso un questionario destinato a tutti i giudici coordinati dal magistrato, il semidirettivo in valutazione venga sottoposto ad una sorta di giudizio diffuso, che potrebbe anche rappresentare il pretesto per far valere eventuali rimostranze nei confronti del dirigente», sicché appare «preferibile che le esigenze conoscitive del Consiglio giudiziario vengano soddisfatte potenziando gli ordinari “strumenti istruttori” previsti dalla Circolare in tema di conferma, senza il ricorso a modalità capaci di sottoporre il magistrato da scrutinare ad un giudizio direttamente espresso dai destinatari delle sue attribuzioni; giudizio che, come noto, è riservato al Consiglio superiore della magistratura».

Al di là dell’apparente “chiusura” rispetto ad una proposta che, in effetti, presupponeva una interpretazione tutt’altro che piana della attuale disciplina, il tema resta, comunque, sul campo perché intercetta lo snodo, fondamentale nella materia delle conferme, del governo degli uffici tra autorità, partecipazione e consenso, sul quale la riflessione è senza dubbio suscettibile di ulteriori sviluppi.

[1] M. Guglielmi, Le conferme quadriennali, in questa Rivista, Franco Angeli, Milano, n. 2-3, 2013, p. 248.

[2] M. Guglielmi, cit., p. 250.

[3] Sicché, va incidentalmente notato, il nucleo centrale della valutazione della conferma non può essere sindacato – ove non si voglia incorrere nel vizio di eccesso di potere giurisdizionale ex art. 111, comma 8, Cost. – in sede di contenzioso innanzi al giudice amministrativo, secondo quanto precisato, in questa materia, da Consiglio di Stato, 24 novembre 2016, n. 4958, ove è peraltro ribadito a chiare lettere come la decisione di non conferma non trovi ostacolo, in linea di principio, nel riconoscimento delle concorrenti qualità professionali del magistrato che abbia palesato carenze sul piano della conduzione dell’ufficio.

[4] Cfr. risoluzione Csm del 10 aprile 2008 sulla individuazione degli indicatori dell’attitudine direttiva.

[5] Cfr. risoluzione del Consiglio superiore del 12 luglio 2007 in materia di organizzazione degli uffici del pubblico ministero.

[6] Punto 2.1. risoluzione del Consiglio superiore del 12 luglio 2007 in materia di organizzazione degli uffici del pubblico ministero.

[7] Questo il testo dell’articolo, rubricato «Istruttoria preliminare all'adozione del parere»:

1. Per la redazione del parere per la conferma dei titolari degli incarichi direttivi e semidirettivi il Consiglio giudiziario e il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, entro due mesi dalla scadenza del quadriennio, devono acquisire:

  1. i precedenti pareri sulle progressioni in carriera e sulle valutazioni di professionalità del magistrato;
  2. l’autorelazione del magistrato e i relativi documenti allegati;
  3. le eventuali statistiche del lavoro svolto, comparate con quelle degli altri magistrati dell’ufficio o della sezione in cui il magistrato sottoposto a valutazione espleta o ha espletato l’attività giudiziaria nel quadriennio. Il dato statistico deve essere accompagnato dall’indicazione dell’eventuale percentuale o settore di esonero dal lavoro giudiziario previsti nelle tabelle, in ragione dell’incarico rivestito;
  4. tutti i provvedimenti redatti dal dirigente dell’ufficio relativi al progetto tabellare o al programma organizzativo, alla destinazione dei magistrati, all’assegnazione degli affari, alle variazioni tabellari, ai decreti di applicazione e supplenza e qualsiasi altro provvedimento organizzativo dell’ufficio, avuto riguardo agli esiti della loro approvazione da parte del Consiglio superiore della magistratura;
  5. le informazioni acquisite dal Consiglio dell’ordine degli avvocati sulle circostanze indicate all’articolo 74;
  6. le eventuali segnalazioni al Ministro della giustizia effettuate nell’ambito dell’esercizio del potere di vigilanza sull’andamento degli uffici giudiziari ai sensi dell’art. 15, comma 1, lett. d) del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25;
  7. i fatti oggetto di eventuali procedimenti penali e disciplinari a carico del magistrato in valutazione;
  8. l’attività di formazione sia a livello centrale che decentrato seguita dal magistrato, con particolare riguardo a quella concernente la direzione e l’organizzazione degli uffici e la materia dell’ordinamento giudiziario;
  9. tutti i provvedimenti redatti dal dirigente dell’ufficio requirente relativi al rispetto delle pari opportunità al fine di garantire l’equilibrio fra i generi nel programma organizzativo, nelle assegnazioni dei fascicoli, nel turno di udienza, nel turno esterno, nella partecipazione ad attività di formazione con la polizia giudiziaria, nel conferimento di deleghe organizzative, nell’attribuzione del coordinamento di settori o gruppi di lavoro;
  10. tutti i provvedimenti redatti dal dirigente dell’ufficio giudicante relativi al rispetto delle pari opportunità e al fine di garantire l’equilibrio fra i generi nel progetto tabellare, alla destinazione dei magistrati, all’assegnazione degli affari, alle variazioni tabellari, ai decreti di applicazione e supplenza, nel conferimento di deleghe organizzative, nell’attribuzione del coordinamento di settori o sezioni, e qualsiasi altro provvedimento organizzativo dell’ufficio, avuto riguardo agli esiti della loro approvazione da parte del Consiglio superiore della magistratura.

[8] Circolare n. P-1318 del 26 gennaio 2017 e successive modifiche sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti per il triennio 2017/2019.

[9] Circolare n. P-20691 dell’8 ottobre 2007 e successive modifiche in materia di Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati a seguito della Legge 30 luglio 2007, n. 111, recante Modifiche alle norme sull’ordinamento giudiziario.

[10] Circolare n. P-20458 del 17 novembre 2017 sulla organizzazione degli uffici di Procura.