Magistratura democratica

Prescrizione, Taricco e dintorni: spunti a margine di un sistema da riformare

di Alberto Macchia

La prescrizione, specie dopo il noto caso Taricco, è nuovamente tornata sotto il fuoco dell’attenzione generale. Istituto a metà strada tra il diritto sostanziale e quello processuale, richiederebbe, forse, una rilettura meno condizionata dalle contingenze e più orientata verso orizzonti di sistema. Ridefinirne la disciplina sembra, ormai, scelta non più differibile, anche se le attuali iniziative parlamentari paiono percorrere strade “vecchie” e tutt’altro che soddisfacenti.

Esistono da sempre, nel diritto, istituti concettualmente problematici che, a cadenze fisse, sembrano emergere dal letargo per divenire terra di scontro ideologico.

Uno di questi è senza dubbio la prescrizione, visto che, specie negli ultimi anni, ad una sempre più asmatica gestione dei processi, ha ineluttabilmente finito per corrispondere la mannaia del tempo, con l’ovvio epilogo di una vanificazione di procedimenti, in alcun casi anche a forte impatto emotivo.

La Cassazione, come è noto, ha tentato qualche rimedio, attrezzando «filtri» più o meno funzionali, che hanno finito per innalzare sensibilmente la «soglia» della «manifesta infondatezza», rendendo quel parametro di apprezzamento dei ricorsi sempre più evanescente e tale da atteggiarsi come una sorta di inespresso potere di cestinazione. Inammissibilità del ricorso anche come «strumento occulto» per impedire la prescrizione dei reati? Il dubbio può cogliere, se è vero, come è vero, che il tema della operatività della prescrizione, anche in presenza di ricorso inammissibile, ha evocato l’intervento, in ben tre occasioni, delle Sezioni unite (l’ultimo, in ordine di tempo, è la sentenza Ricci, n. 12602 del 17 dicembre 2015).

Che la disciplina della prescrizione induca elementi di torsione nel sistema è, quindi, un dato di fatto, che, né le iniziative della Cassazione, né la «riforma» operata con la nota legge ex Cirielli hanno risolto; anzi – a detta di molti – specie per talune «classi» di reato, quest’ultima novella avrebbe addirittura peggiorato la situazione precedente.

Eppure, quello che a tutta prima potrebbe sembrare un problema tanto incancrenito da apparire difficilmente risolvibile sul piano strutturale – non apparendo all’orizzonte volontà politica e iniziative tali da comportare soluzioni rivoluzionarie, atte a riconfigurare il volto stesso di questo antico rimedio contro il tempo che scorre – assume, oggi, una pregnanza, una attualità e, a mio avviso, una urgenza tutta nuova, alla luce delle provocazioni indotte dal diritto comunitario, dopo la nota sentenza Taricco, ed il recentissimo tentativo di dialogo, suggerito dalla Corte costituzionale a seguito di quella pronuncia, con il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea.

In breve. Con la ormai conosciutissima sentenza Taricco, la Grande camera della Corte di giustizia dell’Unione europea, ha affermato che l’art. 325 del Tfue impone al giudice nazionale di non applicare il combinato disposto degli artt. 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, del codice penale (vale a dire la disciplina che regola la interruzione della prescrizione nel caso di pluralità degli atti interruttivi e la previsione di un tetto massimo circa il tempo necessario per prescrivere il reato) quando ciò gli impedisca di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, ovvero quando frodi che offendono gli interessi finanziari dello Stato membro sono soggette a termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione.

Il dictum della Grande camera si fonda su un presupposto fattuale e normativo essenziale e schematico. Alla luce di quanto dedotto nella ordinanza con la quale era stato sollevato il quesito pregiudiziale – ha osservato infatti la Corte di Lussemburgo – «le disposizioni nazionali di cui trattasi, introducendo una regola in base alla quale, in caso di interruzione della prescrizione per una delle cause menzionate all’articolo 160 del codice penale, il termine di prescrizione non può essere in alcun caso prolungato di oltre un quarto della sua durata iniziale, hanno per conseguenza, date la complessità e la lunghezza dei procedimenti penali che conducono all’adozione di una sentenza definitiva, di neutralizzare l’effetto temporale di una causa di interruzione della prescrizione. Qualora – osserva dunque la Corte – il giudice nazionale dovesse concludere che dall’applicazione delle disposizioni nazionali in materia di interruzione della prescrizione consegue, in un numero considerevole di casi, l’impunità penale a fronte di fatti costitutivi di una frode grave, perché tali fatti risulteranno generalmente prescritti prima che la sanzione penale prevista dalla legge possa essere inflitta con decisione giudiziaria definitiva, si dovrebbe constatare che le misure previste dal diritto nazionale per combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione non possono essere considerate effettive e dissuasive, il che sarebbe in contrasto con l’articolo 325, paragrafo 1, Tfue, con l’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione Pif nonché con la direttiva 2006/112, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, Tue.».

La sostanza è che, in base al diritto dell’Unione, per come interpretato dalla Corte di giustizia, il nostro sistema della prescrizione fa acqua, per lo meno nella parte in cui, stabilendo un limite temporale alle interruzioni, genera, accanto alla lunghezza dei processi penali, un effetto frustrante sul piano della effettività e dissuasività dell’apparato sanzionatorio: il che, a me sembra, è come dire – sia pure sotto il ristretto fuoco dei reati in materia di Iva – che la legge e la giustizia hanno fallito il loro compito.

Poco interessa, per quello che qui rileva, il coro di voci critiche che hanno, in varia misura e sotto differenti profili, stigmatizzato la decisione della Grande camera: quello che fa riflettere è il risultato. Il giudice nazionale viene infatti invitato a disapplicare la disciplina sulla prescrizione, quante volte si avveda di una sua incongruità di fondo rispetto a casi gravi e reiterati di violazioni penali (non importa a cosa), che, nella prospettiva del Giudice della Unione, condurrebbe ad una vanificazione della «effettività e dissuasività» della pena.

Una censura, dunque, severa e di natura – come oggi si usa dire con espressione non proprio elegante – «sistemica».

Evocata, come è altrettanto noto, sul versante dei «controlimiti» costituzionali che la sentenza Taricco coinvolgeva, con l’ordinanza n. 24 del 2017 la Corte costituzionale ha sollevato, davanti alla stessa Corte europea, questione pregiudiziale sulla interpretazione da annettere all’art. 325 Tfue ed alla stessa sentenza Taricco, nella fin troppo evidente prospettiva di allacciare un dialogo, inteso a contenere la portata di quella decisione all’interno dei limiti di compatibilità costituzionale.  

Al di là del ponte tracciato dai giudici della Consulta (non sappiamo se stabile o di tipo, per così dire, tibetano), mi sembra interessante notare come l’ordinanza della Corte si sia fatta carico di mettere in evidenza la circostanza che, a differenza di altri Paesi che muovono da una concezione processuale della prescrizione, l’Italia, come la Spagna, ha viceversa accolto una concezione sostanziale di tale istituto, rendendolo perciò stesso soggetto ai principi di legalità, tassatività e irretroattività, con la conseguenza che occorre verificare se la regola desumibile dalla sentenza Taricco rispetti il requisito della determinatezza che deve caratterizzare tute le norme di diritto penale sostanziale, tanto alla luce dei principi costituzionali, che in base all’art. 7 della Cedu, per come costantemente interpretato dalla Corte di Strasburgo.

«Ciascuno Stato membro – ha puntualizzato l’ordinanza della Corte – è perciò libero di attribuire alla prescrizione dei reati natura di istituto sostanziale o processuale, in conformità alla sua tradizione costituzionale»; ma è evidente che, da una siffatta opzione, devono poi trarsi tutte le conseguenze del caso.

Dunque, mi sembra di poter desumere, la prescrizione, da un lato, non può ritenersi, in sé, istituto “costituzionalmente delineato”, nel senso che i suoi connotati non appaiono né definiti, né in qualche modo postulati dalla Carta fondamentale; mentre, dall’altro lato, non può neppure reputarsi che la sua natura, processuale o sostanziale che sia, e la sua disciplina, soffrano – o debbano comunque sopportare – un qualche specifico vincolo di rango costituzionale, trattandosi di opzioni squisitamente riservate al legislatore.

Dubito, quindi, personalmente, che quelle scelte debbano essere orientate, come pure si esprime l’ordinanza, «in conformità alla […] tradizione costituzionale» di ciascun Paese, dal momento che, per quanto ci riguarda, la nostra Costituzione mi sembra essere del tutto anodina sul punto.

È evidente, però, che, al di là di qualsiasi approccio nominalistico, ciò che conta è il concreto atteggiarsi dell’istituto nel sistema, ad evitare possibili «truffe delle etichette»: ma una volta che la scelta di campo ove collocare la prescrizione sia stata compiuta dal legislatore, le conseguenze – stavolta anche sul piano costituzionale – non potranno essere che quelle limpidamente tracciate nella ordinanza della Corte.

Il che, ci sembra, è come dire: legislatore, se vuoi, sei (costituzionalmente) libero di ripensare la prescrizione come causa di estinzione del reato, posizionandola in un quadro di misure che si rifletta esclusivamente sul terreno del processo. Un buon viatico, se vogliamo, per trattare il tema secondo prospettive più ampie rispetto alle anguste, parziali e tutto sommato inutili (se non dannose) “miniriforme” che hanno sin qui visto la luce.

Sul punto, credo, che qualche sguardo all’indietro possa tornare comodo.    

La prescrizione, infatti, è un istituto bizzarro, perché sfugge – come s’è fatto cenno – ad una vera e propria definizione: e la sua “storia” ne è, a mio avviso, fedele testimonianza.

Accomunato – quasi come se si trattasse di un unico fenomeno giuridico – da una identità di nomen e di struttura, tanto nel diritto civile (ove dava luogo ad un fenomeno «estintivo» e ad uno «acquisitivo» dei diritti, in luogo della usucapione), che in quello penale («vizio di origine» che si è portato addosso per molto tempo), ha saltellato e continua a saltellare in una terra di nessuno, a mezza strada tra il diritto sostanziale e quello processuale, secondo un pendolarismo che la sua stessa natura anfibia indubbiamente asseconda. La contaminazione e la prevalenza processuale sono svelate dalla sua stessa origine.

Come ci ricorda Manzini, infatti, «l’ipotesi più soddisfacente è che il concetto di prescrizione penale sia sorto attraverso le ingiunzioni romane d’ordine processuale, intese a ottenere che i processi penali non si protraessero soverchiamente. Dapprima si stabilirono i termini massimi per le diverse fasi del procedimento; ma quando le procedure di cognitio è d’accusa cominciarono a divenire eccessivamente prolisse, i giudici rispetto a queste ultime, fissarono all’accusatore un termine massimo entro il quale doveva esaurire la sua attività processuale. Sotto Costantino tale prassi giudiziaria diventò precetto di legge; il termine venne fissato ad un anno, e poi, da Costantino, fu portato a due».

Nel codice Zanardelli, la prescrizione veniva configurata come istituto direttamente collegato alla vita della azione penale: stabiliva, infatti, l’art. 91 che la «prescrizione, salvo i casi nei quali la legge disponga altrimenti, estingue l’azione penale…». Il tutto, peraltro, in un quadro normativo di riferimento nel quale, in campo civile, l’istituto si atteggiava in termini decisamente sostanzialistici. L’art. 2105 del codice civile del 1865, infatti, stabiliva che «la prescrizione è un mezzo con cui, col decorso del tempo e sotto condizioni determinate, taluno acquista un diritto od è liberato da un’obbligazione». Seguivano, poi, le varie disposizioni che individuavano il tempo necessario per prescrivere le  varie “azioni” (reali, personali e quelle previste per le prescrizioni più brevi), in tal modo assegnando a tale espressione il valore di «diritto» ontologicamente correlato alla corrispondente pretesa fatta valere. In sostanza, anche l’azione aveva una sua corposa dimensione sostanziale, secondo quelle che erano le visioni dogmatiche dell’epoca, fortemente influenzate dagli approdi di sistema cui era pervenuta la scuola postpandettistica tedesca.

Con Rocco, la prospettiva muta radicalmente e, anche qui, non per una scelta che potremmo definire di “politica legislativa”, ma per una opzione di sapore eminentemente teorico. Come emerge dalla relazione ministeriale sul progetto preliminare del codice del 1930, infatti, vennero abbandonate tutte quelle locuzioni che facevano riferimento alla estinzione della azione penale, proprio traendo spunto dalle riflessioni che avevano accompagnato la teoria generale dell’azione in campo civile. «Secondo una recente dottrina processualistica – si legge infatti nella relazione – il significato tradizionale dell’azione penale ha subìto un mutamento sostanziale. Essa considera l’azione come un’entità del tutto distinta dalla pretesa che si intende far valere. Questo concetto, che trova riscontro in campo civilistico (dove si discute se la prescrizione estingua il diritto o l’azione, e si vuole, nelle obbligazioni, distinguere il debitum dalla responsabilità), presenta non poche variazioni nelle formulazioni dei diversi scrittori, ma in tutte rimane costante l’impossibilità d’identificare l’azione con la pretesa giuridica che ne è l’oggetto. Discende da ciò che l’azione, di per sé, non sia suscettiva di estinzione, non potendosene impedire l’attivazione anche quando sia venuto a mancare il fondamento della pretesa; ond’è che, quando la legge penale o quella civile parlano di estinzione dell’azione penale o dell’azione civile, intendono riferirsi, non all’azione, ma al rapporto giuridico oggetto della pretesa, e così, nel campo penale, al reato considerato non come fatto (che il fatto è una realtà storica insopprimibile), ma come entità giuridica, secondo la classica espressione del Carrara».

Da qui, la riconversione della prescrizione come istituto penale sostanziale, di estinzione del reato e non della azione.

Ma questa esigenza di simmetria dogmatica non tiene conto del fatto che, mentre il contratto vive a prescindere dalla azione – di cui, anzi, rappresenta, per così dire, il profilo eventuale e, per certi aspetti, patologico – (spettando alle parti il potere di crearlo, modificarlo, darvi esecuzione od estinguerne gli effetti), il reato (e con esso la individuazione del suo autore) non vive affatto di luce propria, ma ha bisogno di un giudice che ne dichiari la giuridica «esistenza» ed applichi le conseguenze di legge: e ciò, su impulso di una azione, pubblica, obbligatoria ed irretrattabile, che non ha nulla a che vedere con una pretesa di diritto sostanziale fatta valere in giudizio.

La prescrizione penale vive, dunque, nel processo e per il processo, nel senso che, al di fuori di esso, è un “nulla” da un punto di vista giuridico, esattamente come è un “nulla” il reato che, pure, “dovrebbe” far estinguere.

Eppure, – malgrado talune resistenze espresse da una parte della dottrina – la affermata natura «sostanziale» della prescrizione, proprio perché ormai scritta dal codice del 1930, parrebbe essere un dato acquisito, anche se, tra il concetto di azione penale, quale configurato dal legislatore del 1930, e quello odierno, dovrebbe essere tracciato un netto distinguo – se non altro alla luce dei principi costituzionali – al punto da legittimare la possibilità di “riesaminare” le logiche che ispirarono (come si è visto) il “marchio” sostanzialistico dato alla prescrizione.

Sul piano costituzionale, poi, la nostra Corte – come è stato ricordato anche nella ordinanza n. 24 del 2017, di cui si è prima detto – non sembra mostrare perplessità di sorta.

È costante, infatti, l’affermazione secondo la quale «Sebbene possa proiettarsi anche sul piano processuale – concorrendo, in specie, a realizzare la garanzia della durata ragionevole del processo […] – la prescrizione costituisce, nell’attuale configurazione, un istituto di natura sostanziale […]», la cui ratio si collega preminentemente, da un lato, all’«interesse generale di non più perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato […] l’allarme della coscienza  comune» […]; dall’altro, «al “diritto all’oblio” dei cittadini, quando il reato non sia così grave da escludere tale tutela» (tra le tante, sent. n. 143 del 2014 e 45 del 2015). Il reato si prescrive, dunque, allorché sia raggiunta una soglia temporale ragionevolmente sufficiente «a decretare, in via presuntiva, il disinteresse sociale per la repressione del fatto commesso». (sent. 143 del 2014 cit.).

Ma una volta ammesso che la prescrizione sia (comunque la si voglia intendere) un istituto costituzionalmente compatibile, possiamo poi affermare che la stessa sia anche un rimedio costituzionalmente imposto? Non lo è certamente nel caso dei reati “gravi” o di allarme sociale elevato, perché nessuno dubita del fatto che, in simili frangenti, la “memoria” non sfuma e non giustifica alcuna presupposizione di “oblio”; ma, allora, altrettanto potremmo dire per i casi in cui il decorso del tempo non sia indice di “inerzia” (contra non valentem agere non currit prescriptio), perché l’azione penale è stata comunque esercitata, evocando l’intervento del giudice su una certa regiudicanda.

Se non c’è inerzia, non ci può essere alcun “diritto” all’oblio, con l’ovvia conseguenza che, una volta rimossa la “inazione”, il “diritto” è al processo e non alla prescrizione.

D’altra parte, mi sembra colga nel segno l’affermazione di quanti ritengono addirittura contraddittorio evocare l’”oblio” nei confronti del reato, dopo che per esso è stata esercitata l’azione penale e intrapreso il processo, dal momento che è proprio attraverso il giudizio che lo Stato mette in scena la rievocazione, e dunque la reminiscenza del fatto, del suo autore e di chi ne è rimasto vittima.

Dunque, anche in quest’ultimo caso, la Carta fondamentale non sembra proprio inibire discipline che sterilizzino la prescrizione con l’inizio del processo.

Ne consegue, a me sembra, che la prescrizione “endoprocessuale” (vale a dire quella che si “sviluppa” dopo l’esercizio della azione penale), proprio perché correlata ad una scelta che mira a rimuovere la possibilità di “oblio,” non può avere, concettualmente, nulla a che vedere con la “durata ragionevole” del processo: valore, questo, che deve essere preservato in sé e per sé, a prescindere dallo spauracchio della prescrizione.

Altrimenti, la prescrizione può e deve (nuovamente) “riconvertirsi” in istituto pienamente e tipicamente processuale. A mio avviso, tertium non datur.

Il problema è, semmai, un altro: ed è quello delle diverse garanzie che possono scaturire da un eventuale “processualizzazione” dell’istituto; e, fra queste, in particolare, la irretroattività in peius delle eventuali modifiche normative circa il relativo regime. Tema, questo, particolarmente delicato, proprio alla luce del novum rappresentato proprio dalla sentenza Taricco della Corte di giustizia della Unione europea, dal momento che questa circoscrive il tema della irretroattività ai soli reati ed alle pene, a differenza di quanto invece accade nel nostro sistema, ove quella garanzia si proietta su qualsiasi istituto sostanziale che interagisca sul trattamento penale previsto per un determinato reato.

Resta il fatto, però, che è l’Europa a imporci, ormai, un cambio di passo: il problema, evidentemente, è stabilire come. Se, ancora una volta, attraverso pannicelli caldi che “ritocchino” questo o quel termine, concentrando l’attenzione su questo o quel reato, a seconda delle contingenze del momento (in linea con quella perversa logica di pendolarismo normativo di cui purtroppo siamo vittime da decenni), o cercare di «prendere il toro per le corna», stabilendo qualcosa di ragionevole sul piano del sistema. Personalmente, non ho dubbi che sia quest’ultima la strada da percorrere; il che, però, dovrebbe indurre all’abbandono di  quelle iniziative – parziali e farraginose – che albergano in Parlamento.

Non pensando realisticamente attuabile una trasformazione dell’istituto in chiave esclusivamente  processuale (le “tradizioni”, d’altra parte, pesano come macigni) credo che la scelta di “far morire” la prescrizione con la sentenza di primo grado rappresenti uno scossone che può riequilibrare le contrapposte esigenze, di consentire, da un lato, che il tempo e l’”oblio” collettivo evitino un processo superfluo e dannoso (come si può pensare di rieducare una persona a distanza di tanti anni dal fatto e che è, quindi, ontologicamente diversa da quella che ha commesso un reato del quale la coscienza collettiva ha sostanzialmente perso memoria?); dall’altro, di scongiurare il pericolo che, una volta accertato il fatto e il reato (sia pure con sentenza non irrevocabile), il seguito della vicenda giudiziaria possa essere strumentalizzato a fini diversi dalla definizione, nel merito, della regiudicanda.

Ecco la ragione per la quale termini di prescrizione e durata ragionevole del processo sono e devono restare temi che si muovono su binari paralleli e non comunicanti fra loro. Che, poi, l’eventuale durata irragionevole debba ammettere meccanismi compensatori, è un fatto evidente, dal momento che – comunque – e come la Corte costituzionale ha recentemente sottolineato nella sentenza n. 45 del 2015 – la condizione di «eterno giudicabile» deve essere ritenuta costituzionalmente incompatibile.

D’altra parte, la previsione secondo la quale la prescrizione non operi dopo la sentenza di prima grado (secondo quanto è previsto in Germania, dall’art. 78 b, comma 3, cod. pen., in Svizzera, dall’art. 97, comma 3, cod. pen., mentre in Spagna la prescrizione non opera dopo l’esercizio della azione penale, a norma dell’art. 132, comma 2, cod. pen.), non sembra neppure soluzione eccentrica rispetto all’attuale quadro normativo, se si considera che, già adesso, la prescrizione successiva alla pronuncia di primo grado non preclude la decisione sugli eventuali diritti civili, in base all’art. 578 cod. proc. pen., e neppure la decisione sulla confisca, dopo la sentenza Lucci del giugno scorso delle Sezioni unite (Sez. un., n. 31617 del 26 giugno 2016, Lucci).

Qualche osservazione credo vada fatta anche in merito al profilo della decorrenza della prescrizione, dal momento che la varietà dei fenomeni che possono essere coinvolti da tale specifico aspetto è notevole e con riflessi di grande risalto.

Un primo punto che è senz’altro opportuno ritoccare è quello che riguarda i reati a sfondo sessuale commessi in danno di minorenni. La decorrenza del termine di prescrizione del reato dal compimento del quattordicesimo anno di età risponde, infatti, ad esigenze fin troppo evidenti, correlate ad un minimum di maturazione psicofisica della vittima, con connessa capacità di autodeterminazione, anche ai fini della denuncia dei fatti. Il tutto, d’altra parte, non soltanto alla stregua di quanto previsto al riguardo in altri Paesi europei (Germania, Austria, Francia, Paesi Bassi, Svezia), ma anche in consonanza con la Convenzione di Lanzarote del 1° luglio 2010 (L. 1 ottobre 2012, n. 172).

Altro aspetto che personalmente riterrei necessario rivedere riguarda il dies a quo della prescrizione nel reato continuato, dal momento che appare assai sfuggente la “logica” della soppressione – ad opera della cosiddetta legge Cirielli – della decorrenza della prescrizione dalla cessazione della continuazione (in origine coerentemente prevista tanto dall’art. 158 del codice del 1930 che dall’art. 92 del codice Zanardelli), dal momento che la diversa e tradizionale opzione si poneva in stretta aderenza a quella che era la ratio essendi della continuazione, oggi, purtroppo, in larga misura negletta nelle applicazioni giurisprudenziali. La identità del disegno criminoso, infatti, non diversamente dalla “medesima risoluzione” che compariva sotto l’art. 79 del codice Zanardelli, evocava – ed evoca – una reductio ad unitatem dei diversi reati in quanto la relativa serie concatenata, si iscrive all’interno di un unitario “programma” che, per esser tale, ha necessariamente un inizio ed una fine. Si diceva, esemplificando, i diversi piccoli furti commessi dalla domestica, assumono i connotati della continuazione in quanto realizzati nel quadro di un unico progetto inteso a raggranellare la somma sufficiente per comprare il corredo alla figlia. Ma se il “programma” deve necessariamente prevedere un suo sviluppo ed un suo termine (altrimenti, la continuazione – come non di rado accade – finisce per applicarsi a chi si limita a voler realizzare più furti, perché di professione fa il ladro), mi sembra del tutto logico che il dies a quo della prescrizione debba coincidere con la cessazione della continuazione, così come accade per la permanenza, vale a dire nel momento in cui la condotta antigiuridica si è “integralmente” perfezionata.

Per ultimo, ma non ultimo, altro profilo che credo meriti di essere sottolineato, sempre in tema di decorrenza della prescrizione, è quello – assai problematico in punto di fatto – rappresentato dai cosiddetti reati di accumulo: vale a dire, quei “fenomeni” criminosi rispetto ai quali il momento perfezionativo deriva dalla “stratificazione” di condotte, spesso diluite in un lungo arco cronologico. I nuovi delitti di inquinamento e disastro ambientale rappresenteranno indubbiamente, sotto questo aspetto, un difficile banco di prova, anche per la estrema vaghezza dei profili definitori che li caratterizzano. Ma il pensiero corre, prevalentemente, alle situazioni in cui vengano in rilievo condotte di pericolo per la incolumità pubblica o per la salute, rispetto alle quali i profili di lesività si rivelino solo a distanza di moltissimo tempo dalla relativa “esposizione”: come, purtroppo, non di rado accade, in vari casi di infortuni o malattie professionali. L’esperienza dell’Eternit o le vicende dell’Ilva o di Porto Marghera sono fin troppo note. Una quota parte di reati che presentino le indicate caratteristiche dovrà pertanto, a mio avviso, essere “isolata” proprio ai fini della prescrizione, ad impedire che il decorso del tempo renda non punibili condotte talora gravissime e suscettibili di impatti devastanti rispetto a valori di indubbio risalto primario.