Magistratura democratica

Il multiculturalismo nella giurisprudenza della Corte di cassazione

di Giuseppe Salmè

Esaminando alcuni orientamenti della giurisprudenza della Corte di cassazione, civile e penale, si può cogliere sia una linea di tendenza favorevole ad attribuire rilevanza giuridica alle differenze culturali e religiose che si vanno manifestando nel nostro contesto sociale, con il limite invalicabile del rispetto dei diritti fondamentali la cui tutela, ai sensi dell’art. 2 Cost., e, al contempo, una rigorosa applicazione degli strumenti di repressione della manifestazione di discriminazione e odio etnico, nazionale, razziale o religioso (art. 3, 1° comma dl 26 aprile 1993, n. 122, convertito in legge 25 giugno 1993, n. 205).

1. Aspetti generali

Anche se in linea di principio la giurisdizione civile, essendo spesso chiamata ad utilizzare clausole generali e concetti elastici, è più libera di procedere alle necessarie mediazioni nell’affrontare le diversità, quando non i conflitti, tra ordinamenti giudici ispirati a culture diverse, a differenza dalla giurisdizione penale, dominata dal principio di stretta legalità e tipicità, è solo in alcune sentenze della Cassazione penale che possono leggersi le osservazioni di ordine generale di maggiore interesse.

Chiamata a valutare la rilevanza dell’appartenenza alla religione musulmana nell’accertamento della sussistenza degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia, la Cassazione[1] dopo aver inquadrato il problema nell’ambito del fenomeno dei cultural offence, caratterizzati dal conflitto tra i precetti della cultura, della tradizione e, almeno nel mondo islamico, anche del diritto positivo di un determinato Paese, in quanto norme di comportamento espressione di valori interiorizzati dagli individui fin dai primi tempi della loro formazione, e i valori, i precetti e le norme giuridiche del Paese di accoglienza, la Corte osserva che rispetto a tale conflitto si pongono due opposte prospettive: una di tipo «assimilazionista» basata sull’esigenza che, previa rinuncia alle proprie radici etnico-culturali, lo straniero si inserisca nell’ordinamento dello Stato di immigrazione, e l’altro, di tipo «integrazionista», orientata alla tutela delle identità perché fondata sul riconoscimento del valore positivo della coesistenza di culture e valori diversi.

Nella maggioranza degli ordinamenti il conflitto è risolto facendo coesistere entrambe le prospettive. Nel nostro ordinamento, in particolare, accanto all’aggravante prevista dall’art. 3, 1° comma del dl 122/1993 per i reati caratterizzati dal perseguimento di finalità di discriminazione e odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ispirata alla prospettiva «integrazionista», si pongono le norme sulla repressione delle mutilazioni genitali femminili (art. 583 bis cp) e ma anche la previsione del reato di bigamia (art. 556 cp), che si possono ritenere espressioni di logiche «assimilazioniste». La Corte prosegue osservando che anche per i reati culturali o culturalmente orientati, il giudice non può sottrarsi al suo compito di rendere giustizia applicando e quindi garantendo contemporaneamente la tutela alle vittime (essendo irrilevante l'eventuale loro consenso alla lesione di diritti indisponibili[2], il diritto degli accusati a un rigoroso accertamento dei fatti e a una corretta applicazione delle norme, la personalizzazione della condanna, perché, anche il ruolo di mediatore culturale che la dottrina attribuisce al giudice penale, non può mai attuarsi al di fuori o contro le regole. In particolare, le pur condivisibili logiche «integrazioniste» debbono trovare necessariamente un limite nel rispetto dei principi cardine della disciplina dei rapporti interpersonali cioè nella tutela dei diritti fondamentali e inviolabili della persona, come imposto dagli art. 2 e 3 della Costituzione.

Sulla base delle premesse sopra sintetizzate la Corte ha affermato il principio che l'elemento soggettivo del reato di maltrattamenti in famiglia, integrato dalla condotta dell'agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata, non può essere escluso dalla circostanza che il reo sia di religione musulmana e rivendichi, perciò, particolari potestà quale «capo» del proprio nucleo familiare, si tratta di concezioni che si pongono in assoluto contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali.

Tale orientamento è stato di recente confermato dalla sentenza della Cassazione (sez. pen. 13 aprile 2015, n. 14960) la quale, affrontando il diverso profilo della configurabilità della scriminante, sia pure putativa, dell’esercizio del diritto, invocata da straniero imputato di delitti contro la persona e la famiglia (maltrattamenti, violenza sessuale e violazione degli obblighi di assistenza familiare), per essere la sua condotta conforme a facoltà riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, ha affermato che il preteso diritto invocato è oggettivamente incompatibile con le regole dell'ordinamento italiano, per l'esigenza di valorizzare, ai sensi dell’art. 3 Cost., la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica.

Il soggetto che si inserisce in una società multietnica – si legge nella pronuncia – è tenuto a prestare osservanza all’obbligo giuridico di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e, quindi, la liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo, di conseguenza, riconoscibile una posizione di buona fede in colui che, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un Paese diverso, presume di avere il diritto (non riconosciuto da alcuna norma internazionale) di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e, quindi, lecite secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.

2. La giurisprudenza penale

Il dl 26 aprile 1993, n. 122 (convertito in legge n. 205 del 1993), reca misure in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Con l’art. 1 – a modifica dell’art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966 – sono stati introdotti il reato di diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico e di incitamento a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nonché il reato di violenza o di provocazione alla violenza o di incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. L’articolo 3 prevede invece come circostanza aggravante, rispetto alla quale è escluso il giudizio di equivalenza o prevalenza di cui all’art. 98 cp la finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso ovvero di agevolazione delle attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità.

La Corte di cassazione è intervenuta più volte sui problemi applicativi e interpretativi delle disposizioni indicate.

Per quanto riguarda il reato di propaganda o istigazione alla discriminazione ovvero all’odio razziale, etnico o religioso, reato di pura condotta la cui previsione non è sospettabile di illegittimità costituzionale (Cass. pen. 7 maggio 2008, n. 37581), si è precisato (Cass. pen. 22 maggio 2015, n. 42727), che ferma la necessità di valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta, con riferimento al contesto specifico ed alle modalità del fatto, il reato è di pericolo e si perfeziona indipendentemente dalla circostanza che l’istigazione sia accolta dai destinatari. Inoltre la Corte ha affermato[3] che la discriminazione costituente reato si deve fondare sulla qualità del soggetto (zingaro, nero, ebreo ecc.) e non sui comportamenti con la conseguenza che un soggetto può essere legittimamente discriminato per il suo comportamento ma non per essere diverso per etnia o religione. essendo rilevante solo la realtà oggettiva e non il convincimento soggettivo dell’agente[4], in una fattispecie di rifiuto di un esercente di servire avventori extracomunitari.

Più articolate sono invece le affermazioni contenute in alcuni interventi sull’interpretazione dell’art. 3, 1° comma, del dl n. 122 del 1993. La Cassazione[5] ha, innanzi tutto precisato che si deve escludere che possa automaticamente ricondursi alla nozione di «odio» ogni e qualsiasi sentimento o manifestazione di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, pur se riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità, all’etnia o alla religione e che si deve altresì considerare, quanto alla «discriminazione» non ogni condotta che sia o possa apparire contrastante con un ideale di assoluta e perfetta integrazione, dovendosi la nozione di discriminazione interpretare alla stregua della definizione contenuta nell’art. 1 della Convenzione di New York del 7 marzo 1966, resa esecutiva in Italia con la l. n. 654/1975, secondo cui essa «sta ad indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica». Ha affermato che non può considerarsi sufficiente una semplice motivazione interiore dell'azione, ma che occorre che questa, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno potenzialmente idonea a rendere percepibile all'esterno ed a suscitare in altri il suddetto sentimento di odio o comunque a dar luogo, in futuro o nell'immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori. Sulla stessa linea è la sentenza del 20 gennaio 2006[6], secondo la quale non ha rilievo la mozione soggettiva dell’agente perché l’accertamento sulla idoneità potenziale dell’azione a conseguire lo scopo discriminatorio deve essere parametrato, non già all’idoneità occasionale del fatto a conseguire ulteriore disvalore, ma al dato culturale che lo connota.

 

2.1. Problematica ricorrente nella giurisprudenza della Corte è quella relativa alla configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 cp).

Oltre alla sentenza n. 46300/2008 (seguita, di recente, dalla sentenza 13 maggio 2014, n. 19674), alla quale ho fatto riferimento nel primo paragrafo, che ha escluso la rilevanza dell’appartenenza alla religione musulmana e della condivisione dei valori posti a base delle regole di condotta da seguire nelle relazioni familiari secondo l’ordinamento dello Stato di provenienza, ai fini dell’accertamento dell’elemento soggettivo del delitto di maltrattamenti in famiglia, può essere segnalata la sentenza del 26 marzo 2009[7], secondo la quale, accertata la responsabilità per il delitto di maltrattamenti correttamente è esclusa la possibilità di concedere l’applicazione delle circostanze attenuanti generiche, invocate per essere le condotte punite giustificate dalla condivisione di tradizioni etico-sociali, di natura essenzialmente consuetudinaria benché nel complesso di indiscusso valore culturale, prevalendo il principio di obbligatorietà della legge penale per cui tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, soprattutto quando la tutela penale riguardi materie di rilevanza costituzionale, come la famiglia, che la legge fondamentale dello Stato riconosce quale società naturale, ordinata sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.), uguaglianza che costituisce pertanto un valore garantito, in quanto inserito in un ordinamento incentrato sulla dignità della persona umana e sul rispetto e la garanzia dei diritti insopprimibili a lei spettanti. Del pari è stata esclusa la rilevanza scriminante del consenso dell’avente diritto, per l’appartenenza dell’imputato e della persona offesa ad un ordinamento (quale quello albanese, peraltro qualificato in modo poco condivisibile come manifestazione di una sub-cultura) ispirato a una disciplina delle relazioni familiari che autorizzerebbero le condotte violente oggettivamente rientranti nella fattispecie dei maltrattamenti in famiglia.

2.2. Sulla stessa linea si pone la sentenza 18 giugno 2014, n. 49569, che ha escluso l’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62, 1° comma, n. 2 cp nei confronti di imputata (di origine marocchina) condannata per l'omicidio di un uomo con cui aveva avuto una relazione sentimentale e che, dopo lunghi tergiversamenti, aveva rifiutato di sposarla, sposando, invece, un'altra donna, perché anche se il comportamento della vittima sia percepito come deleterio dalla cultura di appartenenza per il «vulnus» arrecato all’onorabilità dell’imputata, con conseguente preclusione di un futuro matrimonio, ai fini della integrazione della provocazione è necessario che il comportamento della persona offesa rivesta carattere di ingiustizia obiettiva, intesa come effettiva contrarietà a regole giuridiche, morali e sociali, reputate tali nell'ambito di una determinata collettività in un dato momento storico e non con riferimento alle convinzioni dell'imputato e alla sua sensibilità personale.

2.3. Di segno apparentemente opposto, ma in realtà condizionata ad alcuni aspetti giuridicamente rilevanti della fattispecie concreta è la sentenza 22 giugno 2011, n. 43646[8] che, in materia di un’ipotesi di concorso nel delitto di esercizio abusivo della professione sanitaria, contestato a una donna di nazionalità nigeriana, migrata in Italia ma non ancora integrata nel relativo tessuto sociale, per aver fatto circoncidere il proprio figlio neonato da parte di altra donna della stessa etnia, non abilitata all'esercizio della professione medica, pur essendo la circoncisione un atto medico che interferisce sull’integrità fisica della persona anche in assenza di finalità terapeutiche. A poche ore dall'intervento il bambino aveva avuto una imponente emorragia, a pericolo di vita che ne aveva imposto il ricovero d'urgenza in ospedale.

Rileva la Corte che, a differenza dalla circoncisione rituale di matrice religiosa praticata dagli ebrei, rispetto alla quale sarebbe invocabile l'esercizio del diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, nel caso di specie, essendosi l’imputata dichiarata di fede cattolica, si tratta di circoncisione riconducibile a motivazioni che si basano su tradizioni culturali ed etniche certamente estranee alla cultura occidentale. Nel caso specifico, quindi, trova integrale applicazione la norma incriminatrice di cui all’art. 348 cp, che prevede un delitto punito a titolo di dolo, escluso dalla Corte sulla base del rilievo che detta norma ha natura di norma penale in bianco, integrata da altre norme che disciplinano la professione sanitaria protetta, e che dalle prove raccolte emergerebbe che la decisione di far circoncidere il figlio da parte di persona priva dell’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria sarebbe stata frutto di un errore scusabile sulla disciplina amministrativa extrapenale integratrice della norma incriminatrice. Da una parte deve infatti farsi applicazione dell’art. 5 cp, nel nuovo testo risultante a seguito della sentenza n. 364/1988 della Corte costituzionale, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima detta norma «nella parte in cui esclude dall'inescusabilità dell'ignoranza della legge penale l'ignoranza inevitabile» e dall’altra,assumono rilievo il basso grado di cultura dell’imputata e la non ancora intervenuta integrazione nel nostro tessuto sociale, con conseguente difficoltà a recepire con immediatezza valori e divieti estranei al suo bagaglio culturale.

3. Giurisprudenza civile

La materia in cui sono più frequenti gli interventi della Corte è certamente quella del diritto di famiglia, rispetto alla quale più acuti sono in conflitti con gli ordinamenti di diritto islamico basati su principi e valori profondamente diversi da quelli del nostro Paese. Non mancano, comunque, decisioni che affrontano il tema più generale del rapporto tra i modelli culturali di famiglia del nostro Paese con quelli dei Paesi di provenienza degli stranieri.

È interessante segnalare, da questo punto di vista, la sentenza della Corte del 22 novembre 2013[9] che, nel cassare la sentenza di merito che aveva confermato la dichiarazione di adottabilità di un minore figlia di una donna keniota basata, tra l’altro, su un confronto condotto sul piano astratto tra la permanenza presso la famiglia d’origine, che prevedeva il ritorno in Kenia per poter ricevere il sostegno anche economico dai propri parenti ed in particolare dallo zio materno, secondo il modello di famiglia allargata vigente in quel Paese, certamente lontano “culturalmente” da quello nucleare proprio del mondo occidentale, e il mantenimento dell’inserimento nella famiglia degli affidatari provvisori, in linea astratta certamente migliore. Il diritto del minore di vivere, crescere ed essere educato nella propria famiglia si deve coordinare con quello al rispetto dell'identità culturale sua e dei suoi genitori. La preferenza verso un modello familiare diverso da quello prospettato dalla madre non può essere frutto di opzioni culturalmente orientate, ma solo di valutazioni concrete dell’idoneità soggettiva del genitore a prendersi cura del minore.

3.1. È principio pacifico che il riconoscimento di effetti del matrimonio tra stranieri è subordinato alla circostanza che lo stesso sia contratto secondo le previsioni dell’ordinamento di appartenenza e che tale ordinamento attribuisca al matrimonio effetti giuridici. Tale principio è stato ribadito dalla sentenza del 27 settembre 2013[10] la quale ha ritenuto che la causa di esclusione della espulsione dello straniero, prevista dall'art. 19, 2°comma, lett. d), del d.lgs n. 286 del 1998, nella formulazione risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 376 del 2000, consistente nella sussistenza di un rapporto di coniugio e di convivenza dell'espellendo con una donna in stato di gravidanza, opera a condizione che tale rapporto trovi riconoscimento nell'ordinamento giuridico dello Stato di appartenenza dello straniero, mentre nella specie un cittadino extracomunitario era coniugato con rito “rom” al quale non può attribuirsi rilevanza giuridica in alcun ordinamento statuale.

Uno dei limiti al riconoscimento di matrimoni fra stranieri è da tempo individuato nella finalità di impedire che la poligamia abbia un qualche rilievo nell’ordinamento. A tale finalità è ispirata l’ordinanza del 28 febbraio 2013 n. 4984[11] in tema di ricongiungimento familiare del cittadino straniero, in cui si afferma che non può essere accolta la domanda del figlio in favore della propria madre, cittadina del Marocco, il cui coniuge straniero, già regolarmente soggiornante in Italia aveva precedentemente proposto analoga istanza a favore di un'altra moglie sposata in regime di poligamia consentito dall’ordinamento di provenienza.

Un’ipotesi di indiretta rilevanza della poligamia ha formato oggetto della sentenza 2 marzo 1999, n. 1739[12] secondo la quale il matrimonio contratto da cittadino in Somalia, secondo le forme previste dalla legge del luogo e in applicazione della legge islamica che prevede la poligamia (e il ripudio) è idoneo a produrre effetti, nella specie a fini ereditari, nel nostro ordinamento fino a che non sia pronunciata l’eventuale sentenza definitiva dichiarativa della nullità, in applicazione del principio del favor matrimonii.

3.2. In tema di filiazione la giurisprudenza della Corte si è occupata più volte della rilevanza nel nostro ordinamento del divieto di riconoscimento dei figli nati fuori deal matrimonio contenuto nelle legislazioni ispirate all’islam.

Così la sentenza del 28 dicembre 2006[13], in tema di capacità di effettuare il riconoscimento del figlio, disciplinata – in base alle norme del diritto internazionale privato (art. 35, 2° comma, della l. 31 maggio 1995, n. 218) – dalla legge nazionale del genitore, ha ritenuto che il principio di ordine pubblico internazionale, che riconosce il diritto alla acquisizione dello status di figlio a chiunque sia stato concepito, indipendentemente dalla natura della relazione tra i genitori, costituisce un limite generale all'applicazione della legge straniera (nella specie, egiziana) che, attribuendo all'uomo la paternità unicamente nell'ipotesi in cui il figlio sia stato generato in un «rapporto lecito», preclude al padre di riconoscere il figlio nato da una relazione extramatrimoniale. In tal caso deve trovare applicazione la norma di diritto interno che si sostituisce integralmente alla norma straniera, ai sensi dell'art. 16, 2° comma, della citata legge n. 218 del 1995.

3.3. In tema di potestà dei genitori la sentenza del 27 febbraio 1985[14] ha affermato che nel decidere in ordine all’affidamento dei figli in occasione della separazione personale dei genitori il giudice italiano non può fare applicazione della legge iraniana, legge nazionale del padre, che preveda esclusivamente l’affidamento al padre, poiché detta norma straniera non può trovare applicazione nel nostro ordinamento, incontrando il limite dell’ordine pubblico internazionale. Inoltre detto criterio, certamente difforme da quello posto dall'art. 155, 1°comma cc, in forza del quale i provvedimenti relativi alla prole vanno adottati con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa, astraendo dalla concreta attitudine del genitore a prendersi cura della prole, si pone in aperto contrasto con il divieto di discriminazione dei sessi (artt. 3 e 29 della Costituzione) e del principio di laicità che non consente che il credo religioso dei genitori venga considerato come criterio per la scelta dell'affidatario.

La sentenza del 9 giugno 2005[15] ha affermato che lo straniero può chiedere il ricongiungimento per i figli minori a carico (art. 29, 1° comma, lett. b), del d.lgs n. 286 del 1998) se provvede al sostentamento, non anche che il richiedente sia titolare della potestà, esclusiva o concorrente, sul figlio minore. Pertanto una cittadina del Regno del Marocco, ripudiata dal marito, il quale, con l'atto di ripudio, ed in conformità del codice dello stato delle persone vigente in detto Paese, abbia escluso la moglie dalla tutela del figlio minore, riservandola a se stesso (anche se poi abbia espresso il consenso alla convivenza con la madre), ben può richiedere il ricongiungimento con il figlio alla sola condizione che offra sufficienti garanzie in ordine alla convivenza con il minore nel territorio italiano, alla disponibilità di un alloggio idoneo a questo fine ed alla titolarità di un reddito adeguato.

3.4. La Corte di cassazione si è occupata più volte della rilevanza nel nostro ordinamento, prevalentemente ai fini della concessione del visto d’ingresso per ricongiungimento familiare nel nostro Paese a minori provenienti da Paesi di diritto islamico affidati in kafalah a stranieri o a cittadini italiani.

La kafalah è un istituto di diritto musulmano che — stante il divieto coranico dell’adozione (recepito in tutti gli ordinamenti di diritto musulmano con l’eccezione della Tunisia, della Somalia e dell’Indonesia) e in ossequio al precetto che fa obbligo a ogni buon musulmano di aiutare i bisognosi e in particolare gli orfani — consente a una coppia di coniugi, o anche a una persona singola, di custodire e assistere minori orfani o comunque abbandonati con l’impegno di mantenerli, educarli ed istruirli, come se fossero figli propri fino alla maggiore età, senza però che l’affidato entri a far parte giuridicamente della famiglia che lo accoglie e senza che all’affidatario siano conferiti poteri di rappresentanza o di tutela che rimangono attribuiti alle pubbliche autorità competenti. Ogni singolo Paese di area islamica ha disciplinato la kafalah in maniera più o meno dettagliata e diversificata, ma nella maggior parte delle legislazioni è prevista una dichiarazione di abbandono e l’accertamento dell’idoneità dell’aspirante affidatario e un provvedimento emesso all’esito di procedura giudiziaria (cd. kafalah pubblicistica), anche se rimane la possibilità, nella pratica poco utilizzata, che l’affidamento in kafalah sia effetto di un accordo tra affidanti e affidatari, siglato davanti a un giudice o a un notaio, soggetto ad omologazione da parte di un’autorità giurisdizionale.

L’articolo 20 della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo, sottoscritta il 20 novembre 1989 e resa esecutiva con l. 27 maggio 1991, n. 176, dopo avere affermato al 1° comma che «Ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto a una protezione e ad aiuti speciali dallo Stato» e che gli Stati contraenti debbono prevedere una protezione sostitutiva, in conformità con la loro legislazione nazionale, al 3° comma precisa che «Tale protezione sostitutiva può in particolare concretizzarsi per mezzo dell’affidamento familiare, della kafalah di diritto islamico, dell’adozione o in caso di necessità, del collocamento in adeguati istituti per l’infanzia. Nell’effettuare una selezione tra queste soluzioni, si terrà debitamente conto della necessità di una certa continuità nell’educazione del fanciullo, nonché della sua origine etnica, religiosa, culturale e linguistica». Inoltre, nella convenzione dell’Aia del 19 ottobre 1996, sulla competenza giurisdizionale, il riconoscimento, l’esecuzione e la cooperazione in materia di responsabilità genitoriale e di misure di protezione del minore, sottoscritta ma non ancora ratificata e resa esecutiva dall’Italia, è espressamente previsto (art. 3 lett. e) che il collocamento di un minore in una famiglia di accoglienza tramite kafalah è una delle misure di protezione della persona oggetto della disciplina convenzionale e all’articolo 33 viene disciplinato il procedimento per l’attribuzione di effetti in ordinamenti diversi.

Con sentenza del 16 settembre 2013, n. 21108[16], le sezioni unite, affrontando la questione di massima e risolvendo al tempo stesso un (apparente) contrasto di giurisprudenza all’interno della stessa Corte (in precedenza orientata ad affermare la possibilità di ricongiungimento familiare per i minori in kafalah se affidati a stranieri e per la soluzione opposta nel diverso caso di affidamento a cittadini italiani) ha affermato (ai sensi dell’art. 363 cpc, essendo nelle more del giudizio cessata la materia del contendere) il principio secondo cui non può essere rifiutato il nulla osta all’ingresso nel territorio nazionale, per ricongiungimento familiare, richiesto nell’interesse di minore cittadino extracomunitario, affidato a cittadino italiano residente in Italia, limitando tuttavia tale principio all’ipotesi in cui il provvedimento di kafalah sia pronunciato dal giudice straniero (cosiddetta kafalah pubblicistica), il minore sia a carico o conviva nel Paese di provenienza con il cittadino italiano ovvero gravi motivi di salute impongano che debba essere da questi personalmente assistito.

Il principio è stato seguito dalla successiva sentenza 22 maggio 2014, n. 11404, ma con sentenza 2 febbraio 2015, n. 1843, la Cassazione ha superato il limite posto dalle sezioni unite allargando la possibilità di ricongiungimento familiare a cittadino italiano anche del minore straniero affidato con kalafah cosiddetta convenzionale, con valutazione da effettuare caso per caso in considerazione del superiore interesse del minore.

[1] Sentenza 26 novembre 2008, n. 46300, con nota di F. Pavesi in Giur.it, 2010, 2, p. 416.

[2] Cass., sez pen., 20 ottobre 1999, n. 3398.

[3] Cass., sez. pen., 13 dicembre 2007, n. 13234, 10 luglio 2009 n. 41819.

[4] Cass., sez. pen., 11 ottobre 2006, n. 37733.

[5] Cass., sez. pen., 17 novembre 2005, n. 44295.

[6] Cass., sez. pen., 20 gennaio 2006, n. 9381.

[7] Cass., sez. pen., 26 marzo 2009, n. 32824.

[8] Con note di V. Pusateri in Dir., immigrazione e cittadinanza, 2012, fasc. 1, p. 190; A. Ceserani in Dir. eccles., 2012, p. 403; A. Gaboardi, in Indice pen., 2014, p. 623; D’Ippolito, in Cass. pen., 2012,2, p.3706.

[9] Cass., sez. civ., 22.11.2013, n. 26204, con nota di G. Casaburi, in Foro it., 2014, I, 58.

[10] Cass., sez. civ., 27 settembre 2013, n. 22305.

[11] Con nota di G. Perin, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2013,1, p. 161.

[12] Con note di V. Santarsiere in Archivio civile, 1999, p. 1377; G. Balena in Foro it., 1999, I, p. 1458; L. Di Gaetano, in Giust. civ., 1999, I, p. 2695.

[13] Cass., sez. civ., 28 dicembre 2006, n. 27592, con note di S. Corbetta in Famiglia, persone e successioni, 2007, p. 597; di E. De Feis e F.Tommaseo in Famiglia e dir., 2007, p. 1113.

[14] Cass., sez. civ., 27 febbraio 1985, n. 1714.

[15] Cass., sez. civ., 9 giugno 2005, n. 12169, con note di V. Carbone, in Famiglia e dir., 2005, p. 354; M.Fiorini, in Guida al dir., 2005, fasc. 26, p. 22.

[16] Con note di P. Morozzo della Rocca, in Corriere giur., 2013, p. 1492; di R. Gelli in Famiglia e dir., 2014, p. 122; di J. Long in Minori giustizia, 2014, fasc. 1, p. 211; di L.Racheli, in Nuova giur. civ., 2014, I, p. 264; di M. Spoletini, in Giur. it., 2014, p. 541; di G. Magno in Dir. famiglia, 2014, p. 86.