Magistratura democratica

Ancora sull’abuso del diritto
Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza

di Nicolò Lipari
L’Autore – muovendo da un ragionamento su quello che può sembrare un apparente ossimoro (l’abuso di un diritto) – sviluppa le proprie riflessioni sul nuovo modo di porsi della riflessione giuridica rispetto al diritto come esperienza, rilevando che il processo di sussunzione, inteso come deduzione logica da una norma data, non è più lo strumento principe per individuare il diritto. In altri termini – osserva l’Autore nelle conclusioni del suo contributo – «va ripensato il concetto di legalità, facendola nascere dal basso di vicende giudizialmente riconosciute e socialmente condivise». Nell’esperienza contemporanea assumono infatti rilievo cruciale l’argomentazione nel processo applicativo del diritto e il riferimento alla concretezza del rapporto dedotto in giudizio. L’interpretazione giudiziaria si muove necessariamente in un quadro in cui principi, regole e caso concreto si trovano continuamente ad interagire; in tale contesto, si rende così possibile la costituzionalizzazione del diritto, operazione che, però, impone estremo rigore nei modi di svolgimento del procedimento argomentativo. È in questo quadro che – e ancor prima della previsione testuale in un dato legislativo e valorizzando al massimo grado l’interpretazione che muova da principi e clausole generali – la teoria dell’abuso del diritto ha potuto trovare spazi di affermazione.

1. L’abuso del diritto come paradigma del processo di giurisdizionalizzazione del diritto. Oltre il criterio della validità e per la legalità del caso. Il riflesso di una metodologia giuridica antiformalistica. Lo sforzo della giurisprudenza di collocare una novità nel segno della continuità

Il tema dell’abuso del diritto, che ha conosciuto di recente una rinnovata attenzione, sia in sede teorica che pratica[1], può essere assunto a paradigma (o comunque a sintomo evidenziatore) di quello che – quali che possano essere le resistenze o i dubbi[2] – deve ormai ritenersi uno degli elementi caratterizzanti dell’esperienza giuridica del nostro tempo, cioè la sua progressiva giurisdizionalizzazione[3], intesa come spostamento del punto focale dell’analisi dall’origine all’uso delle norme in funzione di quella che è stata definita la legalità del caso[4]. Nell’ottica dell’abuso si supera la forza privilegiata della teoria della validità e il diritto riscopre la sua ineludibile connessione ad un tessuto di premesse morali e di valori condivisi, senza del quale l’idea stessa di giuridicità sarebbe priva di senso. In un contesto sempre più multiforme e magmatico è proprio ed esclusivamente nel momento applicativo che si saldano e si fondono, in termini non sempre facilmente distinguibili, la determinazione del fatto, la sua qualificazione secondo paradigmi di tipo giuridico, l’individuazione dell’enunciato o del principio al quale riagganciare, in termini motivatamente plausibili, la soluzione del caso. Nel crogiolo del giudizio non è più possibile secernere gli elementi della fusione. La loro distinzione vale solo in sede argomentativa e ben può accadere che la medesima soluzione venga in un caso prospettata accentuando i profili qualificativi del fatto, in un altro ponderando il riferimento a principî. Da qui spesso l’artificiosità di dibattiti che, perdendo di vista ogni prospettiva di condivisibilità, si collocano in un’ottica radicalmente diversa rispetto a quella in cui si è posto il decidente.

È stato giustamente notato che l’altalenante attenzione verso la formula “abuso del diritto” – inteso come un duttile strumento offerto all’operatore pratico del diritto per introdurre un correttivo di segno lato sensu equitativo nella trama di un sistema di enunciati formalmente posti – è legata a momenti in cui emerge l’attenzione verso progetti di metodologia giuridica in senso ampio antiformalistici[5]. Il procedimento argomentativo attraverso il quale, per via interpretativa, si inverte lo status deontico di una condotta ponendo limiti all’esercizio di una libertà che, in chiave meramente enunciativa, l’ordinamento, inteso come sistema di regole dettate, considera invece permessa, riflette evidentemente un’impostazione di fondo sullo stesso modo di intendere il processo applicativo del diritto. Nel momento in cui la regola non è più necessariamente accolta nella sua prescrittività, ma viene in qualche modo limitata (nell’ottica della vicenda concreta che si tratta di risolvere) in funzione di principî che dovrebbero giustificarne l’applicazione, il diritto rompe la crosta di qualsiasi formalismo e guarda alla duttilità di un’esperienza, al di là della circostanza che quei principî si propongano, in determinati momenti storici (e segnatamente in quello che ci è stato dato di vivere), come molteplici, confliggenti, incommensurabili, indeterminati[6].

Tutto ciò impone di riflettere sull’abuso del diritto in una chiave diversa rispetto a quanto non sia accaduto in passato, assumendo la figura a paradigma di un nuovo modo di porsi della riflessione giuridica rispetto al diritto come esperienza. Senza tuttavia scandalizzarsi del fatto che, pur immersa in un contesto del tutto nuovo, la giurisprudenza si sforzi di collocare le sue decisioni entro paradigmi collaudati. Ripercorrendo, ad esempio, la motivazione della Cassazione sul “caso Renault” si nota lo sforzo di superare, nel segno di una apparente continuità ma nel richiamo a principî di rilievo costituzionale e con oggettivo superamento dei vincoli dell’enunciato, quella che la stessa Corte definisce la “cornice formale attributiva del diritto”. Come sempre è accaduto nella rivoluzione delle idee, si tende, per rendere più facilmente accettabile un esito che potrebbe altrimenti apparire eversivo, a proporlo come semplice evoluzione di risultati ormai pacificamente accolti. Nella richiamata sentenza si tenta di rafforzare la conclusione autonomamente acquisita facendola apparire come necessaria conseguenza di una coerente evoluzione giurisprudenziale[7]. Si tratta di un atteggiamento nient’affatto nuovo. Proprio perchè le tecniche motivazionali risultano tanto più condivisibili quanto più facilmente collocabili entro circuiti argomentativi già accolti, è normale che si tenda a cogliere, magari con qualche forzatura, la continuità di un itinerario. Senza dover qui ripercorrere riflessioni già da tempo compiute è quanto la Cassazione ha già fatto allorché ha, con il “caso Meroni”, ammesso la lesione del credito da parte del terzo, o quando, dopo lunghe resistenze, ha finalmente affermato la risarcibilità del danno per lesione di un interesse legittimo. In entrambi i casi si cercò di accentuare i segni della continuità, piuttosto che quelli di una radicale inversione di rotta. L’ordinamento, inteso come esperienza, non compie mai repentine conversioni e si muove sempre con una continuità che va, volta a volta, spiegata.

2. Essenzialità del ruolo del giudice, al di là della distinzione tra sistemi di common law e sistemi di civil law. Dallo jus positum allo jus in fieri e il ruolo paradigmatico dell’abuso del diritto. Irrilevanza di un riconoscimento legislativo del divieto di abuso

Si tratta allora di ripensare (e bisogna farlo al di fuori di ogni timore)[8] il ruolo del giudice nel processo applicativo del diritto, magari rompendo il vecchio paradigma secondo il quale nei paesi di commom law (così come nell’esperienza del diritto romano classico) la mancanza di una teoria del divieto di abuso del diritto si giustificherebbe con l’inutilità di ricercare il fondamento teorico di regole che possono facilmente ricavarsi dall’istrumentario con cui si è abituati ad operare[9], in modi rigorosamente alternativi rispetto a sistemi in cui solo l’orizzonte degli enunciati posti definirebbe l’ambito della regola. La figura dell’abuso del diritto fa intendere, in termini di palmare evidenza, che il processo di sussunzione, inteso come deduzione logica da una norma data, non è certamente più, nell’esperienza contemporanea, lo strumento essenziale per individuare il diritto[10]. Nello stabilire la fondatezza o l’infondatezza di una pretesa ovvero la liceità di una condotta il giudice riconosce o disconosce diritti e doveri, ma lo fa non in base al riferimento a precostituiti astratti modelli di diritti soggettivi, bensì riferendosi alla concretezza del rapporto, alla specificità del caso, alla peculiarità delle circostanze date[11].

Che la dottrina dell’abuso del diritto si collochi al confine tra il riconoscimento di un’uguaglianza formale di fronte alla legge e l’affermazione in concreto di una sindacabilità di quella enunciazione edittale[12] è considerazione sostanzialmente condivisa nel segno di un superamento dei paradigmi proprî del positivismo giuridico, si debba o meno parlare di una «superlegalità che concorre e sovrasta la legittimità formale, quando non è addirittura un ritorno al diritto naturale»[13]. Nella difficile stagione di passaggio che stiamo attraversando il richiamo all’abuso del diritto diviene uno degli strumenti attraverso i quali l’interprete – e quindi in primo luogo il giudice –, che pur deve prendere le mosse da uno jus positum, si libera dalla pretesa secondo la quale egli sarebbe vincolato ad un senso definitivo dell’enunciato, per assegnare a questo un significato desunto da indici diversi, ancorché non individuati a priori e ancorché non sempre omogenei. La evoluzione che il nostro ordinamento ha subìto attraverso i processi di nebulizzazione delle fonti e di costituzionalizzazione del procedimento interpretativo con conseguente rilievo del momento giurisdizionale ha accentuato il ricorso a strumenti qualificativi come l’abuso, ferma la necessità per l’interprete di muoversi pur sempre all’interno di un sistema di diritto scritto. Quali che siano i criteri cui il giudice in concreto si richiami per colmare quello che è stato definito lo «spread tra stretto diritto e vero diritto»[14], certo è che, nei modi della prospettazione argomentativa e quindi della conseguente accettabilità sociale, si caratterizza uno dei connotati essenziali dell’esperienza giuridica del nostro tempo, la realtà di uno jus in fieri che non si esaurisce mai nella formalità di un enunciato e che inevitabilmente si riconduce ad indici ricavabili dalla specificità del caso.

In questa chiave, essendo il ruolo dell’interprete necessariamente legato ad una pluralità di fattori, diventa assolutamente irrilevante il fatto che il sistema delle norme contenga o meno una esplicita sanzione dell’abuso. Ecco perchè non ritengo importante, al di là del suo valore simbolico, il fatto che la figura del divieto di abuso del diritto abbia trovato addirittura un suggello formale nella sua collocazione all’art. 54 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea[15]. In sostanza, il principio dell’abuso del diritto si proietta necessariamente nella complessità delle vicende applicative e quindi si sottrae ad ogni ipotesi di formalizzazione[16]. In chiave di teoria generale la riflessione non può essere diversa a seconda che l’abuso sia o meno sanzionato da un testo legislativo[17], proprio perchè, come è stato giustamente osservato, l’abuso del diritto riflette «la storia stessa di un problema di misura del diritto inteso ... come insieme di ‘ragioni’ coesistenti in un sistema»[18]. Quale che sia la struttura dell’apparato normativo, all’interno dell’ordinamento assunto nella sua globalità, è sempre possibile ipotizzare una modalità di esercizio del paradigma legale che contraddica al valore di fondo in funzione del quale la tutela del diritto è stata riconosciuta e affermata.

3. Irriducibilità dell’abuso ad uno schema astratto. La centralità dell’argomentazione intesa come fonte. Sulla necessaria creatività della giurisprudenza come fonte. Gadamer e il perfezionamento creativo della legge nell’interpretazione. Il significato della creatività giurisprudenziale nel quadro del principio di cui all’art. 101 Cost. Il senso del riferimento al “diritto vivente”

Nella sua tradizionale impostazione il problema dell’abuso del diritto viene colto nel rapporto tra lo schema legale di una giuridicità assunta nella sua configurazione astratta e le modalità concrete del suo esercizio[19], nella consapevolezza che la lettura in astratto di un riconoscimento formale ben può non coincidere con la concretezza di una vicenda attuativa[20], posto che, nella varietà dei casi specifici, se si guarda alla complessità delle situazioni sulle quali può incidere l’esercizio di un diritto, formalmente attribuito nella sua titolarità, non è da escludere che esso possa essere usato quale schermo a copertura di una condotta arbitraria o possa comunque determinare nel sistema effetti negativi da ritenere prevalenti rispetto alla garanzia del diritto esercitato[21].

Né ci si può trincerare, con ciò marginalizzando il profilo dell’abuso, dietro l’asserita eccezionalità di tali situazioni[22], perchè, nella crescente complessità dei nostri rapporti giuridici, sono sempre più frequenti i casi nei quali si intersecano assetti di interessi diversi, ciascuno qualificabile in chiave di libertà o di divieto, ma non sempre facilmente definibili nella loro interrelazione[23]. Al di là delle varie formule utilizzate in dottrina per qualificare una situazione di questo tipo – vi è stato, ad esempio, chi ha descritto l’abuso nei termini di una distinzione fra due valutazioni, l’una “in astratto” e l’altra “in concreto”[24] – certo è che non è possibile semplicisticamente ridurre il paradigma dell’abuso del diritto allo schema dell’illecito[25], proprio perchè, indipendentemente dall’individuazione dei presupposti che qualificano l’atto illecito, l’abuso non è mai riconducibile ad uno schema astratto, dipendendo l’esercizio del diritto da una ponderazione con interessi correlati, non necessariamente valutabili a priori nella loro consistenza e nella loro portata.

Certo l’elasticità del criterio, l’indeterminatezza del principio, la flessibilità del rapporto tra un contenuto attributivo e una modalità esecutiva rendono decisivo il procedimento argomentativo e riconducono alla sua plausibilità l’incidenza del risultato all’interno di una determinata collettività sociale. Non deve essere infatti mai dimenticato che «la legittimazione alla legalità non va spiegata a partire da una razionalità autonoma, moralmente neutra, intrinseca alla forma diritto»[26], proprio perchè «oggi il sistema dogmatico e scientifico del diritto non ha più una funzione autofondante», in quanto «il problema della fondazione si ripropone come problema di comunicazione del sistema giuridico col suo ambiente, del quale la sfera morale-culturale è una componente essenziale»[27].

Sulla centralità dell’argomentazione nel processo applicativo del diritto si va oggi realizzando una progressiva convergenza, pur con una serie di sfumature. Vi è infatti chi concepisce la teoria dell’argomentazione come fonte formale di diritto oggettivo[28], ma perviene poi a «respingere, con le più rigorose formulazioni del deduttivismo, anche l’ipotesi di una giurisprudenza realmente creativa»[29]; ovvero chi, nell’intento di salvare il principio di legalità e la soggezione dei giudici alla legge, distingue tra varie forme argomentative, a seconda che queste abbiano ad oggetto le norme ovvero i singolari e specifici connotati del caso sottoposto al giudizio[30].

Personalmente riterrei del tutto improprio, giunti a questa fase evolutiva dell’esperienza giuridica, negare la radicata conclusione secondo la quale anche la giurisprudenza debba essere annoverata tra le fonti del diritto[31]. Né mi sembra che la configurazione creazionistica dell’argomentazione giuridica contraddica al paradigma dello stato di diritto[32]. Senza necessità di dover qui affrontare un tema sconfinato, certo è che, se per stato di diritto intendiamo uno Stato che ponga limiti a se stesso attraverso lo strumento della legge, ciò non significa necessariamente che la legge debba essere intesa in una sua datità oggettiva sottratta alle variabili del procedimento interpretativo[33]. Anzi, proprio se si riconosce che la norma, come precetto all’azione, nasce all’esito dell’interpretazione e che questa trova la sua plausibilità nel fatto di fondarsi sulla condivisione di una collettività[34], allora ben può dirsi con Gadamer, che «il compito dell’interpretazione è la concretizzazione della legge nel caso particolare, cioè l’applicazione», all’un tempo riconoscendo che «si verifica così un perfezionamento creativo della legge»[35]. In sostanza, se con la formula stato di diritto si intende porre l’accento sui limiti del “sovrano”, che non può essere considerato investito di un potere illimitato, ciò non implica affatto che questi limiti debbano essere esclusivamente desunti da enunciati formali (di per sé consistenti solo in un complesso di parole), anziché da comportamenti concordemente attuati o da indici di valore condivisi. Semmai si deve oggi riconoscere una legittimazione funzionale della sovranità nonchè l’accentuazione del carattere “neutrale” dello Stato come tramite di un ordine caratterizzato dal politeismo dei valori, dalla molteplicità delle fedi, dalla valorizzazione delle differenze.

Naturalmente anche il termine “creazione” sconta una evidente ambiguità. La creatività della giurisprudenza non nasce certo dal nulla così come non nasce dal nulla la creatività del legislatore. La prima tuttavia suppone l’avvenuto esercizio della seconda. L’unico presupposto scontato all’interno di un ordinamento come il nostro riguarda infatti l’impossibilità di proporre un risultato interpretativo senza assumere comunque ad elemento essenziale (ancorché non esclusivo) del procedimento valutativo idoneo a condurre al precetto un enunciato normativo o comunque un criterio motivazionale che giustifichi il riferimento alla fonte della regola[36]. In questo senso e solo in questo senso, può essere inteso il principio assunto a fondamento dall’art. 101 cpv. Cost., secondo cui «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». Tale formula infatti non intende solo affermare (escludendo la dipendenza del giudice da qualsiasi altro potere) il valore cardine dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma mira altresì a rendere esplicito (nel quadro di un ordinamento di diritto scritto) che nessun procedimento applicativo del diritto può compiersi senza utilizzare un necessario referente normativo (eventualmente anche rappresentato da una fonte non scritta), con conseguente obbligo per il giudice di giustificare la decisione tenendo conto di tale presupposto e connessa sottoposizione del relativo procedimento ad un meccanismo di controllo nei vari gradi di giurisdizione. Il che peraltro non implica né che possa darsi per scontato il criterio di individuazione della “legge” (vanificando il complesso problema di determinazione delle fonti)[37], né che si debba immaginare un contenuto definito dell’enunciato di legge (negando in radice la variegata articolazione del procedimento applicativo e la necessaria mediazione dell’interpretazione). La legge va intesa non in una sua astratta fissità, ma in chiave di effettività, cioè alla stregua di quei parametri valutativi (generalmente condivisi, almeno entro un ragionevole ambito di tempo, in sede giurisprudenziale o applicativa) che consentano di individuarne un plausibile significato in un determinato contesto storico e sociale. È proprio questo il senso del riferimento al diritto vivente[38], che la Corte costituzionale assume a paradigma costante dei suoi pronunciamenti, senza ovviamente negare il precetto della soggezione del giudice alla legge. Ciò che vive – e non è dunque consegnato ad una sua consolidata definitività – non può non implicare una dimensione di creatività. In questo senso può dunque dirsi – riconoscendo al procedimento argomentativo un ruolo centrale e decisivo nella vicenda applicativa del diritto – che la norma è posta non in quanto formalmente dettata, ma nella concretezza degli atti che individuano le situazioni storiche in cui, movendo da un enunciato, si definisce un modello di comportamento che appare plausibile, condivisibile, accettabile. In sostanza, la centralità dell’argomentazione non impone affatto che si debba fare riferimento esclusivo ad uno jus positum, inteso come referente certo e verificabile nella sua asserita oggettività.

4. Superamento della vecchia dottrina sull’abuso nell’ottica della costituzionalizzazione e della personalizzazione del diritto. Principî, diritti e regole nel momento giurisprudenziale. Diritto e giustizia nella stagione del positivismo e oggi

Nell’ottica qui proposta si stempera gran parte del dibattito che ha da alcuni decenni accompagnato la letteratura civilistica. È stato autorevolmente segnalato che «la dottrina dell’abuso è superflua»[39], ancorché essa possa essere legittimamente utilizzata «per lottare contro pratiche socialmente nocive e dare soddisfazione a valori elevati». Può essere infatti indicativo segnalare il ricorso all’abuso come sintomo del nuovo ruolo riconosciuto alla mediazione giudiziale nell’ottica di un passaggio dal paradigma di un diritto individuabile a priori nella oggettiva consistenza di un sistema di enunciati posti a quello di un diritto valutabile solo all’esito del procedimento applicativo e quindi in relazione alla specificità di una vicenda vissuta.

Dobbiamo abituarci a rompere la forza costrittiva delle nostre vecchie categorie che abbiamo troppo spesso utilizzato come schemi entro i quali costringere la realtà[40]. È stato giustamente detto che la costituzionalizzazione del diritto, nella misura in cui ha introdotto in esso il principio personalistico che è la radice del pluralismo, lo rende sempre meno generalizzabile[41]. L’incomparabilità delle persone esclude la stessa possibilità di configurare il diritto soggettivo secondo un paradigma astratto applicabile in maniera uniforme. L’uguaglianza nella diversità va recuperata appunto attraverso la normativa del caso concreto. È ovvio che, in un’ottica di questo tipo, la contraddizione, che si vorrebbe intrinseca al concetto di abuso del diritto[42], viene meno, perchè la normatività del diritto soggettivo non esiste una volta per tutte e in maniera indifferenziata, ma si viene specificando in funzione delle diverse situazioni concrete, nasce per così dire da un connubio fra la dimensione prescrittiva e quella argomentativa[43]. Non è dunque contraddittorio, ma anzi coessenziale ad un modo di intendere il diritto soggettivo non in astratto ma in concreto, che ciò che sia legittimo in un caso risulti abusivo in un altro[44], proprio perchè il caso diventa indispensabile per individuare l’ambito della normatività. Non è più quindi legittimo sostenere – secondo uno schema che è invece ineccepibile nell’ottica dello jus positum – l’inammissibilità logica prima ancora che giuridica di una condotta che, pur essendo conforme allo schema normativo, debba essere considerata illegittima e quindi improduttiva degli effetti in astratto riconducibili a quello schema[45], perchè è proprio l’astrattezza dello schema che non è più oggi “giuridicamente” pensabile, nella misura in cui la costituzionalizzazione della persona suppone e postula una concezione dinamica della regola giuridica, valutabile solo nel raccordo tra il presupposto enunciativo e le specificità della singola vicenda storica.

Ecco perchè il discorso sull’abuso si salda, a ben vedere, con il discorso sui principî e sui valori che essi sottendono[46]. Nella continua ricerca – verificabile solo nel terminale del momento applicativo – di un punto di saldatura tra principî, diritti e regole (queste ultime oltre tutto riconducibili ad una variegata provenienza) il momento giurisprudenziale diventa decisivo e all’interno di questo la figura dell’abuso del diritto appare paradigmatica per intendere che nella stagione del pluralismo non possono esistere poteri riconducibili ad una autorità capace di attribuirli e riconoscerli nel loro esercizio in via indipendente dalla varietà degli effetti che sono in grado di produrre, proprio perchè la modalità dell’effetto può contraddire il principio (e quindi il criterio di valore) in vista del quale l’attribuzione era stata compiuta.

Mi rendo perfettamente conto del fatto che la nostra cultura giuridica, condizionata dai modelli del positivismo, non ha ancora seriamente metabolizzato il processo di costituzionalizzazione del diritto, che sposta il profilo dell’antigiuridicicità sul piano della contraddittorietà non a regole ma a principî. Se si esce dai paradigmi di stampo positivistico un tale atteggiamento non deve scandalizzare, posto che, come è stato giustamente osservato, determinare l’indeterminato è una caratteristica della funzione giudiziale[47]. Né mi pare si possa dire che è infondato l’argomento secondo il quale i principî valgono più delle regole, in quanto «dietro tutte le regole c’è sempre un principio»[48]. Se i principî sono ricavabili dal testo costituzionale, essi debbono necessariamente prevalere sulle regole della legge ordinaria, nonchè, in ipotesi, sui principî che fossero per astrazione ricavabili dal sistema degli enunciati posti. Ci si deve cioè adeguare all’idea di un diritto legislativo illegittimo, formula che la dottrina di Kelsen considerava come una vera e propria contraddizione in termini[49]. Nel momento in cui il giudice è investito del potere di controllare la costituzionalità di una legge, egli è chiamato ad adeguare il contenuto di una norma ordinaria ad un principio ricavabile dalla Costituzione, nonostante l’apparente specificità della prima e l’asserita genericità del secondo. Come è stato detto, i principî «non indicano conseguenze giuridiche che seguano automaticamente allorché si diano le condizioni previste», e perciò non si applicano ma si pesano, nel senso che prevale quello cui è associato volta a volta maggior peso per la sua maggiore importanza o pertinenza[50]. Non a caso la giurisprudenza ha spesso utilizzato il richiamo al principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. come un criterio di fondo destinato ad informare qualsiasi procedimento interpretativo, indipendentemente dal fatto, ad esempio, che il contratto sia stato strutturato avendo di vista, nell’immediato, interessi diversi. Entro una logica strettamente formalistica, il richiamo ad un principio esterno alla struttura (legittima) del contratto in funzione di un indice sicuramente sopravvenuto rispetto al momento della sua conclusione, appare procedimento volto a correggere surrettiziamente la legge[51]. Ma è chiaro che, a ben vedere, così non è nella logica di un diritto vivente che colga la forza precettiva della norma al di là della formalità della disposizione[52]. In questa chiave la critica alla nota sentenza della Cassazione in tema di recesso[53] non può essere incentrata sul rilievo che la norma sulla buona fede nell’esecuzione non è pertinente al contenuto del contratto, proprio perchè il presupposto è che i principî di buona fede e di correttezza si pongano a livello costituzionale informando necessariamente ogni atto negoziale, in funzione del loro essere in sintonia con il dovere inderogabile di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., che a quei principî dà all’un tempo forza normativa e ricchezza contenutistica[54].

A ben vedere, una valutazione di questo tipo era sottesa – pur in stagioni diverse dalla nostra e quindi all’interno di contesti a ben più ampia convergenza assiologica – a posizioni autorevoli come quella di Bobbio che, nel momento stesso in cui riconosceva che vi sono principî che non possono essere desunti da norme espresse del sistema, essendo invece riconducibili a criteri ricavabili da «idee e convinzioni morali affioranti nella società (che è in continua evoluzione), non ancora accolte dal diritto positivo», riteneva di poter addurre ad esempio tipico «il controverso principio del divieto di abuso del diritto, che emerge non tanto da questa o quella norma del sistema, quanto dalla auscultazione, cui il giurista è chiamato, di esigenze etico-politiche manifestatesi in una determinata società, in contrasto con convinzioni che vanno declinando»[55]. In sostanza, il teorico del positivismo, pur all’interno di una società ben più conforme ed omologata della nostra, avvertiva la necessità di ricorrere a figure di confine, fuori da ogni previsione testuale, per consentire l’adattamento della soluzione a criteri di valore sopravvenuti rispetto a quelli tenuti presenti nel momento della formulazione del precetto. Oggi il medesimo criterio impone una ben più diffusa articolazione come nella frantumazione di un cristallo e fa emergere la valenza precettiva del caso. Nell’ottica della ragion pratica la soluzione va accolta non per la forza di un enunciato, ma per la persuasività di una motivazione, forza che non può che discendere, all’interno di una comunità interpretativa, dal suo richiamo ad un quadro di valori condivisi. In questa chiave il riferimento a quelli che si è ancora soliti definire principî generali[56] non opera più – secondo il modello proprio di una struttura giuridica uniforme – quale meccanismo di integrazione delle lacune, ma diventa espressione di quel processo di continuo adattamento delle strutture formali a principî etici, sociali e politici che sono i fondamenti della civile convivenza[57]. Il riferimento all’abuso del diritto, al di là dei sofisticati equilibrismi di una logica formale, diventa uno dei tanti strumenti con cui la giustizia secondo il diritto scopre i suoi limiti, ma al tempo stesso la giustizia oltre il diritto scopre le sue regole[58]. Nella specificità di una situazione concreta, e pure al di fuori dei limiti condizionanti di un ragionamento secondo fattispecie[59], ci si avvede che non esiste un diritto definito in forme immutevoli una volta per tutte (almeno fino a quando quelle forme non vengano modificate) e che al contempo non può darsi un risultato comunemente acquisibile in chiave

5. La delicatezza del profilo argomentativo. La resistenza delle vecchie categorie ordinanti e la necessità di superarle. L’argomentazione come modo di raccordare il testo al contesto

Naturalmente una impostazione di questo impone un estremo rigore nei modi di svolgimento del procedimento argomentativo. La criticata lunghezza di certe sentenze delle sezioni unite trova probabilmente giustificazione proprio in questa esigenza. Se si potesse argomentare solo in funzione del richiamo ad un enunciato edittale evidentemente il procedimento sarebbe molto più facile.

Emerge innanzitutto la difficoltà di operare con strumenti qualificativi (categorie ordinanti) non consolidati, talora addirittura di nuovo conio, e spesso ciò induce in sede pratica non pochi attriti o resistenze. Peraltro anche in chiave teorica è ricorrente il tentativo di ricondurre il procedimento qualificativo entro paradigmi noti. Per esempio, si è sostenuto che l’argomento dell’abuso del diritto rientri in senso lato nel genere dei ragionamenti per analogia, ancorché di un’analogia che, disapplicando una disposizione e quindi con riferimento ad un caso regolato, le applica una diversa disposizione individuata secondo la ratio[60]. Nel momento tuttavia in cui si conviene di superare gli schemi costrittivi della fattispecie, lo stesso richiamo all’analogia assume inevitabilmente connotati diversi[61] e la norma come precetto all’azione discende dal riferimento ad un principio ritenuto assorbente e non eludibile.

Nel quadro di una realtà in continua velocissima evoluzione appare sempre difficile immaginare in funzione di quale criterio sia possibile ricostruire in astratto, e quindi prescindendo dalle peculiarità, sempre variabili, del singolo caso, i presupposti in base ai quali sia stato individuato un interesse al momento del conferimento (scilicet: della posizione dell’enunciato al quale si intende ricondurre l’attribuzione del diritto)[62]. Nella concretezza della vicenda attuativa (per rimanere entro l’ottica dell’abuso del diritto) o si riconosce al titolare, sempre che rimanga entro i paradigmi del potere conferito, di valutare il proprio interesse ai fini dell’esercizio, ovvero lo si commisura ad altre sfere di interesse, direttamente o indirettamente incise da quell’esercizio, e si consente al giudice di valutare caso per caso la rilevanza del diritto. Non può infatti dirsi, se non in astratto, che in tal caso «l’atto del titolare non è idoneo ad incidere sulla sfera del soggetto o dei soggetti passivi del rapporto» e diventa quindi sostanzialmente “inutile”[63]. I casi di abuso del diritto dei quali si è occupata la giurisprudenza dimostrano esattamente il contrario, contrapponendo ad un titolare, che diceva di esercitare un suo interesse e che comunque si rifaceva ad uno schema formale riconosciuto, la posizione di soggetti passivi sicuramente incisi da quell’atto, anzi sicuramene danneggiati.

Ecco perchè, a mio giudizio, il tema dell’abuso del diritto riflette la problematica essenziale dell’esperienza giuridica nel tempo presente. Se si riconosce che il precetto, come regola all’azione, nasce da una necessaria dialettica tra testo e contesto, pur essendo il testo inevitabilmente statico e il contesto storicamente dinamico, ne discende che non si può assumere l’eversività di un impiego argomentativo dell’abuso sul presupposto che «le disposizioni legislative dicono sempre la struttura della fattispecie regolata», ma «non dicono quasi mai la funzione della regola»[64]. A parte – come si è detto – la necessità di superare il paradigma della fattispecie, la contrapposizione struttura-funzione non fa che riproporre, mutatis verbis, quella testo-contesto che, in tesi, costituisce non una patologia ma lo stesso modo d’essere del diritto, inteso quale esperienza storicamente vissuta. Come è stato esattamente rilevato, la contrapposizione del concetto di struttura a quello di funzione ripropone l’alternativa fra “statico” e “dinamico”[65], che è dialettica non proponibile per il diritto il quale, per definizione, non può mai essere statico. Ove anche l’enunciato dichiarasse la funzione della quale intende rendersi strumento (ed è atteggiamento che sempre più di frequente caratterizza le iniziative del nostro legislatore), ciò non modificherebbe la portata dell’intervento interpretativo e rimarrebbe aperta la possibilità per il giudice di applicarlo per fini diversi (storicamente sopravvenuti o non previsti), fermo restando che, al di là della polivalenza del termine “funzione”, questa va verificata, nella tensione verso determinati fini, solo nella concretezza di una realizzazione, al di là di un programma semplicemente dichiarato. Il rapporto dunque tra la struttura di un enunciato legislativo e la funzione che esso è destinato a svolgere nella concretezza di una vicenda applicativa non può essere influenzato dal fatto che l’enunciato dichiara (spesso per mere ragioni di opportunismo politico) l’intento di perseguire un certo fine. Sarebbe inutile riproporre qui il dibattito che ha condotto a ritenere priva di qualsiasi portata precettiva l’affermazione di cui all’art. 12 delle preleggi, secondo la quale si dovrebbe tenere conto, in sede interpretativa, dell’«intenzione del legislatore». Quale che sia stata tale intenzione e quale che debba essere il modo per individuarla, il procedimento applicativo del diritto si riconduce inesorabilmente ad un rapporto tra testo e contesto, un rapporto che ormai porta ragionevolmente a superare almeno alcuni dei tradizionali paradigmi sui quali si era soliti fondare l’alternativa tra paesi di civil law e paesi di common law[66]. Al di là di ogni tentativo di incapsulare la realtà entro schemi definitori, bisogna rendersi conto che il divieto dell’abuso sposta necessariamente il processo applicativo del diritto sul terreno dell’argomentazione, quali che possano essere le preoccupazioni sul grado di discrezionalità degli interpreti[67].

6. Abuso del diritto e frode alla legge. Elusione e abuso del diritto nella legislazione tributaria. La diversità rispetto alle ipotesi di abuso del diritto riferite al contratto. La diversa incidenza dell’attività del giudice e il diverso richiamo ai principî costituzionali. Positività di un riferimento generalizzato all’abuso. Conclusioni sul ruolo dell’intervento giurisdizionale

Peraltro, se assumiamo l’abuso del diritto quale paradigma del nuovo ruolo che la giurisprudenza si è venuta riconoscendo nel processo applicativo del diritto, non possiamo automaticamente assimilarlo a figure che sono ancora correntemente lette in chiave di fattispecie. Paradigmatico, a questo proposito, è il rapporto tra abuso del diritto e frode alla legge[68].

Certo c’è un apparente punto di contatto fra abuso del diritto e frode alla legge. Entrambe le figure tendono ad evitare che si realizzi un risultato antigiuridico, contraddicendo i principî di fondo dell’ordinamento sotto lo schema di una situazione formalmente legittima. Ma, mentre nel caso della frode alla legge – indipendentemente dal fatto che la si qualifichi secondo una concezione soggettiva od oggettiva[69] – l’aggiramento della previsione legale è individuabile in termini per così dire strutturali nel rapporto tra lo schema astratto e quello in concreto utilizzato, sull’individuazione dell’abuso incide una serie di molteplici di fattori, non tutti uniformi e non tutti della stessa fonte. Ciò che è formalmente legittimo può diventare abusivo non necessariamente in funzione di un indice valutativo riconducibile al titolare, ma anche in relazione ad una valutazione della sua incidenza su interessi terzi pur essi meritevoli di tutela. Una valutazione complessiva del contesto conduce a considerare abusivo, e quindi meritevole di sanzione, un comportamento che, in termini meramente astratti cioè con esclusivo riferimento ai testi, dovrebbe invece ritenersi legittimo. La frode alla legge necessita di una sua previsione normativa[70]. Non altrettanto l’abuso del diritto, posto che – come si è detto – il procedimento qualificativo è il medesimo sia negli ordinamenti che testualmente lo prevedono, sia in quelli che nulla dicono al riguardo. In altri termini, la frode alla legge ha una sua struttura definita, mentre l’abuso ha trovato e trova le più diverse motivazioni: il difetto di interesse da parte del titolare o addirittura l’interesse di nuocere, la modalità anomala o scorretta dell’esercizio secondo paradigmi riconducibili alla buona fede oggettiva, il bilanciamento degli interessi fra quelli proprî del titolare e quelli dei soggetti incisi dall’esercizio dell’atto, la deviazione del potere rispetto al fine istituzionale in funzione del quale sarebbe stato conferito, nonchè gli infiniti risultati potenzialmente conseguibili dalle varie combinazioni di tutti questi criteri. Una previsione legale che privilegiasse l’uno o l’altro di questi modelli[71] non impedirebbe al giudice, in un’ipotesi particolare, di configurare un abuso, sotto qualsivoglia motivazione, privilegiando un modello alternativo.

La diversità radicale fra frode alla legge e abuso del diritto è segnalata dal fatto che la tradizione del formalismo giuridico ha sempre ritenuto conciliabile la propria impostazione con la repressione di atti fraudolenti, intesi come volti a conseguire un risultato diverso rispetto a quello perseguito dal legislatore[72]. L’elusione corrisponde alla violazione, quali che siano le modalità del comportamento attuato. Non così per l’abuso del diritto che di per sé non viola od elude una norma, ma ne contrasta lo spirito o contraddice a principî, peraltro senza parametri valutativi definiti.

Su questi presupposti, nonostante la tendenza del nostro legislatore ad utilizzare la formula “abuso del diritto” in termini generici[73] e comunque quale sinonimo di una violazione od elusione di legge, non sono, a mio giudizio, riconducibili alla figura tutta una serie di previsioni incidenti sul sistema tributario, nelle quali si utilizza il richiamo all’abuso del diritto per realizzare effetti molto puntuali, al di fuori di qualsiasi riferimento ad una clausola generale che consenta di raccordare una previsione astratta alla specificità di un caso e quindi al di fuori di quello che mi è parso di poter segnalare quale paradigma quasi emblematico del processo di giurisdizionalizzazione del diritto[74].

In sostanza, ricondurre l’elusione all’abuso non serve in concreto ad offrire al giudice migliori strumenti risolutivi. Semmai complica il profilo qualificativo perchè, mentre l’elusione pone l’accento sul contrasto fra un precetto formalmente posto ed istitutivo di un dovere non contestabile ed il suo aggiramento sostanziale, il richiamo all’abuso evidenzia un potere che verrebbe esercitato in modo esorbitante rispetto alla sua funzione[75]: che sono evidentemente due modi opposti di valutare il rapporto tra il cittadino e il fisco. Fermo restando tuttavia che qui continuiamo ad operare entro la logica della fattispecie[76], sia pure di una fattispecie a maglie larghe fatta di riferimenti a concetti indeterminati, ad espressioni verbali di significato incerto[77], ma pur sempre entro l’ambito di una alternativa secca (la sottoposizione o meno al tributo), che non consente al giudice la valutazione di interessi terzi, che non gli permette, per riprendere l’immagine di Bobbio richiamata sopra[78], di porgere l’orecchio ad esigenze etico-politiche manifestatesi dopo la posizione dell’enunciato e ritenute, alla luce di una sua valutazione commisurata alla specificità della vicenda applicativa, in contrasto con convinzioni che vanno declinando.

Nella chiave di teoria generale qui proposta appare dunque irrilevante – ma si tratta di una conclusione già autorevolmente segnalata[79] – sia il tragitto percorso dal legislatore, che ha abbandonato la via, pur tentata in un primo momento, di rincorrere faticosamente il fenomeno elusivo attraverso la predisposizione, volta a volta, di norme specifiche per scegliere quella di una norma generale antielusione, così come la via seguita dalla giurisprudenza che, nonostante taluni persistenti tentennamenti[80], ha finito per raccordare le sue soluzioni al principio generale di cui all’art. 53 Cost. come fondativo di una norma generale antielusione, peraltro accompagnando il riferimento al principio di capacità contributiva con il puntuale accertamento di altre condizioni puntualmente verificate[81]. Quel che conta qui evidenziare è che, quali che siano le tecniche di individuazione delle operazioni antielusione, certo è che l’aggancio risolutivo non viene mai ricondotto a valori condivisi. Il rapporto cittadino-fisco è ancora prevalentemente letto secondo la coppia amico-nemico e in Italia si è ancora ben lontani dal raggiungere il livello di quella dialettica costruttiva che si è realizzata altrove emarginando le aree dell’elusione istituzionalizzata. Così, per esempio, l’evoluzione normativa dall’art. 37 bis del dPR 29 settembre 1973, n. 600, ancora privo di qualsiasi richiamo all’abuso, all’art. 5 della legge delega 11 marzo 2014, n. 23, in cui l’elusione viene assimilata all’abuso, fino all’art. 10 bis del d.lgs 5 agosto 2015, n. 128, mentre da un lato ha condotto al tentativo di qualificare «l’uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio di imposta», lascia tuttavia aperto lo spazio di legittimità per «operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali». Siamo ancora una volta all’interno di un ampio spazio di manovra offerto alla mediazione giudiziale, ma non in funzione di una clausola generale, bensì di una commisurazione fra regole tendenzialmente riferibili a fattispecie puntuali (conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato, benefici in contrasto con le finalità delle norme fiscali, operazioni volte a realizzare risultati di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa). Entro questo spazio è ben possibile ancora argomentare secondo alcune delle categorie classiche del diritto civile. Per esempio, è stato sostenuto, prendendo spunto dalla giurisprudenza della Cassazione sull’abuso del diritto in materia tributaria, che essa abbia «bisogno per stare in piedi e raggiungere i suoi fini della invalidità per simulazione e frode»[82]. Ma è un tipo di argomentazione alla quale è ragionevole prevedere che i nostri giudici faranno sempre meno ricorso. Certo nella sua motivazione la sentenza del caso Halifax[83] sostanzialmente considera come abusive operazioni controverse che, nonostante l’applicazione formale delle condizioni previste dalle pertinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazione nazionale che le traspone, procurano un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria all’obiettivo perseguito da quelle disposizioni, e hanno essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale indebito, con ciò riecheggiando le fattispecie della simulazione e della frode alla legge. Come è stato puntualmente rilevato, «affermando in chiaro che un atto è solo apparente perchè non ha sostanza economica corrispondente alla forma, e fraudolento perchè ha il solo scopo di eludere il fisco lucrando vantaggi fiscali indebiti, si replica perfettamente la nozione di (preteso) abuso oggi elaborata»[84]. Ancorché i paradigmi argomentativi della simulazione e della frode non siano quelli dei quali si è valsa la Corte di giustizia, finché si rimane all’interno dello schema della fattispecie simili schermaglie qualificative sono assolutamente legittime e si collocano nel quadro di una prospettiva dell’intervento giudiziale che peraltro ha ancora confini assolutamente definiti[85].

Non così nei casi in cui la figura dell’abuso del diritto viene oggi utilizzata dalla giurisprudenza per valutare le scelte di autonomia oltre la «cornice formale attributiva del diritto»[86]. Ancorché anche la giurisprudenza tributaria riconduca ormai quello che definisce un «principio generale antielusivo»[87] nel quadro dei principî costituzionali[88], l’operazione è comunque compiuta in chiave assimilabile al procedimento qualificativo della fattispecie essendo il principio costituzionale richiamato al solo fine di fondare l’inopponibilità dell’atto all’amministrazione finanziaria e quindi la sua inefficacia relativa[89]. Il potere valutativo rimesso al giudice nell’ambito in cui l’abuso del diritto è assimilato alla elusione fiscale gli consente – come si è detto – di compiere una serie di valutazioni specifiche, ma entro un ambito pur sempre definito dalla norma.

Offrire al giudice la possibilità di valutare se l’atto posto in essere sia privo di sostanza economica ovvero consenta al soggetto che lo compie di trarre vantaggi fiscali indebiti in contrasto con le finalità delle norme impositive o alternativamente che risulti giustificato da valide e non marginali ragioni extrafiscali (che sono i criteri qualificativi dell’art. 10 bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, così come introdotto dall’art. 1 del d.lgs 5 agosto 2015, n. 128) è cosa diversa, a mio avviso, dal potere che la giurisprudenza si è riconosciuta di valutare, in chiave di valore, le condotte dei contraenti incidendo quindi sulla dinamica del contratto. Si può certamente discutere sui procedimenti qualificativi che la Cassazione ha utilizzato attraverso le norme generali sulla buona fede nell’esecuzione del contratto e nell’adempimento delle obbligazioni[90], ma è discussione destinata necessariamente ad estinguersi, una volta che si riconosca che siamo ormai proiettati in una dimensione della giuridicità che progressivamente abbandonerà l’esclusivo riferimento all’enunciato normativo assunto in termini sostanzialmente anelastici.

A ciò si aggiunga che fondare, come tende a fare la giurisprudenza tributaria, un principio generale antielusione sull’art. 53 Cost. significa offrire al procedimento interpretativo un più solido supporto giustificativo, ma non implica il richiamo a criteri valutativi diversi rispetto a quelli discendenti dalle norme di riferimento. Non così invece in tutti i casi in cui l’abuso del diritto riferito alla dinamica contrattuale è stato valutato nella chiave della cd. costituzionalizzazione del diritto privato[91]. Qui si esce dallo schema della codificazione, sia pure rafforzata costituzionalmente, perchè si riconosce che la regola non può ritenersi confezionata prima della sua applicazione e che quindi il giudice, chiamato a valutare l’esperienza nella complessità delle sue componenti, contribuisce alla formazione della regola, ben prima del suo valere come valore[92]. Nelle ipotesi di abuso del diritto diverse da quella delle leggi tributarie il principio di ragionevolezza assume un ambito più vasto, non rimane solo all’interno di “ragioni fiscali”.

Personalmente comunque non mi preoccuperei della tendenza ad usare il termine “abuso” in maniera per così dire espansiva. Ancorché ciò comporti un’inevitabile confusione, essa è sintomo della consapevolezza da parte della giurisprudenza della necessità di porsi sul terreno dell’esercizio del diritto valutandolo secondo parametri colti nella sua incidenza sul complesso degli interessi implicati vincendo le sedimentazioni culturali che discendevano dall’ottica della conformità ad una parametro definito una volta per tutte. Il diritto scopre che non è chiamato a porre valori, ma semmai ad aderire a valori esistenti; che la sua funzione non sta nell’imporre, ma nel riconoscere; che il pluralismo esige non l’omologazione nell’ottusità riduttiva di un precetto imposto, ma quella inevitabile diversità che nasce dalla specificità delle situazioni concrete, le quali assumono dunque, in un certo senso, valore normativo; che quindi va ripensato il concetto di legalità, facendola nascere dal basso di vicende giudizialmente riconosciute e socialmente condivise[93]. Solo in tal modo il diritto riscopre la sua intrinseca moralità e contraddice il modello – ancora purtroppo condiviso da molti politici – di essere semplice strumento del potere.

[1] La rinnovata attenzione è stata soprattutto determinata da Cass. 18 settembre 2009, n. 20106 (sul cd. “caso Renault”) una sentenza che ha determinato un amplissimo dibattito e che certamente è uscita quale esito di una tensione all’interno della Corte, attesa la non coincidenza tra relatore ed estensore. Su questa sentenza si segnalano in particolare le note di C.A. Nigro, Brevi note in tema di abuso del diritto (anche per un tentativo di emancipazione dalla nozione di buona fede), in Giustizia civile, 2010, I, p. 2547 ss.; F. Macario, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti fra imprese: spunti da una recente sentenza della Cassazione, in Corriere giuridico, 2009, p. 1577 ss.; ID.; Abuso del diritto di recedere ad nutum nei contratti tra imprese, in S. Pagliantini, a cura di, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, Torino, 2010, p. 45 ss.; C. Romeo, Recesso ad nutum e abuso del diritto, in Contratti, 2009, p. 1009 ss.; A. Palmieri – R. Pardolesi, Della serie “a volte ritornano”: l’abuso del diritto alla riscossa, in Foro italiano, 2010, I, p. 85 ss.; M. Barcellona, Buona fede e abuso del diritto di recesso ad nutum tra autonomia privata e sindacato giurisdizionale, in Giurisprudenza commerciale, 2011, II, p. 295 ss.; F. Salerno, Abuso del diritto, buona fede, proporzionalità: i limiti del diritto di recesso in un esempio di jus dicere per principi, in Giurisprudenza italiana, 2010, p. 809 ss.; A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione, in Responsabilità civile e previdenza, 2010, p. 354; M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, in Rivista di diritto civile, 2010, II, p. 147 ss., nonchè in Abuso del diritto e buona fede nei contratti, cit., p. 99 ss.; M.R. Maugeri, Concessione di vendita, recesso e abuso del diritto, ibidem, p. 69 ss.; C. Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche su una sentenza eterodossa, ibidem, p. 115 ss.; G. Vettori, L’abuso del diritto, ibidem, p. 147 ss.; F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e impresa, 2011, p. 311 ss.; P. Rescigno, “Formesingolari di esercizio dell’autonomia collettiva (i concessionari italiani della Renault), ibidem, p. 589 ss.; F. Addis, Sull’excursus giurisprudenziale del “caso Renault”, in Obbligazioni e contratti, 2012, p. 245 ss. Già prima del risveglio di attenzione suscitato dal “caso Renault” si era comunque avuta, a breve distanza di tempo, una significativa convergenza di monografie sul tema: cfr. M. Messina, L’abuso del diritto, Napoli, 2004; M.P. Martines, Teoria e prassi sull’abuso del diritto, Padova, 2006; C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, 2007.

[2] In senso critico v. C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2015, spec. p. 87 ss., il quale parla di «giurisprudenza creativa e dottrina remissiva» ed assume che «valori come solidarietà, eguaglianza in senso sostanziale, funzione sociale, tutela della persona si rivelano veri e propri specchi deformanti degli istituti sobri, e quasi ingenui nella loro pretesa coerenza, del diritto civile» (p. 8). Più di recente v. L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in questo numero di Questione giustizia, il quale (§ 6) contesta ogni forma di ponderazione equitativa assumendo che «ciò che viene valutato, compreso e soppesato da tale ponderazione o bilanciamento non è affatto il principio, bensì i singolari e specifici connotati del caso sottoposto al giudizio».

[3] Sulle implicazioni di teoria generale del problema mi permetto rinviare a N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, in Rivista di diritto e procedura civile, 2015, p. 1115 ss.

[4] Cfr. F. Viola La legalità del caso, in La Corte costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale, I, Principi fondamentali, Atti del 2° convegno nazionale della Sisdic, Capri 18-20 aprile 2006, Napoli, 2007, p. 315 ss. Nella realtà dell’esperienza contemporanea il riconoscimento giuridico di un diritto, di un potere o di una facoltà non può esaurire la propria funzione nel momento di una sua astratta attribuzione in base a condizioni di validità stabilite a priori, ma accompagna tutti i comportamenti che lo traducono in atto, con la conseguenza che solo una valutazione a posteriori, allargata a tutte le circostanze del caso, può attribuire a quel riconoscimento un significato giuridicamente apprezzabile. Da qui la necessità di passare attraverso una mediazione giudiziale non più qualificabile come mero riscontro della ricorrenza in concreto delle condizioni dettate in astratto dalla previsionenormativa. La preventiva tipizzazione dello schema formale di cui il soggetto si è servito non è da sola sufficiente a stabilire se quella che la Cassazione ha chiamato la “cornice attributiva del diritto” corrisponda ad un suo esercizio corretto, esercizio che va quindi valutato in relazione alle circostanze senza accontentarsi di un mero rapporto di identità tra lo schema delineato dalla fonte legittimamente e l’atto in apparenza riproduttivo di quello schema.

[5] G. Pino, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, in Rivista critica del diritto privato, 2004, p. 26. Attribuisce la natura “carsica” del tema dell’abuso del diritto alle tensioni fra giurisprudenza e legislazione G. Fransoni, Abuso ed elusione del diritto, in Libro dell’anno del diritto 2015, Treccani, Roma, 2015, p. 407.

[6] Si tratta ovviamente di un atteggiamento che non può non determinare dubbi e perplessità. A. Gentili, Il diritto come discorso, nel Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2013, ritiene (p. 371) “sconclusionata” la teoria dell’abuso del diritto «sia perchè qualunque tesi sul diritto soggettivo che sia capace di darne una nozione rende estraneo al diritto, non abusivo, ciò che non gli appartiene», sia per il carattere indefinito al pari di ogni clausola generale della nozione che «rimette all’apprezzamento, non sempre prudente, dell’interprete, la determinazione del punto di contemperamento tra le parti del conflitto, facendolo però apparire scelto dal diritto (oggettivo)». «Il che può essere molto utile come meccanismo di adeguamento del diritto scritto all’evoluzione sociale, ma certo rende assai difficile l’opera della legge di guidare i comportamenti, non potendo l’interprete nell’esercizio delle sue prerogative facilmente prevedere quali criteri, e come, gli interpreti istituzionali preferiranno ed applicheranno». Il problema sta, a mio giudizio, nel fatto che, in un contesto variegato e composito quale quello in cui ci è dato di vivere, non può certo dirsi che competa alla legge, intesa come sistema di enunciati, di “guidare i comportamenti”. Semmai avviene, al contrario, che la legge si imponga come tale e quindi venga assunta a criterio di riferimento per i precetti all’azione solo in quanto rifletta comportamenti condivisi. Dobbiamo quindi previamente intenderci sull’uso del termine “diritto” e sull’individuazione delle sue fonti prima di poter condividere il «sospetto che l’abuso del diritto asseverato attraverso l’uso dell’argomentazione non sia dopotutto che un uso del diritto delegittimante attraverso l’abuso dell’argomentazione» (così ancora A. Gentili, op. cit., p. 418).

[7] Sul punto cfr. le, formalmente ineccepibili, osservazioni di F. Addis, Sull’excursus giurisprudenziale del “caso Renault”, cit., p. 245.

[8] A. Gambaro, Abuso del diritto, II, Diritto comparato e straniero, in Enciclopedia giuridica Treccani, I, Roma, 1988, p. 2, rileva come lo scetticismo verso l’abuso del diritto rifletta anche il timore di un eccessivo potere conferito al giudice. Peraltro E. Navarretta, Il diritto non iure e l’abuso del diritto, in Diritto civile diretto da N. Lipari e P. Rescigno, IV, Attuazione e tutela dei diritti, III, La responsabilità e il danno, Milano, 2009, p. 260, giustamente osserva che il potere conferito alla magistratura in tema di abuso del diritto non è un potere extragiuridico, proprio perchè rientra nell’essenza della giurisdizione valutare la condotta «attraverso parametri di composizione sensibili alla forza assiologica degli interessi coinvolti». Altrimenti è stato opportunamente osservato che «l’abuso del diritto è in larga misura il frutto dell’opera (dissociata) delle fonti che si intrecciano in un solo ordinamento»: così R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, in La parte generale del diritto civile, 2, Il diritto soggettivo, nel Trattato di diritto civile diretto dal medesimo, Torino, 2001, p. 320. Già P. Rescigno, L’abuso del diritto, in Rivista di diritto civile, I, p. 213 collegava la repressione dell’abuso all’idea del potere del giudice. Mi sembra tuttavia improprio circoscrivere al profilo dell’abuso del diritto un problema che ha sicuramente valenza generale nel processo applicativo del diritto. A questo proposito vale sempre, a mio giudizio, l’ammonimento di L. Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, p. 89, secondo il quale è necessario evitare che «nei processi di concretizzazione del diritto si formi un residuo irrazionale prodotto da elementi non cognitivi provenienti dalla precomprensione del giudice». Non affronto qui il problema di quanto il nuovo ruolo del giudice si connetta alla determinante funzione della dottrina quale fonte del diritto: sul punto mi limito a rinviare a N. Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, in Rivista trimestrale del diritto e procedura civile, 2017, p. 1 ss. Per un incisivo richiamo in tema di abuso al ruolo della dottrina cfr. P.G. Monateri, Abuso del diritto e simmetria della proprietà (un saggio di Comparative Law and Economics), in Diritto privato, 1997, III, L’abuso del diritto, p. 93.

[9] Cfr. A. Gambaro, Abuso del diritto, cit., p. 2. Come è noto, il nostro legislatore del ’42 aveva accantonato l’idea di inserire una norma esplicita sull’abuso nel testo del codice, nonostante l’art. 7 del progetto preliminare la prevedesse dichiarando che «nessuno può esercitare il proprio diritto in contrasto con lo scopo per cui il diritto medesimo gli è conferito». Per una ricostruzione storica della vicenda che ha condotto in Italia a non positivizzare il divieto di abuso del diritto cfr. V. Giorgianni, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, 1963, p. 5 ss. L’esperienza ha dimostrato che l’esclusione non ha inciso sull’evoluzione del problema nè sui modi della sua qualificazione. Nella sua motivazione la sentenza della Cassazione sul “caso Renault” afferma «la necessità di una correlazione tra i poteri conferiti e lo scopo per il quale essi sono conferiti». Sulla inessenzialità di una norma espressa che vieti l’abuso v. già S. Pugliatti, in Commentario al codice civile diretto da M. D’Amelio, Libro della proprietà, Firenze, 1942, p. 140.

[10] Cfr. A. Kaufmann, Il ruolo dell’abduzione nel procedimento di individuazione del diritto, in Ars interpretandi, 2001, p. 321.

[11] In questo senso v. anche A. D’Angelo, La buona fede, nel Trattato di diritto privato diretto da M. Bessone, XIII, Il contratto in generale, IV, Torino, 2004, p. 63. Nello stesso senso v. M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teoricamente orientata del traffico giuridico, in Rivista di diritto civile, 2014, p. 487 s. e nota 56; F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Napoli, 2015, p. 362. Osserva giustamente G. Meruzzi, L’exceptiodoli dal diritto civile al diritto commerciale, Padova, 2005, p. 349 che «l’abuso del diritto consente la comparazione degli interessi che, all’interno del rapporto, vengono di volta in volta in conflitto». Per un tentativo di segnalare la continuità tra la figura dell’abuso del diritto e quella del dolo generale cfr. T. Dalla Massara, Dal dolo generale alle moderne teorie sull’abuso del diritto, Relazione al convegno su L’abuso del diritto svoltosi presso l’Università di Brescia il 26-27 giugno 2015.

[12] V., infatti, P. Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, 1998, pp. 129 e 134.

[13] Così P. Rescigno, op. ult. cit., p. 45. La correlazione dei giudizi sull’abuso del diritto ad una valutazione sulla congruenza dell’attività svolta con i principî etici di un ordine metagiuridico è sempre stata sottesa al dibattito sul tema. Basterebbe pensare all’influenza che, nel diritto intermedio, ebbe la dottrina del cristianesimo sull’elaborazione della nozione di abuso del diritto: cfr. M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Rivista di diritto civile, 1923, p. 269 ss.; S. Riccobono, L’influsso del cristianesimo sul diritto romano, in Atti del congresso internazionale di diritto romano (1933), II, Pavia, 1935, p. 61 ss.; F. Calasso, Medioevo del diritto. le fonti, I, Milano 1954, p. 324 ss.; G. Fassò, Dio e la natura presso i decretisti e i glossatori, in Il diritto ecclesiastico, 1956, p. 138 ss.; U. Gualazzini, Abuso del diritto, diritto intermedio, in Enciclopedia del diritto, I, Milano, 1958, p. 163 ss. Per l’incidenza della tematica dell’abuso del diritto sui rapporti tra diritto e morale cfr. G. Pino, Il diritto e il suo rovescio, cit., p. 45 ss.

[14] L’espressione è icasticamente utilizzata da A. Gentili, Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categoria civilistiche, in Ianus, 2009, p. 10. Altri utilizza il criterio della dequalificazione (ovviamente individuata in forza di indici assolutamente elastici), affermando che, «sul piano logico, nulla impedisce che una situazione si consideri conforme a diritto solo finché non intervenga una circostanza che la dequalifichi» (così R. Sacco, op. cit., p. 310). Vi è sempre stata, al fondo della tematica sull’abuso, la contrapposizione tra due modi di intendere il diritto. Chi nega la stessa configurabilità della figura, riducendo l’espressione “abuso del diritto” ad un ossimoro (v., in questa chiave, M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, in S. Pagliantini, a cura di, Abuso del diritto e buona fede nei contratti, cit., p. 99 ss.), sostanzialmente si muove entro il paradigma di regole definite e, nell’ambito della loro definizione, indicative di modalità di azione precise. Al di fuori di quelle modalità si è fuori dalla fattispecie normativa e quindi non vi può essere alcun riconoscimento del diritto. Chi invece ammette che ogni enunciato normativo vada inevitabilmente raccordato a principî, in quanto tali sottoponibili a bilanciamento con altri principî e valutabili in funzione delle peculiarità del caso, riconosce che l’attribuzione del diritto non può mai essere considerata un punto di arrivo, posto che le modalità del suo esercizio vanno sempre valutate in concreto per la loro incidenza sul complessivo tessuto di rapporti cui i principî hanno riguardo. Pur in una stagione molto diversa da quella odierna Rescigno segnalava che la teoria dell’abuso del diritto impone il superamento di prospettive di tipo formalistico ed implica una reazione alla «progressiva disumanizzazione del rapporto giuridico» (così P. Rescigno, Abuso del diritto, cit., p. 129). Oggi l’esigenza è diventata evidente. Nella stagione delle grandi disuguaglianze e dei drammatici conflitti il diritto negherebbe se stesso nel momento in cui si riducesse, in nome di un rigoroso formalismo, a mera ratifica dei rapporti di forza. L’attribuzione di un diritto attraverso la formalità di un enunciato non può considerarsi un punto di arrivo, ma semmai un punto di partenza per la realizzazione di un interesse che necessariamente implica una pluralità di soggetti al di là della posizione di colui che dovrebbe esserne il titolare. Da tempo aveva formulato l’auspicio di una “legislazione per principi” S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Rivista del diritto commerciale, 1967, I, p. 83 ss.

[15] L’art. 54 (il cui testo è praticamente simmetrico a quello dell’art. 17 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed è oggi richiamato dall’art. 1 del Trattato Ue, come modificato dal Trattato di Lisbona, ratificato con legge 2 agosto 2008, n. 138) così recita: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta». È difficile immaginare un giudice che, chiamato a bilanciare un conflitto di questo tipo, utilizzi profili argomentativi diversi, a seconda che si trovi o meno di fronte ad un simile enunciato. Nessun ordinamento può contraddire se stesso nei modi della sua applicazione. Accentua invece il valore dell’affermazione in sede europea F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, cit., p. 319. Lapidaria l’affermazione di R. Sacco, op. cit., p. 317, secondo il quale «per introdursi nel sistema e occupare il centro della scena, la regola dell’abuso non ha bisogno di alcun intervento del legislatore». Sul problema in generale nel contesto europeo, v. F. Losurdo, Il divieto dell’abuso del diritto nell’ordinamento europeo, Torino, 2011, pp. 107 ss., 123 ss.; M. Pandimiglio, L’abuso del diritto nei Trattati di Nizza e Lisbona, in Contratto e impresa, 2011, p. 1076 ss.; G. Alpa, Appunti sul divieto dell’abuso del diritto in ambito europeo e sui suoi riflessi negli ordinamenti degli Stati Membri, ivi, 2015, p. 245 ss. Sulla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia v. N. Lettieri - G. Martini – G. Merone, L’abuso del diritto nel dialogo tra corti nazionali ed internazionali, Napoli, 2014, spec. p. 62 ss. È comunque opportuno segnalare che, nella giurisprudenza della Corte di giustizia – sia quella della Grande Chambre sia quella del Tribunale – il riferimento all’art. 54 è stato utilizzato non solo in chiave di elusione di una norma dei Trattati, ma anche per sanzionare l’uso strumentale del diritto comunitario per eludere il diritto interno, con ciò dimostrando che anche il giudice comunitario va al di là delle semplici indicazioni dell’enunciato: sul punto cfr. G. Alpa, op. cit., p. 251. Per una panoramica del problema dell’abuso del diritto con riguardo ai sistemi giuridici francese, inglese e tedesco, cfr. A. Las Casas, Tratti essenziali del modello dell’abuso del diritto nei sistemi giuridici europei e nell’ordinamento comunitario, in www.comparazionedirittocivile.it.

[16] Già nel suo classico saggio M. Rotondi, L’abuso del diritto, cit., p. 207, assegnava all’abuso del diritto il carattere di “fenomeno sociologico” e non giuridico, in particolare osservando che esso «è un fenomeno sociale, non un concetto giuridico, anzi uno di quei fenomeni che il diritto non potrà mai disciplinare in tutte le sue applicazioni che sono imprevedibili: è uno stato d’animo, è la valutazione etica di un periodo di transizione, è quel che si vuole, ma non una categoria giuridica, e ciò “per la contraddizion che nol consente”» (p. 116). In chiave terminologicamente diversa, ma con risultati dello stesso segno sul piano operativo, D. Messinetti, Abuso del diritto, in Enciclopedia del diritto, Aggiornamento, II. Milano, 1998, p. 19 osserva che «la situazione problematica di fronte alla quale ci si trova allorquando i confini dell’azione sono ‘proceduralmente’ fissati in regole che ne prefissano le modalità e i caratteri di svolgimento deve essere segnata dal concetto di abuso autonomamente produttivo di senso normativo».

[17] Tendono tuttavia a diventare sempre più numerosi gli ordinamenti che prevedono espressamente la figura dell’abuso del diritto: v. l’ordinamento tedesco (§ 226 BGB), quello portoghese (art. 334 cod. civ.). quello svizzero (art. 2 cod. civ.), quello greco (art. 281 cod. civ. e art. 25, § 3 della costituzione del 1975), quello olandese (art. 13 cod. civ.) quello spagnolo (art. 7 disp. prel. cod. civ.). In generale v. M. Gestri, Abuso del diritto e frode alla legge nell’ordinamento comunitario, Milano, 2003, p. 24 ss.; G. Vettori, L’abuso del diritto. Distingue frequenter, in Obbligazioni e contratti, 2010, 168 ss.

[18] Così lucidamente U. Breccia, L‘abuso del diritto, in Diritto privato, 1997, p. 84.

[19] Cfr. in questo senso U. Breccia, op. cit., p. 5. In questa chiave, a mio avviso, il tema dell’abuso del diritto, siccome riferito al momento dell’esercizio, va tenuto distinto dalle ipotesi in cui l’“abuso” si manifesti, ad esempio, nel momento di posizione del testo contrattuale, ipotesi ricondotta alla figura di un “abuso di libertà contrattuale”: cfr. R. Sacco, L‘abuso della libertà contrattuale, in Diritto privato, 1997, p. 217 ss. Sono quindi fuori dalla prospettiva generale qui affrontata, nonostante talune ricorrenti sovrapposizioni lessicali, le ipotesi di cui agli artt. 33 e segg. del codice di consumo [cfr. F. Astone, L’abuso del diritto in materia contrattuale. Limiti e controlli all’esercizio della libertà contrattuale, in Giurisprudenza di merito, 2007, 12 (suppl.), p. 8 ss.], gli interventi legislativi in tema di contratti asimmetrici tra imprenditori (cfr. F. Macario, Abuso di autonomia negoziale e disciplina dei contratti tra imprese: verso una nuova clausola generale?, in Rivista di diritto civile, 2005, p. 663 ss.), in particolare la legge 18 giugno 1998, n. 192, che all’art. 9 sanziona di nullità i patti che realizzano un abuso di dipendenza economica (v., da ultimo, G. Sbisà, Controllo contrattuale esterno, direzione unitaria e abuso di dipendenza economica, in Contratto e impresa, 2015, p. 815 ss.) o il d.lgs 9 ottobre 2002, n. 231, in tema di ritardo di pagamento nelle transazioni commerciali (v. per tutti A.M. Benedetti - P. Camera - M. Grondona, I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Profili sostanziali e processuali, Torino, 2003, p. 4 ss. con esplicito riferimento al concetto di abuso). In generale sull’esercizio del diritto quale essenziale modo di intendere il diritto nella sua dinamica cfr. S. Pugliatti, Esercizio del diritto, diritto privato, in Enciclopedia del diritto, XV, Milano, 1966, p. 622 ss.; v. anche V. Frosini, Diritto soggettivo, in Novissismo Digesto italiano, V, Torino, 1960, p. 1049 ss.

[20] Da qui la varietà delle formule utilizzate. Osserva giustamente R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, cit., p. 316, dopo aver attentamente setacciato una serie di materiali normativi ricavati da diversi ordinamenti, che «la repressione legale dell’abuso del diritto si affida ora ad una norma generica, che lascia libero il giudice di configurare la fattispecie dell’abuso come più gli piace, ora chiamando in causa l’intenzione esclusiva di nuocere, la contrarietà ai buoni costumi, la divergenza dell’atto di esercizio dallo scopo del diritto, la sproporzione fra l’interesse che l’atto di esercizio soddisfa rispetto a quello che esso sacrifica».

[21] Per un quadro delle varie situazioni possibili può essere ancora utile riferirsi a G. Levi, L’abuso del diritto, Milano, 1993.

[22] Lo nota giustamente U. Breccia, op. cit., p. 13. Si deve semmai segnalare – ma una specifica riflessione sul punto condurrebbe lontano perchè porterebbe ad individuare come la tecnica interpretativa che sottende il riferimento all’abuso del diritto tenda oggi sempre più a diventare di carattere generale – che non è mancato chi, nell’ottica di un necessario rapporto tra la previsione normativa e i modi della sua applicazione nel quadro del principio di ragionevolezza, ha applicato la figura dell’abuso anche al diritto costituzionale con riferimento non solo a tutti i casi in cui ogni atto o comportamento di un organo di vertice dell’ordinamento possa rompere, o anche solo turbare, l’equilibrio sotteso al principio della separazione dei poteri ovvero a quello tra sfera della politica e sfera della garanzia (così G. Silvestri, L’abuso del diritto nel diritto costituzionale, relazione svolta al convegno di Firenze su L’abuso del diritto dell’11-12 febbraio 2016, in Rivista dell’Associazione italiana dei costituzionalisti (telematica), n. 2/2016), ma anche nell’ipotesi di una «illegittima utilizzazione del potere di revisione costituzionale» (cfr. P. Caretti, L’abuso del potere legislativo o del problema dei limiti del legislatore, in Diritto privato, 1997, III, L’abuso del diritto, cit., p. 126).

[23] B. Celano, Principi, regole, autorità, in Europa e diritto privato, 2006, p. 1081 ss., giustamente osserva che «ciò che davvero conta – ciò che fa differenza – non è, mi pare, la qualificazione dei principî rilevanti come ‘morali’ o come ‘giuridici’, come ‘interni’ o come ‘esterni’ all’ordinamento (ciò che si mostra, qui, è proprio l’impossibilità di tracciare, per quanto attiene al contenuto, una distinzione significativa), ma la circostanza che i principî in questione siano molteplici, confliggenti, incommensurabili, indeterminati. Ciò che davvero conta, cioè, è che lo stato costituzionale di diritto ha sì un corposo contenuto etico sostanziale, ma questo contenuto – lo si qualifichi come ‘morale’ o come ‘giuridico’ – è “pluralistico, conflittuale, indeterminato». V. anche B. Celano, Come deve essere la disciplina costituzionale dei diritti, in S. Pozzolo, a cura di, La legge e i diritti, Torino, 2002, p. 89 ss.

[24] Così U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto nell’ordinamento giuridico italiano, in Rivista trimestrale del diritto e procedura civile, 1958, p. 18.

[25] Cfr. sul punto C. Castronovo, Abuso del diritto come illecito atipico?, in Europa e diritto privato, 2006, p. 1056 ss. Osserva giustamente C. Scognamiglio, Buona fede e responsabilità civile, in Europa e diritto privato, 2001, p. 350 che «sembra quanto meno opinabile, già da un punto di vista metodologico, sforzarsi di pervenire ad un chiarimento del modo di operare del giudizio di ingiustizia del danno attraverso un concetto persino più problematico di questa formula normativa, qual è appunto quello di abuso del diritto». Per una lettura del problema in chiave sistematica nel tentativo di porre un vincolo al giudice chiamato a decidere sull’ingiustizia del danno, cfr. F. Busnelli - E. Navarretta, Abuso del diritto e responsabilità civile, in Diritto privato, 1997, p. 171 ss.

[26] Così J. Habermas, Morale, diritto, politica, trad. it., Torino, 1992, p. 16.

[27] Così L. Mengoni, La questione del diritto “giusto” nella società postliberale, in Fenomenologia e società, 1998, p. 11. Osserva giustamente G. ZaccariaA, L’abuso del diritto e la filosofia del diritto, relazione svolta al cit. convegno fiorentino dell’11-12 febbraio 2016, in Rivista di diritto civile, 2016, p. 744 ss., che parlare di abuso del diritto significa «estendere la riflessione ad un intreccio di temi più vasti, quali la certezza e le lacune del diritto, la discrezionalità del giudice, la teoria del diritto soggettivo e le ‘prerogative’ dei privati, la giustizia nei loro rapporti reciproci, la teoria del ragionamento giuridico, il rapporto diritto-morale».

[28] Cfr. A. Gentili, Il diritto come discorso, cit., p. 3 ss.

[29] V. ancora A. Gentili, op. ult. cit., p. 317, il quale parla addirittura di “libertinaggio interpretativo” (p. 86). Da ultimo ha ribadito la necessaria presenza, da sempre, di opzioni valutative all’interno di qualsiasi metodo interpretativo A. Proto Pisani, Brevi note in tema di regole e principi, in Scritti dedicati a Maurizio Converso a cura di D. Dalfino, Roma, 2016, p. 494.

[30] Così Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, cit. spec. §§ 5 e 6, il quale tuttavia non spiega come una tale distinzione sia possibile, posto che il giudice trasmigra continuamente dal caso alla norma e non è mai possibile stabilire, né tanto meno imporre, un iter procedimentale nell’analisi di tutti gli elementi che concorrono al giudizio.

[31] Appaiono lontane nel tempo (ma forse non ancora sufficientemente metabolizzate) le lucide riflessioni di L. Lombardi Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, che parla (p. 371 ss.) di “immancabile creatività della giurisprudenza”. Ancor prima G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Roma, 1939, oggi in Opere, II, Milano, 1959, p. 379 ss., ribadendo che solo il pensiero riflesso aiuta l’azione a fissarsi e a consolidarsi sottraendola alla caducità che la vita ha in sé stessa, osservava, con un paradosso solo apparente, che, a ben vedere, la scienza del diritto (intesa in senso lato come forma riflessiva sull’esperienza giuridica e quindi comprensiva anche della giurisprudenza) è «l’unica vera fonte del diritto» (p. 385). Sul punto mi permetto rinviare a N. Lipari, Dottrina e giurisprudenza quali fonti integrate del diritto, cit., p. 1 ss.; v. anche ID., Introduzione a L’incidenza della dottrina e della giurisprudenza nel diritto dei contratti, a cura di C. Perlingieri e L. Ruggeri, Napoli, 2016, p. 11 ss. Sempre illuminanti le osservazioni di G. Gorla, Dans quelle mésure le giurisprudence et la doctrine sont-elles des sources de droit, in Foro italiano, 1974, V, c. 241 ss. È stato giustamente detto che tutto «ciò che condiziona l’interpretazione è fonte» (così R. Sacco, La dottrina, fonte del diritto, in AA.VV., Studi in memoria di Giovanni Tarello, II, Saggi teorico-giuridici, Milano, 1990, p. 457) e quindi non possono non esserlo giurisprudenza e dottrina. Da ultimo sulla giurisprudenza come fonte del diritto cfr. V. Ferrari, L’interpretazione e i canoni ermeneutici dell’esistenza, in Scritti dedicati a Maurizio Converso,cit., p. 270. S. Cotta, Il diritto nell’esistenza, Milano, 1991, p. 65 osserva che la giurisprudenza è il luogo privilegiato, se non vuol dirsi unico, per comprendere in modo autentico la giuridicità dei fatti nella loro genesi ontoesistenziale.

[32] Così invece Ferrajoli, op. cit., § 6.

[33] Si deve ormai ritenere come pacificamente acquisito, nonostante i rigurgiti di un ricorrente formalismo, il passaggio dalla tradizionale staticità del positivismo, che individua la norma come un’oggettività conclusa, nettamente distinta dal soggetto interpretante, a quel processo ininterrotto di positivizzazione che connota la teoria ermeneutica del diritto, processo indissolubilmente legato alla concretezza degli atti che individuano, nella varietà delle situazioni storiche, la posizione della norma: cfr., per tutti, G. Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, Padova, 1990.

[34] Sulla struttura intersoggettiva della comunità giuridica nel momento interpretativo si fonda la peculiarità epistemica dei processi di conoscenza e di applicazione del diritto, che implicano «una strutturale sinergia tra dati normativi, riflessione dottrinale e precedenti concretizzazioni nella giurisprudenza»: cfr. E. Pariotti, La comunità interpretativa nell’applicazione del diritto, Torino, 2000, p. 191. È appena il caso di ricordare che già C. Perelman, Logique juridique. Nouvelle rhéthorique, Paris, 1976, p. 173 osservava che nessun ordine giuridico è possibile al di fuori «de solutions acceptables par le milieu, parce que conforme à ce que lui paraît juste et raissonable». V. anche R. De Ruggero, Tra consenso e ideologia. Studi di ermeneutica giuridica, Napoli, 1977, p. 186.

[35] Così H.G. Gadamer, Verità e metodo (1960), trad. it., Milano, 1982, p. 382. Sulla funzione creativa del diritto assunta dal giudice in sede di applicazione dei principî cfr. A. Gentili, L’“ordinamento delle pretese giuridicamente perseguibili”, in Rivista di diritto civile, 1998, I, p. 685, secondo il quale «la decisione giudiziale fondata su principi è tanto più creativa quanto più generali, vale a dire quanto più in alto nella gerarchia, sono i principi invocati … Scegliendo sempre meno all’interno di alternative date il giudice sempre più dispone e non giudica». A favore dell’opzione per la sola probabilità di una razionalità ex post, esterna, a cagione del riconoscimento della natura non strettamente razionale-deduttiva, ma topica, di quel complesso procedimento di cui consta il lavorio dei giuristi, il quale è al contempo rinvenimento, elaborazione, costruzione della regula iuris, cfr. T. Viehweg, Topica e giurisprudenza (1953), trad. it., Milano, 1962, spec. pp. 105 ss., 58 ss. e passim.

[36] Cfr. N. Lipari, Le fonti del diritto, Milano, 2008, p. 9.

[37] Come è stato giustamente già rilevato, oggi non si tratta più semplicemente di enucleare la norma dalla disposizione, ma di reperire preventivamente la fonte stessa, si tratta cioè di costruire la fonte: N. Lipari, Diritto e sociologia nella crisi istituzionale del postmoderno, in Conflitti e diritti nelle società transnazionali, a cura di V. Ferrari - P. Ronfani - S. Basili, Milano, 2001, p. 667; G. Zaccaria, Trasformazione e riarticolazione delle fonti, oggi, in Ragion pratica, 2004, p. 118. Sul modo di intendere l’art. 101 cpv. cost. v. anche G. Costantino, Governance e giustizia. Le regole del processo civile italiano, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2011, p. 51 ss., il quale parla della necessità di formulare «una norma ‘diversa’, comunque fondata sui medesimi testi di legge».

[38] In una letteratura che tende ormai a diventare sterminata mi limito a poche indicazioni: A. D’atena, Interpretazioni adeguatrici, diritto vivente e sentenze interpretative della Corte costituzionale, Relazione conclusiva al convegno Corte costituzionale, giudici comuni, interpretazioni adeguatrici, svoltosi presso la sede della Corte il 6 novembre 2009, che delinea la nascita del concetto all’interno della giurisprudenza della Corte. Per vari spunti idonei a collocare il “diritto vivente” in un’ottica di sistema può essere utile consultare, fra gli altri: G. Alpa, Il diritto giurisprudenziale e il diritto vivente. Convergenza o affinità di sistemi giuridici, in Sociologia del diritto, 2008, p. 47 ss.; AA.VV., Tradizioni e diritto vivente, Padova, 2003; G. Broggini, Comprensione e formazione del diritto: storia e diritto vivente, in Jus, 1997, p. 139 ss.; C. Esposito, Diritto costituzionale vivente, a cura di D. Nocilla, Milano, 1992; L. Mengoni, Diritto vivente, in Digesto delle discipline privatistiche, sezione civile, VI, Torino, 1990, p. 445 ss.; A Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e “diritto vivente”, Milano, 1994; E. Resta, Diritto vivente, Roma-Bari, 2008; G. Zagrebelsky, La dottrina del diritto vivente, in Giurisprudenza costituzionale, 1986, I, p. 1148 ss. Sarebbe a questo punto superfluo richiamare gli scritti di Paolo Grossi, attuale presidente della Corte costituzionale, tutti nel segno della creatività della giurisprudenza e della fine della “legolatria” (v. in particolare, L’Europa dei diritti, 4ª ed., Roma-Bari, 2009, p. 140 ss., spec. p. 153): sul suo itinerario culturale mi permetto rinviare al recente saggio di G. Alpa, Paolo Grossi, alla ricerca di un ordine giuridico, in Contratto e impresa, 2016, p. 377 ss., nonché a N. Lipari, Paolo Grossi ovvero del diritto come storia, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2011, p. 755 ss. Anche chi teorizza che il «significato giuridico dei fatti dipende dal mio sguardo giuridificante» (così N. Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, p. 196), ammette che l’effettività «viene piegata al confronto con un criterio di approvazione o disapprovazione, di corrispondenza o discordanza» (op. cit., p. 201) e che alla fine non possa non esistere una «unità di significato giuridico» (p. 206) all’interno di una collettività determinata. All’abuso del diritto quale criterio che implica un’«opera di manipolazione del vero senso della norma» fa riferimento F. Benatti, Tra dottrina e giurisprudenza, l’interpretazione delle norme di legge, in Banca, Borsa e Titoli di Credito, 2016, pag. 384 che, richiamando più oltre «regole viventi nell’ordinamento, che appartengono al suo tessuto, fondato sulla continuità della prassi, su modelli di comportamento che si presumono diffusi o accettati dalla collettività oppure ad essa imposti per educarla, e su principi che non hanno bisogno di dimostrazione, ma che valgono in sé e per sé perchè collocati nella suprema Carta» afferma che «così nasce l’indirizzo che porta al metodo, oggi diffuso, della dottrina dei valori» (p. 386).

[39] Così R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, cit., p. 373, ma v. anche C. Salvi, Abuso del diritto, diritto civile, in Enciclopedia giuridica Treccani, I, Roma, 1988, p. 1 ss. In senso sostanzialmente analogo la conclusione alla quale perviene G. Pino, Il diritto e il suo rovescio cit., p. 60. Peraltro non va dimenticato che, nell’esperienza giuridica contemporanea, non conta solo il risultato in sé quanto i modi attraverso i quali si perviene ad acquisirlo. In questa chiave diviene decisivo il riconoscimento – del quale la teoria dell’abuso del diritto risulta essere quasi il paradigma – della duplice discrezionalità che viene riconosciuta al giudice con il richiamo all’abuso: quella della «scelta del criterio di valutazione tra i vari astrattamente disponibili (e che la formula non predetermina)» e la sua «applicazione al caso concreto» (così infatti Pino, op. cit., p. 56).

[40] Sull’alternativa fra la concezione aristotelica e quella kantiana di “categoria” e sulla sua incidenza sul modo di pensare dei giuristi mi permetto di rinviare a N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Milano, 2013, spec. p. 11 ss.

[41] Cfr., in termini molto chiari e perentori, F. Viola, La legalità del caso, cit., p. 320.

[42] Ed è tesi che ha autorevoli ascendenze: cfr., per tutti, F. Santoro Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 6ª ed., Napoli, 1966, p. 77, nell’ottica di una concezione della posizione giuridica soggettiva che, per definizione, non può incidere su interessi estranei a quelli delle parti del rapporto (op. cit., p. 100), che è posizione oggi quanto meno in crisi. Nello stesso senso v. L. Carraro, Frammenti inediti di Dottrine generali: il rapporto giuridico, in Rivista di diritto civile, 2016, p. 20, secondo il quale “oltre l’ambito dell’interesse per la cui tutela il potere è conferito, l’esercizio del potere non è tanto abusivo quanto impossibile”.

[43] Cfr. F. Viola, op. cit., p. 322. Con formula diversa si riconosce la necessità che «il contenuto giuridico del diritto soggettivo vada determinato ed integrato dall’interprete in modo da assicurare la piena compatibilità con la dimensione assiologica dell’ordinamento statale» [così N. Gullo, L’abuso del diritto nell’ordinamento comunitario: un (timido) limite alle scelte del diritto, in Ragion pratica, 2005, p. 181].

[44] In termini sostanzialmente analoghi, anche se muovendo da diversi presupposti R. Sacco, op. cit., p. 324, osserva che, là dove si parla di abuso, «esiste sicuramente la lesione di un interesse della vittima. Ma quell’interesse è protetto contro l’aggressione a seconda delle peculiarità che accompagnano la condotta dell’agente».

[45] Così invece M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto, cit., p. 147 ss.

[46] Cfr. M. Atienza e J. Ruiz Manero, Abuso del diritto e diritti fondamentali, in L’abuso del diritto. teoria, storia e ambiti disciplinari, a cura di V. Veluzzi, Pisa, 2011, p. 33, i quali osservano che vi sono azioni che, a prima vista, appaiono consentite da una regola permissiva, ma che poi risultano proibite in nome di principî che ridimensionano la portata della regola stessa.

[47] Cfr. T. Endicott, La generalità del diritto, (2000), trad. it., Modena, 2013, p. 45.

[48] Così A. Gentili, Il diritto come discorso, cit., p. 464. L’affermazione secondo la quale «ogni norma postula il suo principio» si deve a V. CrisafulliI, Per la determinazione del concetto dei principi generali del diritto, in Studi sui principi generali dell’ordinamento giuridico, Pisa, 1941, p. 240.

[49] Cfr. A. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), trad. it., Milano, 1952, p. 158; ID., La dottrina pura del diritto, (1960), Torino, 1966, p. 298.

[50] Cfr. R. Dworkin, I diritti presi sul serio (1977), trad. it., Bologna, 1992, p. 93 ss.. Nello stesso senso v. R. Alexy, Teoria dei diritti fondamentali, (1994), trad. it., Bologna, 2012, p. 106 ss.

[51] Così A. Gentili, op. ult. cit., p. 467. È entrata ormai nella consapevolezza giurisprudenziale l’idea di una proporzionalità fra le prestazioni, che quindi allontana definitivamente il contratto dal paradigma del pacta sunt servanda: cfr. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3ª ed., Napoli, 2006, p. 380; ID, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rassegna di diritto civile, 2001, p. 334 ss.; F. Casucci, Il sistema “proporzionale” nel diritto privato comunitario, Napoli, 2001. Sul problema della giustizia del contratto v., da ultimo, N. Lipari, Intorno alla “giustizia” del contratto, Napoli, 2016.

[52] Lo riconosce anche Gentili, op. cit., p. 469 nota 77.

[53] V. supra, nota 1.

[54] Cfr., fra le tante, Cass. 6 dicembre 2012, n. 21994; Cass. 19 maggio 2009, n. 11582. Nel momento in cui si riconosce l’incidenza del principio di solidarietà nei rapporti negoziali fra privati naturalmente non si nega affatto l’autonomia privata, ma si riconosce che questa non può esercitarsi in uno spazio impermeabile ai principî costituzionali. In questa chiave l’ottica dell’abuso del diritto assume una valenza di carattere generale valorizzando le circostanze del caso concreto, per loro natura non tipizzabili in una puntuale previsione normativa, ma affidate alla capacità del giudice di coniugare le modalità astratte di attribuzione del potere con le specifiche condizioni del suo esercizio. In un’ottica del tutto diversa si colloca chi riconosce in una vicenda di questo tipo una sorta di forzatura dei principî: cfr. A. Cataudella, L’uso abusivo dei principi, in Rivista di diritto civile, 2014, p. 761 ss. In senso nettamente critico in ordine a quello che definisce un tentativo di strumentalizzare la carta costituzionale v. anche D. De Caria, La nuova fortuna dell’abuso del diritto nella giurisprudenza di legittimità: la Cassazione sta “abusando dell’abuso”? Una riflessione sul piano costituzionale e della politica del diritto, in Giurisprudenza costituzionale, 2010, p. 3627 ss. In termini generali già G. Bognetti, Costituzione economica e Corte costituzionale, Milano, 1983, p. 251 ss. aveva negato che il testo costituzionale tendesse a sacrificare l’interesse individuale a vantaggio del preteso interesse generale e aveva sostenuto che la compromissione delle libertà economiche individuali è avvenuta per effetto di una legislazione e di una prassi successive, contrarie allo spirito originario del testo costituzionale. A mio sommesso avviso è questo un modo di leggere l’esperienza giuridica in chiave assolutamente astorica.

[55] Così N. Bobbio, Principi generali del diritto, in Novissimo Digesto italiano, XIII, Torino, 1966, p. 891.

[56] Sul punto v., da ultimo, N. Lipari, Intorno ai “principi generali del diritto”, in Rivista di diritto civile, 2016, p. 28 ss.

[57] Cfr. U. Natoli, Note preliminari ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 23. La tesi già richiamata (v. supra nota 39), secondo la quale la dottrina dell’abuso del diritto, pur essendo formalmente legittima, è a ben vedere superflua, in quanto gli esiti possono essere surrogati da altri procedimenti qualificativi «rilevanti nell’area della responsabilità civile», non è, se si dovesse procedere secondo paradigmi di segno esclusivamente formale, riducibile solo a tale figura, ma può essere agevolmente estesa a tutte quelle altre, sempre più frequenti nella stagione della cd. costituzionalizzazione del diritto civile, in cui il procedimento ermeneutico imponga di porre in rapporto norme e principî. Infatti mentre la norma induce il riferimento ad istituti, il principio richiama valori; la prima viene prevalentemente descritta secondo schemi di segno formale, il secondo in funzione del richiamo ad indici non formalizzabili e quindi ricavabili dalle più varie indicazioni. Quando perciò correttamente si assume che «qualche interprete potrà considerare il sentiero del divieto di abuso meno impervio degli altri, quando vorrà reprimere un atto che le circostanze dequalificano; e quell’interprete si gioverà del divieto d’abuso per lottare contro pratiche socialmente nocive e dare soddisfazione a valori elevati» (cfr. R. Sacco, L’esercizio e l’abuso del diritto, cit., p. 373), in sostanza si riconduce al proprium dell’abuso del diritto quel che è connotato comune a moltissimi schemi argomentativi, facciano o meno riferimento a clausole generali. In sostanza, nel momento stesso in cui si riconosce che l’interprete, quando si misura con le peculiarità del caso, è chiamato anche a valutare valori o a commisurare l’incidenza di quella vicenda specifica con un più ampio contesto sociale, non si fa altro, mutatis verbis, superando l’ipostasi del formalismo, che riconoscere la novità di un diritto che non nasce già confezionato e strutturato ma che si caratterizza per il procedimento attraverso il quale l’enunciato si colora ed assume significato in funzione della specificità delle situazioni concrete vissute nella diversità delle loro tensioni, così saldando l’orizzonte del passato (assunto nella rigidità degli atti di posizione) con l’orizzonte del presente (valutato alla luce delle esigenze e dei valori della collettività al momento dell’applicazione) (cfr. M. Vogliotti, Tra fatto e diritto. Oltre la modernità giuridica, Torino, 2007, p. 204).

[58] Cfr. F. Viola, op. cit., p. 327.

[59] Su questo tipo di problematica cfr. N. Irti, La crisi della fattispecie, in Rivista di diritto processuale, 2014, p. 41 ss.; ID., Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Rivista di diritto civile, 2014, p. 36 ss.; da ultimo v. anche ID., Un diritto incalcolabile, Torino, 2016; N. Lipari, I civilisti e la certezza del diritto, cit., spec. p. 1123. In senso radicalmente critico per una conservazione dei vecchi modelli v. invece A. Cataudella, Nota breve sulla “fattispecie”, in Rivista di diritto civile, 2015, p. 245 ss. Ovviamente il richiamo a clausole generali esclude il riferimento al paradigma della fattispecie. Osserva giustamente J. Esser, Precomprensione e scelta del metodo nel processo di individuazione del diritto, (1972), trad. it., Napoli, 1983, p. 57 che in tal caso «al giudice viene tolta l’illusione di una fattispecie fissa e già preparata e gli viene palesato l’impegno comunque presente di ‘capire in modo giusto’ la norma con un giudizio di valutazione conforme al dovere».

[60] Cfr. A. Gentili, Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, cit., p. 13.

[61] Per un tentativo in questo senso cfr. N. Lipari, Morte e trasfigurazione dell’analogia, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2011, p. 1 ss.

[62] E ciò indipendentemente dal costume (da tempo invalso presso il nostro legislatore) di inserire nel primo articolo di ogni legge una sorta di enunciazione programmatica dei fini in vista dei quali si assume che essa sia stata resa. Se fosse qui consentita una più dettagliata analisi sul punto, sarebbe agevole verificare come la vicenda applicativa finisca poi pesantemente per contraddire a quelle indicazioni di principio.

[63] Così invece L. Carraro, Frammenti inediti di Dottrine generali: il rapporto giuridico, cit., p. 20.

[64] Così A. Gentili, Il diritto come discorso, cit., p. 460 ss.

[65] Cfr. G. Giannini, Struttura, in Enciclopedia filosofica Bompiani, 11, Gallarate, 2006, p. 11190.

[66] Cfr. N. Lipari, Le fonti del diritto, cit., pp. 8, 154 ss.

[67] Cfr. G. Pino, Il diritto e il suo rovescio. Appunti sulla dottrina dell’abuso del diritto, cit., p. 55; v. anche P. Comanducci, Abuso del diritto e interpretazione giuridica, in V. Veluzzi, a cura di, L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Pisa, 2011, p. 19 ss. È chiaro che sullo scivoloso terreno di queste argomentazioni non è possibile accontentarsi – come tante volte si è fatto in passato – di formule consegnate a massime, prescindendo dalle peculiarità del caso deciso. Quando, per esempio, la Cassazione afferma (cfr. Cass. 7 maggio 2013, n. 10568, poi ripresa da Cass. 25 gennaio 2016, n. 1248) che «l’abuso del diritto non è ravvisabile nel solo fatto che una parte del contratto abbia tenuto una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altra, quando tale condotta persegua un risultato lecito attraverso mezzi legittimi, essendo, invece, configurabile allorché il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie od irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà sono attribuiti», utilizza evidentemente una argomentazione ambigua. Secondo schemi di segno esclusivamente formale o logico non sarebbe agevole distinguere tra una condotta non idonea a salvaguardare gli interessi dell’altro contraente e una attuata con modalità non rispettose dei principî di correttezza e di buona fede. Per una valutazione dell’abuso del diritto in astratto, avulsa dal contesto delle dinamiche intersoggettive cfr. C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., p. 184 ss. Riconnette l’abuso del diritto ad una concretizzazione della buona fede in funzione valutativa F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, cit., p. 410 ss. L’essenziale è, a mio giudizio, non acquetarsi in una formula qualificativa. Nel momento in cui si riconosce che «attraverso la dottrina dell’abuso del diritto si mette in discussione la legittimità che all’esercizio sembra dover spettare per il solo fatto di essere riconosciuto ed attributo dalla norma statale» (cfr. puntualmente P. Rescigno, Abuso del diritto, cit., p. 26 ss.), si rompe evidentemente il paradigma di un semplice riferimento allo jus positum e si dà rilievo alla concretezza delle situazioni nelle quali il potere viene esercitato secondo paradigmi di accettabilità sociale in linea di principio non codificabili.

[68] Cfr., da ultimo, M. Gestri, Abuso del diritto e frode alla legge nell’ordinamento comunitario, cit., spec. p. 54 ss. Ritiene netta la distinzione di piani fra abuso del diritto e frode alla legge U. Breccia, L’abuso del diritto, cit., p. 14. Vi sono tuttavia studiosi che mettono in luce un’asserita analogia tra le finalità delle due tecniche normative, assumendo che ambedue sono dirette a contrastare un’utilizzazione distorta degli istituti giuridici: cfr. F. Audit, La frode à la loi, Paris, 1974, § 199; P. De Varelles-Sommieres, Frode à la loi, in Encyclopedie giuridique Dalloz – Repertoire de droit International, II, Paris, 1998, § 53. Alcuni autori finiscono addirittura per considerare la frode alla legge come un’applicazione particolare della teoria dell’abuso del diritto: cfr. L. Josserand, De l’esprit des lois et de leur relativité (théorie dite de l’abus des droits), 2ª ed., Paris, 1925, p. 161 ss. M. Gestri, op. cit., p. 196 s. sostiene che nell’ordinamento comunitario sotto la nozione generale di abuso del diritto possono essere ricomprese tre sottospecie distinte: l’elusione alla legge nazionale, la frode alle norme comunitarie e l’abuso del diritto in senso stretto, inteso come esercizio di un diritto fondato su una disposizione comunitaria e da ritenersi in concreto non conforme alla finalità della disposizione o ad altri criteri generali.

[69] Nel primo senso v. soprattutto L. Carraro, Negozio in frode alla legge, Padova, 1943; ID, Frode alla legge, in Novissimo Digesto italiano, VII, Torino, 1968, p. 647 ss.; in giurisprudenza cfr. Cass. 7 febbraio 2008, n. 2874; nel secondo cfr. R. Scognamiglio, Dei contratti in generali, nel Commentario al codice civile diretto da A. Scialoja e G. Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 342 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 2000, p. 265; in giurisprudenza cfr. Cass. 26 marzo 2012, n. 4792.

[70] Nella sua classica monografia L. Carraro, Il negozio in frode alla legge, cit., p. 143 perentoriamente afferma che «la frode è possibile solo rispetto al diritto cogente», che è affermazione certamente non riproponibile con riguardo alle ipotesi di abuso delle quali si è occupata la giurisprudenza. Anzi Carraro soggiunge che la frode alle leggi fiscali non è per sua natura assimilabile alla frode alla legge perché oggetto dell’elusione risulta l’«interesse dello Stato alla percezione del tributo piuttosto che una norma posta a tutela di un interesse sociale», con la conseguenza che la frode al fisco va semmai assimilata alla categoria della “frode ai terzi” (op. cit., p. 173).

[71] E che questo sia concretamente avvenuto lo documenta chiaramente U. Breccia, L’abuso del diritto, cit., p. 27 ss.

[72] Cfr. L. Carraro, Il valore attuale della massima “fraus omnia corrumpit”, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1949, p. 782 ss.

[73] È stato osservato che l’utilizzazione della espressione “abuso” in ambiti sempre più allargati implica un fenomeno non infrequente nel discorso dei giuristi, fenomeno che potrebbe definirsi di «entificazione delle parole», in quanto la ripetizione insistita di una espressione linguistica tende «a formare il convincimento che oltre la parola esista in realtà anche la ‘cosa’ che tale parola indicherebbe» (così M. Taruffo, Abuso del processo, in Contratto e impresa, 2015, p. 834).

[74] Per un significativo ripensamento del ruolo delle clausole generali v., da ultimo, E. Scoditti, Concretizzare ideali di norma. Su clausole generali, giudizio di cassazione e stare decisis, in Giustizia civile, 2015, p. 685 ss., il quale, fra l’altro, osserva (p. 709) che «la clausola generale non è suscettibile di bilanciamento perchè nel corso della sua concretizzazione incontra solo le circostanze fattuali e non anche valori normativi concorrenti, come accade invece nel caso dei principi costituzionali». Non è escluso tuttavia che, facendo ricorso all’abuso del diritto, il giudice, allargando il panorama a sfere soggettive diverse rispetto a quella del titolare del diritto, utilizzi in sede argomentativa criteri riconducibili alla prospettiva del bilanciamento. In altro luogo lo stesso a. assume che la clausola generale è “un ideale di norma” alla stessa stregua del trascendentale kantiano: cfr. ID., Interpretazione e clausole generali, in Scritti dedicati a Maurizio Converso a cura di D. Dalfino, Roma, 2016, p. 557 ss. Sul rilievo delle clausole in tema di abuso del diritto in quanto volte a favorire, per la loro natura e idoneità alla mediazione interpretativa, «la duttilità del sistema, già costruito secondo schemi che sono connotati da una rigidità formale», cfr. D. Messinetti, Abuso del diritto, cit., p. 9.

[75] Cfr. G. Fransoni, Abuso ed elusione del diritto, cit., p. 410. Fa, con riguardo alla figura dell’abuso in materia fiscale, riferimento generico alla «necessità di garantire il rispetto della legalità sostanziale» A. Merone, Abuso ed elusione del diritto, in Il libro dell’anno del diritto 2016, Treccani, Roma, 2016, p. 429. In generale sulla impossibilità di ricondurre la frode alla legge ad un abuso del diritto, in quanto la libertà individuale non può considerarsi un diritto soggettivo v. L. Carraro, Il negozio in frode alla legge, cit., p. 75. Nello stesso senso v. già M. Rotondi, Gli atti in frode alla legge, Torino, 1911, p. 135.

[76] F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, cit., p. 1327 qualifica l’intervento del legislatore contro l’elusione fiscale come volto ad offrire «un contenuto definitivo alla fattispecie dell’abuso». Lo stesso a. non ha mancato di rilevare che il palleggiamento di ruoli, in materia fiscale, tra legislatore e giurisprudenza è sempre avvenuto entro l’ottica di rigidi confini qualificati in chiave di fattispecie, con la conseguenza che è risultata sempre emarginata la tesi di chi ha tentato di rimuovere lo strumento negoziale elusivo attraverso il richiamo ai principî generali dell’ordinamento (cfr. F. Gallo, Elusione, risparmio d’imposta e frode alla legge, in Studi in onore di E. Allorio, II, Milano, 1988, p. 2041 ss.).

[77] Osserva giustamente G. Fransoni, op. cit., p. 411 che, nell’individuazione della fattispecie, il legislatore tributario fa riferimento a molti concetti generici (“oggetti”, “esclusivo fine di”, “non marginali”, “prevalenti”) nel quadro di quella che definisce una “integrazione valutativa”.

[78] V. supra, nota 56.

[79] Cfr. F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, cit., spec. p. 1320 ss.

[80] L’iter giurisprudenziale è chiaramente illustrato da F. Gallo, op. cit., spec. p. 1324 ss.

[81] Cfr. ancora F. Gallo, op. cit., p. 1326 ss.

[82] Così A. Gentili, Abuso del diritto, giurisprudenza tributaria e categorie civilistiche, cit., p. 20.

[83] Corte di giustizia, 21 febbraio 2006, nel procedimento c-255/02.

[84] Cfr. A. Gentili, op. ult. cit., p. 21. M. Gestri, Abuso del diritto e frode alla legge, cit., 187 ss., ritiene inopportuno, nel quadro del diritto comunitario, trattare autonomamente la nozione di simulazione rispetto alle tecniche della frode alla legge e dell’abuso del diritto.

[85] Gentili, op. cit., p. 22 parla, con riferimento all’ultima giurisprudenza tributaria, di un abuso che «non è servito alla costruzione ma solo alla colorazione».

[86] È questa l’impostazione suggerita dalla Cassazione nel “caso Renault” laddove espressamente si attribuisce al giudice del merito un potere valutativo che non invade la sfera propria degli atti a valenza politica in quanto si ritiene appartenga all’essenza della funzione giurisdizionale esercitare la giurisdizione nel quadro dei principi costituzionali (che, sia detto per inciso, sono anch’essi soggetti ad evoluzione storica ed impongono quindi di valutare ogni atto di autonomia non semplicemente alla stregua dell’assetto espresso dalle volizioni delle parti, ma altresì alla luce del principio generale di solidarietà sociale di cui all’art. 2 cost. e quindi con potenziale incidenza su interessi terzi). Sul punto v. F. Addis, Sull’excursus giurisprudenziale del “caso Renault”, cit., p. 245, che tuttavia contesta il procedimento argomentativo in base al quale la Corte di cassazione ha ritenuto di poter fondare la sua soluzione – ma si è già detto di quante volte ciò è già avvenuto in passato nelle decisioni veramente innovative – su un coerente sviluppo della propria giurisprudenza.

[87] Così, tra le più recenti, Cass. 6 marzo 2015, n. 4561.

[88] Cfr. sul punto F. Prosperi, L’abuso del diritto nella fiscalità vista da un civilista, in giurisprudenza.unimc.it, spec. p. 19.

[89] A ben vedere, anche chi dubita che l’operatività del divieto di abuso del diritto in ambito fiscale discenda direttamente dalle norme costituzionali, giunge dal punto di vista operativo a risultati non dissimili, pur invocando «la mediazione necessaria della norma fiscale ordinaria che identifica la fattispecie legale e quindi fornisce i parametri per la sua valutazione»: così S. Cipollina, Elusione fiscale ed abuso del diritto: profili interni e comunitari, in Giurisprudenza italiana, 2010, I, p. 1224.

[90] Mi limito a richiamare le riflessioni di G. D’Amico, L’abuso della libertà contrattuale: nozione e rimedi, cit., spec. p. 9 ss.; F. Macario, Abuso del diritto di recedere ad nutum nei contratti fra imprese, cit., spec. p. 55 ss. Per una stringente riflessione sul rapporto tra abuso del diritto e buona fede nella chiave di una concretizzazione di quest’ultima in funzione valutativa cfr., da ultimo, F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, cit., spec. p. 410 ss., il quale tuttavia assume che la «ragione della regola fondata sul divieto di abuso del diritto non proviene ... ab externo, non è ricavabile da un’altra disposizione né discende da un principio; ma va desunta nell’ambito della disposizione che conferisce la situazione giuridica grazie ad un ulteriore livello della valutazione istituito dalla buona fede in funzione valutativa». Mi sembra questo un raffinato modo per contenere il problema entro paradigmi consolidati. La difficile stagione che stiamo vivendo renderà sempre più frequenti questi contrasti qualificativi. Il problema sta nel fatto che il principio di ragionevolezza o il criterio di condivisione sociale non sono in alcun modo riconducibili a parametri formali. Un eccellente panorama delle tendenze giurisprudenziali degli ultimi anni è offerto da G. Travaglino, La responsabilità contrattuale tra tradizione e innovazione, in Responsabilità  civile e  previdenza, 2016, 75 ss., il quale afferma: «L’interrogativo del terzo millennio, che volge lo sguardo soprattutto alla produzione giurisprudenziale degli ultimi anni, è quello se una nuova Generalklausel del diritto privato sia costituita dal divieto di abuso del diritto (e del processo), conseguenza di una vera e propria Entfremdung giurisprudenziale delle regole contrattuali, che pare dirigersi verso un nuovo giusnaturalismo ove l’interprete, a mo’ di novello praetor peregrinus, sembra sempre più spesso chiamato al giudizio secondo l’id quod aequum et bonum videbitur» (p. 83).

[91] Mi limito a ricordare che, molti anni fa, con un gruppo di amici dell’Università di Bari, prima ancora che questa formula entrasse nel linguaggio corrente dei giuristi, tentai una rilettura dell’intero impianto del codice civile alla luce dell’art. 3 cpv. cost.: cfr. N. Lipari, a cura di, Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Roma-Bari, 1974. Ancorché il tentativo fosse svolto ancora all’interno delle categorie tradizionali, c’era la preveggenza di un processo del quale ormai è necessario raccogliere gli esiti.

[92] Ed è valutazione che, a mio giudizio, prescinde dall’alternativa fra conflitti «risolubili in via generale ed astratta» e conflitti solubili «solo in concreto», sulla quale insiste conclusivamente L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, cit., § 6.

[93] Osserva F. Astone, L’abuso del diritto in materia contrattuale. Limiti e controlli all’esercizio della libertà contrattuale, cit., p. 15 ss. che il «sistema delle regole di diritto scritto è necessariamente inadeguato a disciplinare società in continuo fermento, proprio perchè il dato sociale evolve con una rapidità che il diritto scritto non può seguire. Entrano quindi in gioco necessariamente la buona fede e l’abuso del diritto».