Magistratura democratica

Cambia la rappresentazione simbolica del Corpo e cambiano i modelli familiari.
L’approccio delle Corti dei diritti

di Maria Acierno

I progressi della scienza e delle biotecnologie ne hanno portato alla luce le componenti “invisibili” e le scienze umane hanno registrato la diffusa e crescente esigenza di una stretta connessione tra Corpo e psiche. I dati genetici hanno rivelato il Corpo come codice informativo insostituibile e le tecniche di riproduzione assistita hanno modificato il corso “naturale” del processo generativo.

La scissione tra genitorialità genetica e genitorialità biologica, oltre che la forte affermazione della genitorialità sociale hanno imposto una verifica dell’adeguatezza ed attualità del sistema di tutela integrato dei diritti della persona.

Le Corti hanno risolto conflitti in tema di brevettabilità delle cellule riproduttive, di embrioni contesi ed in tempi più recenti di nuove forme di genitorialità, provenienti dalle coppie omoaffettive.

Si tratta d’interrogativi che stimolano prese di posizione, anche legislative, fortemente ancorate ad ambienti politico culturali molto caratterizzati. Anche per questa ragione, il ruolo delle Corti, saldamente ancorato al corretto bilanciamento tra i diritti in gioco, continua ad essere una garanzia di obiettività.

1. La nuova dimensione del Corpo

È cambiata la nozione di “corpo umano” alla luce delle sempre più estese esplorazioni scientifiche sulla sua complessa composizione, così come si è ampliata la nozione di salute attraverso la prepotente affermazione, dovuta prevalentemente all’evoluzione delle scienze umane, delle condizioni psichiche nella definizione dell’integrità, non più riducibile alla fisicità in senso stretto ma individuata comunemente con il duplice attributo di “integrità psico-fisica”. L’equilibrio psichico e l’armonico sviluppo della personalità non sono soltanto indicatori del grado di salute individuale ma costituiscono l’obiettivo dei diritti fondamentali della persona, soprattutto se considerati nella loro ineludibile proiezione e potenzialità relazionale (art. 2 Cost; art. 8 Cedu). La rappresentazione simbolica del Corpo è cambiata sotto il profilo materico, attraverso la più ampia conoscenza e consapevolezza di tutto ciò che è celato alla diretta percezione visiva, e si è evoluta la relazione tra Corpo e psiche[1] nella direzione di una stretta interdipendenza e connessione causale dell’uno con l’altra[2]. Questo progressivo mutamento prospettico ha modificato anche la relazione con le patologie e le disabilità, sempre più diffusamente percepite come eventi riconducibili a responsabilità di terzi, a partire dalla nascita[3] fino alla morte[4].

2. Le componenti “invisibili” del Corpo

I progressi scientifici della biogenetica e delle biotecnologie hanno imposto l’ingresso dei microorganismi corporei (dna; cellule staminali; gameti ed ovociti; embrioni, l’elenco è soltanto esemplificativo) nell’ambiente giuridico investendo integralmente ed estendendo il catalogo dei diritti della persona sia nella dimensione individuale[5] che in quella relazionale, specie con riferimento all’ampliamento dell’orizzonte genitoriale.

2.1 I mutamenti nel processo generativo

Le biotecnologie hanno determinato mutazioni nel processo riproduttivo umano tali da estendere l’accesso alla genitorialità ben oltre i confini dettati dagli ordinamenti positivi. Sul versante giuridico l’estensione delle potenzialità riproduttive ha determinato un forte incremento delle domande di riconoscimento di rapporti di filiazione già sorti ma non rientranti nei modelli dettati da alcuni ordinamenti perché non fondati sugli indici probatori della discendenza biologica (per l’ordinamento italiano il riferimento è all’art. 269 terzo comma cod. civ.) e sui modelli relazionali tradizionalmente votati alla genitorialità (coppie eterosessuali). Come verrà approfondito nel paragrafo 4, anche in ordine alle condizioni soggettive, individuali e di coppia, di accesso alle tecniche di riproduzione assistita, l’intervento del giudice comune[6], delle Corti dei diritti, (per quanto riguarda il nostro Paese, in particolare della Corte costituzionale)[7], e della Corte Edu[8] è stato di cruciale importanza, sia per aver largamente anticipato l’intervento legislativo[9] sia per aver predisposto strumenti di tutela adeguata “nonostante” l’intervento legislativo.

2.2 La discendenza genetica e la filiazione

Le nuove tecniche di accertamento della discendenza biogenetica, sostanzialmente svincolate da limiti temporali in ordine al rilevamento del dna[10], hanno fortemente incrementato le azioni di status rivolte all’accertamento della filiazione. La riforma legislativa, di recente introduzione[11] è stata condizionata dalla possibilità cronologicamente illimitata di risalire alla discendenza genitoriale, attribuendo al figlio un diritto imprescrittibile al riguardo. Ma il rilievo della traccia genetica oltrepassa gli status filiali. Nasce e si sviluppa lo spazio giuridico della”eredità genetica”, e s’incrementa l’esigenza  di scoprire le proprie origini.

2.2.1 Il Corpo come codice informativo e la ricerca delle origini

Questa ultima istanza, in forte crescita, ha determinato una nuova dimensione giuridicamente rilevante del Corpo, il suo essere un codice informativo da conoscere e da preservare. Il bilanciamento tra il diritto a conoscere la propria discendenza genetica e quello alla riservatezza del proprio patrimonio informativo genetico è compito del legislatore e, in funzione interpretativa e talvolta integrativa delle Corti dei diritti. Nel nostro ordinamento, la nuova disciplina della filiazione, l’art. 28 della l. n. 184 del 1983 e il Codice della protezione dei dati personali prefigurano un sistema di equilibrio tra le due polarità. La previsione di ritenere solo per il figlio sempre imprescrittibili le azioni volte all’accertamento della propria discendenza biologica e, conseguentemente, della effettiva relazione genitoriale, è temperata dalla contrapposta previsione di limitare temporalmente le medesime azioni se proposte dai genitori o dagli altri legittimati ex lege. L’assolutezza del diritto del “figlio” si giustifica con la libertà di scegliere tra l’identità costituita dal nucleo relazionale familiare nel quale si è vissuti e quello che potrebbe rivelarsi con l’azione rivolta alla destrutturazione dello status preesistente e alla costruzione di uno nuovo. Il diritto ad autodeterminarsi su questo profilo costitutivo dello sviluppo della personalità individuale è lasciata al figlio, unico soggetto della relazione che non ha concorso alla determinazione iniziale dello status filiale. Gli altri interessati ed in particolare i genitori hanno un diritto di carattere recessivo che possono esercitare entro un tempo definito. Tale opzione deriva proprio all’esigenza di bilanciare il favor veritatis con quello volto a preservare la stabilità delle relazioni familiari, sia in ordine al primario profilo affettivo-emotivo che a quello riguardante le ricadute giuridiche anche di carattere successorio ed economico-patrimoniale connesse allo status di figlio. La fissazione di un limite temporale per l’esercizio dell’azione risulta, pertanto, in considerazione degli interessi che ad esso sono sottesi, tanto più opportuno in correlazione con l’attuale possibilità scientifica di ricostruire la discendenza biologica anche a molti anni di distanza dalla morte del genitore, così conservando al Corpo, inteso nel suo contenuto materico, un rilievo giuridico ex se come traccia informativa indelebile della discendenza biologica oltre la durata della vita.

2.2.2 Le informazioni genetiche

Il rilievo “informativo” del codice genetico impresso ad ogni particella del corpo umano ha, tuttavia, anche un suo peculiare statuto giuridico rivolto a preservare la riservatezza dei dati genetici ed a limitarne l’accesso soltanto ai titolari, salvo deroghe prevalentemente dettate da ragioni di giustizia e di salute. Il consenso del titolare delle informazioni è essenziale al fine di accedere alle informazioni genetiche di terzi. Rispetto agli altri dati sensibili, quelli relativi alle informazioni genetiche godono di un regime giuridico di protezione più intenso proprio perché correlati ad un profilo fondante l’identità personale sia sul piano individuale che delle relazioni primarie. Sotto questo specifico versante, viene in rilievo l’attuale problematica afferente il rapporto tra il diritto all’anonimato della donna dopo il parto ed il diritto di chi è nato di conoscere le proprie origini non per costituire uno status filiale ma per definire più esattamente lo statuto della propria identità personale. Al riguardo dopo l’intervento della Corte europea dei diritti umani[12], la Corte costituzionale ha incrinato l’assolutezza del diritto all’anonimato, riconoscendo il diritto a conoscere le proprie origini previa acquisizione del consenso di chi al momento del parto aveva operato questa scelta. Proprio al fine di dare una fisionomia procedimentale all’esercizio di questo diritto e alle modalità dell’interpello, nel rispetto della riservatezza di tutti gli interessati, non definiti dalla Corte costituzionale[13] che, al riguardo, ha richiamato l’intervento del legislatore, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni unite la questione, sollecitando una decisione ex art. 363 cod. proc. civ. nell’interesse della legge.

3. Il potere di disposizione individuale e lo sfruttamento economico delle parti “invisibili” del Corpo

3.1 I dati genetici

Uno dei profili problematici relativi alla regolazione giuridica delle parti “invisibili” del Corpo riguarda la titolarità e l’esercizio del potere di disposizione su di esse. Il contenuto di questo potere può avere natura economico-patrimoniale o non patrimoniale ed, in quest’ultima ipotesi, attenere allo statuto dei diritti inviolabili della persona ed in particolare al diritto ad autodeterminarsi (art. 2 e 32 secondo comma Cost.). I dati genetici costituiscono un utile esempio della duplice connotazione patrimoniale e non patrimoniale del potere di disposizione su di essi. Il codice in materia dei dati personali stabilisce uno statuto “speciale” per i dati genetici stabilendo all’art. 90 che il trattamento degli stessi (a fini sanitari) è consentito nei soli casi previsti da apposita autorizzazione rilasciata dal Garante (intervenuta il 22/2/2007). Per fini diversi da quelli sanitari è necessario il consenso del titolare salvo che il trattamento sia necessario per far valere e difendere in sede giudiziaria un diritto, entro limiti temporali ristretti e solo se «strettamente necessario». Se i dati sono idonei a rivelare lo stato di salute o la vita sessuale, il diritto da agire in sede giudiziaria deve essere di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale inviolabile. Alla luce dei principi sopraesposti la Corte di cassazione con la sentenza n.21014 del 2013 ha escluso la liceità della sottrazione e trattamento dei dati genetici al fini di valutare l’opportunità d’intraprendere un’azione di disconoscimento di paternità, sottolineando che la peculiarità dei dati sensibili «consiste nel rivelare il corredo identificativo unico ed esclusivo di ciascuna persona umana, dall’interrogazione del quale può essere estrapolata un’ampia varietà d’informazioni, non tutte da includersi in quelle di natura sanitaria, e tale potenzialità predittiva ne determina l’ontologica diversità».

Si può, pertanto, ritenere che la tutela del corredo di diritti non patrimoniali, attinenti allo stretto contenuto informativo predittivo dei dati genetici sia da ritenersi adeguatamente tutelata dal nostro sistema di protezione giuridica dei dati personali. Deve, tuttavia, porsi in evidenza che la ricchezza d’informazioni provenienti dai dati genetici è di particolare utilità in campo scientifico, sia in ordine alla predizione di patologie genetiche appartenenti ad una stessa discendenza familiare (ma in questo stretto ambito il principio consensualistico temperato dal bilanciamento con altri diritti di pari rango ed in particolare con il diritto alla salute dei terzi interessati costituisce un adeguato paradigma[14]) sia in ordine alle più generali finalità di ricerca scientifica che sono connesse alla conoscenza di ampi e selezionati campioni di dati genetici. Tale ultima potenzialità porta con sé anche quella relativa allo sfruttamento economico commerciale di questi dati. È stata a lungo un caso mediatico la cessione da parte del governo islandese dei dati genetici appartenenti a tutti i propri cittadini, raccolti in una banca dati statale istituita per legge, ad una società (la De Code Genetics) con il dichiarato scopo di favorire la conoscenza e la prevenzione o terapia delle malattie genetiche più comuni. L’Islanda, caratterizzata da una popolazione limitata e geneticamente omogenea ha costituito un patrimonio informatico particolarmente appetibile anche dal punto di vista dello sfruttamento commerciale delle ricerche effettuate. Le informazioni ottenute sono state cedute ad una importante casa farmaceutica e la scelta degli organi governativi è stata contestata dalla parte di cittadini islandesi che si è sentita non protetta dalla non identificabilità personale dei dati e che ha ritenuto illegale il potere di disposizione dei dati interamente statuale[15].

Come risulta evidente dall’esempio sopra illustrato, la ricchezza dei dati genetici risiede nel loro contenuto informativo predittivo, di primario rilievo nella ricerca scientifica e di enorme appetibilità economico-commerciale. Il conflitto si consuma in ordine all’appartenenza e allo sfruttamento della ricchezza informativa in essi contenuta ma non riguarda la materialità corporea dei tessuti o del materiale prevalentemente ematico che contiene i dati stessi. Trattandosi di informazioni relative ai dati personali, ancorché dotati del maggior grado di esclusività in virtù della vocazione predittiva che li caratterizza e li distingue anche dai dati sensibili, deve ritenersi che una disciplina costituzionale e legislativa fondata sulla tutela della riservatezza e dell’autodeterminazione individuale salvo deroghe giustificate dall’insorgenza di diritti in posizione prevalente o che impongono un bilanciamento in ordine al caso concreto, può essere ritenuta adeguata, finché si discute del profilo della tutela dei diritti individuali a natura non patrimoniale. I profili di maggiore criticità sorgono con la circolazione delle informazioni (non individuali ma appartenenti a gruppi qualificati e selezionati anche sotto il profilo delle potenzialità di sfruttamento economico) e la cessione onerosa delle stesse da parte dei poteri pubblici o privati che le detengono, ed infine, con l’applicazione ad esse del regime dei diritti di privativa, in tema di sfruttamento economico.

3.2 Cellule destinate alla riproduzione

La individuazione di un regime giuridico adeguato che regoli l’appartenenza ed il conseguente potere di disposizione di materiale estratto dal corpo umano, non visibile se non con strumentazione scientifica e comunque scientificamente, economicamente e giuridicamente rilevante solo all’esito di manipolazione scientifica, costituisce un compito non facile. In questa seconda categoria è la consistenza materica ad essere oggetto di attenzione. Le cellule staminali per la loro potenzialità riproduttiva[16] sono di enorme appetibilità scientifica ed economica. La Corte di giustizia dell’Unione europea, in una recente sentenza[17], ha definito il confine tra le cellule staminali che possono essere sfruttate scientificamente ed economicamente tanto da poter essere brevettabili dagli organismi intrinsecamente idonei ad avviare un processo procreativo per le quali il regime di protezione e il divieto di sfruttamento è assoluto. Radicalmente esclusa la brevettabilità dell’embrione umano ex art. 6 par. 2 lettera c) della Direttiva 98/44/Ce, il divieto si estende alle unità cellulari che abbiano la capacità intrinseca di svilupparsi in essere umano[18]. La domanda di registrazione nella specie ha avuto ad oggetto cellule staminali umane pluripotenti da ovociti partogeneticamente attivati e di linee cellulari staminali prodotte secondo tali metodi, inidonee ad attivare autonomamente un processo generativo effettivo. La Corte ha ritenuto brevettabili tali cellule staminali affermando che l’ovulo non fecondato non può essere incluso nel concetto di embrione umano, anche quando sia stato indotto a dividersi e a svilupparsi, se alla luce delle attuali conoscenze scientifiche esso sia privo della capacità intrinseca di svilupparsi in essere umano. Le cellule staminali in questione esauriscono, riproducendo esclusivamente se stesse, la propria funzione generativa. Lo sfruttamento scientifico di tale potenzialità e le tecniche di laboratorio per realizzare la partenogenesi possono essere brevettate perché relative esclusivamente ad una parte, ancorché di dimensioni infinitesimali, del corpo umano. Non si determina alcuna lesione della dignità umana che in questo campo costituisce il parametro di valutazione della legittimità di tutti gli atti eurounitari.

Rimane da esplorare la relazione giuridica (di appartenenza o estraneità) di tali parti del corpo umano una volta separate da esso. Occorre distinguere non soltanto per tipologia di organismi, ma anche in ordine alle ragioni della “separazione” (a fini scientifici o comunque di ricerca) o a fini riproduttivi.

3.3 A chi appartengono le cellule riproduttive

La legge n. 40 del 2004 ha stabilito il divieto assoluto di ogni forma di sperimentazione scientifica sugli embrioni umani, salvo quelle che perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche volte alla tutela della salute dell’embrione, e a condizione che non siano disponibili metodologie alternative (art. 13, primo comma). La previsione è in linea con l’impianto normativo dell’Unione europea sopra illustrato. Quanto ai gameti, ne è vietata (al terzo comma, lettera b) ogni sperimentazione a scopo eugenetico nonché ogni forma di selezione a fini predittivi[19]. Al consenso sul divieto di sperimentazione sugli embrioni non corrisponde tuttavia analoga condivisione relativamente alla destinazione degli embrioni cd soprannumerari. La Corte europea dei diritti umani, in una recente sentenza[20], ha rilevato la diversificazione delle soluzioni adottate dagli Stati membri al riguardo, precisando che una parte di essi consente l’utilizzazione a fini di ricerca scientifica degli embrioni crioconservati non più impiantabili in utero o, comunque, non più destinati a fini generativi da parte della coppia che ha ritenuto di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita o da altre coppie o persone singole secondo la disciplina normativa interna; un’altra parte di Stati invece, come Germania, Austria ed Italia, è contraria in linea assoluta alla destinazione a fini di ricerca scientifica anche in questa peculiare ipotesi. La diversità delle soluzioni riflette il dilemma etico-giuridico relativo al riconoscimento allo specifico stadio del processo generativo, definibile come embrione, della qualità di essere umano o d’inizio della vita umana e, conseguentemente, con diverse gradazioni d’intensità di tutela, di soggetto di diritto.

La Corte europea dei diritti umani ha sottolineato la mancanza di uniformità e l’ampio margine di apprezzamento da riconoscere agli Stati in questo ambito, rilevando che la volontà soggettiva, di uno dei componenti la coppia, di destinare gli embrioni creati per effetto dell’accesso a tecniche di procreazione assistita, alla ricerca scientifica in quanto non più realizzabile il progetto genitoriale per morte del partner, non è uno dei diritti fondamentali tutelati dall’art. 8 perché non riguarda la genitorialità, pur dovendosi qualificare il divieto dell’ordinamento interno come un’ingerenza, nella specie, nel nostro Paese, realizzata mediante l’art. 13 della l. n. 40 del 2004. Si tratta, tuttavia, di un divieto che non eccede il margine di discrezionalità degli Stati e che può ritenersi necessario in una società democratica. Per pervenire a questa soluzione, la Corte Edu ha dovuto affrontare anche la questione relativa alla configurabilità di una relazione di appartenenza tra il soggetto che con il proprio gamete (femminile nella specie) ha contribuito, ancorché con la necessaria mediazione delle tecniche di riproduzione assistita, alla formazione dell’embrione e l’embrione medesimo. Al riguardo, la Corte ha radicalmente escluso che possa configurarsi un diritto assimilabile anche in senso lato a quello proprietario, non ravvisando, di conseguenza, la violazione dell’art. 1 che definisce il diritto di proprietà secondo la Convenzione «Human embryos cannot be reduced to “possessions” with the meaning of that provision». Questa puntuale indicazione, connessa alla non riconducibilità nell’alveo dei diritti tutelati ex art. 8 della Convenzione della domanda formulata dal partner superstite, consente di delineare lo statuto giuridico relativo al potere di disposizione sugli embrioni[21].

Come per gli altri organismi cellulari (cellule staminali, tessuti etc.) non pare possa postularsi un diritto di proprietà in senso stretto o più esattamente un potere di disposizione e di autodeterminazione tendenzialmente assimilabile a quello riguardante il Corpo e i suoi organi ex art. 32 Cost. e 5 cod. civ. In primo luogo è la ricerca scientifica e la manipolazione tecnologica a determinarne la selezione e l’utilizzazione anche terapeutica (si pensi in particolare alle cellule staminali). I gameti maschili e femminili sono separabili dal Corpo attualmente soltanto con l’ausilio di tecnologie sempre più raffinate. Tale peculiarità induce ad escludere che si possa configurare uno statuto di appartenenza soggettiva fuori del processo di trasformazione ed utilizzazione mediato dalla tecnologia. Semmai, sarà il frutto del processo manipolativo a poter essere un centro d’imputazione di situazioni giuridiche soggettive di diversa provenienza. Intanto, come già osservato per i dati genetici, tutte le informazioni contenute negli organismi cellulari sono protette dal sistema interno di tutela dei dati personali. Il profilo dei diritti fondamentali si completa con la tutela del diritto all’integrità psicofisica, non potendosi procedere ad alcuna selezione ed estrazione in presenza di qualsiasi pregiudizio per la salute o in assenza del consenso individuale comprensivo della conoscenza e consapevolezza dell’utilizzazione e delle finalità scientifico/terapeutiche dell’estrazione e del trattamento[22].

Il quadro ricostruttivo che in via di approssimazione si è delineato non è, tuttavia, sufficiente a “contenere” anche le questioni connesse al potere di disposizione degli embrioni, in quanto parte di un processo generativo derivante da una condotta consensuale di coppia o di un singolo (nei Paesi in cui tale forma di genitorialità è estesa ai singles).

4. Il potere di disposizione sugli embrioni. L’embrione conteso

Con la legge n. 40 del 2004 (art. 6 terzo comma) ciascuno dei soggetti della coppia che intende accedere alle p.m.a. omologhe, e nei limiti definiti dalla sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014 anche all’eterologa[23], può revocare il proprio consenso «fino al momento della fecondazione dell’ovulo». Una volta formatosi l’embrione la volontà diventa irrevocabile. Il potere individuale di disposizione degli embrioni è rigidamente definito quanto alla destinazione ed ai vincoli temporali. La destinazione deve essere esclusivamente procreativa, con la conseguenza che la revoca del consenso produce solo l’effetto d’interrompere il progetto generativo intrapreso dalla coppia, ma non di consentire una diversa destinazione agli embrioni che rimangono crioconservati fino all’autodistruzione. La revoca anticipata alla fecondazione dell’ovulo sottolinea, in modo tanto enfatico quanto privo di conseguenze, la fissazione, con la formazione dell’embrione, dell’inizio della vita umana. Da questo momento esso è sottratto alla disponibilità di chi ha voluto intraprendere la realizzazione del progetto procreativo. L’autodeterminazione è limitata (anche per le concorrenti esigenze di carattere medico sanitario) ai modi e tempi dell’impianto[24] o al rifiuto di uno dei componenti della coppia o di entrambi a proseguire nel processo di procreazione assistita. Il rifiuto femminile determina la definitiva interruzione di quel processo procreativo. Il rifiuto maschile lascia aperti numerosi interrogativi. Deve aggiungersi il profilo, eticamente sensibile, delle sorti dell’embrione in caso di morte di uno dei partners o di cessazione della relazione posta a base del progetto genitoriale. In questa ultima ipotesi, quale rilievo giuridico può attribuirsi alla volontà unilaterale inibitoria o, a quella contrastante rivolta alla realizzazione dell’impianto e alla prosecuzione del processo procreativo? Si può stabilire un criterio di prevalenza di una delle due volontà o si deve ritenere che il consenso all’impianto non possa che esser condiviso perché si possa procedere?

Nella legge n. 40 del 2004 non si rinviene una risposta del tutto chiara. Le condizioni di accesso escludono il single (art. 5) e l’art. 6 enuncia la necessità che il consenso sia espresso da entrambi in tutta la fase relativa all’accesso e all’assoggettamento ai trattamenti necessari. La revoca, come già evidenziato, può manifestarsi singolarmente non oltre la fecondazione dell’ovulo. La norma sembra escludere che, a fronte di un rifiuto unilaterale, la volontà di procedere all’impianto (da parte della donna) o di procedere mediante impianto con partner diversa (da parte dell’uomo) possa tradursi in autonomo potere di disposizione degli embrioni.

Le questioni connesse all’embrione conteso o al potere di disposizione post mortem di uno dei partners è stato affrontato dalla giurisprudenza fin dalla fine degli anni 90, molto prima dell’entrata in vigore della l. n. 40 del 2004. Nella giurisprudenza della Corte Edu, della Corte costituzionale italiana, delle Corti supreme di altri Paesi ed infine dei giudici comuni, si possono riscontrare risposte variegate ancorché unite dalla ricognizione di un contesto normativo di riferimento saldamente ancorato ai principi costituzionali e convenzionali relativi ai diritti della persona ed in misura recessiva al diritto positivo interno. La necessaria biunivocità del consenso è stata affermata dalla Corte europea dei diritti umani[25]. È stata negata a Natallie Evans la possibilità di opporsi alla distruzione degli embrioni criocongelati voluta dal marito, pur essendo per lei questa l’unica possibilità residua di avere figli. Al riguardo, la Corte ha affermato come non sia in discussione il generico diritto alla genitorialità ma la prosecuzione di quello specifico progetto procreativo sorto come condiviso e soltanto in tale condizione da portare a termine. Presumibilmente opposta sarebbe stata la soluzione nel caso fossero stati congelati soltanto gli ovociti della Evans, trattandosi di materiale biologico di sua esclusiva appartenenza, salvi i vincoli ed i  divieti delle legislazioni nazionali.

Una conclusione analoga si riscontra in un’ordinanza del Tribunale di Bologna del 2/5/2000[26]. Dopo la separazione personale di una coppia che si era avvalsa delle p.m.a. ed aveva criocongelato alcuni embrioni, la moglie ha richiesto di poter procedere all’impianto. Il marito ha opposto un irrevocabile rifiuto. Il Tribunale ha ritenuto di dover dare prevalenza alle ragioni del marito perché non si può imporre la paternità e perché, alla luce del quadro costituzionale e convenzionale, si è affermato che il nascituro ha diritto ad avere entrambi i genitori, sottolineando il carattere radicalmente inibitorio della manifestazione di volontà di revoca del consenso.

Del tutto diversa la soluzione data ad un analogo conflitto risolto dalla Corte suprema d’Israele. Ruth e Daniel, da sposati, decidono di avere un figlio utilizzando la fecondazione in vitro dei rispettivi gameti ma servendosi di una madre surrogata perché a Ruth è stato asportato l’utero. La relazione cessa. Daniel chiede il divorzio e si oppone alla prosecuzione del progetto procreativo che invece Ruth è intenzionata a portare a termine. Una prima volta la Corte suprema dà ragione a Daniel, ritenendo necessario il consenso di entrambe le parti e valutando come prevalente il diritto a non diventare genitori piuttosto che al suo contrario. Nella seconda decisione, invece, viene accolta la domanda di Ruth con motivazioni differenziate dei sette giudici di maggioranza. Cinque componenti del collegio pongono l’accento sul fatto che per Ruth è l’unica ed ultima chance di diventare madre. Un giudice ritiene prevalente il diritto alla genitorialità piuttosto che al suo contrario. Soltanto uno sottolinea il valore sociale della volontà procreativa. Colpisce nella motivazione la concretezza delle valutazioni dei giudici e l’assunzione come parametro pressoché esclusivo l’incidenza della scelta sul destino individuale. Alla condivisione originaria del progetto, non deve seguire inderogabilmente una manifestazione di volontà comune in ordine all’impianto o alla cessazione del progetto. La genitorialità attiene ex art. 2, 3 , 30 Cost ed 8 Cedu, ad una delle forme di estrinsecazione della personalità e della libertà individuale di primario rilievo, come ha ricordato, di recente, anche la Corte costituzionale nella sentenza n. 162 del 2014. Questa peculiare espressione del diritto alla vita familiare non è sottratta alle ingerenze[27] della legge statuale, in funzione del bilanciamento con altri interessi di rilievo pubblicistico di pari importanza, quali la stabilità delle relazioni e la certezza degli status, ed in particolare con il cd best interest del minore al quale deve essere attribuito un rilievo addirittura prevalente. Tuttavia, in quanto estrinsecazione di una scelta personale o relazionale, generalmente ritenuta meritevole di essere apprezzata o, come avviene per la filiazione adottiva, promossa nelle tecniche legislative, il bilanciamento deve tenere conto della forte incidenza esistenziale di questa scelta (o del suo rifiuto) nel percorso individuale e relazionale e negarne l’esercizio soltanto in presenza di ragioni ostative riconducibili ad una prevedibile e concreta lesione dell’interesse del figlio minore, non derivante da suggestioni etiche o da convinzioni, allo stato, prive del conforto unanime o quanto meno prevalente della scienza.

4.1 Il potere di disposizione sull’embrione del partner o del coniuge superstite

Connesso al profilo del rifiuto o revoca del consenso, vi è quello relativo al potere di disposizione del partner o coniuge superstite nel caso in cui l’altro sia morto dopo la fecondazione dell’ovulo e la formazione dell’embrione. La giurisprudenza di merito ha fornito risposte contrastanti, peraltro anche nel medesimo procedimento (in sede di provvedimento cautelare di primo grado ed in quello successivo di reclamo), negando in prima battuta e riconoscendo nel secondo grado il diritto all’impianto per il coniuge superstite. Nella fattispecie, l’accesso alle p.m.a. era iniziato prima dell’entrata in vigore della l. n. 40 del 2004, ma la morte del partner era intervenuta dopo. È interessante osservare come il medesimo testo normativo sia stato interpretato in modo opposto nelle due pronunce, a conferma dell’ambiguità di cui è permeato nel dare rilievo, da un lato, al consenso di entrambi i componenti della coppia e, dall’altro, alla protezione dell’embrione come prima forma di vita umana, da destinare inevitabilmente all’impianto ed alla procreazione[28].

5. La genitorialità genetica e la genitorialità sociale: i nuovi modelli di famiglia

La scomposizione del processo riproduttivo, determinata dallo sviluppo delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, ha portato ad emersione un’altra tipologia di conflitti, relativi al potere di disposizione dei soggetti del progetto procreativo, sull’embrione o sul materiale riproduttivo idoneo alla fecondazione in vitro. Per quanto riguarda la maternità, la madre genetica (il cui ovocita viene fecondato in vitro) può non coincidere con la madre gestante. Il paradigma probatorio della individuazione normativa della genitorialità (art. 269, terzo comma cod. civ.) non contempla la possibilità di una separazione soggettiva tra madre gestante e madre genetica, ma questo modello di genitorialità è attualmente il più diffuso tra le coppie omogenitoriali femminili e determina l’attribuzione dello status genitoriale ad entrambe le partners in numerosi ordinamenti europei tra i quali la Spagna[29]. Peraltro, tale scissione tra madre genetica e gestante non si determina soltanto nelle ipotesi di omogenitorialità femminile.

5.1 La gestazione per altri

Nella surrogazione di maternità realizzata mediante la gestazione affidata ad una donna che non fa parte del nucleo relazionale destinato alla genitorialità, può verificarsi ugualmente la scissione tra madre genetica e madre gestante, sia nell’ipotesi della coppia eterosessuale che nella coppia formata da persone dello stesso sesso (maschile). Nella prima ipotesi può accadere che alla produzione di ovociti fecondabili (o fecondati) non corrisponda la possibilità fisica della gestazione per cause originarie o sopravvenute all’avvio del processo generativo tramite p.m.a. Questa ipotesi si è verificata, come evidenziato nei casi riportati nel paragrafo precedente, con una certa frequenza nelle coppie eterosessuali sia in ordine alla fecondazione in vitro omologa (con gameti maschili e femminili provenienti da entrambi i genitori) sia in ordine a quella eterologa, nelle ipotesi in cui, presumibilmente per ragioni di sterilità o comunque medico- sanitarie (trasmissione malattie genetiche, incompatibilità genetica, etc.), sia necessario ricorrere al gamete maschile o femminile di terzi.

La surrogazione di maternità mediante gestazione affidata ad altri costituisce l’unica forma di accesso alla genitorialità (non adottiva) per le coppie omogenitoriali maschili, pur essendo diffusa da oltre venticinque anni tra le coppie eterosessuali[30]. L’emersione di queste peculiari istanze di genitorialità ha determinato in tempi molto recenti[31], lo sviluppo di una riprovazione trasversale per la cd locatio ventris, in quanto espressione della mercificazione e dello sfruttamento del Corpo (e della libertà) femminile. Non pare sufficiente a spiegare l’attuale attenzione sul fenomeno la sola prospettiva di un incremento significativo della surrogazione onerosa di maternità per il più esteso numero di coppie (quelle omogenitoriali) che possono essere interessate a tale forma di accesso alla genitorialità. L’indignazione per lo sfruttamento del Corpo femminile, da più parti evocato anche come forma di neo schiavismo[32], sembra acuito dall’estensione della gestazione per altri anche alle coppie omoaffettive. È in atto una suggestione omologante che unifica ogni forma di surrogazione di maternità mediante gestazione di altri, sia che venga attuata negli Stati Uniti o in Canada, sia che venga attuata in Paesi caratterizzati da un livello di protezione dei diritti della persona molto limitato. Un corretto approccio alla questione richiede, al contrario, un esame rigoroso delle forme di realizzazione del contratto di gestazione per altri, non potendosi ritenere che la determinazione alla gestazione per altri derivante da una condizione di privazione socioeconomica sia identica a quella nella quale tale condizione drammatica generalmente non costituisce la ragione della decisione. Non può ravvisarsi coercizione nel medesimo grado in realtà sociali tanto diversificate soprattutto in ordine al diritto alla salute e agli altri diritti fondamentali.

L’opposizione ad ogni forma di surrogazione di maternità “senza se e senza ma” si coniuga dunque con una valutazione negativa, di origine ideologica, dell’omogenitorialità. Di frequente i due profili di contrarietà sono convergenti: si stigmatizza il delirio di onnipotenza generativa che oltrepassa le leggi di natura e viene realizzato anche a costo dello sfruttamento del Corpo e della libertà femminile.

Tale processo semplificativo ideologico è così articolato:

  • fuori del paradigma eterosessuale, non può neanche configurarsi l’accesso alle p.m.a. eterologhe, trattandosi di uno stravolgimento del fondamento biologico naturalistico del rapporto di filiazione;
  • la mancanza della diversità di sesso tra i genitori è lesiva dell’interesse del minore, come non può che essere dimostrato con la crescita dei figli di famiglie omogenitoriali;
  • il desiderio di genitorialità si fonda su basi così egoistiche ed “adulto centriche” da realizzarsi mediante la contrattualizzazione e mercificazione del Corpo femminile ridotto a contenitore di un figlio altrui, in spregio al rilievo centrale per lo sviluppo armonico del minore della vita intrauterina e del rapporto con la madre che fin da tale fase si determina;
  • l’unico modo per fronteggiare questa deriva è il divieto della omogenitorialità.

Le argomentazioni sopra delineate sorgono e si sviluppano fuori del contesto giuridico. Sono il frutto di convinzioni maturate in ambiti politico-culturali fortemente caratterizzati anche se non omogenei[33]. È necessario, di conseguenza valutarne la fondatezza alla luce del paradigma giuridico applicabile alle questioni relative alle relazioni, alla genitorialità, alla filiazione, di quello rappresentato dai diritti fondamentali della persona e del best interest del minore. Lo statuto costituzionale e convenzionale proprio di questi diritti contiene anche i criteri per delimitarne l’ambito in funzione del necessario bilanciamento con gli interessi di rilievo pubblicistico e i principi di ordine che siano concretamente in contrasto con la loro affermazione.

In primo luogo, deve rilevarsi che l’ampia protezione costituzionale [34] e convenzionale di cui godono le “formazioni sociali”[35] identificabili come unioni tra persone dello stesso sesso o unioni omoaffettive, ha trovato un primo, tardivo riconoscimento normativo nella legge n.76 del 2016. L’operazione di equiparazione ed adeguamento, in funzione antidiscriminatoria, degli strumenti di tutela propri delle unioni eterosessuali ed, in particolare, del matrimonio[36], a questa nuova tipologia di unioni, espressamente affidata dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione con le sentenze sopra richiamate al giudice costituzionale e al giudice comune, è stata solo parzialmente attuata dal legislatore con esclusione della filiazione.

Il richiamo espresso agli artt. 2 e 3 della Costituzione, contenuto nell’art. 1 della legge, non consente di ritenere esaurita la funzione di adeguamento costituzionale e convenzionale richiamata dalle due Corti, per effetto dell’intervento del legislatore. La legge sulle unioni civili, operando sul terreno dei diritti della persona, si muove all’interno «di una civiltà giuridica in continua evoluzione»[37] che non può essere estranea all’intervento del giudice dei diritti. Ove vengano denunciate mediante il ricorso alla giurisdizione ulteriori forme di disparità di trattamento, prive di giustificazione perché relative a situazioni del tutto omologhe, si deve continuare nell’operazione di adeguamento ed equiparazione che emana direttamente dalla ricomprensione di queste unioni nell’alveo degli artt. 2 e 3 Cost., oltre che dell’art. 8 Cedu.

Per quanto riguarda le scelte genitoriali non se ne può ignorare, come sottolineato anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 162 del 2014, la piena riconducibilità all’art. 2 Cost. La costituzione di un nucleo familiare costituisce un obiettivo comune alla maggior parte delle relazioni affettive esclusive che si realizzano mediante la stabile convivenza. La formazione di una famiglia costituisce un luogo privilegiato di sviluppo ed estrinsecazione della personalità. La scelta legislativa di omettere di regolare questo ambito, caratterizzato da un numero non esiguo di famiglie omogenitoriali, non postula un divieto, da considerarsi, ove esistente in via generale, senz’altro sospetto d’incostituzionalità. Non si può adottare il medesimo parametro con il quale si è stabilito che le unioni omoaffettive non possono accedere al matrimonio. Il modello di unione è senz’altro rimesso alla volontà legislativa[38] ma la prospettiva è del tutto diversa ove ci si trovi ad esaminare un rapporto filiale già esistente, all’interno di un’unione riconosciuta legislativamente e permeata della massima dignità costituzionale, quella che promana dagli artt. 2 e 3 Cost.

Partendo da questi principi, non di carattere etico, politico od ideologico ma esclusivamente costituzionale, uniti a quello, universalmente riconosciuto come preminente del best interest del minore, non è del tutto disagevole verificare caso per caso la concreta attuazione dell’operazione di equiparazione e adeguamento imposta al giudice comune (ed alla Corte costituzionale) dal nostro sistema integrato di tutela dei diritti della persona.

Nella sentenza n.12962 del 2016[39], è stata data compiuta proprio questa operazione di adeguamento. Dopo aver verificato in concreto la corrispondenza della domanda di adozione, formulata dalla convivente della madre, all’interesse della figlia minore, e dopo aver riscontrato positivamente le condizioni richieste dall’art. 44 lettera d) della l. n. 184 del 1983[40] (constatata impossibilità di affidamento preadottivo) è stata sottolineata l’evidente disparità di trattamento che si sarebbe verificata rispetto alla situazione del tutto omologa, costituita dalla coppia di fatto eterosessuale, anche in ordine all’adozione della minore, fondato esclusivamente sulla natura omoaffettiva dell’unione alla base della domanda di adozione, ovvero su una valutazione discriminatoria.

Il medesimo parametro può essere adottato per tutte le situazioni caratterizzate dalla già avvenuta formazione di un nucleo familiare composto da genitori e figli. Il modello dell’adozione ex art. 44 può costituire uno strumento dì riconoscimento legale delle omogenitorialità femminili e maschili. Per queste ultime non può postularsi il contrasto con l’interesse del minore fondandolo esclusivamente sul rilievo della provenienza della filiazione dalla surrogazione di maternità.

Non può confondersi, sul piano giuridico, il divieto di accesso ad una delle modalità della fecondazione eterologa con la salvaguardia, nelle forme più coerenti con il sistema di diritto interno di tutela della genitorialità biologica e sociale, della relazione filiale. Il legislatore nazionale può vietare che si realizzi un progetto genitoriale all’interno del suo ordinamento mediante la surrogazione di maternità e può essere vincolato a trattati o convenzioni internazionali che vietino ogni forma di sfruttamento del Corpo femminile ed ogni utilizzo oneroso dello stesso, ma tale valutazione non può essere alla base della domanda di riconoscimento di una relazione genitoriale già in atto, fondata sulla continuità affettiva del rapporto filiale fin dalla nascita. In questa ipotesi l’oggetto dello scrutinio del giudice deve essere rivolto alla verifica dell’interesse del minore e alla natura e al fondamento costituzionale della scelta della genitorialità.  

[1] La Corte costituzionale con la sentenza n. 161 del 1985, nel sottolineare la piena compatibilità costituzionale della legge n. 164 del 1982 (sul diritto alla rettificazione di sesso per le persone transessuali, alle condizioni stabilite dalla legge) ha usato per la prima volta in ambito giurisdizionale la felice espressione coincidenza tra soma e psiche per sottolineare l’obiettivo di un’esistenza equilibrata per le persone transessuali, aggiungendo che la legge n. 164 del 1982 si colloca in una civiltà giuridica in continua evoluzione.

[2] Il successo e i traguardi delle neuroscienze sono coerenti con il rilievo di questa connessione. Il termine neuroscienze deriva dall’inglese neurosciences, un neologismo coniato nel 1962 circa dal neurofisiologo americano Francis O. Schmitt. Egli capì che si dovevano abbattere le barriere tra le diverse discipline scientifiche, unendone le risorse e gli sforzi, se ci si voleva avvicinare ad una piena comprensione della complessità del funzionamento cerebrale e aveva utilizzato la parola neuroscienze (Neurosciences Research Program) per indicare il suo gruppo di ricerca, costituito appunto da scienziati di diversa formazione.

Il complesso di discipline oggi note come neuroscienze rappresenta una scienza sempre più interdisciplinare, che attinge da matematica, fisica, chimica, nanotecnologie, ingegneria, informatica, psicologia, medicina, biologia, filosofia, e va in senso opposto rispetto al confinamento specialistico dello studio del cervello e alla delimitazione del sapere tecnico degli anni passati.

Un ampio spettro di problematiche rientra nell’indagine delle neuroscienze:
lo sviluppo, la maturazione ed il mantenimento del sistema nervoso, la sua struttura anatomica e funzionale con un’attenzione particolare al cervello e al ruolo che esso riveste nel comportamento e nella cognizione. Le neuroscienze cercano di comprendere non solo i normali meccanismi del sistema nervoso, ma anche quello che non funziona adeguatamente nei disturbi dello sviluppo, psichiatrici e neurologici, con l’intento di trovare nuove strade per prevenirli o curarli. Nel libro Principi di Neuroscienze il premio Nobel Eric Kandel dichiara: «Il compito delle neuroscienze è di spiegare il comportamento in termini di attività del cervello. Come può il cervello dirigere i suoi milioni di singole cellule nervose per produrre un comportamento, e come possono essere queste cellule influenzate dall’ambiente? L’ultima frontiera della scienza della mente, la sua ultima sfida, è capire le basi biologiche della coscienza, ed i processi mentali attraverso cui noi percepiamo, agiamo, impariamo e ricordiamo.»(tratto dalla rivista scientifica on line Neuroscienze e dipendenze (www.neuroscienzeedipendenze.it).

[3] La Corte di cassazione italiana, al pari di quella francese, ha affrontato il tema dell’esistenza del diritto al risarcimento del danno da nascita indesiderata, sia in ordine alla legittimazione dei genitori, attualmente non più in discussione, sia in ordine alla legittimazione del nato, oggetto di contrastanti decisioni. La sentenza n. 16754 del 2012 ha riconosciuto tale legittimazione, le sezioni unite l’hanno esclusa con la recente pronuncia n. 25767 del 2015.

[4] Sempre meno riferita a fattori endogeni od anagrafici o alla casuale insorgenza di patologie e sempre più ricondotta a malpractice medico sanitaria.

[5] Capacità predittiva dei dati genetici e protezione dei dati personali anche dall’aggressione dei poteri privati (economici) e pubblici.

[6] L’intervento di adeguamento della Corte costituzionale è stato sollecitato da un numero cospicuo di ordinanze di rimessione provenienti: dal Tribunale ordinario di Napoli con ordinanza del 3 aprile 2014, iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, 2014 (sent. Corte cost. 229 del 2015); dal Tribunale ordinario di Milano con ordinanza dell’8 aprile 2013, dal Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 29 marzo 2013 e dal  Tribunale ordinario di Catania con ordinanza del 13 aprile 2013, rispettivamente iscritte ai nn. 135, 213 e 240 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta ufficiale della Repubblica nn. 24, 41 e 46, prima serie speciale, dell’anno 2013 (sentenza n. 162 del 2014); dal Tribunale ordinario di Roma con ordinanze del 15 gennaio e del 28 febbraio 2014, iscritte ai nn. 69 e 86 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta ufficiale della Repubblica nn. 21 e 24, prima serie speciale, dell’anno 2014 (sent. 96 del 2015); dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con sentenza del 21 gennaio 2008 e dal Tribunale ordinario di Firenze con ordinanze del 12 luglio e del 26 agosto 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 159, 323 e 382 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22, 44 e 50, prima serie speciale, dell’anno 2008 (sent. 151 del 2009).

[7] La sentenza n. 151 del 2009 ha stabilito l’illegittimità costituzionale dell’art. 14 comma 3 in ordine all’obbligo, lesivo del diritto alla salute della donna, dell’unico contemporaneo impianto degli embrioni prodotti in vitro nonché del comma 1 per la limitazione ad un numero complessivo di tre degli embrioni da produrre; la n. 162 del 2014 ha eliminato il divieto assoluto di fecondazione eterologa, pur delineandone un perimetro molto rigoroso, sul rilievo che il diritto a diventare genitori (…) costituisce espressione della fondamentale e generale libertà di autodeterminazione; la sentenza n. 96 del 2015 ha ritenuto lecita la selezione degli embrioni al fine di procedere alla diagnosi preimpianto, quando i genitori siano portatori di malattie genetiche trasmissibili; la sentenza n. 229 del 2015 ha escluso la rilevanza penale della predetta selezione.

[8] Ci si riferisce in particolare alla sentenza Cedu Costa Pavan del 28/7/2012 (ricorso 54270 del 2010) leggibile in italiano nel sito www.ministerogiustizia.it.

[9] Cassazione n. 2315 del 1999 in Foro It. 1999, I, con nota di F. Di Ciommo; Tribunale Palermo ord. 8/1/99 in Foro It, 1999,I, 1653.

[10] Ormai è possibile ricostruire il dna anche da tessuti provenienti da persone morte da lungo tempo. Per la conoscenza dei progressi biotecnologici, si segnala Dna antico in Frontiere della vita www.treccani.it/enciclopedia/dna-antico.

[11] Legge delega n. 219 del 2012; d.lgs n. 154 del 2013.

[12] Sentenza Godelli contro Italia del 25 settembre 2012 (ricorso 33783 del 2009). Il ricorso è stato proposto da una donna italiana che, abbandonata alla nascita, era stata adottata ma aveva cercato di conoscere notizie sulla propria madre biologica. Desiderio impossibile da realizzare in base alla legge italiana che tutela il diritto all’anonimato della madre. Di qui la scelta di rivolgersi alla Corte europea che, pur riconoscendo in questo settore un ampio margine di discrezionalità attribuito agli Stati, ha affermato che le autorità nazionali debbano tenere conto dei diversi interessi in gioco ed essere in grado di bilanciare le diverse esigenze al fine di garantire a tutti il pieno rispetto del diritto alla vita privata e familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione europea. Nel sistema italiano, invece, è solo il diritto della madre all’anonimato ad essere oggetto di tutela: il soggetto abbandonato, in caso di rifiuto della madre, non può conoscere le circostanze della propria nascita e dell’abbandono. Necessaria, invece, una valutazione delle circostanze del caso e il raggiungimento di un giusto equilibrio tra i diritti contrapposti, evitando ogni automatismo. Tanto più che il desiderio di conoscere le proprie origini non cessa con l’età e che il mancato soddisfacimento di questa esigenza procura sofferenze psicologiche e fisiche (abstract tratto dal sito www.marinacastellaneta.it).

[13] In Danno e Responsabilità, 2014,43 con nota di F. Agnino.

[14] A titolo di esemplificazione dell’operazione di bilanciamento che il legislazione affida al giudice in tema di diritto a conoscere le proprie origini, si richiama l’art. 28, L. n. 184 del 1983, che al comma 5 consente al figlio adottivo che abbia raggiunto la maggiore età, a determinate condizioni, di proporre istanza al Tribunale per i minorenni per conoscere le proprie origini ed il Tribunale deve valutare se l’accesso alle notizie non comporti grave turbamento all’equilibrio psico fisico del richiedente.

[15] Dopo questa decisione, circa 20 mila cittadini islandesi hanno chiesto di essere esclusi dalla raccolta di informazioni, in quando ritengono non etica la cessione a un privato. Alcuni di loro, tra l’altro, rivendicano il diritto di non fornire dati e persino di non ricevere informazioni su rischi desunti dallo studio di geni di parenti e familiari. Nel 2003 una ragazza allora minorenne, Ragnhildur Guomunsdottir, si è rivolta, tramite la madre, alla Corte suprema del Paese per impedire che i dati genetici del padre, nel frattempo deceduto, venissero inseriti nel database. Il presupposto è che una figlia, poiché condivide il 50 percento dei geni paterni, è proprietaria del diritto di veto, mentre una moglie, che non condivide geni comuni, non può appellarvisi. La Corte suprema le ha dato ragione, poiché ha riconosciuto che attraverso i geni del padre è possibile ottenere informazioni anche su di lei, stabilendo di fatto, per la prima volta in Europa, un diritto alla privacy genetica. Il 19 novembre del 2009, la DeCode Genetics ha dichiarato fallimento, travolta dalla bancarotta in cui versa l’intero Paese. Da quando è nata, infatti, non è riuscita a generare profitti se non quelli ottenuti grazie a contratti con case farmaceutiche per la messa a punto di nuove terapie mirate o per l’identificazione di eventuali bersagli. Ora l’intero patrimonio di informazioni (comprendente il genoma di circa 140 mila islandesi) è in vendita e si è fatta avanti una nota casa farmaceutica britannica, conosciuta anche per la sua imponente attività di ricerca.

[16] Le cellule staminali sono delle cellule indifferenziate, in grado, cioè, di trasformarsi in cellule di diversi tessuti o organi. A loro volta, esse di distinguono in:

- Totipotenti: in grado di diventare parte di qualunque tessuto organico;

- Pluripotenti: in grado di trasformarsi in cellule di molti organi o tessuti (ma non tutti);

- Unipotenti: in grado di diventare cellule di un solo tipo.

Nel corpo umano adulto, le cellule staminali si trovano nel midollo osseo, e sono quelle che possono essere trapiantate in chi sia affetto da malattie del sangue, come ad esempio la leucemia. Ma altre cellule staminali le troviamo nel cervello, nello strato più profondo della pelle, il derma, nella polpa dentaria. Ricchissimo di staminali è poi il cordone ombelicale dei neonati e il liquido amniotico. Di recente è stato scoperto che anche il latte materno è una potenziale fonte di staminali. L’embrione umano è la fonte più ricca di cellule staminali (Informazioni tratte da www.associazionelucacoscioni.it).

[17] Sentenza del 18/12/2014, International Stemm Corporation c. Controller General of Patenty.

[18] La Convenzione sui diritti umani e la biomedicina o di Oviedo, sottoscritta il 4/4/1997 vieta la costituzione di embrioni umani a fini di ricerca.

[19] Quest’ultimo divieto, come già indicato nella note 6 e 7, è stato temperato nelle sentenze della Corte costituzionale n. 96 e 229 del 2015, con l’esclusione del divieto della diagnosi preimpianto al fine di provvedere all’impianto di embrioni non malati, quando uno o entrambi i genitori siano affetti da malattie genetiche trasmissibili.

[20] Parrillo contro Italia sent. del 27/8/2015, ricorso n. 46470 del 2011.

[21] La Corte costituzionale con la sentenza n. 76 del 2016 è intervenuta direttamente sulla questione escludendo di poter procedere ad un sindacato di legittimità costituzionale delle norme impugnate trattandosi di materia da assoggettarsi interamente al legislatore, essendone ampia la discrezionalità d’intervento in ordine al binomio consenso o divieto di utilizzazione degli embrioni a fini di ricerca.

[22] Il potere di disposizione concorrente dei terzi che operano su tali parti invisibili attraverso le biotecnologie ed a fini di ricerca rispetto all’autodeterminazione individuale del cedente è regolato, in particolare sotto il profilo del rilievo del consenso informato e del rispetto per la sfera eticamente sensibile dalla citata Convenzione di Oviedo, ratificata con legge n. 145 del 2001 nonché in ordine alla definizione dei limiti per l’utilizzazione a fini scientifici e dell’uso in ambito medico e farmacologico la Direttiva 2001/83/Ce; il Reg. n. 726/2004 modificati mediante il Reg. Ce 1349 del 2007.

[23] Sinteticamente riprodotta nella nota 7.

[24] Anche su questi profili l’ambito dell’autodeterminazione è stato ampliato da Corte cost. n. 151 del 2009, su cui vedi nota 7.

[25] Sentenza del 10/4/2007 N. Evans c. UK.

[26] In www.biodiritto.org.

[27] In ordine all’assenza di pregiudizio ravvisabile in astratto per il minore che coabiti con la madre e la sua compagna vedi Cass. n. 601 del 2013 in www.italgiuregiustizia.it.

[28] Tribunale di Bologna, 31 maggio 2012, Foro italiano, 2012, I, pp. 3349 ss., con nota di Geremia Casaburi; Tribunale di Bologna, 16 gennaio 2015 (ordinanza), con nota di Antonio Scalera, in www.quotidianogiuridico.it.

[29] L’adozione piena è consentita in quattordici stati (Belgio, Spagna, Peesi Bassi,Portogallo, Francia, Lussemburgo, Regno Unito, Irlanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Irlanda, Malta, Austria. In Germania è consentita l’adozione del figlio del partner così come in Croazia, Estonia e Slovenia.

[30] In Italia salì agli onori della cronaca l’ordinanza del Tribunale di Roma 14/2/2000 che consenti la gestazione eseguita dalla sorella della madre genetica. L’ordinanza può essere consultata in www.diritto.it/sentenzemagistratoord/roma14/2/2000. Di recente la corte di Cassazione ha affrontato il tema della liceità della surrogazione di maternità mediante gestazione per altri, sia in sede civile con la pronuncia n. 24001 del 2014, sia in sede penale con la sentenza n. 13525 del 2016. Nella prima pronuncia, si è ritenuto di non poter riconoscere un atto di nascita ucraino (Stato nel quale è consentita tale forma di p.m.a. solo per coppie eterosessuali) perché la surrogazione di maternità mediante gestazione (nella specie onerosa) di terzi è contraria ai nostri principi di ordine pubblico in tema di determinazione della maternità (art. 269 terzo comma, cod. civ.) ed in particolare al divieto penalmente sanzionato previsto dalla legge n. 40 del 2004. Nella seconda sentenza, si è esclusa invece la rilevanza penale del ricorso alla gestazione per altri sia in ordine ai divieti contenuti nell’art. 12, comma sesto della l. n. 40 del 2004 che in ordine ai reati di falso in atto pubblico e false generalità, ritenendo centrale la circostanza che vi fosse un legame genetico del nato con uno dei imputati.

[31] In Italia ed in Francia coincidenti con l’iter di approvazione rispettivamente della legge sulle Unioni civili (n. 76 del.20.5.2016) e quella sul matrimonio tra persone dello stesso sesso.

[32] Molto interesse è stato rivolto alla Thailandia che, però, di recente ha introdotto una legge fortemente restrittiva, vietando alle coppie straniere l’accesso alla pratica e consentendo soltanto alle donne che abbiano compiuto 25 anni di prestarsi alla gestazione ma senza alcun corrispettivo e con il consenso del marito. La restrizione è conseguita in particolare allo scalpore destato dall’abbandono di una bambina down da parte della coppia, eterosessuale, committente australiana. In India dove la surrogazione di maternità non è consentita per coppie omosessuali e singles, si sta procedendo ad analogo giro di vite: divieto per le coppie straniere, divieto per lo sfruttamento commerciale della pratica, forti limitazioni per l’accesso.

[33] La netta contrarietà alla surrogazione di maternità ha avuto, di recente, il consenso di sigle politiche quali se non ora quando fortemente caratterizzate in senso femminista, così come la contrarietà all’omogenitorialità maschile propugnati da ambienti filosofico-culturali da sempre collegati al pensiero della differenza di genere. Si richiama l’intervista rilasciato al quotidiano Avvenire da Luisa Muraro - Utero in affitto mercato delle donne per una sintesi delle argomentazioni proprie di questo contesto culturale, in www.avvenire.it.

[34] È sufficiente richiamare le sentenze n. 138 del 2010 e 174 del 2014 della Corte costituzionale in www.cortecostituzionale.it e la sentenza della Corte di cassazione n. 4184 del 2012, in Giurisprudenza Costituzionale, 2012, 1498.

[35] Per usare il termine mutuato dall’art. 2 Cost, ed adottato dal legislatore, nell’art. 1 della l. n. 76 del 2016 per marcare la differenza tra le unioni civili e il matrimonio, sottovalutando tuttavia la portata espansiva del richiamo agli artt. 2 e 3 Cost.

[36] Unico modello di unione normata nel nostro ordinamento prima della l. n. 76 del 2016.

[37] Come efficacemente affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 185 del 1986 con riferimento a tale tipologia dei diritti.

[38] La giurisprudenza di legittimità, anche prima della legge, aveva sempre escluso la legittimità dell’unione matrimoniale tra persone dello stesso sesso, sia con riferimento a matrimoni contratti all’estero (sentenza n. 4184 del 2012) sia con riferimento alla richiesta di contrarre matrimonio direttamente in Italia (Cass. 2400 del 2015 in www.italgiuregiustizia.it).

[39] Pubblicata in QuestioneGiustizia on line, www.questionegiustizia.it/articolo/stepchild-adoption_via-libera-della-cassazione_la-sentenza_22-06-2016.php; v. anche commento di S. Celentano in QuestioneGiustizia on line, www.questionegiustizia.it/articolo/non-piu-figli-di-un-diritto-minore_30-06-2016.php.

[40] In particolare è stata constatata l’impossibilità di diritto dell’affidamento preadottivo, del tutto da escludersi in una minore legalmente riconosciuta ex art. 269, terzo comma, cod. civ. dalla madre, compagna della ricorrente.