Magistratura democratica

Ordinamento, associazionismo, correnti: impressioni di un magistrato ordinario in tirocinio

di Tommaso Giovannetti

C’è una parola che descrive bene il rapporto tra il magistrato ordinario in tirocinio e tutto ciò che riguarda l’ordinamento giudiziario, il mondo dell’associazionismo ed il fenomeno delle correnti: distanza.

Distanza da alcuni poi coltivata come un bene da preservare; da altri vista come un vuoto da colmare; da altri ancora vissuta con sostanziale indifferenza. Generale è, comunque, nei nuovi magistrati il genuino desiderio di imparare e di formarsi professionalmente, sia pure con attenzione quasi esclusiva agli aspetti tecnico-giuridici della formazione e con assai scarso interesse per le implicazioni del quadro ordinamentale in cui il magistrato si colloca.

Per sollecitare il loro interesse su quest’ultimo versante, potrebbe essere preziosa la partecipazione ai momenti di discussione che si svolgono nell’ambito dei gruppi associativi, come l’autore ha avuto modo di sperimentare di persona avvicinandosi a uno di essi.

1. Nelle righe che seguono cercherò di offrire il punto di vista di un magistrato ordinario in tirocinio (per brevità, Mot) rispetto alle tematiche dell’ordinamento giudiziario, dell’associazionismo giudiziario e delle correnti. Si tratta, evidentemente, di considerazioni svolte a titolo del tutto personale, che non pretendono in alcun modo di rappresentare il pensiero generale dei miei colleghi. Tale premessa – per quanto ovvia – mi pare nondimeno doverosa, non solo perché il mondo dei Mot è caratterizzato da quella eterogeneità di sensibilità e di pensiero che deriva (ed è costituzionalmente garantita) dal sistema di selezione attraverso il concorso pubblico, ma anche perché la ormai quasi decennale vigenza di un sistema di accesso alla magistratura che prevede, quale condizione per la partecipazione al concorso, il possesso di requisiti ulteriori rispetto alla laurea in giurisprudenza ha presumibilmente contribuito ad arricchire e consolidare sensibilità e pensieri, appunto, diversi. In altre parole, il fatto che ciascuno dei nuovi magistrati abbia necessariamente vissuto, prima di entrare in magistratura, esperienze professionali variegate nell’ambito dell’avvocatura, della pubblica amministrazione, della formazione universitaria e post-universitaria amplifica, in qualche modo, quel tasso di eterogeneità che è naturalmente proprio della vasta popolazione concorsuale, rendendo impossibile – oltre che non corretto – pretendere di generalizzare impressioni e riflessioni che appartengono al singolo.

Le brevi considerazioni che, in modo più alluvionale che sistematico, cercherò di svolgere scontano quindi una “parzialità” che, nel mio caso, è alimentata dalle precedenti esperienze universitarie nel campo del diritto costituzionale, settore – come noto – particolarmente sensibile alle tematiche dell’ordinamento giudiziario. Allo stesso tempo tenterò – con gli inevitabili margini di errore che ogni forma di generalizzazione comporta – di descrivere quelle che a me sono parse essere le impressioni generali e le riflessioni diffuse tra i miei colleghi sui temi, appunto, dell’ordinamento, dell’associazionismo e delle correnti. Nel corso dei diciotto mesi di formazione appena conclusi non sono, in effetti, mancati momenti di confronto su queste tematiche, tanto nel corso del quotidiano svolgimento del tirocinio negli uffici giudiziari, quanto in occasione delle settimane di formazione presso la Scuola superiore di Scandicci.

 

 

2. C’è una parola che, a mio avviso, descrive sinteticamente e brutalmente il rapporto tra il magistrato ordinario in tirocinio e tutto ciò che riguarda l’ordinamento giudiziario, il mondo dell’associazionismo ed il fenomeno delle correnti nel momento in cui il Mot fa il suo ingresso in magistratura: distanza.

Il dato in sé, nella sua cruda oggettività, non dovrebbe stupire.

Il vincitore di concorso, smaltita l’euforia per il successo conseguito, entra in un mondo che gli è, di fatto, sostanzialmente ignoto.

In primo luogo, il Mot non si è mai, o quasi mai, confrontato direttamente con le questioni relative all’ordinamento giudiziario, nell’immaginario collettivo tendenzialmente (e nella migliore delle ipotesi) percepito solo come “una” delle diciassette materie da studiare per l’orale, e più frequentemente considerato come “la diciassettesima materia”, al pari dell’informatica giuridica. Percezione che – sia detto per inciso – appare invero confortata dall’atteggiamento dello stesso legislatore, che ha collocato gli “elementi di ordinamento giudiziario” nella penultima posizione dell’elenco delle materie oggetto dell’esame orale, al pari, appunto, degli elementi di informatica giuridica ed appena prima dell’ultima e – con approccio tipicamente italico – bistrattata lingua straniera. Per quanto non esplicitato, appare infatti evidente che il criterio ordinatorio seguito dall’art. 2 del dlgs 160 del 2006 risulta fondato su un’implicita valutazione dell’importanza relativa delle materie ivi indicate, e sembra quantomeno singolare che l’ordinamento giudiziario, anziché essere combinato, ratione materiae, con il diritto costituzionale, sia destinato ad affiancare, in base ad un irrintracciabile fil rouge, l’informatica giuridica. Se certo non si può pretendere da coloro che stanno per fare il loro ingresso nel mondo della magistratura una conoscenza puntuale delle norme ordinamentali che ne regolano il funzionamento, sarebbe forse opportuna una rivalutazione di una materia che contribuisce a disegnare i contorni della funzione che auspicabilmente si andrà a svolgere e che offre non secondari elementi di riflessione sul ruolo del magistrato e sulla posizione della magistratura all’interno dell’ordinamento statale.

Ad ogni modo, se la conoscenza che il Mot ha dell’ordinamento giudiziario è essenzialmente ridotta a quel poco che risulta da un sommario studio delle carte in vista dell’esame orale, credo possa dirsi che la percezione che i neo-magistrati hanno dell’associazionismo e, soprattutto, delle correnti sia ancor più frammentaria ed episodica.

Provo a spiegarmi meglio.

Che l’Anm esista è senz’altro noto ad ogni neo-magistrato: cosa davvero sia, come funzioni, quali compiti si prefigga e quali strumenti utilizzi per perseguire tali scopi credo sia ignoto alla larghissima maggioranza – per non dire la quasi totalità – dei magistrati in tirocinio. Dell’Anm si conosce, in linea di massima, quello che si legge sui giornali o che si ascolta nei telegiornali. Non credo di essere troppo lontano dal vero se dico che quasi nessun neo-magistrato ha mai avuto modo di leggere direttamente un comunicato della Giunta, un parere su riforme legislative approvate dal Parlamento, le osservazioni formulate dalle Commissioni di studio dell’Associazione nella fase della gestazione della legge o la trascrizione delle audizioni dei rappresentanti dell’Anm nelle commissioni parlamentari. Pochi, credo, sono i giovani neo-magistrati che conoscono il codice etico adottato dall’Associazione.

In una parola, la fonte di conoscenza primaria, e nella maggior parte dei casi esclusiva, dell’impegno dell’Associazione nazionale magistrati è quella giornalistica, la quale ultima – anche nei casi in cui l’attività di informazione sia svolta nel modo più serio e completo – certo non può bastare a dare una visione a tutto tondo della realtà e della complessità del fenomeno associativo.

Discorso sostanzialmente analogo credo possa farsi con riferimento alle correnti. In questo caso, anzi, esso potrebbe essere ancor più radicalizzato. In altre parole, mi pare di poter dire che la conoscenza che i neo-magistrati hanno del fenomeno delle correnti sia ancor più lacunosa di quella che essi hanno dell’attività dell’Anm. In generale, e salvo le eccezioni che certamente esistono, al momento dell’ingresso in magistratura solo approssimativamente si conoscono le singole correnti, la loro storia, le loro caratteristiche e financo le loro denominazioni. Si ha una percezione vaga dell’esistenza del fenomeno, mediata essenzialmente dalle non sempre edificanti rappresentazioni che di esso danno gli organi dell’informazione. È ovvio come rispetto a tali rappresentazioni il neo-magistrato non abbia a disposizione strumenti conoscitivi alternativi attraverso cui potersi costruire una visione (fosse anche solo parzialmente) diversa o concorrente, a meno che non abbia coltivato, per ragioni contingenti e personali, un interesse specifico in proposito.

 

 

3. La condizione di oggettiva distanza e tendenziale estraneità del Mot, prima di entrare in magistratura, rispetto alle tematiche dell’ordinamento, e più ancora del fenomeno associativo in generale e delle correnti in particolare mi pare, in sostanza, un dato oggettivo in principio ineliminabile ed in larga misura comprensibile. Si tratta, quindi, di capire che cosa avviene una volta superata la soglia del concorso.

È ovvio che ciascun neo-magistrato, affacciatosi nel suo nuovo mondo professionale, declina questo dato oggettivo in modo diverso. Da questo punto di vita, mi pare di poter dire che i modi di vivere l’evocata, iniziale distanza siano riconducibili a tre tipologie di approccio e di comportamento: a coloro che “coltivano” questa distanza come un bene si contrappongono coloro che detta distanza cercano di ridurre e di colmare, ed a queste due condizioni “estreme” si affianca quella di quanti sembrano mostrare una sostanziale indifferenza rispetto ad essa.

Non avendo a disposizione nessun dato statistico derivante da indagini sistematiche o a campione, mi pare di poter dire che l’atteggiamento più diffuso tra i miei colleghi sia, soprattutto con riferimento alle questioni ordinamentali e all’attività dell’Anm, quello di una generica indifferenza, alla quale non è del tutto estranea una venatura di sospetto e diffidenza quando il discorso lambisce il tema delle correnti.

Non è questa la sede, né pretendo di avere gli strumenti, conoscitivi e di esperienza concreta, per spiegare le origini di questa indifferenza/diffidenza, e tantomeno sono in grado di dire se si tratti di un dato tradizionalmente proprio dei neo-magistrati di ogni periodo storico o costituisca, viceversa, un elemento nuovo, o quantomeno più diffuso rispetto al passato, e caratteristico delle nuove generazioni di giudici. A titolo meramente ipotetico, si potrebbe pensare che i giovani che fanno oggi il loro ingresso nel mondo giudiziario si sono formati in un contesto ed in un momento storico – tra la seconda metà degli anni novanta ed il primo decennio del nuovo millennio – in cui si è sempre più apertamente manifestato nella società un distacco crescente nei confronti degli organi e degli istituti rappresentativi e una contestazione sempre più accentuata della politica e di tutto ciò che ad essa è più o meno confusamente riconducibile. In una situazione generale di questo tipo, la prevalente rappresentazione giornalistica che vede nelle correnti i “partiti dei magistrati”, dediti esclusivamente alla spartizione degli incarichi ed alla gestione delle posizioni di potere, e che raffigura l’Anm come il “sindacato dei giudici”, attestato su posizioni di difesa corporativa degli associati, contribuisce probabilmente a consolidare un certo disincanto e/o disinteresse nei confronti di una porzione del mondo (professionale) nel quale si è appena entrati.

Comunque lo si voglia connotare, questo atteggiamento di tendenziale indifferenza appare fortemente contrastante con il generale entusiasmo ed il sincero desiderio di imparare che sono propri della totalità dei neo-magistrati. Sembra, cioè, che tutte le energie dei Mot risultino convogliate lungo i binari dell’apprendimento del mestiere, inteso come acquisizione degli strumenti che consentano loro – assieme al patrimonio di conoscenze teoriche acquisito nel più o meno lungo periodo di studio e di preparazione al concorso – di affrontare nel miglior modo possibile le difficoltà del nuovo lavoro.

Che questa sia l’idea più diffusa tra i Mot mi pare ricavabile da un duplice dato.

Il primo riguarda la diffusa convinzione – diffusa quantomeno all’inizio del tirocinio, e forse parzialmente erosa dall’esperienza concreta delle settimane fiorentine – per cui l’attività più proficua e utile – ma potrei dire l’unica attività proficua ed utile – sia quella svolta negli uffici giudiziari a fianco dell’affidatario, mentre con un certo scetticismo e freddezza sono visti i periodi di formazione presso la Scuola superiore.

Il secondo concerne il modo con cui sono state percepite e affrontate proprio quelle sessioni di formazione dedicate a questioni apparentemente “generali” e “lontane” dall’esercizio quotidiano della giurisdizione come quelle che hanno avuto ad oggetto una riflessione sul ruolo del giudice e sulla posizione, sulle responsabilità e sulla funzione della magistratura nel quadro complessivo dell’ordinamento costituzionale.

La mia personale – e fallibile – percezione delle impressioni diffuse tra i miei colleghi mi conduce a ritenere che si sia trattato di incontri caratterizzati da una partecipazione molto meno attenta e attiva al dibattito rispetto a quanto avvenuto in occasione delle sessioni dedicate a temi di diritto processuale e sostanziale. In altre parole, la sensazione che mi è capitato di provare è che, in generale, la fortissima (e doverosa) cura degli aspetti tecnici della preparazione individuale non sia sempre accompagnata da un altrettanto vivo interesse nei confronti dei meccanismi e delle dinamiche del quadro ordinamentale in cui il magistrato si muove.

Devo precisare che questo non significa che nelle occasioni di formazione presso la Scuola superiore o in quelle di formazione decentrata – la mia esperienza diretta è quella della Corte di appello di Roma – non siano mancati i richiami al senso globale del mestiere di magistrato: spesso è, infatti, capitato che, con parole efficaci e dirette, siamo stati chiamati a riflettere sul significato del lavoro del giudice, sulla responsabilità che grava su ciascuno di noi nello svolgimento quotidiano delle nostre funzioni, sul peso che le nostre decisioni in diritto hanno sulla vita concreta delle persone.

Non dubito che i miei colleghi siano pienamente consapevoli di questo, e del fatto che il lavoro di magistrato debba essere concepito e vissuto come svolgimento di un servizio e non come esercizio di un potere[1]. Tuttavia, muovendo i primi passi dentro questo mestiere credo di aver iniziato a mettere a fuoco qualcosa che prima restava sullo sfondo, vale a dire la consapevolezza che per fare al meglio il proprio lavoro individuale non è sufficiente una solida preparazione tecnico-giuridica, né può bastare quella dedizione che il Csm ha declinato nei bei noti parametri dell’impegno, della laboriosità, della diligenza e dell’equilibrio, ma serve qualcosa di più: in una parola, è necessario che il sistema nel quale il singolo opera garantisca la possibilità di svolgere al meglio le proprie funzioni e la certezza che il frutto del suo lavoro non sia posto nel nulla.

Nel mio caso, alla maturazione di questa consapevolezza ha contribuito anche l’avvicinamento all’associazionismo giudiziario.

 

 

4. Sul punto, devo premettere che la mia esperienza personale è stata quella di un volontario avvicinamento a Magistratura democratica, determinato dal desiderio – e diciamo pure da una certa curiosità – di conoscere dall’interno un’esperienza culturale e giuridica con la quale ero venuto episodicamente a contatto nella mia precedente attività universitaria. Da questo punto di vista il mio caso risulta, forse, tutt’altro che emblematico. Ciò che è certo è che questo desiderio di capire cosa sia davvero una “corrente” – quantomeno la corrente di Md - è stato da me condiviso con non più di due colleghi di concorso appartenenti alla Corte di appello di Roma: non so dire quanti dei restanti ottanta colleghi Mot si siano avvicinati alle altre correnti.

Le mie prime partecipazioni alle riunioni hanno coinciso non solo con le ultime settimane di campagna elettorale in vista delle imminenti elezioni per il Csm, ma anche – e forse soprattutto – con le fasi immediatamente precedenti alla nascita “istituzionale” di Area. Senza entrare nel merito degli argomenti affrontati nelle singole riunioni, ciò che posso dire di aver tratto da esse è proprio la percezione diretta della complessità del mestiere di magistrato, del suo essere fatto di impegno individuale nel quotidiano esercizio della giurisdizione e di partecipazione (vorrei dire) “dal basso” al governo autonomo della magistratura. Detto altrimenti, assistere al dialogo e al confronto di idee tra i magistrati presenti alle riunioni di “corrente” o di “movimento”[2] mi ha dato la misura concreta della compenetrazione tra la dimensione individuale del lavoro e la dimensione collettiva dell’impegno condiviso nella garanzia (e nella costruzione) delle condizioni attraverso le quali rendere possibile un migliore esercizio della giurisdizione. Da queste riunioni sono, insomma, uscito con la convinzione che il magistrato che si dedichi in via esclusiva e totalizzante alla gestione del proprio ruolo fa soltanto una parte del suo lavoro, una parte – ovviamente – fondamentale e per certi versi primaria, ma non esaustiva della funzione che gli è attribuita.

La compenetrazione tra dimensione individuale e dimensione collettiva mi pare, d’altra parte, iscritta nelle stesse fondamenta dell’assetto costituzionale della magistratura ed in qualche modo imposta dal costituente ai componenti dell’ordinamento giudiziario, laddove si è voluto riservare ad un organo formato per 2/3 da togati il compito di regolare i molteplici aspetti della vita professionale del magistrato e l’onere di garantire l’indipendenza interna ed esterna del suo agire: se nessun dubbio può esserci sul fatto che il governo autonomo rappresenti forma e strumento di garanzia dell’indipendenza della magistratura dagli altri poteri dello Stato, mi pare che con tale condivisibile e lungimirante scelta il costituente abbia in qualche modo anche reclamato dal singolo magistrato un impegno in tal senso.

È stato, quindi, anche grazie alle riflessioni svolte nel corso di queste riunioni che mi è apparsa più chiara la necessità che il circuito complessivo dell’autogoverno sia in grado – ed abbia il coraggio – di stigmatizzare comportamenti di singoli che non rispondono alle esigenze di equilibrio, laboriosità e professionalità necessarie per lo svolgimento del servizio della giurisdizione; ed è stato nel corso di questi incontri che ho cominciato a percepire cosa significhi, e quanto serva, un ente rappresentativo della categoria che sia in grado di coniugare la funzione di tutela delle aspettative della magistratura con quella di laboratorio di proposte e di idee da presentare al circuito istituzionale nell’ottica del miglioramento delle condizioni della giurisdizione.

 

 

5. Le considerazioni sin qui abbozzate mi portano a svolgere una banale riflessione conclusiva: se il periodo di tirocinio è concepito come un lungo momento di formazione del neo-magistrato durante il quale questi deve – nei limiti del possibile – acquisire la capacità di usare gli strumenti del mestiere e capire quali difficoltà lo aspettano e quali mezzi ha a disposizione per affrontarle in concreto, lo spazio dato a quella dimensione complessa della professione di magistrato consistente nella sua partecipazione (verrebbe da dire “costituzionalmente imposta”) al governo autonomo è risultato del tutto marginale.

La mia esperienza personale è stata quella – invero assai fortunata – di trovare prima di tutto nei miei affidatari la disponibilità e la voglia di affrontare anche le questioni dell’ordinamento e dell’associazionismo, nonché di indicarmi la strada e le occasioni per approfondirli: ma si tratta, appunto, di un’esperienza del tutto personale, che se trova riscontro in quella di altri miei colleghi, certo non può dirsi generalizzata. Si tratterebbe, forse, allora, di prevedere più frequenti e dirette occasioni di confronto sulle tematiche dell’amministrazione della giurisdizione nelle quali coinvolgere in modo più strutturato i neo-magistrati.

Ad onor del vero, la Scuola superiore della magistratura ha effettuato qualche embrionale tentativo in tal senso, con gli esiti non del tutto confortanti cui ho fatto sinteticamente riferimento in precedenza.

L’Anm, dal canto suo, ha organizzato – quantomeno nella sezione romana – un incontro di presentazione dei suoi componenti e della sua attività, nonché una iniziativa di apertura dei tribunali agli studenti delle scuole medie superiori nelle quale ha coinvolto – direi con discreto successo – i magistrati ordinari in tirocinio. Queste giuste e apprezzate iniziative potrebbero essere accompagnate da ulteriori forme di coinvolgimento. Per fare soltanto un banalissimo esempio, “istituzionalizzare”, in qualche modo, l’iscrizione del magistrato in tirocinio nella mailing list dell’Associazione – fatto salvo, naturalmente, il diritto di non acconsentire all’inserimento del proprio indirizzo – potrebbe rappresentare un utile canale di diffusione tra i neo-magistrati del contenuto dell’attività dell’Anm e un modo per far conoscere ai nuovi giudici l’ampiezza – ed in certi casi la durezza – del dibattito che si sviluppa tra le varie anime della magistratura sui temi del governo autonomo e non solo.

Con riferimento alle correnti, a quanto mi consta i primi contatti tra queste – o quantomeno tra alcune di esse – ed i Mot sono consistiti nell’organizzazione di incontri specificamente dedicati alle tematiche presumibilmente di interesse dei neo-magistrati, dapprima nell’imminenza della scelta delle sedi e delle funzioni e, successivamente, in prossimità del conferimento di queste.

Si tratta certamente di iniziative condivisibili e apprezzate, ma forse, anche su questo fronte, si potrebbe osare qualcosa di più.

Per combattere quella sensazione di diffidenza di cui ho parlato e, insieme, evitare che il primo ed esclusivo contatto tra il neo-magistrato e le correnti si riduca ad un’attività di mero ausilio nel trovare soluzioni immediate ai problemi che il singolo di volta in volta si trova di fronte – nel caso dei Mot, appunto, la scelta della sede e la presa di funzioni –, si potrebbero immaginare e praticare forme di coinvolgimento aperto e trasparente dei nuovi magistrati su tutte le questioni che riguardano la magistratura, l’ordinamento e l’autogoverno.

In altre parole, per sgombrare il campo dal rischio (e dall’equivoco) che la corrente sia percepita dai nuovi magistrati solo come un soggetto cui rivolgersi nel momento del bisogno – a meno che, ovviamente, a questa logica non si intenda limitare il senso di essa – sarebbe probabilmente opportuno offrire a tutti i Mot, attraverso canali di comunicazione trasparenti e diretti, la possibilità e l’occasione di sperimentare in prima persona il funzionamento di ciascuna corrente, e il senso della sua attività.

Mi rendo conto che il crinale è scivoloso, e che rivolgere ai neo-magistrati un invito a partecipare ad una riunione di corrente o ad essere iscritto nella relativa mailing list possa prestare il fianco a critiche e sospetti di porre in essere tentativi di cooptazione o proselitismo. Ma la logica da seguire sarebbe tutt’altra, trattandosi piuttosto di creare occasioni per far maturare in coloro che si affacciano in una realtà sconosciuta la consapevolezza della complessità del sistema di cui si è parte e dare a tutti la sensazione (e la possibilità) di contribuire a migliorarlo. Ciascuno sceglierà la propria strada o non ne sceglierà nessuna, ma lo farà avendo avuto la possibilità concreta di farsi un’idea autonoma fondata su un’esperienza diretta.

 

 

6. Da ultimo, solo poche battute sulla Scuola superiore della magistratura. Ormai da qualche anno essa costituisce una parte quantitativamente importante del primo contatto del neo-magistrato con il mondo giudiziario. Una porzione non marginale – in termini prima di tutto temporali – della formazione iniziale si svolge nelle aule di Scandicci. Non credo di sbagliarmi se dico che essa è vista con scetticismo e diffidenza da una parte considerevole dei magistrati che lavorano negli uffici giudiziari presso i quali i Mot svolgono il tirocinio, scetticismo che talvolta diventa critica aperta e incondizionata ad un’istituzione che – si ritiene – allontana i giovani dall’attività quotidiana dell’ufficio per somministrare loro un inutile supplemento di nozioni, a chilometri di distanza dall’unico luogo in cui si impara il mestiere di magistrato, vale a dire il tribunale. Una parte considerevole dei miei colleghi ha iniziato l’esperienza del tirocinio con una convinzione – mi è parso – analoga.

La mia opinione è assai diversa, e credo che almeno alcuni dei miei colleghi inizialmente più scettici abbiano, col tempo, cambiato idea. Non è questa la sede, né è mio compito, scandagliare pregi e difetti della Scuola e dell’attività che essa cura. Né si può negare che tale attività sia tuttora suscettibile di miglioramenti. Ma nell’economia delle considerazioni che ho confusamente cercato di svolgere, un elemento mi preme evidenziare: l’esperienza delle settimane vissute alla Scuola, dalle sessioni di formazione in plenaria alle riunioni nei gruppi di lavoro più ristretti, passando attraverso le pause tra le une e le altre, hanno costituito non soltanto un’occasione unica di arricchimento e di apprendimento attraverso il confronto e la condivisione critica delle esperienze che ciascuno di noi ha progressivamente maturato negli uffici di provenienza, ma sono state anche un modo per sperimentare in concreto il valore insostituibile del dialogo diretto con i colleghi su tutte le questioni che riguardano il lavoro di magistrato. Una formazione iniziale che passi anche attraverso momenti di confronto a più voci, fuori dai confini del proprio ufficio giudiziario, mi pare una strada quanto mai opportuna, e giusta, per trasmettere ai giovani magistrati la misura della complessità del proprio mestiere e per farli crescere professionalmente nella consapevolezza che ciascuno può dare il proprio contributo al miglioramento del servizio che ogni magistrato è chiamato a svolgere.

[1] Che questo debba essere il senso più profondo del lavoro di magistrato mi pare sia efficacemente sintetizzato nelle parole che Guido Galli scrisse nel 1957 in una lettera indirizzata al padre: «Perché vedi, papà, io non ho mai pensato ai grandi clienti o alle belle sentenze o ai libri: io ho pensato, soprattutto, e ti prego di credere che dico la verità come forse non l’ho mai detta in vita mia, a un mestiere che potesse darmi la grande soddisfazione di fare qualcosa per gli altri».

[2] Se “Area” appartenga alla prima o alla seconda categoria non mi è ancora del tutto chiaro, ma forse è ancora troppo presto per dirlo (ammesso che ad una definizione sia necessario arrivare).