Magistratura democratica

Associazionismo dei magistrati e democratizzazione dell’ordine giudiziario

di Luigi Ferrajoli

L’associazionismo giudiziario è stato un potente fattore di cambiamento e di democratizzazione della magistratura, secondo il disegno del Costituente: all’interno di essa, con il superamento della gerarchia e l’affermazione dell’eguaglianza di tutti i magistrati, distinti soltanto per le loro funzioni, e, all’esterno, con l’impegno civile dei magistrati per l’inveramento dei valori costituzionali, in cui si è specialmente distinta Magistratura democratica. La quale deve sapersi liberare con decisione della minaccia all’uguaglianza, e quindi all’indipendenza interna, costituita dalle varie forme di riemergente carrierismo, che non l’hanno risparmiata, e deve svolgere il suo ruolo storico di contrasto dei plurimi rischi di involuzione della magistratura: da quello burocratico, a quello “bellicista”, a quello neocorporativo.

1. L’associazionismo giudiziario secondo Vittorio Emanuele Orlando

La migliore risposta alla domanda con la quale è intitolata questa nostra sessione del XX Congresso di Md dedicata all’associazionismo dei magistrati – «a che cosa serve l’associazionismo giudiziario» – è stata data, oltre un secolo fa, dalla critica severa ad esso rivolta dal più illustre giurista dell’epoca, Vittorio Emanuele Orlando. Era il 23 agosto 1909, poco più di due mesi dopo la nascita dell’Associazione generale dei magistrati d’Italia (l’AGMI), istituita a Milano da un’assemblea di 44 magistrati svoltasi il 13 giugno 1909. Vittorio Emanuele Orlando, già allora padre riconosciuto del diritto pubblico italiano, era il Ministro della giustizia, omonimo dell’attuale ministro. Intervistato dal Corriere d’Italia sull’appena nata Associazione generale dei magistrati[1], denunciava, pur con toni bonari e paternalistici, due pericoli inevitabilmente intrinseci, diceva, all’associazionismo dei giudici, che si riveleranno invece, come mostrerò, due potenti fattori di democratizzazione della magistratura.

Il primo pericolo, affermava Orlando, è legato all’egualitarismo nei rapporti tra associati, che è un inevitabile portato di qualunque associazione e che contraddice la struttura gerarchica dell’ordine giudiziario: «la magistratura italiana ha una costituzione rigorosamente gerarchica», egli dichiarava; di più, «la gerarchia ne costituisce l’essenza», che è destinata ad essere minata dai rapporti tra uguali che sono propri di qualunque associazione. Basti pensare allo «scandalo», aggiungeva, di «una discussione da pari a pari, con quella vivacità che contraddistingue il nostro temperamento latino, fra un uditore ed un primo presidente di cassazione» che «difficilmente si può credere che non danneggi la dignità e l’autorità di quest’ultimo».

Il secondo, non meno grave pericolo, dichiarava il ministro Orlando, è costituito dall’inevitabile «combattività» che forma un tratto distintivo di qualunque «fenomeno associativo». È infatti «difficile», diceva, «disunire il concetto di associazione dal concetto di lotta»; che è anch’esso un elemento, secondo la visione di Orlando, che contraddice, ancor più dell’egualitarismo, la natura ed il ruolo del magistrato, il quale deve restare separato dalla società, tenersi fuori da qualunque dibattito, anche sulla giustizia, e rinunciare a qualunque forma di critica o rivendicazione che ne comprometterebbe l’immagine montesquieviana di fredda e inanimata bocca della legge.

Ebbene, Vittorio Emanuele Orlando aveva perfettamente ragione, sotto entrambi gli aspetti dell’associazionismo da lui segnalati e paventati come pericoli; pericoli a tal punto intollerabili per il potere politico che l’Associazione generale dei magistrati fu sciolta il 21 dicembre 1925, simultaneamente all’espulsione dalla magistratura dei suoi dirigenti a causa del loro «ndirizzo antistatale», in realtà antifascista, «sovvertitore della disciplina e della dignità dell’ordine giudiziario» [2].

Orlando aveva anzitutto ragione nel ritenere che l’associazionismo giudiziario avrebbe promosso, nella cultura dei giudici, il principio dell’uguaglianza dei magistrati: un principio che Orlando considerava un disvalore e che invece è stato consacrato come un valore e come un tratto distintivo dell’ordine giudiziario dalla Costituzione repubblicana, secondo la quale «i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni». Ma aveva ragione anche riguardo al secondo aspetto dell’associazionismo giudiziario da lui paventato: quello della vocazione delle associazioni in quanto tali alle battaglie civili. L’associazionismo, infatti, è un fenomeno collettivo che sempre comporta lo sviluppo di una soggettività collettiva, dotata di una propria identità, di un proprio sistema di valori, di una propria ragion d’essere e perciò, inevitabilmente, incline a lottare in difesa di quei valori e dei principi programmatici che ne conseguono.

Ma la cosa per noi più interessante e sulla quale soprattutto dobbiamo riflettere è che sono precisamente quei due aspetti dell’associazionismo paventati più di un secolo fa da Vittorio Emanuele Orlando che hanno contraddistinto per oltre un secolo l’azione dell’Associazione nazionale dei magistrati italiani e, soprattutto, il ruolo svolto per oltre mezzo secolo da Magistratura democratica nella democratizzazione dell’ordine giudiziario. Quei due aspetti rappresentano tuttora, a me pare, la ragion d’essere di Md, anzi dell’associazionismo giudiziario in quanto tale, non a caso guardato sempre, e ancor oggi, con fastidio e diffidenza dal potere politico. Entrambi preoccupavano Orlando perché in contraddizione con il vecchio assetto della magistratura. Ma fu proprio quell’assetto che contestammo radicalmente, alle origini di Md, in nome dei valori di rango costituzionale che quei due aspetti dell’associazionismo hanno in tutti questi anni garantito e rafforzato. Esaminiamoli dunque separatamente quei due aspetti del fenomeno associativo, tra loro peraltro strettamente connessi.

2. L’uguaglianza dei magistrati. Contro le carriere e il carrierismo

Innanzitutto l’uguaglianza dei magistrati. Quell’uguaglianza tra magistrati fu l’acquisizione culturale più importante e il frutto istituzionale più rilevante delle lotte di Magistratura democratica negli anni Sessanta e Settanta. Ricordo le battaglie di quegli anni contro gli esami di merito interni – dall’esame di aggiunto giudiziario al termine del periodo di uditore, fino ai vari concorsi interni, tutti di fatto gestiti da quella che allora si chiamava l’“alta magistratura” – attraverso i quali si sviluppava la carriera dei magistrati. Ricordo l’uso del “tu” tra colleghi di ogni ordine e livello, dai giovani uditori agli alti magistrati, i dirigenti e i giudici di cassazione, che provocatoriamente cominciammo a praticare fino a instaurarlo come costume da tutti condiviso. Ricordo, infine, le nostre battaglie di quaranta e più anni fa contro qualunque tipo di carriera, contro l’idea stessa che si potesse distinguere tra un’“alta magistratura” e una “bassa magistratura” e perciò contro qualunque tipo di gerarchia: contro quella gerarchia che costituiva, diceva Vittorio Emanuele Orlando, «l’essenza» della vecchia magistratura e che, invece, della nuova figura dei magistrati disegnata dalla Costituzione – tra loro uguali e distinti Èsoltanto per diversità di funzioni«, come dice l’art.107, e «soggetti soltanto alla legge», come dice l’art.101 cpv. della Costituzione – costituisce la negazione.

Non voglio affatto indulgere alla nostalgia nel ricordare quelle lontane battaglie della prima stagione di Md. I tempi sono cambiati, la società italiana è cambiata, sono cambiati il ruolo e il peso della giurisdizione. Ma non dobbiamo dimenticare che ci sono, tra le rivendicazioni di allora di Magistratura democratica, principi e valori che non invecchiano perché sono intrinseci alla giurisdizione; e che è stata la battaglia per la loro affermazione che ha fatto di Md un momento importante nella storia della cultura giuridica italiana e un punto di riferimento, a livello mondiale, per le magistrature progressiste di tantissimi paesi.

Uno di questi valori è per l’appunto il principio costituzionale dell’uguaglianza dei magistrati. Perché, domandiamoci, l’uguaglianza tra magistrati è così importante per la giurisdizione? Perché essa è la principale condizione della loro indipendenza interna, la quale richiede, come ovvio corollario e presupposto, la loro uguaglianza. E l’uguaglianza dei magistrati suppone a sua volta l’esclusione di qualunque tipo di carriera, incompatibile in via di principio con la loro indipendenza. Comporta, secondo una classica formula, che il magistrato sia sine spe et sine metu: che non debba né coltivare speranze di avanzamenti o vantaggi, né temere sanzioni o svantaggi dall’esercizio della giurisdizione.

Orbene, ho l’impressione che questa uguaglianza dei magistrati sia oggi minacciata, insieme all’indipendenza interna, dalle molteplici forme di carriera e di carrierismo che sono state introdotte nel nostro sistema giudiziario, in assenza, forse, di una vera consapevolezza degli effetti nefasti che esse avrebbero prodotto sulla cultura e la mentalità dei giudici, sui loro rapporti all’interno dell’ordine giudiziario e, indirettamente, sulla giurisdizione. Mi riferisco ai pareri espressi dai Consigli giudiziari ai fini delle periodiche valutazioni della professionalità dei magistrati e, in essi, al ruolo decisivo dei capi degli uffici; al conseguente rafforzamento dei poteri dei dirigenti; alla corsa e alla competizione inevitabile e per così dire naturale, una volta abbandonato il criterio dell’anzianità, per l’affidamento degli uffici direttivi; all’energia profusa da molti magistrati nell’accumulazione, nei loro curricula, dei titoli più vari giudicati a tal fine rilevanti.

Tutto questo sta riproducendo, sia pure in forme diverse, le vecchie carriere e la vecchia gerarchia che pensavamo superate, e rischia di far regredire la magistratura italiana alla situazione degli anni cinquanta e sessanta. Molti magistrati vivono il loro ruolo non più sine spe et sine metu, bensì con speranza e timori: con la speranza delle agognate promozioni e con il timore dei giudizi negativi. Ne risulta sminuita, ovviamente, la loro indipendenza, e ne vengono assecondati la competizione e il carrierismo. I controlli di professionalità, soprattutto, finiscono di fatto per risolversi, o comunque per essere intesi – anche a causa dei giudizi indiretti su provvedimenti giudiziari estratti a sorte come campioni, non diversamente da quanto accadeva nei vecchi concorsi interni – in valutazioni dei provvedimenti medesimi, con conseguente incoraggiamento del conformismo e della dipendenza dagli orientamenti giurisprudenziali dominanti. Si capisce, d’altro canto, come questa restaurazione delle carriere e delle gerarchie incida anche sulla natura delle correnti dell’Associazione nazionale magistrati, inclusa Magistratura democratica. Le correnti infatti, a causa della loro rappresentanza nel Csm vengono da molti percepite come centri di potere dai quali attendere ed esigere sostegno o protezione.

Ebbene, a proposito di questa regressione voglio essere molto franco. Magistratura democratica potrà continuare a svolgere il suo ruolo storico di democratizzazione della magistratura, rifondare la deontologia giudiziaria e con essa il senso della giurisdizione, solo se saprà contrastare programmaticamente questa involuzione. A tal fine, a me pare, si richiedono due condizioni: la prima relativa alla politica del gruppo, la seconda alla deontologia dei singoli magistrati.

La prima condizione riguarda la politica culturale e istituzionale di Md. Magistratura democratica, a me pare, dovrebbe sviluppare, anche sulla base di una seria riflessione autocritica su errori del passato, una ferma battaglia contro ogni forma di gerarchia e di carriera.

In primo luogo una battaglia per la soppressione o quanto meno una riforma dei controlli di professionalità. In tanti anni, a quanto mi è stato detto, si contano sulle dita di una mano i magistrati espulsi per inidoneità. Il ruolo principale di tali controlli consiste quindi nella loro rilevanza ai fini delle carriere. E allora sarebbe bene eliminarli, o comunque conservarli ai soli fini del giudizio di inidoneità. Tutti gli altri giudizi[3] dovrebbero, se non soppressi, essere tutti uguali: quali giudizi, appunto, di semplice idoneità. In secondo luogo andrebbe sviluppata una battaglia soprattutto culturale per un forte ridimensionamento, nell’immaginario dei giudici, del prestigio associato alle pur rilevanti funzioni organizzative dei dirigenti degli uffici. Certamente per i giovani giudici della mia generazione era più facile contestare e svalutare le funzioni dirigenti, ricoperte allora da vecchi magistrati reazionari, formatisi in prevalenza durante il fascismo. Ma oggi che quelle funzioni sono almeno in parte ricoperte dai contestatori di allora dovrebbe essere, per costoro, non soltanto facile, ma doveroso negarne ogni aprioristico prestigio e mostrare, con il loro esempio, che non esistono magistrature “alte” né magistrature “basse”.

La seconda condizione è ancor più importante, ed è connessa alla battaglia culturale di cui ho appena parlato. Consiste nello sviluppo di un costume deontologico di rifiuto della carriera, la quale va guardata con distacco e quanto più possibile svalutata. Due anni fa, intervenendo nello scorso congresso di Md, proposi nove regole di deontologia giudiziaria[4]. A quelle nove regole voglio ora aggiungerne una decima: il rifiuto di ogni forma di carrierismo. Dovrebbe diventare una questione di stile il non voler fare carriera: il non abbandonare il ruolo giudicante o requirente in favore di ruoli prevalentemente amministrativi e rappresentativi come sono quelli dei capi degli uffici. Dovrebbe trasformarsi in costume deontologico la non aspirazione a funzioni dirigenti e lo sviluppo di un amor proprio professionale, in forza del quale la massima ambizione di un magistrato dovrebbe consistere essenzialmente nel miglior esercizio del ruolo di garanzia giurisdizionale dei diritti fondamentali delle persone. Dovrebbe risultare più gratificante di qualunque carriera, in altre parole, la prospettiva, per i magistrati, di essere giudicati e ricordati, da quanti hanno avuto ed avranno la ventura di incontrarli – come imputati o come parti offese, come attori o come convenuti, come avvocati, o come periti o come testimoni – per il loro equilibrio, per la loro umanità e per la loro capacità di rendere effettivamente giustizia.

3. Il ruolo dell’associazionismo giudiziario, e in particolare di Md, nelle battaglie civili a sostegno dei valori costituzionali

Vengo così al secondo e forse ancor più importante senso e valore democratico dell’associazionismo dei magistrati: la vocazione, criticata e paventata da Vittorio Emanuele Orlando, alla lotta e all’impegno civile che l’associazionismo inevitabilmente comporta. Indicherò sommariamente quelle che a me sembrano le più rilevanti valenze democratiche di questo impegno collettivo, rivelatesi, fin dalle origini, nell’esperienza della prima Magistratura democratica.

È stato innanzitutto l’associazionismo dei giudici, e soprattutto quello sviluppatosi con particolare passione in Md, che ha prodotto una presa di coscienza collettiva in ordine ai valori costituzionali che la giurisdizione ha il compito di attuare e difendere. È stata l’azione collettiva del gruppo che ha alimentato, e prima ancora reso possibili le sue tante battaglie civili: per la democratizzazione dell’ordine giudiziario, a favore della realizzazione del principio del giudice naturale e a sostegno, nell’esercizio della giurisdizione, dei principi e dei diritti costituzionalmente stabiliti. A sostegno, soprattutto, del valore del principio di uguaglianza, in entrambi i suoi significati, quello formale e quello sostanziale, espressi dai due commi dell’art.3 della nostra Costituzione. È stato grazie alla riflessione collettiva di Magistratura democratica che quel valore dell’uguaglianza è stato preso sul serio, insieme a quello dell’indipendenza, fino a generare la consapevolezza che andava ribaltata la vecchia accusa di politicizzazione nei confronti dei magistrati impegnati nei processi contro i reati dei colletti bianchi, e non più solo in quelli contro i delinquenti di strada: i magistrati, possiamo al contrario ben dire, hanno smesso di essere politicizzati allorquando hanno cominciato ad applicare la legge in maniera uguale nei confronti di tutti, non solo dei deboli ma anche dei potenti.

È infine l’associazionismo dei giudici che rappresenta il principale antidoto contro due tentazioni involutive che sempre minacciano la figura del magistrato. La prima involuzione, cui soprattutto è esposto il giudice isolato, è quella di tipo burocratico, cui corrisponde la figura del giudice burocrate, amante del quieto vivere e delle gerarchie, gravitante di solito nell’area del potere e perciò tendenzialmente debole con i forti e forte con i deboli. È il tipo di giudice che la mia generazione incontrò in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta, ma che anche oggi rischia di riprodursi in quei magistrati il cui orizzonte e le cui ambizioni, proprio a causa del loro isolamento, finiscono per esaurirsi nelle prospettive di carriera.

La seconda involuzione, parimenti favorita dall’assenza del confronto critico di tipo associativo, è quella apparentemente opposta, di tipo bellicista e inquisitorio, del magistrato protagonista e narcisista, spesso alla ricerca della popolarità, che assume se stesso come “potere buono” in lotta contro il male – il terrorismo, o la mafia, o il crimine organizzato, o la corruzione o altro ancora – cui corrisponde la concezione dell’imputato come nemico. È il modello, appunto, del «diritto penale del nemico» teorizzato da Günther Jakobs e duramente contestato da Cesare Beccaria: quello che Beccaria chiamò il «processo offensivo», dove «il giudice diviene nemico del reo... e non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce», cui egli contrappose il modello garantista del «vero processo, l’informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto»[5], dove il giudice è «un indifferente ricercatore del vero», e non un «avvocato del fisco» che «s’impadronisce del corpo di un reo e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne come da un fondo acquistato tutto il profitto che può»[6].

C’è poi una terza involuzione della magistratura nel suo complesso che non tanto l’associazionismo in quanto tale, quanto, piuttosto, lo specifico tipo di associazionismo promosso da Magistratura democratica è in grado di contrastare: lo sviluppo del corporativismo giudiziario. Contro questa involuzione, quella politicamente più lesiva della credibilità della magistratura, Md sviluppò taluni anticorpi, corrispondenti ad altrettante opzioni strategiche: in primo luogo la critica pubblica, giuridicamente argomentata, dei provvedimenti e degli orientamenti giudiziari lesivi dei diritti fondamentali e più in generale dei principi costituzionali; in secondo luogo lo sviluppo fecondo del dibattito culturale, all’interno dell’Associazione nazionale dei magistrati, sulle diverse concezioni della giurisdizione e sui diversi orientamenti giurisprudenziali; in terzo luogo l’apertura del gruppo all’esterno, cioè alla società, e la sua partecipazione al dibattito pubblico sulla giustizia e sui temi istituzionali ad essa più strettamente connessi. Ho l’impressione che queste opzioni – soprattutto la prima – siano state abbandonate; con il risultato, deleterio soprattutto per l’immagine dell’ordine giudiziario, che la magistratura è stata assai spesso percepita come una casta omogenea o, peggio, come una corporazione di potere, compattamente impegnata nella tutela dei suoi componenti e nella difesa anche delle pratiche giudiziarie di segno illiberale e antigarantista.

4. Il ruolo del confronto e del dibattito associativo

Insomma, è stata proprio la vocazione alle battaglie civili paventata da Vittorio Emanuele Orlando come naturale portato dell’associazionismo che è stata decisiva nella formazione dell’identità costituzionale di Magistratura democratica ed anche, grazie all’influenza di Md, di una parte rilevante dell’odierna magistratura. Domandiamoci allora: perché mai l’associazionismo ha avuto un ruolo così decisivo nello sviluppo di una cultura garantista e di una pratica giudiziaria indipendente? E perché la crisi dell’associazionismo, e in particolare di Md, rischia di far cadere la tensione morale e ideale che dovrebbe sempre animare la giurisdizione e di far regredire la cultura democratica dei magistrati?

Per due semplici ragioni, in gran parte implicite nei timori espressi da Orlando oltre un secolo fa ed entrambe di carattere generale: in primo luogo perché le battaglie civili, sia pure a sostegno di valori elementari di civiltà, è ben difficile che possano essere condotte con successo da singoli individui, potendo esserlo efficacemente soltanto da soggetti collettivi; in secondo luogo perché l’associazionismo è sempre un fattore di mobilitazione intellettuale e culturale, e perciò di riflessione e di elaborazione collettiva, di solidarietà e di comune impegno civile, a sostegno dei valori che definiscono l’identità del gruppo associato.

Per quel che riguarda la magistratura, è stato certamente l’impegno collettivo in Md che ha dato senso[7] al lavoro di giudice. È stato questo, del resto, il ruolo principale di Md per ormai molte generazioni di magistrati: dare un senso alto, attraverso il confronto e la riflessione collettiva, al loro lavoro. Naturalmente nel dibattito interno si manifestano, oggi come allora, divisioni e divergenze. Ho saputo dei molti dissensi che attualmente dividono la corrente. Ai miei tempi c’erano sicuramente (e direi fortunatamente), in Md, scontri ancora più aspri: tra marxisti e liberal-socialisti; tra filo-comunisti ed extra-parlamentari; tra moderati ed estremisti. Ma ciò che sempre ha determinato l’unità del gruppo non sono state l’omogeneità delle opinioni o una qualche identità delle opzioni politiche e culturali. Ciò che ha determinato e ancora determina l’unità è il dibattito medesimo, cioè il fatto di essere accomunati dal bisogno, da tutti condiviso, di una riflessione comune sul senso della giurisdizione e sui valori che ad essa devono presiedere. L’unità e l’identità del gruppo, in breve, non sono date dalle risposte, ma dalle domande che tutti si pongono e avvertono il bisogno di porsi nel confronto con gli altri. Non sono mai consistite in un’unità e in un’identità basate su una comune ideologia o su opinioni etico-politiche da tutti condivise, ma sempre e solo nella comune disponibilità e volontà di confrontarsi sul senso della giurisdizione, sul suo rapporto con la società, sulle sue fonti di legittimazione e sulla sua collocazione entro l’assetto costituzionale dei pubblici poteri.

Fu questa riflessione collettiva sui fondamenti della giurisdizione la novità e l’eresia della Magistratura democratica delle origini. Ma questo vuol dire che l’identità di Md è costituita precisamente da questa comune riflessione; mentre sarebbe radicalmente negata ove essa si riducesse a quella di un gruppo di potere, magari di tipo sindacale, a tutela degli interessi degli iscritti. Sotto questo aspetto – la riflessione sulla natura e sul ruolo della giurisdizione – la nascita di Md, cinquanta anni fa, segna un prima e un dopo nella storia dell’associazionismo giudiziario italiano. Prima di allora l’ideologia prevalente era quella paleo‑giuspositivistica della neutralità, dell’apoliticità e dell’avalutatività della funzione giudi­ziaria, concepita come funzione puramente tecnica, anche per questo organizzata su basi gerarchiche ed aliena quindi da qualunque riflessione sui fondamenti politici della giurisdizione. I giudici vivevano perciò isolati non solo dalla società, ma anche, sostanzialmente, dai loro stessi colleghi. La critica dei provvedimenti, pur se in nome dei valori che legittimano la giurisdizione, era preclusa come una sorta di lesa maestà. Il dibattito sulla professione di giudice era visto con avversione e sospetto dall’alta magistratura. Il modello prevalente era quello del giudice burocrate, puro tecnico del diritto, bocca della legge appunto. Md rinnovò radicalmente l’associazionismo giudiziario facendo prevalere su qualunque altra questione il dibattito teorico e politico dei magistrati su se stessi, cioè sul loro stesso ruolo di giudici o di pubblici ministeri. Fu questo dibattito diretto alla ridefinizione collettiva del ruolo del giudice, ben al di là delle divergenze che intorno ad essa si manifestarono, il vero fattore di rottura rispetto alla tradizione e, insieme, la ragione dell’unità e dell’identità del gruppo e del ruolo da esso svolto nella rifondazione costituzionale dell’ordine giudiziario.

5. L’opzione per i principi della Costituzione e la divaricazione tra Costituzione e diritto vigente

Quel dibattito, infatti, contagiò ben presto l’intera Associazione nazionale magistrati, coinvolgendo anche le altre correnti nella ridefinizione della loro identità e della loro ragion d’essere. Esso fu del resto alimentato da un potente fattore di crisi della vecchia figura a-politica del magistrato: la scoperta della Costituzione e l’assunzione dei valori sostanziali da essa stabiliti – dal principio di uguaglianza a quello della dignità delle persone, dai diritti fondamentali, di libertà e sociali, alla centralità del lavoro e alle garanzie dei diritti dei lavoratori – quali principi informatori dell’interpretazione giudiziaria della legge,

Fu grazie all’adesione a questi valori che la nostra idea del primato della Costituzione venne a saldarsi, nella concezione del ruolo del giudice, con quella che chiamammo la «scelta di campo» a sostegno dei soggetti deboli, che dei diritti costituzionalmente stabiliti sono i titolari più di tutti insoddisfatti. Ne risultò capovolta la vecchia immagine del ruolo del giudice: non più solo la conservazione dell’ordine esistente, ma anche la sua trasformazione in attuazione del progetto  costituzionale. Era «compito della Repubblica» e quindi anche nostro – dicevamo ripetendo il capoverso dell’articolo 3 della Costituzione, da noi elevato a norma fondamentale dell’ordinamento – garantire i diritti dei soggetti più deboli, che sono poi i diritti maggiormente lesi, e non ignorare le discriminazioni e le disuguaglianze «di fatto» che la Repubblica, e quindi anche la giurisdizione, ha il compito costituzionale, per quanto di sua competenza, di «rimuovere».

Ma soprattutto la Costituzione presa sul serio ci rese consapevoli della divaricazione tra i valori costituzionali, che disegnano una sorta di utopia di diritto positivo mai del tutto realizzata né realizzabile – l’uguaglianza anche sostanziale, le libertà fondamentali, i diritti sociali e quelli del lavoro – e la realtà della legislazione vigente, ancora in larga parte di origine fascista, oltre che della giurisprudenza allora dominante che ignorava la Costituzione. Quella divaricazione rendeva non solo possibile, ma costituzionalmente doverosa la critica giuridica, e non soltanto politica, del diritto vigente, e rendeva perciò insostenibile, anche sul piano tecnico-giuridico, la vecchia immagine del giudice «bocca della legge».

Di qui il capovolgimento che proponemmo della figura del giudice e della giurisdizione secondo l’immagine allora dominante, sia a destra che a sinistra: da un lato dell’immagine della giurisdizione promossa dalla cultura conservatrice come attività avalutativa e meccanica e dell’ordine giudiziario come un corpo tecnico omogeneo, gerarchizzato e ben integrato nel sistema dei pubblici poteri; dall’altro l’immagine politicamente opposta ma altrettanto classista, espressa dalla cultura vetero-marxista, del giudice come mero esecutore di leggi che altro non sono che l’espressione della volontà della classe dominante. Entrambe queste figure furono allora ribaltate dal mutamento di paradigma del diritto e del giudice intervenuto, a nostro parere, con la costituzionalizzazione dei diritti fondamentali: diritto e diritti non più quali leggi del più forte, ma al contrario come leggi del più debole contro la legge del più forte che vigerebbe in loro assenza; giurisdizione e giudici, conseguentemente, non più quali funzioni e organi di un diritto espressione dei soli interessi dei più forti, ma al contrario garanti dei diritti fondamentali di tutti – dei diritti di libertà, ma anche dei diritti sociali – e perciò, soprattutto, dei diritti dei più deboli, i quali più di tutti soffrono delle loro lesioni o delle loro inadempienze.

È chiaro che un simile capovolgimento comportava e comporta tuttora un ruolo critico dei giudici e dei giuristi nei confronti del diritto illegittimo e dell’assetto sociale di cui questo è espressione: la critica, appunto, delle leggi medesime, ove queste siano ritenute in contrasto con i principi costituzionali; e, insieme, la critica, contro ogni forma di solidarietà corporativa, dei provvedimenti giudiziari e in generale della giurisprudenza che quei principi ignorano o peggio contraddicono. Fu proprio quella divaricazione tra il dover essere costituzionale e l’essere effettivo del diritto che fin da allora mi parve il tratto più prezioso e fecondo del costituzionalismo rigido. Ne conseguiva il ruolo critico del diritto vigente assegnato dalla Costituzione sia alla giurisdizione che alla scienza giuridica: attraverso il rifiuto delle sue interpretazioni incompatibili con la Costituzione, le eccezioni di incostituzionalità, i dibattiti politici sulla necessità di riformare la legislazione fascista (ricordo solo il referendum – il primo nella storia della Repubblica – che tentammo di promuovere sui reati d’opinione con una raccolta di firme che però non raggiunse le 500.000 firme necessarie) e, più in generale, sul dovere in capo ai pubblici poteri di attuare la Costituzione. Ne conseguiva altresì la lotta, che giustamente il vecchio Orlando paventava come frutto dell’associazionismo, contro l’inerzia della legislazione nella riforma dei codici fascisti e la conseguente ineffettività della Costituzione. La cultura del gruppo, delle sue componenti marxiste come di quelle liberal-socialiste, fu insomma cementata dalla critica del diritto vigente e dalla promozione di una giurisprudenza che allora chiamammo “alternativa” a quella dominante, ma che semplicemente era una giurisprudenza informata ai valori costituzionali.

Insisto su questa normatività forte che allora associammo alla Costituzione. Quella normatività forte vale infatti a spiegare un fenomeno nuovo nella storia della cultura politica. Tradizionalmente la politica e la filosofia politica erano sempre state, fino ad allora, assai più progressiste della cultura giuridica, sia dei giudici che dei giuristi, sempre, per natura e vocazione, conservatrice o peggio reazionaria. Md inaugurò una sorta di rovesciamento di quel rapporto, cui si associò successivamente anche una parte della cultura accademica: lo sviluppo di una cultura giuridica impegnata nella difesa dei diritti fondamentali, dello stato sociale e del lavoro, ben più progressista della cultura politica, sempre più orientata, al contrario, nella  direzione opposta della restrizione dei diritti e delle conquiste dello stato sociale. La ragione di questo rovesciamento è semplice: risiede nella Costituzione, tanto presa sul serio da settori crescenti della magistratura e della scienza giuridica, quanto tendenzialmente ignorata e rimossa dal ceto politico. Non a caso è alla giurisdizione che sempre più spesso le persone si rivolgono come al luogo della garanzia dei diritti, in grado di soddisfare istanze di giustizia rispetto alle quali si rivelano sempre più impermeabili i sistemi politici e gli apparati amministrativi[8]. Non a caso è soprattutto la cultura giuridica, in particolare quella costituzionalistica e quella filosofico-giuridica, che è oggi impegnata nella difesa della Costituzione e dei suoi principi democratici contro le loro manomissioni ad opera della politica.

Ma allora, se tutto questo è vero, il ruolo e il valore dell’associazionismo giudiziario e soprattutto di Magistratura democratica sono oggi più attuali che mai. Giacché in questa fase di crisi economica e in presenza di politiche governative segnate dalla totale rimozione dal loro orizzonte dei valori costituzionali ed anzi da una volontà di riforma regressiva della stessa Costituzione, la giurisdizione può e deve essere più che mai un luogo di garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e perciò dei soggetti più deboli. E può esserlo solo se sarà sorretta da un forte impegno collettivo nella difesa dei principi costituzionali – l’indipendenza e l’uguaglianza dei giudici e il loro ruolo di garanzia dei diritti fondamentali, primi tra tutti i diritti sociali e i diritti dei lavoratori – quale solo può provenire dalla ripresa del confronto associativo e dal dibattito interno sul senso e sul ruolo costituzionale della giurisdizione.

[1] Ne riferisce Emilio R.Papa, Magistratura e politica. Origini dell’associazionisno democratico nella magistratura italiana /1861-1913), Marsilio, Padova 1973, pp.95 e 104-105. Ma si veda anche, su questa intervista, P. Andrés Ibáñez, Tercero en discordia. Jurisdiccióny juez en el estado constitucional, Editorial Trotta, Madrid 2015, cap.XVII.

[2] È la motivazione del provvedimento riportata da A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna 2012, p.151.

[3] Come è stato proposto durante questa Sessione da Giuseppe Cascini.

[4] Nove massime di deontologia giudiziaria, in Questione giustizia, 2012, n.6, pp.74-82, Franco Angeli Editore.

[5] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed. di Livorno del 1766, a cura di Franco Venturi, Einaudi, Torino (1961), 5° ed. 1981, § XVII, p. 46.

[6] Ivi, p.45.

[7] Come ha scritto Anna Canepa nella sua bella relazione introduttiva a questo XX congresso, www.magistraturademocratica.it

[8] Si vedano, in questo senso, S. Rodotà, Repertorio di fine secolo, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 169-186 e P. Andrés Ibáñez, En torno a la jurisdicción, Editores del Puerto, Buenos Aires 2007, pp. 41-43 e 107-126.