Magistratura democratica

Qualcosa di meglio del carcere

di Livio Pepino

«Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Anche se non l’ho detto mai, ritenevo giusto, ad esempio, proporre che i giudici, prima di essere abilitati a condannare, vivessero qualche giorno in carcere come detenuti. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile: ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?».

(Gherardo Colombo, Il perdono responsabile, Ponte alle Grazie, Milano, 2011)

La confessione di Gherardo Colombo, comune a molti magistrati e operatori del diritto che non si limitano a macinare sentenze ma riflettono sul loro agire quotidiano, conduce direttamente al cuore della questione: l’impegno per migliorare le condizioni di vita di chi sta in carcere è, ovviamente, ineludibile ma rischia di essere un alibi se non si accompagna a quello per superare il carcere (per liberarsi dalla sua necessità, come titolava un convegno del novembre 1984 organizzato a Parma da Mario Tommasini). E ciò tanto più in un’epoca dominata dalla convinzione della necessità del carcere (che costituisce elemento chiave del “pensiero unico”).

Di questa convinzione siamo tutti impregnati. Le pene altre le chiamiamo alternative o sostitutive: cioè anche culturalmente viviamo una identificazione tra carcere e pena addirittura quando ci sforziamo di superarla... L’elemento di comparazione è sempre il carcere, anche se, nel mondo, alcune delle tragedie e dei delitti più gravi sono stati affrontati con strumenti del tutto diversi dal diritto penale e dalle prigioni: penso, per esempio, alle Commissioni verità e giustizia che hanno condotto il Sud Africa fuori dall’apartheid.

Dunque occorre lavorare prima di tutto sul piano culturale per decostruire l’idea della ineluttabilità del carcere. Dobbiamo provare a mettere a punto un manifesto in quella direzione su cui aprire un confronto diffuso. Di questo manifesto provo a fissare alcuni punti (in termini sia di analisi che di proposta).

 

 

1. Il carcere aumenta in modo esponenziale senza un parallelo aumento della criminalità

a) dal 1986 il numero dei detenuti è in crescita costante (salvo piccole oscillazioni che non incidono, peraltro, sul trend); dal 30 giugno 1991 alla stessa data del 2012, è più che raddoppiato, passando da 31.053 a 66.528;

b) il 31 luglio 2012 c’erano nei 206 istituti di pena per adulti del Paese 66.009 detenuti, di cui 2.818 donne e 23.590 stranieri; due anni prima – antecedentemente agli ultimi interventi legislativi tesi ad allentare la pressione sul carcere – il numero dei ristretti era arrivato a 68.258. Se poi si guarda – com’è più corretto – ai detenuti transitati complessivamente nell’anno, il numero supera i 95.000. Per completare l’area delle persone soggette a misure di privazione della libertà occorre poi aggiungere 490 minorenni (custoditi in 17 istituti) e, tra gli adulti, 10.279 affidati in prova al servizio sociale e 18.430 collocati, a vario titolo, in detenzione domiciliare (dato relativo al 31 luglio 2012). L’incidenza dei detenuti sugli abitanti in un giorno a caso del 2012 è, dunque, di 11 ogni 10.000 (e, dunque, più di uno ogni mille, compresi vecchi e neonati); ma se si fa riferimento al numero delle presenze annue in area penale l’incidenza cresce a quasi due ogni mille;

c) dei 66.528 detenuti presenti il 30 giugno 2012, 23.865 (pari al 35,87%) erano stranieri e circa 16.500 (pari al 24,8%)[1] tossicodipendenti o alcooldipendenti. Dunque, anche conteggiando una volta soltanto coloro che assommano entrambe le caratteristiche, oltre metà della popolazione detenuta è costituita da stranieri e tossicodipendenti. Merita aggiungere, per definire l’estrazione sociale e culturale delle persone ristrette, che solo 609 (0,9%) erano in possesso di laurea e 3.366 (5%) avevano conseguito il diploma di scuola media superiore;

d) quanto ai titoli di detenzione[2], al 30 giugno 2012, i reati contro il patrimonio e le violazioni della legge sugli stupefacenti rappresentavano poco meno del 50% e i delitti dolosi contro la persona (comprese lesioni e percosse) il 14% mentre i condannati e gli imputati in custodia cautelare per il reato di associazione mafiosa erano meno del 5% e quelli per reati commessi da pubblici ufficiali e contro l’economia non raggiungevano, complessivamente, l’1%.

Triste necessità – si potrebbe dire – ma non scelta, siccome conseguente alla crescita dei reati e alle caratteristiche dei loro autori (determinate certo dalle condizioni sociali, ma non esorcizzabili). Non è così. La curva dei reati – quella reale, non quella cangiante e utilitaristica dei manifesti elettorali e delle campagne mediatiche – è nel nostro paese (e pressoché ovunque nei paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti) stazionaria o addirittura in discesa, almeno sino al 2011: più marcata per i delitti contro la persona, più lieve per quelli cd predatori, ma, come trend, costante. Basti ricordare, per quanto più direttamente ci riguarda, che le rilevazioni del ministero dell’Interno e dell’Istat indicano una consistente diminuzione, a partire dal 1991 dei delitti denunciati: 2.647.735 in tale anno, scesi a 2.163.830 nel 2001.

Una prima acquisizione è, dunque, che l’aumento del numero dei detenuti è determinato da ragioni che nulla hanno a che vedere con l’aumento della criminalità e che stanno piuttosto nella adozione di leggi marcatamente repressive (in particolare, gli inasprimenti della disciplina degli stupefacenti e della immigrazione e la nuova regolamentazione della recidiva), in una crescente richiesta di penalità e nei conseguenti atteggiamenti dei giudici[3].

2. Il carcere – a differenza di quanto si crede abitualmente – non è affatto una istituzione di sempre. Al contrario, esso nasce solo agli albori della società industriale come contenitore della povertà e veicolo della sua riconduzione alla fabbrica (oltre che come superamento della pena arbitraria e della sofferenza indeterminata).

In pochi secoli esso è profondamente cambiato, mutando anche pelle.

Tradizionalmente è stato uno strumento di inclusione forzata. Oggi invece sembra diventare, come è stato efficacemente detto, un congegno per escludere dalla cittadinanza sociale la underclass, la «sottoclasse, più o meno estesa, spesso connotata anche in termini etnici, cui è negato l’accesso legittimo alle risorse economiche e sociali disponibili e che viene rappresentata come pericolosa, percepita come una minaccia per la sicurezza sociale e, in conseguenza della sua esclusione, per la sicurezza fisica e patrimoniale dei cittadini»[4]. Se è così è facile prevedere una sua ulteriore estensione.

 

 

3. Questa estensione si trova già oggi nei Centri di identificazione ed espulsione o Cie (che hanno sostituito, con novità solo terminologica, i Centri di permanenza temporanea e assistenza o Cpt), introdotti dalla legge Turco-Napolitano (n. 40/1998) e potenziati dalla legge Bossi-Fini (n. 189/2002) nonché da successivi interventi legislativi fino al decreto legge n. 89/2011: vere e proprie prigioni senza reato.

Che i centri siano, in realtà, piccole carceri risulta univocamente dalle loro caratteristiche edilizie (comprensive di sbarre e recinzioni), dalla sorveglianza esterna affidata all’autorità di polizia e dalle norme del regolamento di attuazione del testo unico immigrazione che ne disciplinano la vita e l’organizzazione interna prevedendo, tra l’altro, «l’assoluto divieto per lo straniero di allontanarsi dal centro», il ripristino della «misura del trattenimento con l’ausilio della forza pubblica in caso di indebito allontanamento» e l’approntamento, da parte del questore, delle «misure occorrenti per la sicurezza e l’ordine pubblico, comprese quelle per l’identificazione delle persone e di sicurezza all’ingresso». Prigioni, dunque, a tutti gli effetti[5].  Prigioni, peraltro, senza condanna e senza reato ché il presupposto della detenzione amministrativa è, ai sensi dell’art. 14 del testo unico, «l’impossibilità di eseguire con immediatezza l’espulsione [...] o il respingimento a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento» e dunque, potenzialmente, anche fatti oggettivi non collegabili con condotte della persona trattenuta. I presupposti legislativi della detenzione amministrativa fanno pensare a dei centri organizzati come sale d’aspetto destinate ad ospitare i migranti per il periodo strettamente necessario alla organizzazione dell’allontanamento. Ma così evidentemente non è, sol che si considerino i tempi di possibile permanenza che, all’esito di successive proroghe, raggiungono ora un anno e mezzo (dopo essere stati, inizialmente di trenta giorni, poi di sessanta giorni e poi ancora di centottanta giorni).

I centri di identificazione ed espulsione operativi in Italia sono attualmente 15. In essi sono stati rinchiusi, nel 2011, 7.735 migranti (6.832 uomini e 903 donne). Di questi – elemento di grande importanza ai fini di un giudizio generale – solo la metà (3.880) sono stati effettivamente rimpatriati. E va tenuto presente che, secondo i dati forniti alla Camera dal ministro dell’interno Cancellieri in risposta a specifiche interrogazioni parlamentari (pubblicate dalle agenzie il 24 aprile 2012), i provvedimenti di trattenimento nei centri sono raddoppiati, nei primi mesi dell’anno 2012, rispetto a quelli di tutto l’anno 2011.

I centri di detenzione, dunque, prefigurano, e in parte già realizzano – alla stregua di quanto sin qui esposto – una sorta di carcere parallelo correlato allo status di irregolare, di dimensione prossima (per alcune categorie di detenuti) a quello tradizionalee caratterizzato dalla mancanza di collegamento della detenzione con la commissione di un reato, di correlazione della stessa con la finalità dichiarata e di un effettivo controllo giudiziario di merito sugli ingressi[6] e sulle modalità della custodia.

 

 

4. In carcere si sta male, ben più di quanto è coessenziale alla privazione della libertà[7].

Per molte ragioni, la principale delle quali è il sovraffollamento. Il 31 luglio 2012 le persone detenute negli istituti penitenziari per adulti erano, come si è detto, 66.009. Ciò a fronte di una capienza regolamentare di 45.588 e, dunque, con una eccedenza di 20.421, cha caratterizza l’intero territorio nazionale, peraltro con alcuni casi limite nelle case circondariali delle grandi città, in particolare San Vittore a Milano e Poggioreale a Napoli.

Le conseguenze sono evidenti. La prima è, inevitabilmente, la riduzione significativa degli spazi disponibili all’interno della camera detentiva. Nella gran parte degli istituti penitenziari i detenuti vivono in tre in celle di nove metri quadri, mentre in cameroni dai dodici ai venti metri quadri vivono tra le otto e le quindici persone. Questa situazione determina l’impossibilità di stare in piedi tutti contemporaneamente nello spazio non occupato dalle brande, l’impossibilità di mangiare insieme e seduti, l’impossibilità di scrivere, leggere o guardare la televisione in un luogo diverso che non sia il letto. È ovvio come tale condizione sia aggravata dal fatto che nelle camere detentive i ristretti trascorrono, tranne qualche eccezione, circa venti ore al giorno. È chiaro, inoltre, che alla riduzione degli spazi consegue una maggiore promiscuità e una più probabile conflittualità tra gli occupanti della camera detentiva. […] (F. Cascini, direttore Ufficio ispettivo e del controllo Dipartimento Amministrazione penitenziaria, Il carcere: i numeri, i dati, le prospettive, in Questione giustizia, n. 1/2010, pp. 50 ss.

Ciò, tra l’altro, ha procurato all’Italia una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, che – esaminando il ricorso di un cittadino bosniaco (Izet Sulejmanovic), arrestato il 30 novembre 2002 e rinchiuso per i primi cinque mesi a Roma Rebibbia – ha ritenuto la detenzione in condizioni di accentuato sovraffollamento un trattamento disumano e degradante, che viola l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo integrante:

La Corte osserva che [..], per un periodo di più di due anni e mezzo, ogni detenuto non disponeva che di 2,70 mq. di media. Essa stima che una situazione tale non abbia potuto che provocare dei disagi e degli inconvenienti quotidiani per il richiedente, obbligato a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima stimata come auspicabile dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura.. Agli occhi della Corte, la mancanza evidente di spazio personale di cui il richiedente ha sofferto, è di per sé costitutiva di un trattamento disumano o degradante. (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia)

Il sovraffollamento, inoltre, ha degli effetti aggiuntivi di estrema gravità, in punto aumento di sofferenza delle persone recluse. Due su tutti: il frequentemente allontanamento dei detenuti dagli istituti dei luoghi di residenza ad alta concentrazione di reati (esempio tipico la Campania) con conseguente rarefazione dei colloqui con i familiari e un uso massiccio di farmaci per finalità di contenimento, con conseguenze facilmente immaginabili anche sul piano della salute:

L’esiguità delle risorse ha determinato col tempo una prassi assai diffusa per la quale un numero altissimo di detenuti, anche a prescindere da patologie accertate e da percorsi terapeutici, è sottoposto a terapie farmacologiche di tipo psichiatrico anche importanti. In sostanza, una fetta molto consistente della popolazione detenuta viene costantemente sedata. Si tratta di un meccanismo di contenimento attraverso il quale si cerca di limitare i danni dell’inefficienza del sistema. (F. Cascini, direttore Ufficio ispettivo e del controllo Dipartimento Amministrazione penitenziaria, cit.)

La conseguenza di questo surplus di sofferenza è che le morti (e i suicidi) in carcere sono ormai, nel nostro Paese, una costante: 165 (di cui 61 suicidi) nel 2000, 177 (69) nel 2001, 160 (52) nel 2002, 157 (56) nel 2003, 156 (52) nel 2004, 172 (57) nel 2005, 134 (50) nel 2006, 123 (45) nel 2007, 142 (46) nel 2008, 177 (72) nel 2009, 184 (66) nel 2010, 186 (66) nel 2011, 79 (25) nei primi sei mesi del 2012, e dunque, complessivamente, 2012 (717)[8].

 

 

. Il carcere non produce sicurezza.

Il suo aumento non ha determinato, in nessuna parte del mondo, una diminuzione della paura. Anzi, i paesi che hanno i maggiori tassi di carcerazione (gli Stati Uniti in primis) sono anche quelli in cui cresce la paura e si assiste al boom della vendita di armi e di altri strumenti di difesa personale (indicatore di insicurezza collettiva ben più dei sondaggi e delle rilevazioni statistiche): non sarà, forse, il ricorso massiccio al carcere a far crescere l’angoscia e la paura, ma certo esso non serve a contenerle. Ma ciò è evidente anche sul piano concettuale. La condanna e il carcere possono produrre conseguenze (limitate) in termini di prevenzione speciale, di equità, di rieducazione, ma assai meno in termini di rassicurazione sociale. Per una ragione molto semplice:

Come può la punizione essere strumento di rassicurazione? Essa (salvo il caso dell’ergastolo) non è mai definitiva; anzi, concernendo perlopiù piccoli illeciti (sono furti l’80 per reati dei reati), è generalmente breve e, dunque, sposta solo in avanti di qualche tempo (senza risolverli) i problemi. Solo mettendo mano ai problemi degli uomini che delinquono si può pensare che la “pausa sanzionatoria” abbia ricadute positive sulla questione securitaria. (D. Scatolero, Insicuri da morire, Narcomafie, n. 9/1999, p.19)

Il carcere non produce sicurezza nella collettività ma non sana neppure la ferita che il delitto ha procurato alla vittima (che richiede interventi diretti di sostegno e poco è toccata da quelli indiretti sull’autore del reato).

Di qui la domanda, centrale in questa riflessione. Se il carcere non produce sicurezza, non argina la recidiva, provoca una sofferenza aggiuntiva, se – in altri termini – non è né utile né giusto perché conservarlo e addirittura incrementarlo? O, quantomeno, perché conservarlo in maniera così diffusa, anche con riferimento a infrazioni di piccola e media gravità per le quali l’incongruità e la sproporzione del carcere sono del tutto evidenti[9]? E, ancora, come muoversi per provocare una inversione di tendenza?

 

 

6. Se la situazione è quella sin qui descritta c’è un punto fermo da cui partire. Il progetto governativo (dei diversi governi che si sono succeduti negli ultimi anni) per affrontare il sovraffollamento, consistente nella costruzione di nuove carceri è sbagliato e aggrava, anziché risolvere i problemi. La storia – non solo quella del nostro Paese – insegna al di là di ogni dubbio che l’aumento delle prigioni non serve a migliorare le condizioni dei detenuti ma solo ad accrescerne il numero generando nuovi bisogni di penalità. Ciò va detto in via di principio, anche a prescindere dal fatto che una buona metà dei nuovi posti-carcere previsti dovrebbe essere ricavata da spazi interni alle prigioni esistenti, così ulteriormente peggiorando le condizioni di chi ci vive. La circostanza è, ovviamente, significativa ma l’inidoneità del progetto non verrebbe meno anche se, per miracolo, si trovassero le risorse per costruire in tempo reale dieci o venti o trenta nuovi e moderni istituti.

In una prospettiva razionale la risposta al sovraffollamento non può che essere – nel breve periodo – la promozione del suo contrario, cioè il ritorno a numeri di detenuti fisiologici e corrispondenti alla capienza regolamentare delle strutture attuali. Ma come, se non sono, questi, tempi di riduzione della penalità? C’è, almeno per i condannati in via definitiva, una soluzione possibile, immediata e priva di costi economici: l’adozione del principio del numero chiuso in forza del quale il ricorso al carcere non può superare un determinato rapporto tra abitanti e detenuti. In concreto: se i posti-carcere sono diecimila, ventimila o cinquantamila essi vanno coperti con i condannati più meritevoli, collocando gli altri in lista di attesa (magari accompagnata da prescrizioni o obblighi specifici e personalizzati). La soluzione non è affatto paradossale: un meccanismo analogo è già previsto dall’art. 656, comma 5, codice procedura penale, con la sospensione dell’esecuzione della pena inferiore a tre anni in attesa che sia il tribunale di sorveglianza a decidere se essa debba essere scontata in carcere o in misura alternativa; si tratta, a ben guardare, della razionalizzazione e stabilizzazione della ratio sottostante ai periodici (e inevitabilmente indiscriminati) provvedimenti di indulto; è la soluzione vigente – spesso con rischi ben maggiori – per i posti letto in ospedale in cui vengono predisposti, appunto, ricoveri differenziati e liste di attesa in base alla gravità della malattia. Le resistenze alla adozione di questo strumento sono solo culturali e politiche ché i criteri per la sua concreta attuazione e i soggetti istituzionali che possono essere ad esso preposti sono agevolmente individuabili e in parte già individuati (per una articolata analisi al riguardo si può vedere: Giovanni Palombarini e Carlo Renoldi, Una consapevole provocazione: pena detentiva e numero chiuso, in Questione giustizia, n. 5/2006, pp. 929 ss.).

Di qui si può partire con una forte mobilitazione politica.

 

 

7. Un secondo punto fermo è la ripresa di una iniziativa, anche questa culturale, che porti, nei tempi medi, alla revisione della politica criminale in atto. Non si tratta di invocare la stagione del diritto penale minimo o di una razionalizzazione del sistema penale (obiettivi sacrosanti ma inevitabilmente di lungo periodo).

Si tratta di concentrarsi su una revisione delle politiche penali in tre settori: gli stupefacenti e le tossicodipendenze, l’immigrazione e la recidiva (ciò il prevalere, sul diritto penale del fatto, di pericolosi riferimenti a tipi di autore). Appropriati interventi di modifica delle tre leggi regolatrici di questi settori (trasferendo il controllo della diffusione e dell’uso di stupefacenti dal campo della penalità a quello della tutela della salute; prevedendo meccanismi di regolarizzazione permanente – a determinate condizioni – del titolo di permanenza dei migranti irregolari nel territorio dello Stato; sottraendo alla recidiva gli attuali automatismi incrementali delle pene e restituendole il ruolo di semplice ausilio per il giudice nella determinazione del trattamento sanzionatorio) produrrebbero un vero e proprio abbattimento della popolazione carceraria senza danni (e probabilmente con significativi benefici) per la convivenza civile.

 

 

8. Un terzo punto riguarda le pene altre, modellate su criteri diversi da quello del carcere (uscendo cioè dal luogo comune secondo cui alla violazione della legge penale si risponde, a prescindere dalla utilità della risposta, con la chiusura più o meno protratta in un determinato luogo e con la connessa limitazione della libertà personale). Anche qui c’è uno spazio di riflessione per i tempi lunghi (riguardante gli stessi fondamenti della pena e del potere di punire, gli obiettivi della sanzione, i modelli di riferimento: retributivo, rieducativo, risarcitorio e/o riconciliativo, correzionale e via seguitando) e uno per i tempi brevi.

Limitandomi a quest’ultimo, è agevole rilevare che oggi – a differenza di qualche decennio fa – l’ambito delle sanzioni non detentive (pecuniarie, alternative, sostitutive, interdittive, risarcitorie o mediative etc.) è tanto ampio e variegato in astratto quanto inutilizzato in concreto. Basti considerare che il lavoro di pubblica utilità o le sanzioni sostitutive sono poco più che oggetti di studio e che le misure alternative (affidamento in prova, semilibertà e detenzione domiciliare) hanno avuto negli ultimi anni non già un aumento ma una vera e propria caduta verticale, passando dalle 37.846 del 2000 e dalle 50.228 (massimo storico) del 2004 alle 29.255 in corso il 31 luglio 2012.

I dati sono eloquenti e dimostrano che la carenza sta, più che negli strumenti normativi, nella articolazione delle risorse e nella capacità/possibilità di utilizzarle. Di qui una indicazione chiara. Difficile pensare che si facciano passi in avanti senza l’istituzione sul territorio di una agenzia per le pene non detentive  (o di una serie di agenzie regionali) preposta a definire progetti, censire risorse, predisporre convenzioni e contratti etc.

 

 

9. Un quarto punto riguarda la necessità di educare all’alternativa i giudici e l’amministrazione.

Parlo, in particolare, dei giudici, avendo fatto parte della categoria per oltre quarant’anni. E ne parlo – mi sia consentita l’ironia – partendo da un irresistibile monologo della commedia italiana, quello del giudice Salomone del Russo, interpretato da Peppino De Filippo nel film di Steno Un giorno in pretura del lontano 1952:

«Tu capisci Cicero’, qui si va velocemente verso lo sfacelo totale, caro Cicerone. E io veramente, io mi sento solo in questo mondo di corruzione, in questa vita che mi sembra una follia collettiva, questo mi sembra.

Sono rimasto io solo a condannare, io… ah perché io condanno ohhh io condanno eccome. Io applico il codice, come lo applico. Vedi Cicerone, qui l’umanità bisognerebbe mandarla tutta in galera, tutta senza esclusioni di sorta, niente, tanto dove peschi, peschi bene, come condanni, condanni sempre bene!

Obbligatorio uhhh come si va sotto le armi: sei mesi di vita militare e un bell’anno di carcere obbligatorio. E caro mio se facessero così…

Guarda, guarda, ehhh, guarda truffe violenze ladri ladruncoli. E io dovrei avere pietà di questa gente? Insomma tu capisci Cicerone, che questa è gente capace che con la massima semplicità ti racconta le cose più inaudite!».

A volte mi pare che non sia cambiato molto da allora. Almeno quando vedo la grande parte dei tribunali di sorveglianza inserire, tra le prescrizioni dell’affidamento in prova per persone tossicodipendenti, l’obbligo di astenersi dall’uso di stupefacenti, con conseguente revoca della misura in caso di accertato uso di sostanza anche in una sola occasione, dimenticando che l’astensione dall’uso è l’obiettivo dell’affidamento e non una sua modalità e che isolati incidenti di percorso sono compatibili con una seria adesione a un progetto terapeutico ed anzi frequenti nel difficile percorso di uscita dalla dipendenza. O quando vedo la Corte di cassazione sostenere che nell’uso di gruppo di hashish chi lo ha materialmente acquistato risponde della cessione ai compagni (come se fosse uno spacciatore) o che la mancanza di effetto drogante di una dose di stupefacente non esclude il reato di spaccio perché «avendo, nel nostro ordinamento, la nozione di stupefacente natura legale – nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione tutte e soltanto le sostanze specificamente indicate negli elenchi appositamente predisposti – la circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta “soglia drogante”, in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della punibilità del fatto» (sic!).

Non è certo sempre così, ma se non si svincolano i giudici da un anacronistico attaccamento al carcere e dal connesso rifiuto di nuove prospettive la strada della riduzione del carcere continuerà ad essere in salita...

 

 

10. C’è un quinto e ultimo punto che mi preme segnalare.

Il carcere cresce per una richiesta diffusa della opinione pubblica. Anche di quella progressista: basti pensare alla stretta connessione, in molte recenti manifestazioni, tra richiesta di legalità e richiesta di carcere...

Il carcere cresce – come ha scritto qualche tempo fa Massimo Pavarini[10] – «per l’affermarsi a livello planetario di una nuova filosofia morale, di un determinato “punto di vista” sul bene e sul male, sul lecito e sull’illecito, sul meritevole di inclusione o di esclusione». È, dopo molte interpretazioni meccaniciste e talvolta elusive, una risposta attendibile. La novità più dirompente degli ultimi anni è, infatti, il diffondersi di un pensiero unico (elaborato soprattutto negli Stati Uniti)[11] che ha ridisegnato – ovunque – i sistemi istituzionali, i rapporti sociali, il concetto stesso di cittadinanza e di democrazia. Il suo postulato è che la garanzia dei diritti e della sicurezza degli inclusi passi necessariamente attraverso l’espulsione da quei diritti degli esclusi, cioè dei non meritevoli, dei marginali, dei migranti (i nuovi barbari da cui la società contemporanea deve difendersi con ogni mezzo) e la sua espressione politica è il governo esclusivo della società (e, quindi, della penalità) della parte soddisfatta del mondo. In questa visione, la sicurezza, la prosperità, la felicità si identificano con un ordine prestabilto e immodificabile, a cui corrisponde la necessità «di respingere al di fuori, in qualche “esterno”, il disordine». Nascono da qui le moderne politiche sicuritarie, l’opzione della «tolleranza zero», la costruzione delle città e degli Stati come «fortezze assediate» che stanno alla base del revival della contenzione.

Oltre vent’anni fa a un progetto di intervento del Comune di Torino nel carcere minorile di Torino venne dato il nome “Educare la città”. Forse bisogna ripartire da lì.

[*] È il testo, rivisto soltanto in alcuni passaggi (e attualizzato nei dati), delle conclusioni tratte al convegno di cui riprendo il titolo, organizzato ad Avigliana il 7 e 8 maggio 2012 da Gruppo Abele, Antigone e molte altre realtà operanti nel settore della pena. Il tono è rimasto, dunque, quello colloquiale usato nella esposizione verbale.

[1] Il dato è frutto di elaborazione e non di rilevazione ufficiale ché l’ultima rilevazione statistica al riguardo messa a punto da Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della giustizia risale al 2008 allorché i detenuti tossicodipendenti e alcooldipendenti erano 16.032 (14.743 + 1.289).

[2] Anche in questo caso i dati riportati possono contenere errori (seppur infinitesimali) in quanto frutto di elaborazione delle statistiche ministeriali, che vengono effettuate con riferimento alle imputazioni e non ai detenuti (conteggiati, quindi, più volte, se tratti in arresto per una pluralità di fatti).

[3] Di questa diffusa propensione di pubblici ministeri e giudici all’uso massiccio della carcerazione preventiva c’è una interessante recente conferma. Uno dei fattori di crescita esponenziale delle presenze in carcere è stato, negli ultimi anni, l’ingresso di un numero ingente di arrestati, poi trattenuti per non più di tre giorni e scarcerati in sede di udienza di convalida (giunti sino al 32% degli ingressi). Il fenomeno, definito «delle porte girevoli», ha un carattere di totale irrazionalità: la detenzione breve (più esattamente, brevissima) è, secondo tutti gli operatori, un trauma devastante quanto inutile per gli incensurati e uno strumento privo di deterrenza per chi incensurato non è. Nello stesso tempo esso impegna la struttura carceraria e crea sovraffollamento, a scapito dei diritti fondamentali e degli interventi trattamentali nei confronti di chi è destinato a restare in carcere. In conseguenza di ciò sono intervenuti alcuni provvedimenti legislativi tesi a razionalizzare la situazione. L’ultimo, predisposto con un decreto legge del 22 dicembre 2011, ha previsto che le persone arrestate in flagranza di reati attendano l’udienza di convalida nel proprio domicilio o in strutture ad hoc allestite dalla autorità di polizia e siano condotte in carcere, su decreto motivato del pubblico ministero, solo ove ciò sia impossibile o per altre specifiche ragioni di necessità o urgenza. Gli effetti sono stati immediati: nella sola casa circondariale di Torino, nel primo trimestre del 2012, il numero di ingressi in carcere è diminuito, rispetto al corrispondente periodo del 2011, di 725, passando da 1.538 a 813. ma, secondo la stima che ci ha esposto qui il direttore del carcere Pietro Buffa, di quegli 813 ben 597 (pari al 73 per cento) vi sono stati condotti in assenza di indicazioni specifiche...

[4] Così E. Santoro, Carcere e criminalizzazione dei migranti: una politica «da tre soldi», in F. Berti e F. Malevoli (a cura di), Carcere e detenuti stranieri, Angeli, Milano, 2004, pp. 44 e 51. Il veicolo di questa operazione è, oltre alla segregazione, il sistema di incapacità e interdizioni connesse con il carcere. La rappresentazione più puntuale viene, ancora una volta, dal paese guida. Negli Stati Uniti dodici Stati prevedono per molte categorie di condannati l’esclusione dal godimento dei diritti politici (fra essi la Florida e l’Alabama, dove, come conseguenza di tali disposizioni, poco meno di un quarto dei maschi neri è definitivamente privato del diritto di voto); quasi tutti gli Stati, poi, inibiscono il voto ai detenuti durante l’esecuzione della pena, con effetti di esclusione razziale di immediata evidenza, ove si consideri che su otto adulti reclusi, ben sette sono neri. I dati riportati sono tratti da J. Austin e J.Irwin, It’s About Time. America’s Imprisonment Binge, Wadsworth, Stamford, 1995 e ripresi da E. Santoro, Carcere e società liberale, II ed., Giappichelli, Torino, 2004.

[5] Le sole differenze pratiche tra la detenzione amministrativa e quella penale stanno nel fatto che, con riferimento la prima, è prevista la «libertà di corrispondenza con l’esterno» e l’allontanamento dal centro non integra il reato di evasione.

[6] Il trattenimento nei centri di detenzione, disposto dal questore, è sottoposto, a seguito di una modifica apportata al testo unico nel 2004, alla convalida del giudice di pace (competente altresì per l’eventuale proroga del trattenimento nel caso in cui «sia imminente l’eliminazione dell’impedimento all’espulsione»).

[7] E nei Cie si sta anche peggio: secondo il Rapporto sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti approvato all’unanimità il 6 marzo 2012 dalla Commissione del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani: «Le condizioni di vita nei Cie sono precarie. Manca un sistema di garanzie di rispetto dei soggetti trattenuti e adeguate condizioni di trattenimento».

[8] Fonte Ristretti Orizzonti.

[9] Si pensi alla mancanza di ogni nesso logico tra categorie che costituiscono il substrato di molti reati (come le opinioni, il rapporto con l’autorità, lo stesso patrimonio) con la libertà personale...

[10] M. Pavarini, Processi di ricarcerizzazione nel mondo. Ovvero il dominio di un «certo punto di vista», in Questione giustizia, n. 2-3/2004, pp. 415 ss.

[11] Sull’iter e sulla costruzione di questa cultura cfr. L. Wacquant, Parola d’ordine tolleranza zero, Feltrinelli, Milano, 1998.