Magistratura democratica
Magistratura e società

Valerio Onida: la vita, gli studi, l’impegno nella società e nelle istituzioni

di Guido Melis
già professore ordinario di storia delle istituzioni politiche e di storia dell’amministrazione pubblica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, già deputato nella legislatura 2008-2013 e già membro del Comitato direttivo della SSM

Dopo un magistrato, Renato Rordorf, Valerio Onida è ricordato sulle pagine di Questione Giustizia da uno storico, Guido Melis. L’unione di queste voci esprime, nella forma più eloquente, l’emozione e il rimpianto per la scomparsa di un grande giurista che ha attraversato esperienze e mondi diversi, segnandoli con la sua intelligenza e con la sua umanità.

1. Una delle ultime pagine di Valerio Onida, tanto recente da essere forse ancora poco nota, è un dialogo a due voci con l’amico di una vita Enzo Balboni, anche lui di formazione cattolica, anche lui professore emerito e costituzionalista. La si può leggere proprio all’inizio degli scritti in onore di Balboni, freschissimi di stampa (Non abbiate paura delle autonomie. Scritti per Enzo Balboni, a cura di C. Buzzacchi e M. Massa, Vita e Pensiero, Milano, 2022). Richiesto di ripercorrere in breve la sua biografia, in particolare la sua formazione nella Milano cattolica del dopoguerra, Valerio esordisce in quel libro con una battuta che mi ha colpito: “Nel novembre 1954 mi iscrissi all’Università Statale. Non mi iscrissi alla Cattolica perché, allora, lì insegnava mio padre Pietro”.

Trovo in questa breve frase tutto Valerio, il suo rigore morale costante e mai esibito per il quale lo abbiamo ammirato e in molti gli abbiamo voluto bene. In un Paese tutto sommato eticamente corrivo come il nostro, nel quale l’ereditarietà degli impieghi, specie all’università, è valsa storicamente e forse ancora vale come una regola data quasi per scontata, lui – pensate – cambiava ateneo, rinunciando forse a quella che sarebbe stata la sua naturale preferenza per la Cattolica, solo per non incorrere nel sospetto di profittare di un favoritismo familiare.

 

2. Valerio era nato a Milano nel 1936, in una famiglia a suo modo già molto particolare. Madre siciliana. Suo padre, Pietro, invece sardo: era un eminente professore di aziendalistica, formatosi a Padova alla scuola prestigiosa di Gino Zappa, poi transitato come era allora usuale per diverse università, sino a concludere la sua carriera a Roma. Ha ricordato il suo biografo, Pellegrino Capaldo che, «rimasto precocemente orfano di madre», Pietro aveva conseguito il diploma di ragioniere e cominciato subito a lavorare in banca. «Grazie a questo impiego – cito Capaldo – fu in grado di iscriversi all’università Ca’ Foscari di Venezia e di mantenersi agli studi. Per procurarsi il denaro necessario a proseguire l’università, concentrava tutti gli esami nel mese di giugno dedicandosi poi, nei mesi estivi, alle lezioni private a Sassari». 

Quel che Capaldo non dice nella sua pure informatissima voce (che si può leggere nel Dizionario biografico degli italiani) è che Pietro era il figlio di un poverissimo calzolaio, cresciuto in un altrettanto poverissimo paesucolo di pastori nella montagna della Sardegna nord-occidentale tra Alghero e Bosa: Villanova Monteleone. Dunque aveva, con il solo sostegno della sua tenacia negli studi e della sua intelligenza, compiuto una straordinaria arrampicata sociale, dalla periferia estrema dell’Italia ai grandi centri di ricerca universitari; dalla condizione di indigenza della sua famiglia alla relativa agiatezza di condizione di cui poteva godere allora un professore cattedratico.

 

3. Gli anni milanesi sono stati per il giovanissimo Valerio fondamentali. Qui si iscrisse, non appena finito il liceo (maturità classica al Carducci) e dopo prestato il servizio militare di leva, insieme all’Università e alla Fuci, la pépinière del giovane cattolicesimo progressista del dopoguerra.  E subito vi allacciò amicizie importanti: Franco Bassanini, ma anche Bepi Tomai, Luigi Covatta e soprattutto don Giovanni Barbareschi, l’assistente ecclesiastico di quei ragazzi, col quale ebbe – come avrebbe scritto lui stesso – «un rapporto molto stretto». La Fuci era (rubo questa acuta osservazione a uno storico del mondo cattolico come Paolo Pombeni) un po’ l’alternativa, nella Milano di allora e anche in Italia, all’altro polo della formazione dei giovani cattolici, l’Università creata nel 1921 da padre Agostino Gemelli. Da quell’ambiente “fucino”, ricco di slanci e di fermenti culturali oltreché religiosi (Onida fu, da “fucino”, presidente di circolo e incaricato di zona), si approdava poi facilmente all’insegnamento di un grande maestro come Giuseppe Lazzati e da lì era facile quasi naturale confluire nella sinistra cattolica: La Pira, Fanfani, Tosato, soprattutto Giuseppe Dossetti, cioè i “professorini della Dc” che avevano tanto contribuito a scrivere la Costituzione.  Ma anche – ricorda Valerio nel suo dialogo con Balboni – «il mondo della Corsia dei Servi di Padre Turoldo e di Mario Cuminetti», fondatore quest’ultimo di un gruppo poi a lungo impegnato nelle carceri milanesi: un’esperienza fondamentale, dalla quale il ragazzo Onida sarebbe stato profondamente segnato sino a rimanerle fedele per tutta la vita.

 

4. Sin qui l’impegno politico-intellettuale. Ma c’era poi anche lo studio “matto e disperatissimo” di quei primi anni di formazione, le lezioni seguite con attenta partecipazione, e c’erano le letture sino a tarda sera in biblioteca, e la precoce passione per il diritto; e naturalmente gli esami brillantemente superati, poi la laurea e il conseguimento del titolo di avvocato; e infine le prime prove della carriera universitaria, gli esordi in quella che si chiamava (e ancora qualche volta si chiama) l’accademia. Onida è stato per tutta la vita un lavoratore, abituato a dividere il suo tempo tra studi, scrittura, partecipazione alla vita intellettuale, impegno civile.

Tra i primi libri, che lo segnalarono all’attenzione degli studiosi, nel 1967 Pubblica amministrazione e costituzionalità delle leggi e due anni dopo Le leggi di spesa nella Costituzione, entrambi per Giuffrè, due ricerche esemplari per rigore, novità del metodo e chiarezza espositiva; e poi i due densi tomi con Franco Bassanini sui Problemi di diritto regionale (1971), cioè sugli statuti regionali allora appena sfornati, e sui primi quesiti insorti già in quella fase circa l’attuazione dell’ordinamento regionale. Il tema lo appassionava molto: era quello dei poteri e soprattutto della “cultura” nuova, alternativa alla cultura statalista, di cui poteva farsi portatrice la Regione. Il clima era quello dell’autonomismo democratico lombardo degli anni Sessanta. Si intrecciavano in quegli anni sodalizi e amicizie intellettuali poi destinate a durare: con Giorgio Pastori, soprattutto, e con il gruppo raccolto attorno all’Isap, l’Istituto di scienza dell’amministrazione pubblica fondato da Gianfranco Miglio e Feliciano Benvenuti (quest’ultimo uno dei maestri di Onida); ma anche il giovanissimo costituzionalista torinese Gustavo Zagrebelsky (altra provenienza, altra scuola, ma subito stretto a Onida da un vincolo di lunga amicizia); ancora Franco Bassanini e Enzo Balboni; e poi Ettore Rotelli, Roberto Ruffilli, soprattutto Umberto Pototschnig e Giorgio Berti, e ancora Umberto Allegretti. Nei primi anni Settanta alcuni di questi giuristi furono con Onida partecipi del primo gruppo di esperti incaricato dal Consiglio regionale lombardo di preparare la bozza dello Statuto di quella regione: temi centrali ne furono la partecipazione dei cittadini, il decentramento verso gli enti minori, e l’istituto (tutto da sperimentare) del referendum.  

 

5. In quegli stessi anni mi capitò di conoscere (mi ero a mia volta appena laureato in giurisprudenza) Valerio Onida. Lui era poco più che trentenne, con già qualche incarico di insegnamento in varie università italiane sulle spalle. Per non so quale tramite fece domanda di insegnamento a Sassari, dove l’area del diritto costituzionale necessitava di rinforzi anche per la fisiologica assenza di Francesco Cossiga, titolare dell’insegnamento in quanto libero docente ma impegnato sempre di più a Roma nella sua brillante attività politica. Una facoltà di giurisprudenza presieduta da Luigi Berlinguer aveva proprio allora acquisito il nuovo corso di laurea in scienze politiche e preso a “chiamare” sui posti da assegnare il meglio della gioventù accademica. Fu una “campagna acquisti” felice, che ebbe il merito di concentrare contemporaneamente pur se in una sede periferica tante energie: per restare al diritto Bassanini, Zagrebelsky, Tullio Treves, più tardi Ugo De Siervo, Andrea Orsi Battaglini, Mimmo Sorace, Paolo Caretti, Stefano Grassi (e tra gli storici Roberto Ruffilli, Mario Ascheri, Renato Monteleone, Nicola Gallerano, Andreina De Clementi; tra gli studiosi dell’amministrazione Bruno Dente; tra i filosofi del diritto Riccardo Guastini; tra gli economisti Sebastiano Brusco; tra i sociologi Domenico De Masi, Alberto Martinelli e un giovanissimo Ezio Moriondo autore di un allora celebre quanto pionieristico libro di Laterza sull’ideologia dei giudici). Onida in verità stette a Sassari per poco tempo, credo non più di un anno e mezzo, giacché, vinto il concorso a cattedra, fu chiamato a Pavia: ma la sua presenza in quel gruppo, del quale poteva dirsi per età e maturità scientifica il decano, fu fondamentale. Il dibattito sulle Regioni si trasferì per suo merito anche in Sardegna (dove il confronto era con l’esperienza non sempre esaltante della Regione a statuto speciale: ricordo da Cagliari i pressanti ma inascoltati inviti di Umberto Allegretti perché si creasse un unico “fronte delle Regioni”, rinunciando ai “privilegi” della specialità): la sua idea, che “passava” anche nelle seguitissime lezioni sassaresi, era di fare dell’amministrazione delle Regioni a statuto ordinario allora nascente un unico comparto con gli enti locali, senza più rivalità (i Comuni – insegnava – parlavano spesso direttamente col prefetto e con il Ministero “saltando” la Regione). E poi ci furono, in quell’anno e mezzo, anche le battaglie interne all’ateneo sassarese per rinnovare l’università, che lo videro presente, sempre equilibratissimo (parlava pacatamente, senza mai alzare i toni della voce) ma mai secondario protagonista. Per me, che ero un apprendista docente dalle assai scarse esperienze, incontrarlo e poterci ogni tanto parlare fu importante, tanto più perché in quegli stessi anni studiavo, sia pure da prospettive e con finalità molto diverse dalle sue, la storia dell’autonomismo sardo. Era, con noi giovani e con gli studenti, di una generosità straordinaria.   

 

6. Pubblicava intanto i suoi libri: L’ordinamento costituzionale italiano dalla caduta del fascismo all’avvento della Costituzione repubblicana è del 1976, uscito in una prima versione poi riedita da Giappichelli nel 1991; ma intanto nel 1990, era stato edito quasi con lo stesso titolo il volume Utet, per cura sua e dei colleghi D’Andrea e Guiglia. Scritti questi nei quali sviluppava la riflessione fondamentale sulla radice antifascista della Costituzione, tema a lui molto caro. Le Regioni gli apparivano la grande occasione a lunga attesa di riformare dal basso lo Stato, riducendone il nocciolo duro burocratico attraverso un’ampia delega di funzioni e poteri che riscrivesse l’intera architettura del sistema istituzionale. La Costituzione conteneva il progetto di quello “Stato delle autonomie”.

Dopo il periodo sassarese la sua affermazione nel campo del diritto costituzionale fu costante e al tempo stesso rapidissima. La generazione dei vecchi maestri invecchiava. Cresceva un diritto propriamente costituzionale che nell’attuazione della Carta e dei suoi princìpi trovava il suo naturale campo di prova: pubblicazione puntuale di materiali e documenti, rivisitazioni illuminanti del dibattito costituente, analisi serrata della giurisprudenza costituzionale, comparazioni con le esperienze straniere furono i momenti salienti di quella stagione. Nel 1971 uno dei grandi e più venerati giuristi della vecchia guardia, Aldo Mazzini Sandulli, scrisse un articolo contro la nouvelle vague contestando gli studi più recenti: Ombre sulla Costituzione, si intitolava. Valerio replicò con un meditato saggio apparso l’anno dopo nella Rivista trimestrale di diritto pubblico nel quale definiva i toni usati dal maestro «apocalittici». Quella sua replica non sarebbe passata inosservata. Si delineava ormai un conflitto, ideale ma in fondo anche politico, tra vecchio e nuovo diritto costituzionale, e Valerio ne era uno dei più attivi ed efficaci protagonisti nel fronte degli innovatori. 

Non si trattava – è bene ricordarlo – solo di contrasti di idee tra giuristi, di dissensi teorici. La posta in gioco era ben più rilevante. Si discuteva allora concretamente sulle competenze delle Regioni, in un braccio di ferro estenuante con la burocrazia prefettizia (nel dialogo con Balboni Valerio ricorda la figura del prefetto Elio Gizzi, antagonista preparatissimo ma al tempo stesso accanito dei “regionalisti”). La sede appartata degli studi accademici, se mai lo era stata, non bastava più: l’arena si spostava sui giornali (e Onida ne frequentò le redazioni e vi scrisse molto), sulle riviste, nelle occasioni pubbliche di confronto.  

Nel 1974 fece notizia la sua netta posizione a favore del “no” nel referendum sulla abolizione del divorzio voluto (e perso) da Amintore Fanfani.

 

7. Era tornato a Milano, intanto (illuminanti le sue lezioni, specie quelle destinate ai quasi laureati: Marta Cartabia, che di Onida fu allieva prediletta, prima di esserne una dei successori alla presidenza della Corte costituzionale, le ha pochi giorni fa ricordate). Qui dal 1980 era vescovo il futuro cardinal Martini e si sviluppava in quel rinnovato clima di apertura non solo religiosa una nuova fase politica che certo gli dovette apparire estremamente stimolante. Cresceva dunque il suo impegno nelle istituzioni, soprattutto in quelle lombarde. Dapprima nella nuova commissione statuto della Regione Lombardia presieduta da Carlo Ripa di Meana, poi a fianco di presidenti come Bassetti, Golfari, Guzzetti, Tabacci, Giovenzana, Ghilardotti, Arrigoni. Con Pototschnig lavorava intanto al progetto di legge sull’ordinamento di Comuni e Province; nei primi anni Novanta avrebbe lavorato al Comune di Milano per scriverne lo statuto cittadino. Esperienze di intensa specializzazione, sino a diventare l’avvocato principe delle Regioni più avanzate nel ricorrente duello con lo Stato centrale davanti alla Corte costituzionale. Nei primi anni Novanta Onida fu tra coloro che idearono l’Ulivo e ne sostennero la non facile aggregazione, partecipando poi a formulare le famose 88 tesi per definirne la piattaforma programmatica. 

 

8. Uscivano i suoi libri: Costituzione. Perché difenderla, come riformarla, nel 1995; Il giudizio di costituzionalità delle leggi (con Marilisa D’Amico), nel 1998; Viva vox constitutionis, nel 2003; La Costituzione, nel 2004; Compendio di diritto costituzionale, del 2009 curato con Maurizio Pedrazza Gorlero; Constitutional law in Italy, del 2013. Prendeva forma sino ad affermarsi universalmente la sua lettura originale della Costituzione, si imponeva la finezza del suo ragionare, l’eleganza del suo stile. Generazioni di giovani studiosi guardavano a lui come a un punto di riferimento, a un esempio da imitare. Nel 1996 il Parlamento lo elesse giudice costituzionale. 

Aveva all’epoca 60 anni e gli si apriva una pagina nuova, sebbene in perfetta coerenza con il percorso precedente. Il suo lavoro nei nove anni alla Corte si sarebbe rivelato non solo assiduo ma profondamente incisivo. Basterà ricordare, tra le decisioni di quegli anni, quella sull’abuso dei decreti legge e sulla loro reiterazione (Balboni nel libro citati ricorda una vibrata protesta dell’amico Prodi, all’epoca presidente del Consiglio, respinta con fermezza da Onida); e quelle sulle prerogative parlamentari. Nel settembre 2004 fu eletto presidente della Corte. Scrisse quell’anno per il Mulino un librino destinato a grande diffusione, La Costituzione, che tra tutti – mi diceva – era quello che più gli piaceva di aver scritto. Terminato il mandato non solo volle ritornare all’insegnamento universitario alla Statale di Milano ma riprese il costume delle sue visite in carcere (a Bollate), un giorno alla settimana a disposizione di chiunque tra i detenuti volesse parlargli, averne consiglio o anche solo conforto. Destò anche qualche commento la sua decisione di rinunciare ai privilegi allora attribuiti agli ex presidenti della Corte, tra i quali quello dell’auto di servizio: Valerio girava la sua Milano a piedi, utilizzando i mezzi pubblici, munito di regolare tessera per anziani rilasciata dalla azienda comunale di trasporto.

 

9. È stata, quella di Valerio Onida, una vecchiaia relativamente serena, se si prescinde dalla malattia che ne ha tormentato gli ultimi anni. Per quattro anni è stato il primo presidente della appena istituita Scuola superiore della magistratura, una struttura con sede didattica a Scandicci alla quale ha dedicato tutta la sua passione, anche trascorrendo lunghi periodi in Toscana. Dovette, in anni nei quali il Consiglio superiore della magistratura mal sopportava la Scuola che gli aveva sottratto il controllo della formazione dei giudici, fronteggiare molte difficoltà, superare ostacoli burocratici ma anche – spesso – ostracismi politici. Lo fece con la sua solita serenità, cortese con tutti ma intransigente nella difesa di quelle che considerava prerogative inalienabili di autonomia della Scuola. Aprì la Scuola verso l’esterno, la guidò nei primi passi, intrecciò proficui rapporti tra magistrati e professori, seguì con scrupolo i rapporti con i corsisti e in particolare quelli con i giovani magistrati freschi di concorso (i Mot), che nella Scuola trovarono un primo, fondamentale banco di prova.

 

10. Lo rividi poi due o tre volte: una durante il mio mandato nel direttivo che gli succedette alla Scuola, quello guidato da Gaetano Silvestri (veniva spesso da noi come relatore, sempre accolto come uno di casa); un’altra in Sardegna, quando il comune di Villanova Monteleone, in memoria del padre ma anche e soprattutto per festeggiare il figlio, gli conferì la cittadinanza ad honorem e il sindaco mi chiese di tenere io una sorta di discorso ufficiale. Infine, l’ultima volta, poco prima che scoppiasse la pandemia (che avrebbe impedito qualunque altro incontro), a Viterbo, quando lo invitammo a un convegno di storici e linguisti chiedendogli una relazione su Le parole della Costituzione (la si può ora leggere in Le parole del potere, Il Mulino, 2021). Tenne quel giorno, come sempre faceva del resto, una lezione magistrale. Notò, tra l’altro, come i costituenti avessero preferito al lemma “Stato” l’espressione, assai più frequentemente usata, “La Repubblica”, oppure quella “Paese”. Contò quante volte l’aggettivo “sociale” ricorresse nel testo costituzionale, e quante la parola “solidarietà”. Quanto centrale fosse il termine “persona”, spesso prevalente sul lemma pure presente “cittadino”. Quanto poco i due termini, screditati dall’appropriazione che ne aveva fatto il fascismo, “nazione” e “patria” ricorressero nella Costituzione. Polemizzò garbatamente con la proposta di abolire il termine “razza” (“senza distinzione di razza”) perché impiegato dai costituenti – sostenne – proprio per condannarlo. “In definitiva – concluse – il linguaggio della Costituzione è anche quello della nuova fase della storia del costituzionalismo, improntata alle idea-forza dell’universalismo dei diritti, dell’eguaglianza tra tutti gli uomini e della convivenza e collaborazione internazionale”. 

Ricordo che il pubblico, quel giorno, lo applaudì a lungo con affetto, quasi non volesse lasciarlo andar via (ripartì subito per Milano, dove aveva altri impegni). Se si fosse potuto (ma lui non l’avrebbe gradito), si sarebbe improvvisata una di quelle ovazioni che si fanno ai campioni più amati dello sport negli stadi. Lui raccolse le sue carte. Lo accompagnai al taxi: mi salutò con la consueta stretta di mano, e col sorriso che gli conoscevo. Ci dicemmo arrivederci. Non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta. 

19/05/2022
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