Magistratura democratica
Magistratura e società

Tre vite per poco più di un secolo

di Edmondo Bruti Liberati
già procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano
Un avvocato antifascista e rivoluzionario, un magistrato eretico, una brigatista rossa. Un filo lega queste tre storie che animano Un secolo e poco più, il volume di Luigi Saraceni. Pagine profonde che delineano la parabola simbolica di oltre cento anni di storia del nostro Paese
Tre vite per poco più di un secolo

Attraverso le storie di tre personaggi della stessa famiglia si percorre un secolo  dall’attentato a Umberto I ai nostri giorni – nel libro di Luigi Saraceni, Un secolo e poco più (Sellerio, 2019). 

«Ho capito che c’è un filo che tiene insieme questo libro, che parte da un padre “rivoluzionario” e arriva a una figlia accusata di terrorismo. Non è, però, un libro intimo, una saga familiare, il risultato di un bisogno, quasi, di far quadrare gli accadimenti drammatici degli ultimi anni con tutto quello che c’è stato prima. La cavalcata attraverso la storia della famiglia Saraceni è molto, molto altro. È, e vuole essere, anche il passaggio lungo la storia della democrazia, la nascita e lo sviluppo di diritti (e dei relativi doveri), il rapporto tra politica e magistratura e tra magistratura e avvocatura. A partire dalle inquietudini e dal ruolo che le diverse epoche storiche hanno assegnato, nel nostro splendido Paese, a una funzione, quale quella della Giustizia, tanto importante quanto delicata», scrive Giuliano Pisapia nell’introduzione al volume. 

Il padre Silvio all’inizio del Novecento, avvocato umanitario antifascista, fondatore nel 1944 della “Repubblica di Castrovillari”; Luigi magistrato a Roma dal 1964, impegnato in Magistratura democratica, deputato per due legislature dal 1994 al 2001, avvocato; la figlia Federica, condannata con sentenza definitiva per partecipazione a banda armata per la ricostituzione delle nuove Brigate rosse e per l’omicidio di Massimo D’Antona.

«Un filo – scrive ancora Giuliano Pisapia − che parte dalla battaglia per l’acqua pubblica della sorgente Santa Venere − era il 1908, era la Calabria natìa – vinta dal giovane padre di Luigi, il coraggioso avvocato Silvio. Che passa dal giovane aspirante magistrato Luigi Saraceni, che si presenta baldanzoso all’esame di concorso con L’Unità e L’Avanti sotto il braccio in anni in cui era una cosa da non fare. E che, entrato in magistratura, partecipa attivamente all’esperienza di Magistratura democratica fino a quando, nel suo percorso di vita e di esperienze, viene eletto in Parlamento e, dopo essersi dimesso dalla magistratura, continua, in ben diverso ruolo, l’impegno quotidiano per una giustizia capace di conciliare celerità, efficienza e garanzie per imputati e vittime dei reati. Un filo che lo porta infine ad affrontare il dramma di Federica, la figlia. A proposito della quale un Luigi smarrito, ma con il coraggio e la forza di guardare dentro sé stesso, si chiede: ho sbagliato? Sono stato un cattivo maestro? E se ho sbagliato, dove ho sbagliato?».

Sulla esperienza in magistratura Saraceni si sofferma in particolare sulle “ingiustizie” della giustizia di tutti i giorni, quella dei casi che non finiscono sui giornali. E la rievoca così:

«Penso che l’essenza del mestiere di giudice stia nel difficile compito di conciliare il senso di giustizia con il formale rispetto delle regole. Rispetto della legge da applicare e della verità del fatto cui va applicata. Sono questi, secondo la mia trentennale esperienza, i canoni fondamentali dell’opera di giudicare. Con la consapevolezza che la legge è esposta a quell’insopprimibile momento dell’attività giurisdizionale che è la sua interpretazione e che la ricostruzione del fatto esige ascolto e dubbio critico; ogni fatto da giudicare è una storia, una microstoria, che a volte, per il protagonista del processo, è la storia della vita. In questo spazio tra leale interpretazione della legge e fedele ricostruzione del fatto, fare giustizia richiede passione civile, senza la quale il mestiere di giudice rischia di diventare burocratica e routinaria applicazione della legge. Indispensabile è la capacità di essere imparziale, indipendente anche dalla propria passione».

Eletto alla Camera dei deputati nel 1994, Saraceni sceglie di dimettersi dalla magistratura, egli dice, «non perché ritenessi disdicevole tornare ad indossare la toga di giudice una volta cessato il mandato parlamentare. La ragione era un’altra: avrei realizzato dopo trent’anni la mia giovanile aspirazione di fare l’avvocato». La disciplina del passaggio di magistrati al Parlamento e del rientro in magistratura è un tema aperto nel dibattito pubblico e tuttora manca una disciplina organica ed equilibrata. Il legislatore peraltro seguita ad ignorare il problema, forse ancora più acuto, del passaggio diretto dalla toga ad incarichi elettivi nelle amministrazioni locali o incarichi come “assessore esterno”, nonostante le ripetute sollecitazioni da parte della stessa Associazione nazionale magistrati per una disciplina rigorosa di incompatibilità. Ma sui magistrati parlamentari lasciamo ancora la parola alle puntuali ed equilibrate osservazioni di Saraceni: «Il tema del passaggio dalla toga al Parlamento e ritorno è ricorrente nel dibattito pubblico e qualche volta risente del diffuso pregiudizio che vorrebbe vietare in assoluto questo andirivieni. Credo che sia un errore. Certo qualche paletto, qualche buona regola è necessaria, in nome del principio che il giudice, come la moglie di Cesare, oltre che essere deve apparire imparziale. Ma credo anche – e potrei citare chiarissimi esempi – che l’esperienza politica, in particolare quella parlamentare, se vissuta con passione civile e senso del bene comune, induce una più alta consapevolezza istituzionale e quindi può migliorare anche la capacità di essere giudice. E per vincere il pregiudizio dell’apparente parzialità credo che il modo migliore sia essere realmente indipendente e imparziale. È proprio questo che si deve pretendere dal giudice: la capacità di coniugare il rispetto della legge con la propria cultura, di cui la coscienza politica è componente essenziale».

Della sua esperienza parlamentare Saraceni ricorda l’impegno per una soluzione equa del caso Oçalan, fino al drammatico epilogo. Ebbe una positiva conclusione, dopo un lungo iter legislativo, quella che viene ancora denominata “Legge Simeone-Saraceni”. La originaria proposta di legge del deputato di Alleanza nazionale, avvocato Alberto Simeone, sviluppata ed arricchita dai contributi del relatore Saraceni, è entrata finalmente in vigore nel 1998. Ha segnato un fondamentale passo in avanti nella disciplina dell’accesso alle misure alternative alla detenzione, superando una disciplina che di fatto condannava ad un periodo, spesso non breve, di detenzione in carcere in attesa della fissazione della udienza del Tribunale di sorveglianza, quei condannati, che, in mancanza di un difensore di fiducia, non avevano potuto presentare tempestivamente l’istanza di sospensione dell’esecuzione.

Della esperienza di avvocato rammenta la difesa, insieme a Guido Calvi, di Achille Occhetto e Massimo D’Alema, nella indagine promossa nel 1995 dal pm veneziano Carlo Nordio, conclusa dopo un iter segnato da straordinarie lungaggini, con una dichiarazione di incompetenza dell’autorità giudiziaria veneziana e archiviazione nel 2004.

La terza parte è sulla vicenda della figlia Federica, condannata in primo grado per partecipazione a banda armata per la ricostituzione delle nuove Brigate rosse e in appello, con sentenza divenuta definitiva, anche per l’omicidio di Massimo D’Antona. Luigi Saraceni avvocato entra nel collegio di difesa della figlia.

Ancora una volta lasciamo la parola a Luigi Saraceni, che, appena avuta la notizia dell’arresto, ripercorre il conflitto con la figlia adolescente e giovane donna: «Non era solo giovanile esuberanza ideologica, incubava anche cattivi propositi? E se così è, in cosa ho sbagliato? Non ho capito? Ho liquidato il dissenso troppo facilmente? Per pigrizia mentale, per paura di approfondire il solco anche affettivo?».

E prosegue: «Ma non posso fare a meno di pensare anche a Massimo D’Antona, a sua moglie, a sua figlia. Sono loro, va da sé, le vittime principali della tragedia di cui è accusata Federica. Mi torna in mente quello che a suo tempo ho scritto su “Lotta Continua” a proposito dell’assassinio di Riccardo Palma. Dicevano i brigatisti di non aver ucciso un uomo, ma un simbolo. Ferocia disumana. Palma era anzitutto un uomo, e se era un simbolo, simboleggiava una larga fetta di umanità, alla quale apparteneva, fatte le dovute differenze, tanta parte del mio mondo, pubblico e privato. Anche Massimo D’Antona apparteneva a quella umanità. Possibile che mia figlia si sia resa complice del suo assassinio? Comunque vada, devo fare i conti col rispetto dovuto al carico di dolore causato da quel gesto irreversibile; un irreparabile dolore che peserà su tutta la vicenda. […] Il giudicato non si discute, gli si deve ossequio. Ovviamente non voglio sottarmi a questo dovere. Ma so anche che esiste l’errore giudiziario, che è la verità che sopravvive al giudicato [...]. L’errore giudiziario è un verdetto sbagliato per una errata valutazione della prova. Chi ritiene di esserne vittima ha diritto, ferma l’obbedienza al giudicato, di affermare la sua verità, appunto la verità che sopravvive al giudicato».

Nelle ultime pagine del libro Saraceni ricorda: «Mentre scrivevo, ogni tanto ero colto dal dubbio che quello che andavo raccontando non potesse suscitare un interesse in un lettore».

In me, e sono sicuro che non rimarrò isolato, Un secolo e poco più ha suscitato non solo un grande interesse, ma anche un vivo apprezzamento per lo stile con il quale sono state rievocate vicende che, appunto, hanno percorso oltre un secolo, nei risvolti privati e nei profili che hanno percorso la storia della nostra democrazia.

16/02/2019
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