Magistratura democratica
Magistratura e società

Pier Amato Perretta. Una vita per la libertà

di Giuseppe Calzati
presidente dell’Istituto di storia contemporanea “Pier Amato Perretta”
Un magistrato impegnato nell’associazionismo delle origini, che previde la deriva autoritaria del fascismo e che ad esso si oppose fino alla scelta di abbandonare l’ordine giudiziario e fino al sacrificio della vita durante la Resistenza

Sono da augurarsi tre cose: un’intelligenza chiara,
 
una coscienza retta, una volontà forte

Pier Amato Perretta

Nessuno, 1944

***

Quando Pier Amato Perretta giunge a Como nel febbraio del 1921 per occupare il posto di giudice presso il Tribunale della città è un uomo di 36 anni, entrato molto giovane in magistratura nel 1909 quando arrivò secondo su 150 nel concorso.

Era nato a Laurenzana, in provincia di Potenza, il 24 febbraio del 1885 e pur avendo vissuto lontano dalla sua terra fu ad essa molto legato; in un tema d’italiano svolto nel 1902 in terza liceo scriveva:

«Sebbene vissuto quasi sempre lontano dai miei monti e dai miei fiumi lucani (...) pure ho serbate intatte le qualità, dirò così, caratteristiche di nostra gente. E come tra queste massime spiccano l’ammirazione per ogni cosa bella e buona, ed un possente amor di patria, io sono un adoratore impenitente della Bellezza e della Bontà, e sopra tutto amo ardentemente la mia provincia natale, la mia Lucania».

Sposato con Gemma De Feo dal 1910, aveva avuto quattro figli: Lucio Vero (1912), Fortunato Libero Austero (1914), Vittoria Elena Antonietta (1916) e Giusto Ultimo (1919). Le date e le città di nascita dei figli scandiscono le tappe della carriera di Pier Amato Perretta in magistratura: Lucio nacque a Napoli quando il padre ricopriva l’incarico di giudice aggiunto facente funzioni di sostituto procuratore del Re; Fortunato era nato a Locorotondo, dove dall’agosto del 1913 il padre era stato pretore; Vittoria era nata a Conselve (Padova), dove dal settembre del 1914 fu trasferito e dove lo colse il richiamo militare per partecipare alla Grande Guerra; e Giusto era nato a Napoli, quando il padre, ancora mobilitato, lavorava presso il Tribunale militare marittimo.

La sua carriera di magistrato si era intrecciata con quella militare negli anni della Grande Guerra alla quale aveva partecipato nel corpo dei Bersaglieri. Dal marzo del 1915, quando viene richiamato in servizio a Verona presso l’8° Reggimento bersaglieri col grado di sergente, all’ottobre 1919 quando viene congedato con il grado di capitano partecipa alla Prima guerra mondiale sia sui fronti di guerra che come giudice militare in Albania e poi al Tribunale militare di Napoli. Sulla giustizia militare avrà nel 1920 parole molto severe:

«In Italia si sopprimono le cose necessarie, si mantengono le inutili. Si volevano sciogliere i reggimenti bersaglieri ma nessuno ancora pensa a chiudere i tribunali militari, inutili in tempo di pace, inidonei in tempo di guerra».

Nel 1916 su La Magistratura in un articolo di saluto per il collega Perretta impegnato al fronte viene così descritto:

«Idealista fervido ed indomito lottatore, anima ardente ed entusiasta nella inesauribile e proteiforme ricchezza della sua vita intellettuale e morale».

Un episodio aiuta a comprendere quali fossero le sue priorità. Dopo la rotta di Caporetto manda alla moglie Gemma ancora a Conselve un telegramma:

«LASCIA TUTTO SALVA I LIBRI PIETRO»

L’appartamento in cui viveva la moglie venne requisito per esigenze belliche e la famiglia si trasferì a Napoli. Perretta conservò l’incarico di pretore a Conselve e vi ritornò dopo essere stato smobilitato alla fine del 1919 e fino al 1921 quando verrà nominato giudice a Como.

Il suo nome si era già affermato nell’ambito dell’Associazione magistrati con prese di posizione pubbliche che avevano suscitato interesse e polemiche anche aspre, e con un lavoro teorico importante intorno ad alcuni nodi della professione di magistrato e in rapporto con gli altri organi dello Stato.

Nel luglio del 1912 aveva pubblicato un articolo sul Corriere dei Tribunali in difesa dell’indipendenza della magistratura, criticando quanto si stava discutendo in Parlamento in materia di riforma della giustizia:

«Le maggioranze politiche istintivamente considerano l’ottimo giudice come un limite incomodo alle proprie aspirazioni e non hanno perciò interesse a migliorarne lo stato di fatto materiale e morale. Il governo ha già proferito contro i magistrati parole illiberali ed ingiuste; la Camera ha dimostrato la sua mentalità e le sue tendenze protestando, inutilmente gaia e rumorosa, contro i giudici “che vogliono imporsi e credono di essere i padroni» (Corriere dei Tribunali, n. 24/1912, Le reticenze dell’on. Gallini).

E nel settembre del 1913, al Congresso nazionale della Magistratura, era intervenuto sul tema e dell’autonomia del potere giudiziario e dell’indipendenza da quello politico ottenendo un vasto consenso e l’elezione nel Consiglio centrale dell’Associazione e nella redazione del settimanale La Magistratura, organo dell’Associazione generale dei magistrati, diretto da Vincenzo Torraca.

Quando arrivò a Como la sua fama l’aveva preceduto. Le sue posizioni di principio, il prestigio acquisito a livello nazionale tra i magistrati, le polemiche a cui non si era sottratto e le inchieste avviate sul suo operato di pretore (in particolare per il periodo trascorso a Locorotondo), ne facevano un personaggio scomodo per chi avrebbe preferito trovarsi di fronte un uomo d’ordine, supino verso il potere costituto, malleabile e magari corruttibile.

Pier Amato Perretta arriva a Como nel momento in cui infuria la violenza fascista contro le organizzazioni socialiste e operaie.

Le elezioni politiche del novembre 1919 avevano visto anche a Como l’affermazione del Psi e la netta flessione del blocco liberale. Il 31 ottobre 1920 nelle elezioni comunali di Como il Partito socialista raccolse 4.624 voti, l’Unione democratica (liberali) 4.024, il Ppi 1.831, una lista “antibolscevica” 723 voti. Sindaco venne eletto Angelo Noseda, avvocato, che divenuto in seguito deputato lasciò il posto a Paolo Nulli che ricopriva anche la carica di presidente della provincia, pure a maggioranza socialista.

Malgrado Como non fosse stata investita direttamente dalla guerra, tuttavia gli effetti devastanti del conflitto appena concluso si facevano sentire. L’amministrazione comunale si trovò a dover affrontare i problemi sociali dovuti a un forte incremento del costo della vita (quasi quattro volte rispetto al 1915), alla crisi degli alloggi per l’incremento dei costi di costruzione e una forte tensione sociale che vedeva contrapposti i ceti medi e gli operai delle fabbriche cittadine. Durante la guerra l’industria serica comasca aveva sofferto per il blocco delle importazioni e la città, pur trovandosi lontana dal fronte, aveva dovuto sopportare l’arrivo di migliaia di lavoratori emigrati in Germania e di soldati dell’esercito austro-ungarico, feriti o prigionieri di guerra.

Nel novembre 1920 era sorto il Fascio di combattimento di Como (tardi rispetto al resto d’Italia) intorno alle figure di Gigi Maino, Paolo Porta e Ferdinando Lanfranconi (avvocati, che saranno poi nemici giurati di Perretta), con velleità rivoluzionarie e proletarie (oggi diremmo populiste) e una chiara vocazione nazionalista e “rurale”. Sorsero diverse squadre d’azione, la Gino Negretti, la Me ne frego, la Sant’Elia, la Sinigaglia e l’Oberdan che praticarono la violenza contro i “rossi”.

Il 25 febbraio 1921 usciva il primo numero del settimanale La Comune, organo della federazione comunista di Como, costituitasi dopo la scissione di Livorno del 21 gennaio; il primo congresso si tenne pochi mesi dopo alla presenza di rappresentanti di 26 comuni della provincia.

Il 17 aprile 1921 uscì il primo numero de Il Gagliardetto che si proponeva di raffigurare il fascismo come un movimento preoccupato di garantire ordine e pacificazione nazionale contro i pericoli del comunismo che anche a Como muoveva i primi passi.

La violenza fascista divenne l’elemento predominante della vicenda politica comasca. Il 16 gennaio 1921 venne ucciso in pieno giorno ad Albate Giuseppe Lissi, socialista; nel maggio dello stesso anno vi fu l’assalto a un corteo di lavoratori tessili che doveva inaugurare una bandiera rossa al Broletto; il 28 giugno 1922 ci fu la devastazione della Camera del lavoro e gli incidenti con spari al caffè Carducci il 23 settembre, e una miriade di spedizioni nei comuni della provincia, pestaggi di antifascisti e violenze ripetute, grazie anche all’aiuto di squadracce provenienti da Varese, Monza e Milano.

Fu così che al culmine della violenza e grazie alla complicità delle autorità dello Stato, il 29 ottobre 1922 in occasione della Marcia su Roma, i fascisti comaschi poterono occupare senza difficoltà la prefettura, la questura, gli uffici postali, telegrafici e telefonici e tutti gli uffici pubblici bloccando le vie d’accesso alla città. Le dimissioni dei consiglieri comunali di minoranza e le reiterate violenze dei fascisti portarono il 30 dicembre 1922 alle dimissioni del sindaco Nulli e della giunta; a cui fece seguito lo scioglimento anche della provincia.

Le violenze durarono ancora per tutto un anno sia verso i socialisti (il 26 dicembre del 1922 venne devastato il circolo socialista di Albate) che verso i cattolici, con la distruzione il 9 agosto 1923 della tipografia de L’Ordine e la devastazione della sede del Ppi, l’aggressione a don Primo Mojana e ad Abbondio Martinelli, l’attacco alle cooperative, bianche e rosse, per favorire imprenditori e commercianti senza scrupoli.

Il Pnf era comunque diviso al proprio interno. Da una parte i seguaci del ras Alessandro Tarabini, federale di Como dal maggio del 1924; dall’altra i giovani de Il Gagliardetto, gli ex combattenti e i nazionalisti.

Nel 1926 un rapporto del prefetto metteva in luce che «la grande maggioranza della popolazione non è di natura fascista ma apprezza l’ordine che il Governo sa mantenere».

La federazione fascista verrà sciolta nell’agosto del 1929 con la nomina dell’on. Carlo Basile a commissario. Una inchiesta da lui condotta mise in luce i comportamenti immorali del Tarabini, che eletto deputato riuscirà a sottrarsi alle conseguenze dell’inchiesta (e diventerà vice segretario nazionale del Pnf).

L’opposizione antifascista è debole e divisa, i comunisti sono ormai in clandestinità e su posizioni bordighiane, i socialisti sono lacerati al loro interno, i cattolici divisi tra chi simpatizza per Mussolini (l’«uomo della Provvidenza») e chi si oppone al fascismo in nome dei valori democratici.

Pier Amato Perretta a Como si inserisce nel tessuto cittadino senza particolari difficoltà. Dopo un periodo trascorso a Blevio, prende alloggio con la famiglia in piazza Cavour e frequenta gli ambienti più vivaci della città. Non si limita a svolgere il proprio mestiere di magistrato attento a mantenere la propria indipendenza. È anche uomo di cultura, con chiari interessi sociali; tiene conferenze all’Istituto Carducci, collabora a titolo gratuito con il Commissariato per gli alloggi del Comune di Como, diventa presidente della Cooperativa impiegati statali che realizza il Nuovo Quartiere Giardino, un raro esempio per Como di quartiere moderno, che verrà inaugurato il 15 giugno 1925.

Scrive su diverse riviste di area antifascista, come La Separazione, settimanale romano del movimento hallesista, e Volontà, diretta da Vincenzo Torraca, rivista di ex combattenti antifascisti su cui scrivevano Gobetti, Croce, Parri, Amendola, Calamandrei.

Proprio su La Separazione, il 23 giugno 1923, pubblica un articolo dal titolo Il viandante smarrito, fortemente sarcastico nei confronti del duce, del partito, del ministro Rocco e degli industriali, in cui tra l’altro scrive:

«La volontà di Benito Mussolini, cadute le illusioni taumaturgiche, sfrondata dei ricordi pedagogici sull’importanza del castigo e del premio, si va esaurendo nelle gite, nelle cerimonie e nei vaticini (…). Sinora il fascismo si può paragonare ad un servizio di carabinieri e di militi sulla piazza del mercato. È necessario non solo che i militi non vengano alle mani fra loro, ma che il mercato si arricchisca di merci, si animi di contraenti; altrimenti a sorvegliare il vuoto e il silenzio, basta il custode del cimitero a caroviveri ridotto».

Uno stralcio dell’articolo viene pubblicato anche sul giornale socialista Il Lavoratore comasco, senza che l’autore ne sia a conoscenza.

Il fatto non sfugge all’attenzione delle autorità. Pochi giorni dopo il prefetto di Como, generale Maggiotti, segnala a Mussolini la pubblicazione e il fatto che l’opinione pubblica «commenta[va] non troppo favorevolmente questa sua [del Perretta] attività giornalistica».

La risposta di Perretta ai “richiami” non si fa attendere. Il 6 luglio 1923 scrive al prefetto rivendicando il suo diritto costituzionale di esprimere il proprio pensiero come studioso e cittadino esulando dalla sua qualità di magistrato. La lettera si conclude con una evidente provocazione:

«Domando di essere collocato a riposo, a tenore delle vigenti disposizioni, avendo creduto erroneamente di essere un magistrato indipendente di un popolo libero e non il pavido servitore di questo o quel partito».

Gli verranno imputate anche le due conferenze che nel febbraio e marzo del 1924 tiene presso il Circolo Rinascimento di studi sociali e politici di Milano sul tema dell’Azione economica (il contrasto delle opinioni/i fatti risolutivi), giudicate critiche verso la politica del governo fascista.

Nel febbraio del 1924 aveva partecipato alla costituzione del gruppo comasco della Unione Hallesista Italiana. Perretta iniziò di lì a poco un corso di economia hallesista con lezioni sulla ricchezza, la produzione-consumo, il risparmio, il ruolo dello Stato e degli individui, esponendo un pensiero economico originale in cui i comportamenti individuali e la distribuzione proporzionale dei beni secondo i bisogni individuali avrebbero dovuto costituire i pilastri dell’economia sociale: «La somma dei doveri reciproci che gli individui possono compiere col concorso della loro intelligenza ed operosità» doveva ridurre sempre più il «compito affidato alle leggi e alla morale».

Nel marzo del 1925 in una lettera al presidente del Tribunale di Como, che aveva criticato il suo impegno a favore delle idee hallesiste, chiarisce cosa sia l’hallesismo: non è un’associazione ma una dottrina (una forma di neo-contrattualismo), farne l’apologia non sarebbe sconveniente ma dovere «nobilissimo d’un uomo colto».

Ma è soprattutto il suo impegno all’interno della magistratura a esporlo agli attacchi dei fascisti.

A Milano, il 20 dicembre 1924 in occasione di un’Assemblea di magistrati lombardi, Perretta, presente in rappresentanza del Tribunale di Como, illustra un ordine del giorno da lui preparato e approvato al termine dei lavori, con cui si difende la autonomia della magistratura dalla politica:

«I Magistrati della Lombardia (...) dichiarano (...) che nell’ordine dei loro voti, sta, primo fra tutti, quello della maggiore autonomia ed effettiva indipendenza della loro funzione, non per loro prestigio, ma per massima comune garanzia».

Il documento fu pubblicato su molti quotidiani, «come un documento insigne di fierezza e di dignità».

Ma i margini per poter ancora agire alla luce del sole si facevano sempre più ristretti. Il delitto Matteotti aveva provocato lo sbandamento del fascismo e illuso l’opposizione circa l’apertura di una fase nuova. Di lì a poco Mussolini avrebbe spazzato via queste illusioni e aperto la strada all’instaurazione del regime totalitario. Anche per Pier Amato Perretta si prospettano tempi sempre più difficili.

Una lettera del capo di gabinetto del ministro dell’Interno del 20 marzo 1925 al suo collega del Ministero della giustizia segnala che la federazione fascista di Como si lamenta «del contegno e dell’eccessivo rigore di alcuni magistrati tra i quali il Giudice di Como Pier Amato Perretta» che aveva ordinato l’arresto di cinque fascisti responsabili dell’assalto violento a un circolo socialista due anni prima. I fascisti lo considerano un elemento ostile e quindi da punire.

In questo clima già rovente Perretta si trova a dover giudicare niente meno che il capo dei sindacati fascisti, l’on. Edmondo Rossoni. In qualità di presidente della Commissione arbitrale dell’impiego privato il 24 aprile 1925, Perretta firma una sentenza, condivisa dagli altri componenti della commissione, contro l’on. Edmondo Rossoni, contumace, presidente delle Corporazioni sindacali fasciste. Si trattava di giudicare la denuncia fatta da tre ex sindacalisti contro la Confederazione delle corporazioni sindacali fasciste nella persona del suo presidente, che venne condannato al pagamento delle retribuzioni arretrate e delle liquidazioni dei denuncianti. La vicenda colpiva anche il sottosegretario all’Interno Attilio Terruzzi, ras del fascismo comasco e referente di Rossoni oltre che intimo del duce. Il comportamento del Perretta peraltro venne giudicato, dagli altri componenti della Commissione come «imparziale, scrupoloso e preciso».

Il ministro Rocco, sollecitato dai fascisti comaschi a intervenire contro il Perretta, prende a pretesto le due conferenze da lui tenute a Milano l’anno prima, e il 22 maggio 1925 invita il presidente del Consiglio della magistratura a esprimersi sul tramutamento d’ufficio del Perretta (l’accusa era di aver sostenuto le tesi di un movimento, quello hallesista, sui cui dirigenti era in corso un’indagine della magistratura, accusati di truffa e vari altri reati; in realtà un’accusa pretestuosa dalla quale verranno assolti sia in primo grado che in appello, e il cui scopo era di mettere fine a un’attività considerata pericolosa dal fascismo). Il ministro affermava che le conferenze del Perretta avevano suscitato commenti non favorevoli della stampa e accresciuto il contrastato giudizio sull’opera di quel magistrato, giudicato di carattere «altezzoso ed insofferente» per cui non può «ulteriormente amministrare giustizia nell’attuale sede nelle condizioni richieste dal prestigio dell’Ordine Giudiziario».

Le pressioni del ministro portano alla decisione di allontanare il giudice Pier Amato Perretta da Como, destinandolo al Tribunale di Lanciano, in provincia di Chieti.

La notizia del decreto di trasferimento del giudice Perretta suscitò vivaci reazioni in diversi ambienti della città. Furono in molti a manifestare, pubblicamente e in privato, la loro solidarietà nei confronti di Pier Amato Perretta: gli ordini professionali dei procuratori, degli avvocati, dei ragionieri, il collegio notarile provinciale.

L’on. Giovanni Merizzi, popolare, di Sondrio, presentò un’interrogazione al ministro della Giustizia, chiedendo la revoca del provvedimento. In essa riportava la convinzione della cittadinanza di Como e di gran parte del foro che il trasloco sia stato provocato dalla «influenza illegittima del sottosegretario di Stato On. Terruzzi, per una sentenza pronunziata dalla Commissione Arbitrale presieduta dal Giudice Perretta e per la quale il Sottosegretario Terruzzi manifestò ira e sdegno contro il giudice Perretta».

Il giornale cattolico L’Ordine l’11 luglio 1925 pubblica un articolo che annuncia il trasferimento del giudice Perretta:

«Il suo ingegno e la sua attività gli conquistarono la simpatia e l’amicizia di tutti i suoi colleghi, dei suoi superiori, di tutti gli avvocati, di quanti, infine, lo conobbero. Per quanto giovane si può dire che egli incarnasse il tipo del vecchio magistrato giusto, imparziale, severo e clemente, ad un tempo. Aveva del suo ufficio il più alto concetto e considerava la indipendenza della magistratura come la cosa più sacra e nobile».

Particolarmente significative le parole di Eugenio Rosasco, industriale tessile, che così scrisse a Perretta:

«Per lei, che “vergin di servo encomio” non ha mai voluto piegarsi al partito dominante, mantenendo con dignità e fermezza la sua completa libertà spirituale e la piena indipendenza di giudizio, il minacciato provvedimento è un vero omaggio che il fascismo rende alla sua intemerata coscienza; e, mentre le esprimo la mia piena solidarietà, mi annovero, non pensando che ella possa opporsi validamente al nuovo sopruso del regime e rimanere a Como, onore della nostra magistratura non viziata dalla nuova atmosfera, fra i suoi amici ed ammiratori».

Perretta reagisce al decreto di trasferimento con un ricorso straordinario al re, per «violazione di legge, eccesso e sviamento di potere e manifesta iniquità», presentato il 18 agosto 1925 e intitolato Per la tutela delle guarentigie giudiziarie. Pochi giorni dopo, il 30 agosto 1925, nelle Postille al ricorso, riprende la nota del ministro Rocco in cui si adduceva a motivo del tramutamento «il carattere altezzoso ed intollerante» del Perretta, osservando che in realtà «in quattro anni e mezzo di residenza in questa città non ho mai dato causa ad alcun incidente e sono riguardato con generale simpatia anche pel tratto cortese ed affabile verso tutti», per cui il ministro travisava dolosamente la verità.

E aggiunge:

«Ma il nostro paese, rivoluzionario a parole, conserva una vecchia mentalità cinese. Chiunque serve lo Stato deve pensare soltanto a battere la sua carriera, munito di paraocchi. Se appena solleva il capo verso la cultura viva ed associata, che trae alimento da ogni scienza, diventa un “uomo pericoloso”».

Riferendosi al ministro Rocco, che lo aveva accusato di non essere un «uomo equilibrato», osserva che «questo aggettivo, che vorrebbe chiarire un provvedimento di trasloco, è il gemito di una verità ferita. Se io non sono un giudice di sufficiente equilibrio la popolazione di Lanciano non merita questo dono».

Il ricorso al re viene respinto e nell’ottobre 1925 Perretta decide di lasciare la magistratura piuttosto che sottostare a una prepotenza illegale.

Intraprende la libera professione, grazie all’aiuto nell’avvocato Noseda, già sindaco socialista di Como.

Ma i tempi si fanno ancora più difficili. Il 1° novembre 1926, a seguito del fallito attentato a Bologna contro Mussolini, i fascisti di Como si scatenano violentemente contro gli oppositori. Assaltano e distruggono lo studio Noseda-Perretta. Pier Amato Perretta viene arrestato, insieme ad altri antifascisti, tra i quali don Primo Mojana, segretario del Partito popolare e direttore del settimanale cattolico La Vita del Popolo. Tradotto nel carcere di San Donnino vi resterà una settimana. Liberato, viene di nuovo arrestato il 25 novembre e tradotto al carcere di Potenza insieme a don Primo Mojana, in attesa della sentenza definitiva. La Commissione provinciale per il confino di Como lo condanna a due anni di confino di polizia da scontarsi in Basilicata, a Laurenzana.

Il prefetto Maggioni comunica al ministero che il Perretta «non ha mai tralasciato occasione manifestare proprio lavoro antifascista sia come privato che come professionista nelle sue arringhe Stop. Est ritenuto pericoloso perché molto intelligente».

Il 19 dicembre 1926 un rapporto dei Carabinieri afferma che il Perretta «pur non essendo di idee sovversive (…) non tralasciò occasione per fare manifestazioni antifasciste, sia con articoli polemici sui giornali, sia in discorsi privati»: entrato in grave contrasto coi fascisti di questa provincia «ostentò parte attiva nell’“Italia Libera”. Di temperamento impulsivo e atrabiliare» ha agito come magistrato in alcune occasioni con parzialità in senso antifascista. Divenne uno degli esponenti maggiori dell’antifascismo comasco. In casa sua si riunivano noti elementi massoni. Odiatissimo dai fascisti, è elemento da considerare come «effettivamente pericoloso per l’ordine pubblico». Le condizioni della famiglia (moglie e quattro figli, di 14, 12, 10 e 7 anni) sono «molto critiche vivendo tanto il Perretta che la sua famiglia col lavoro professionale del suo capo»; si avanza quindi la proposta di un atto di clemenza che non lo faccia tornare a Como ma lo destini a una grande città dove possa «guadagnare esercitando la professione di avvocato e provvedere così al mantenimento della famiglia».

La Commissione di appello per gli assegnati al confino respinge il ricorso e insieme delibera di proporre al capo del Governo un atto di clemenza commutando il confino in ammonizione. La proposta viene accolta e il 19 dicembre 1926 un telegramma a firma Bocchini, informa il prefetto di Como dell’avvenuta commutazione della pena in regime restrittivo di 3 anni. L’ammonizione comportava una serie di limitazioni nei movimenti, e un serrato controllo della polizia. Inoltre l’ostilità dei fascisti era tale da far temere atti di violenza nei suoi confronti, per cui il prefetto dovette predisporre speciali misure di protezione. Un ulteriore pretesto per ridurre le possibilità di movimento di Perretta. L’ostilità dell’ambiente forense comasco lo costrinse, per poter lavorare come avvocato anche a Como, ad appoggiarsi a uno studio milanese.

Nel settembre del 1927 viene sottoposto a indagine disciplinare per avere svolto attività politica. Perretta risponde dichiarando «apertamente di non essere fascista». «La mia convinzione politica è quella di uno studioso, lontano da ogni gara od ambizione personale, eppure non estraneo alla vita del suo Paese». Considera la democrazia l’equilibrio necessario fra i diritti dell’individuo e quelli di una nazione. Amico dell’ordine non gli piacciono le esagerazioni e rifiuta gli eccessi ripugnanti del fascismo. Di fronte all’accusa di essere stato un giudice parziale a danno di imputati rivendica il diritto di difendere il suo passato di giudice e di farlo a qualunque costo.

Gli anni Trenta saranno gli anni più duri e difficili per la vita di Perretta. Il fascismo si consolida, cresce il consenso popolare, gli antifascisti sono ridotti al silenzio, ormai ridotti a piccoli gruppi, isolati, che resistono con azioni sporadiche e poco incisive, spesso infiltrati da agenti provocatori.

La sua modesta attività di avvocato (poche cause di scarso valore) si accompagna a una mai dismessa ricerca intellettuale, a una continua riflessione sui temi di fondo della vita e della storia degli uomini. In questi anni difficili intreccia una corrispondenza con diversi uomini di cultura e di impegno antifascista.

L’attività forense gli viene impedita per l’ostilità dell’Ordine degli avvocati e dovrà definitivamente lasciarla nel luglio del 1936. E anche il fisco lo perseguita con ingiustificate richieste.

Ma non demorde:

«Io non mi sento l’abito del supplice e dell’ipocrita; non posso compiere a nessun costo la mutilazione del vero me stesso. Resisterò fino all’ultimo e te lo prometto in modo formale (...) Sarò come in una prigione, sognando la mia libertà, senza poterla vivere» (lettera al figlio Lucio, 14 novembre 1934).

A metà degli anni Trenta cerca di mettere a frutto i suoi studi e le ricerche avviate in campo tessile. Insieme a Camillo Bramati costituisce la S.A. Coton-it con sede amministrativa in via Rovelli a Como e stabilimento a Chignolo Po. Ma il socio si rivelerà inaffidabile e le autorità boicotteranno le sue iniziative. La decisione di negare le autorizzazioni alla produzione aveva un chiaro valore di ritorsione politica poiché ministro era diventato quel Rossoni che il Perretta aveva a suo tempo condannato.

La situazione economica sua e della famiglia si fa sempre più difficile. E arriva la guerra a far precipitare la situazione personale e familiare.

I figli vengono tutti richiamati alle armi e in poco tempo la loro sorte è segnata. Giusto viene catturato nel 1940 a Sidi-el Barrani e finirà prima in un campo di prigionieri in Nord Africa e poi trasferito in India, da dove ritornerà solo nella primavera del 1946 (e conoscerà la fine del padre solo al suo ritorno). Fortunato muore sul fronte greco-albanese il 12 marzo del 1941. Infine Lucio, che aveva già combattuto in Africa Orientale tra il 1935 e 1936 nel 3° Granatieri, verrà inviato a Cremona. Dopo l’8 settembre verrà deportato dai tedeschi in un lager in Germania da cui ritornerà vivo ma duramente segnato nel corpo e nella mente.

Quando giunge la notizia della morte del figlio Fortunato, il 31 marzo 1941, il federale del Pnf di Como si premura di scrivere al padre Pier Amato una lettera offensiva nel tono e nel contenuto: «Nel pensiero del vostro figlio il vostro cuore non potrà non ridestarsi all’amore della patria e del Duce che la guida». Perretta non gli risponde direttamente, non considerando il personaggio degno della sua attenzione, ma scrive al prefetto il 2 aprile una lettera perché la inoltri al segretario del fascio:

«Nulla vi obbligava ad unirVi al mio dolore e non potendolo fare con sincerità e riverenza, avreste almeno potuto astenervi, tanto più che voi non mi conoscete affatto. Con le vostre parole inopportune e offensive voi non avete onorato il figlio e avete mancato di rispetto al padre (...) pochi hanno difeso la Patria come io l’ho sempre fatto, quale studioso, magistrato, combattente e cittadino tutto sacrificando per questo amore purissimo, scevro di ogni particolare interesse (...) Piuttosto che “ridestare me all’amore della Patria”, Voi che ignorate cosa sia la guerra ed il sacrificio, cercate di conquistare una certa maturità e saggezza».

Nel frattempo sono ripresi i contatti con le figure dell’antifascismo comasco. In particolare, con Eugenio Rosasco dà vita prima al gruppo POLO (Pace Onore Libertà Onestà), poi dall’aprile 1941 alla Lega Insurrezionale Italia Libera, sul modello della carboneria risorgimentale, creando una rete di circa trecento persone di fede antifascista.

Il giorno dopo la caduta di Mussolini, il 26 luglio 1943, si reca in Prefettura con una delegazione composta tra gli altri dal gen. Niccolini, dal rag. Edgardo Landini (direttore del Consorzio serico), dall’avv. Enrico Stella, da Pietro Introzzi, e dal rag. Vincenzo Pizzocchero (segretario del Consorzio serico), per chiedere la costituzione della Guardia nazionale.

Nella lettera scritta al figlio Giusto nell’agosto 1943, all’indomani della caduta di Mussolini, troviamo espresso con grande chiarezza il suo giudizio sul fascismo e l’impegno per il futuro di lotta:

«Il fascismo è finito per autointossicazione, dopo avere avvelenato tutte le sorgenti di vita materiale e morale della nazione. Il bubbone è crepato, ma la disinfezione sarà ancora lunga e penosa. Molti oggi esultano. Io che non mi sono mai curvato al dispotismo, sorrido amaramente pensando che troppi italiani e per oltre venti anni non hanno saputo difendere la loro libertà di cittadini e la loro dignità di uomini. Occorrerà una lunga penitenza per lavare quest’onta e per debellare non solo il fascismo come Partito, ma le cause che lo produssero e lo sostennero. Questa tremenda esperienza avrà giovato a qualche cosa? Si impone una rieducazione profonda e costante, altrimenti nemmeno questa lezione servirà. I fatti dimostrano che io, ascoltando solo la voce della mia coscienza, non ingannavo nessuno e tanto meno voi. Basta un raggio della verità ormai palese a tutti per cancellare il ricordo delle tribolazioni patite. Anche a voi giovani si presenta un compito arduo. Ma se la vostra vita sarà illuminata da un vero ideale (e non da un fuoco d’artificio) potete ancora trovare il benessere e la felicità. Io spero che tu possa al più presto essere al mio fianco compagno di lotta per le vie del progresso.

Un abbraccio, Papà».

Tra gli antifascisti comaschi che in quei mesi si illudono che la fine di Mussolini significhi anche la fine della guerra, Pier Amato Perretta è l’unico che con lucidità vede il pericolo rappresentato dai tedeschi e cerca, invano, di stimolare una più efficace iniziativa anche sul terreno militare. Il 9 settembre 1943 parla in piazza Duomo a Como e incita la folla a prepararsi alla lotta. Un corteo si dirige verso la sede della Prefettura e del Distretto militare per chiedere la distribuzione delle armi ai civili ottenendo però un netto rifiuto dal comandante del presidio. Il 12 settembre i tedeschi arrivano a Como e chiudono la frontiera con la Svizzera. È l’inizio dell’occupazione.

Perretta, ormai braccato dai fascisti, lasciata Como si reca a Cremona per tentare di salvare il figlio Lucio, tenente dei Granatieri, che purtroppo è già stato catturato dai tedeschi e deportato in Germania.

Non gli resta che raggiungere la famiglia a Peccioli, in provincia di Pisa, dove resterà fino agli inizi del 1944.

In una lettera del 1973 il genero Raffaele Pinto scriverà a Giusto a proposito di quei mesi trascorsi a Peccioli:

«Forse anche Papà visse il più tranquillo periodo della sua vita; partiva con Emanuela e Fortunato [i due nipotini] nel carrozzino girando la tenuta di ulivi e vigneto e (...) regolarmente lo vedevi ritornare con Fortunato in braccio verso mezzogiorno. Avevo avuto un sacco pieno di trecce strette arrotolate di foglie di tabacco e lui preparava un trinciato (con la lametta del rasoio) trattato con miele».

Avrebbe potuto trascorrere il suo tempo a Peccioli attendendo la fine della guerra. Invece decide di lasciare quel sicuro rifugio e tornare al Nord e impegnarsi nella lotta. Perché lascia Peccioli? Qual è la spinta che lo porta ad affrontare rischi enormi, ancor di più per un uomo della sua età? Un imperativo morale, anzitutto; quello che Antonio Giolitti, nel suo Diario partigiano, indica come «la volontà di resistere. Resistenza, sì, anche alla tentazione di scappare, di andarsi a nascondere, a rifugiare in qualche asilo. (…) Due concomitanti resistenze. Non subire, non sottomettersi, non fuggire. Questa secondo me è stata la moralità collettiva, unificante della Resistenza, almeno per quanto riguarda la guerra partigiana».

Non potendo andare a Como perché troppo conosciuto, si reca a Milano dal febbraio del 1944, nell’appartamento di viale Lombardia di proprietà della cognata Eugenia Anelli (rifugiatasi in Svizzera da tempo con il marito Attilio Perretta); il vicino di casa Luigi Anelli, deportato in Germania, scriverà poi a Giusto Perretta che sua moglie per paura distrusse tutte le carte trovate nell’appartamento del Perretta dopo la sua morte.

Di quelle carte sono rimasti pochi fogli, appunti e notazioni personali, sulla solitudine, sulla guerra, sul dramma dei bambini-soldato. In un appunto troviamo queste annotazioni sui giovani arruolati nelle milizie fasciste (forse quelli visti a piazzale Loreto nell’agosto del 1944 messi a guardia dei corpi straziati dei partigiani lì fucilati per rappresaglia): «giovinetti imberbi, armati di pistola e di pugnali e sembra uno scherzo tanta è la fatuità infantile dei loro volti»; e un altro sui bambini «abbandonati, denutriti, emaciati, con il padre in carcere perché comunista, la madre in giro mattina e sera per paesi e città comprando e rivendendo di contrabbando i generi tesserati». «Il pensiero dell’infanzia mi assilla».

A Como, in piazza Cavour al n. 6, in quello che fu il suo appartamento comasco, ora trasformato in “Ufficio tecnico ing. Attilio Peretti”, aveva sede il Comitato assistenza Lotta di Liberazione. Qui Pier Amato incontrava i compagni comaschi, portando il denaro da lui raccolto tramite Raffele Pinto tra gli industriali di sua conoscenza. Pinto era stato assunto alla Snia Viscosa e godeva di un lasciapassare tedesco che gli permetteva di girare con la sua automobile tra Milano, Varese e Como. Gli incontri con Pinto si svolgevano ai giardini pubblici di Porta Venezia a Milano.

Conosciuto come Amato o Roger aveva intrecciato dei rapporti con la cellula comunista della OLAP (lo stabilimento delle Officine lombarde apparecchi di precisione si trovava in piazza Piola), presentato da una certa Carla Tornaghi a Elena Rasera, “Olga”.

«La Carla mi aveva detto che “Amato” era un vecchio antifascista di Como, magistrato prima ed avvocato dopo, che aveva subito sin dai primi anni le persecuzioni dei fascisti. Anziché rifugiarsi in Svizzera aveva voluto coerentemente partecipare alla lotta qui a Milano perché a Como gli sarebbe stato impossibile essendo troppo conosciuto”. “In verità i compagni (...) erano parecchio indecisi e titubanti apparendo loro strano che un uomo della sua età, prossimo alla sessantina, già maggiore dei bersaglieri e della sua posizione sociale, insistesse per partecipare alla lotta comune adattandosi persino a svolgere mansioni pericolose sì ma anche piuttosto modeste quali il reperimento e la consegna delle armi e delle munizioni. Ma alla fine sono riuscita a convincerli forse per le mie insistenze, ma ancor più avendo essi ricevuto le necessarie informazioni e così accolsero la sua collaborazione che avveniva tramite mio e di Giovanni Poletti, tecnico della OLAP che allora abitava in Viale Molise”».

Così cominciarono i loro incontri:

«Egli mi prendeva sotto braccio e con fare disinvolto, ci si avviava assieme, per non dare sospetti, verso una antica chiesetta. Si entrava ed egli avvicinandosi al confessionale si chinava e depositava le armi, mentre io che immediatamente lo seguivo, mi chinavo a mia volta, le raccoglievo e poi uscivamo assieme di nuovo, così come eravamo entrati».

«Io poi le armi le portavo al magazzino della OLAP e le consegnavo a Giulio Cecchini ed a Gilberto Carminelli (che sarà uno dei partigiani uccisi dai fascisti a Cima di Porlezza nel gennaio del 1945).

Fu tramite Pinto che Pier Amato Perretta venne coinvolto nel tentativo di salvare due partigiani di Cerano, nel Novarese, in pericolo di vita, portandoli a Milano dove Perretta avrebbe provveduto a metterli al sicuro. I due in realtà erano militi fascisti, infiltrati in una formazione partigiana, che denunciarono Perretta indicando il suo rifugio al comando della Brigata Muti.

La sera del 13 novembre 1944 brigatisti neri e SS tedesche si presentarono in viale Lombardia per arrestare Pier Amato Perretta. Per sfuggire alla cattura tentò la fuga ma venne colpito al torace con lesione del midollo spinale da una scarica di mitra. Portato all’ospedale Niguarda e piantonato a vista, si rifiutò di venire operato per non finire vivo nelle mani dei fascisti. Per due giorni rimase tra la vita e la morte che arrivò il mattino del 15 novembre, alle ore 7. Il corpo sarebbe stato ritrovato dai familiari solo diversi giorni dopo.

All’indomani della Liberazione la città di Como conferì a Pier Amato Perretta la cittadinanza onoraria. Furono tenuti funerali solenni in Duomo in onore suo e di Luigi Clerici, partigiano fondatore insieme a Luigi Canali, il capitano Neri, della 52esima Brigata Garibaldi; gli venne intitolata una piazza e lì, nel 1955, fu apposta una targa il cui testo fu dettato dallo scrittore Libero Bigiaretti:

«Andava per le case/a svegliare nell’uomo/la coscienza dell’uomo/Viveva braccato dai/fascisti perché voleva/la lotta che conduce alla pace/per questo/fu ucciso a tradimento /ed ora vive in milioni/di uomini.

A Pier Amato Perretta è intitolato l’Istituto di storia contemporanea di Como, associato alla rete degli Istituti per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea. Un’altra targa è stata collocata nel 1976 nell’atrio del nuovo Palazzo di giustizia di Como. E al monumento alla Resistenza europea si trova una sua frase incisa su una lastra, il suo monito alle future generazioni:

«Questa tremenda esperienza avrà giovato a qualche cosa? S’impone una rieducazione profonda e costante, altrimenti nemmeno questa lezione servirà».

 

Nota bibliografica e fonti su Pier Amato Perretta

I testi più significativi di Pier Amato Perretta sono stati pubblicati nel volume Pier Amato Perretta. Un uomo in difesa della libertà, a cura dell’Istituto di storia contemporanea Pier Amato Perretta di Como. Contiene una documentazione raccolta da Giusto Perretta e testi di Raffaella Bianchi Riva, Elisabetta D’Amico e Matteo Dominioni (NodoLibri, Como, 2005).

Le lettere ai familiari sono state riordinate dal figlio Giusto nel volume Pier Amato Perretta-L’altra bussola, Graficoop, Como 1987.

Presso l’archivio dell’Istituto di storia contemporanea di Como sono conservate le carte, pubbliche e private, e i documenti nel “Fondo Perretta”, riordinato nel 2004 da Angela Egizio e Leda Perretta.

Una raccolta di scritti di Pier Amato Perretta intitolata Ricordi fatti per le speranze. Scritti e documenti di Pier Amato Perretta, in forma dattiloscritta, è stata curata da Giusto Perretta nel 1977 e si trova presso l’Istituto di storia contemporanea.

Le bozze di un’altra raccolta di documenti curata da Giusto Perretta dal titolo Vita e morte di un giudice antifascista. “(...) per futura memoria dell’uomo e del carattere di lui”, s.n.t., sono pure conservate presso lo stesso Istituto, nel “Fondo Perretta”.

14/09/2018
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