Magistratura democratica
Magistratura e società

L’etica della libertà. Un ricordo di Franco Cordero

di Pasquale Bronzo
Professore associato di Procedura penale, Sapienza Università di Roma
Un gigante del pensiero vincolato solo alla sua logica spietata e incurante delle convenienze: Franco Cordero nel prezioso ricordo di un allievo

Non potrei scrivere di Franco Cordero giurista o scrittore; non saprei come, né avrei titolo a farlo. In questi giorni la sua grande figura di studioso e intellettuale è stata ricordata, come è giusto, dai suoi colleghi. Ho piacere però di raccontare del mio professore, per come l’ho conosciuto nei tredici anni in cui, dopo la mia laurea, ho collaborato alla sua cattedra di Procedura penale alla Sapienza.

Diceva che ero un esaminatore ‘molle’, ma credo si fidasse di me; praticamente nulla ci accomunava, per carattere e atteggiamento, se non il fatto di non mancare mai l’impegno settimanale in Facoltà: lui perché non saltava mai una lezione del corso – non gliel’ho mai visto fare, mai, neanche una volta in tredici anni – e io perché consideravo ognuno di quei mercoledì pomeriggio una specie di regalo che facevo a me stesso.

Ho sempre notato in lui una considerazione altissima verso la propria assoluta libertà di pensiero, parola, comportamento. All’inizio mi sembrava finanche un po’ estrema l’attenzione con la quale rifuggiva ogni occasione di compromesso, poi mi sono reso conto che la libertà era proprio il suo bisogno primario: quella linguistica, del suo stile unico a cui troppi lo hanno ridotto, e quella concettuale, con quella ‘sintesi analitica’ che noi tutti oggi gli invidiamo.

Quando, all’indomani della revoca del nulla osta diocesano al suo insegnamento alla Cattolica, Mons. Carlo Colombo gli scrisse la famosa lettera nella quale, pur dichiarandosi ammirato della vasta cultura, gli rimproverava fonti ed affermazioni eterodosse ne Gli osservanti, Cordero rispose analizzandola in undici capitoli (Risposta a Monsignore, De Donato 1970). Nel primo di questi considerava come l’apparato ecclesiastico disponesse di un «esercito smisurato» - costituito da ‘musici’, ‘cantori’, ‘liturghi’, ‘carnefici’, tirapiedi’ (l’enumerazione mette in fila sessantacinque figure) - ma comunque «impotente contro l’invito a librarsi come funamboli nell’etere della libertà assoluta. Così io intendo il messaggio evangelico». Un’insegna etica che non ha bisogno di commenti.

Nel Trattato di decomposizione (De Donato, 1970) mentre era intento a ‘fare a pezzi’ immagini e idee «per vedere che cosa contengono», ha descritto il «mondo in cui varrebbe la pena vivere: uno nel quale s’insegnasse a rispettare se stessi e gli altri, la gente contasse per ciò che è, non per quanto ha in denaro e influenza, gli imbroglioni fossero smascherati alla prima battuta, ciascuno potesse gestire come meglio crede il proprio destino mortale e gli sbirri accorressero dovunque un energumeno cerchi di mettere il morso al prossimo».

Lui il suo destino mortale aveva deciso di trascorrerlo studiando e scrivendo. Soprattutto per questo rifuggiva gli incarichi di prestigio che gli venivano proposti: perché gli toglievano tempo allo studio.

Ha studiato e scritto con la libertà che si è conquistato, senza cercare consensi, nell’Accademia o altrove: sosteneva il sistema accusatorio quando il sistema accusatorio sembrava improponibile a chiunque, ma non ha esitato a scagliarsi contro un certo modo di intendere il garantismo a servizio del potente quando il garantismo ha ricominciato ad andare di moda.

Era uno studioso apertamente parziale, vincolato solo alla sua logica spietata e incurante delle convenienze: l’idea di imparzialità come atteggiamento di prudente equilibrio tra bene e male non gli è mai appartenuta, perché credeva fermamente che il punto non fosse evitare le parzialità, ma rivelarle come parte del proprio strumentario critico. Di quella parzialità ha sempre pagato il prezzo, a partire dalla sua vicenda in Cattolica e fino alla sua esperienza da polemista politico su Repubblica (Il mistero dell’intervista scomparsa, Micro Mega, 1, 2017).

Non era una persona ruvida come si dice, come se la ruvidezza fosse un tratto naturale e incoercibile del suo carattere: io ho sempre visto un uomo timido e pieno di delicatezza verso chi gli stava attorno. Era piuttosto insofferente a certi plié, ed era senz’altro nemico di quella che si definisce, con soverchia leggerezza, ‘vita di relazione’. Ma nel suo studio in Facoltà, il mercoledì pomeriggio, c’era una persona sempre attenta e curiosa degli altri.

Ho riletto in questi giorni le pagine che chiudono il Trattato di decomposizione, dedicate alla morte. Cordero ha messo sul suo tavolo settorio anche il passaggio finale del transito terrestre, sul presupposto che la «vita prende un senso soltanto nel momento in cui si conclude, secondo la massima di Deianira nell’esordio delle Trachinie» di Sofocle: «sul piano emotivo il momento è cruciale, bisogna ammirare chi lo supera bene». Alla fine «[m]orire è un’esperienza terribilmente privata: il morente vive come vuole il proprio transitus, solo che la natura gli lasci un poco di forza; se la cosa riesce bene, il vincitore è lui».

Non possiamo sapere se questo sia successo. Quello che sappiamo è descritto in un passo precedente, secondo cui molti «cercano conforto nell’idea d’una continuità delle memorie, abbiamo inciso un segno e gli altri si ricorderanno di noi, ma c’è il rischio di sparire nell’etere». Stando al numero e alla qualità dei ricordi che ho letto in questi giorni, per non dire delle opere indelebili che ha lasciato dietro di sé, Franco Cordero, io credo, nell’etere non sparirà mai.

30/05/2020
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