Magistratura democratica
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Il diritto penale e la legislazione di emergenza contro il terrorismo

di Roberta Barberini
sostituto Procuratore Generale presso la corte d'Appello di Roma
Il terrorismo sta cambiando il diritto penale dei paesi democratici occidentali. Rischi e prospettive

1 - I valori sui quali, dopo la seconda guerra mondiale, fu costruita una nuova Europa, come continente di pace, di rispetto dei diritti umani e di tutte le religioni sono ora in pericolo.

Gli attacchi di Bruxelles, Parigi, Copenaghen, Tunisi hanno scosso l’Europa. Siamo di fronte ad un terrorismo che non conosce confini ed anzi ha trovato terreno fertile nel cuore stesso del nostro continente, e che disconosce i valori universali di libertà, dignità e rispetto dell’essere umano.

La risposta della comunità internazionale al terrorismo è stata negli ultimi quindici anni imponente ed efficace, anche sul piano della produzione normativa, con un’impennata dopo l’11 settembre 2001. Basti pensare alle Risoluzioni 1373/2001 e 1566/2004 del Consiglio di Sicurezza e, per l’Europa, alla Convenzione sulla Prevenzione del terrorismo del 2005 di Strasburgo ed alla Decisione Quadro sul terrorismo dell’Unione Europea del 2002.

Nuove misure penali e investigative, ispirate ai principi di prevenzione e repressione sono state approntate quest’anno da molti paesi europei, a cominciare dal nostro. Esse si aggiungono all’imponente sistema normativo, internazionale ed interno, costruito per fronteggiare le prime gravi minacce del terrorismo islamico,

Era inevitabile che, ora come dopo l’11 settembre, si levassero voci di critica, alimentate dal timore che l’emergenza e la gravità della minaccia inducessero gli stati occidentali ad abbassare il livello di guardia in materia di rispetto dei diritti umani.

 

2- Il terrorismo ha cambiato il diritto penale dei paesi democratici occidentali, ed in parte le regole che fino ad ora lo ispiravano, al punto che molti si sono domandati se sia possibile condurre la ‘’guerra al terrorismo’’ con i mezzi del diritto penale comune, nel rispetto delle regole dello Stato di diritto.

Fin dal trattato di Maastricht del 1992 (articolo K1) la ‘’lotta’’ al terrorismo è divenuto uno degli obiettivi fondamentali della politica dell’Unione europea, e lo stesso termine è utilizzato in molte legislazioni nazionali.

Poiché la lotta implica un avversario, i commentatori più attenti avevano già notato che le leggi antiterrorismo formavano oramai un sistema separato, per il quale era stata coniata la definizione di "diritto penale del nemico’’. La teoria si attaglia sia al diritto penale italiano, che a quello di altri paesi occidentali.

Il diritto penale del nemico, per il giurista tedesco Gunter Jacobs, che per primo elaborò il concetto, è l’uso del diritto penale in funzione di lotta contro l’autore, anziché di accertamento di singoli fatti.

Il mafioso, il terrorista, l’eversore del sistema democratico, ma anche il criminale di guerra sono gli archetipi più elementari di questo settore di intervento. Il diritto penale, rispetto a questi soggetti, si atteggia come un diritto penale non della colpevolezza, né della punizione, ma della pericolosità, della prevenzione e dello stigma.

Strumenti tipici del diritto penale del nemico sono i reati associativi e le incriminazioni di atti preparatori, e in effetti la strategia della prevenzione ha condotto i paesi europei a configurare reati che si spingono ben oltre la stessa associazione con finalità di terrorismo, la quale, già di per sé, serve a punire taluno prima che commetta un reato.

Si pensi a tutti i casi in cui l’agevolazione di un reato terroristico è considerata a sua volta reato autonomo: finanziamento, addestramento, reclutamento, propaganda con finalità di terrorismo, apologia del terrorismo, organizzazione di trasferimenti per finalità di terrorismo, arruolamento a fine di terrorismo (le nuove ipotesi di reato introdotte dal recente decreto 7/2015). La soglia della punibilità è ora talmente arretrata che rispetto all’associazione terroristica questi reati fungono da atti preparatori di atti preparatori di atti terroristici veri e propri. L’apologia, poi, punisce dichiaratamente le idee.

Al fine dichiarato di catturare i terroristi prima che essi possano colpire, si è giunti ad includere nella qualifica di terrorista non più, solo, chi minaccia attentati o chi tenti di dirottare un aereo, ma anche chiunque fornisca a costoro qualunque tipo di sostegno: lo finanzi, gli dia istruzioni o insegnamenti, lo indottrini, ma anche gli di rifugio, fornisca vitto, ospitalità, mezzi di trasporto e strumenti di comunicazione, ne organizzi il trasferimento in Paese straniero per compiere colà attività terroristiche.

L’anticipazione della soglia di punibilità non ha mero scopo repressivo: essa serve, a sua volta, ad anticipare tutta una serie di interventi processuali (intercettazioni, perquisizioni, interrogatori, catture..) prima che vi sia la prova di un qualsiasi reato – scopo.

 

3 - Questo slittamento dalla reazione alla prevenzione, iniziato dopo gli attacchi dell’11 settembre 2011, fu conseguenza necessitata del riconoscimento del potenziale letale di futuri attacchi terroristici, e comportò considerevoli mutamenti strategici, anche al di fuori del campo puramente penale: ruolo prioritario dell’antiterrorismo; centralizzazione dell’attività antiterrorismo; maggior scambio di informazioni tra servizi di intelligence e polizia.

In Italia già il decreto Pisanu (l. 155/2005) aveva conferito nuovi poteri alla polizia in materia di identificazione, previsto il permesso di soggiorno in funzione premiale per chi fornisca informazioni in indagini di terrorismo; esteso  la possibilità di procedere ad intercettazioni telefoniche, attribuendo un ruolo, a tal fine, ai direttori dei servizi informativi e di sicurezza; prolungato il periodo per il quale possono conservarsi i dati telematici, esteso alle forze armate il potere di identificare e trattenere sul posto persone e mezzi di trasporto. Il fermo di indiziati fu previsto per ogni delitto, anche se punito con pene lievissime, se vi è la finalità di terrorismo. L’arresto anche fuori dei casi di flagranza è da allora consentito nei confronti di chi sia  sospettato di compiere atti preparatori alla commissione di reati con finalità di terrorismo.

Il Decreto 7/2015 ha ora introdotto nuove misure di questo tipo nella legislazione italiana, in materia di misure di prevenzione personali ed espulsione dello straniero per motivi di prevenzione del terrorismo, di colloqui dei direttori dei servizi con detenuti ed internati al fine di acquisire informazioni per la prevenzione di attività terroristiche, di trattamento dei dati personali da parte delle Forze di polizia ecc..

La chiave di tutta la legislazione antiterrorismo sta tutta in quel ‘’sospetto‘’ di ‘’ compiere atti preparatori di reati con finalità terroristica’’, che giustifica l’arresto in flagranza: è racchiusa in questa espressione.

L’esigenza, giustamente avvertita fin dal 2001, di disarticolare una cellula terroristica molto prima che gli appartenenti passino all’attacco, ha indotto i governi occidentali a perseguire certi individui sulla base della semplice  convinzione che essi, se non fermati prima, commetteranno atti terroristici.

Le norme penali in materia di terrorismo ruotano attorno alla nozione di finalità terroristica. Qualsiasi condotta, a cominciare da quelli che sarebbero atti preparatori di un reato (come le mere istigazioni o gli accordi), anche in sé assolutamente lecita, come invitare a cena un amico, diventa reato, ove sia finalizzata a terrorismo.

 

4 - Non sembra vi sia spazio per proseguire oltre su questa strada. Se l’emergenza e la gravità della minaccia giustificano interventi eccezionali in materia di prevenzione e repressione, ciò non deve indurre gli stati ad abbassare il livello di guardia in materia di rispetto dei diritti umani e di principi fondamentali di civiltà giuridica.

Non c’è dubbio che le legislazioni antiterrorismo hanno caratteristiche peculiari, che le avvicinano alle altre legislazioni dell’emergenza e le allontanano dal diritto penale comune.

Nessuno ritiene seriamente che rispetto a fenomeni come il terrorismo, il diritto penale debba limitarsi ad applicare le norme ordinarie sull’omicidio, il sequestro di persona, la detenzione di armi ecc. e neppure che si debba  rinunciare alle strategie sperimentate negli ultimi decenni in materia di prevenzione, di intercettazione, di norme cautelari e penitenziarie, oltre che alle incriminazioni di singole forme associative: la criminalità organizzata rappresenta una grave sfida per le società moderne, e richiede interventi ad hoc.

Tuttavia, i limiti temporali, strutturali e ordinamentali delle legislazioni di emergenza vanno sempre sottoposte ad attenta verifica di costituzionalità e di compatibilità con i diritti umani fondamentali.

Nel campo del terrorismo, un nodo critico è rappresentato dal rapporto tra attività di intelligence e indagini penali. I servizi hanno, invero, specifici poteri di prevenzione rispetto al terrorismo, fenomeno nel quale, a loro volta, prevenzione e repressione si sovrappongono.

In Germania ed in Italia, la comune recente soggezione a regimi autoritari ha determinato il permanere di una resistenza ad interferenze governative di cui non ci si può che rallegrare, e che non si registra ad esempio negli Stati Uniti ed in Francia. Vi è un riflesso di ciò nella protezione dei dati personali, che in Germania è costituzionalizzata, e soprattutto nel permanere, in entrambi i paesi, della separazione tra attività di intelligence ed attività di polizia. Molte delle esistenti barriere tra servizi e polizia furono integrate negli apparati statali tedeschi ed italiani dopo la seconda guerra mondiale, al preciso scopo di evitare la eccessiva concentrazione di potere in una sola entità.

In Italia, così come in Germania, in linea di principio è escluso che la giurisdizione possa essere in qualche modo influenzata da attività immediatamente riconducibili all’esecutivo come sono quelle dei servizi.

Tuttavia, se negli Stati Uniti - dove, tra l’altro, l’FBI ha funzioni sia di intelligence che di polizia - lo scambio reciproco di informazioni e l’utilizzabilità nel processo di dati provenienti dai servizi sono previsti da apposite leggi; se oggi anche il servizio segreto inglese - il mitico MI 5 - si coordina e scambia informazioni con la polizia in fasi molto più arretrate di quanto un tempo non accadesse, anche da noi è in corso una evoluzione su questo tema.

Si parla di nuovo del possibile impiego probatorio nel procedimento penale delle informazioni di intelligence. Naturalmente, non potrà trattarsi che di un impiego indiretto: la legge 801 del 1977 è esplicita nel prevedere che l’agente dei servizi possa insinuarsi nelle indagini processuali esclusivamente attraverso gli organi di polizia giudiziaria. E tuttavia, già si sostiene, con una certa fondatezza, che le relazioni relative ad attività di intelligence trasmesse alla polizia giudiziaria e da quest’ultima incanalate nel procedimento penale, debbano avere un impiego probatorio del tutto analogo a quello dei rapporti di polizia giudiziaria. Ben di più, quindi, di un mero spunto investigativo.

 

5 - Ora, deve ribadirsi che il terrorismo rappresenta una grave sfida per le società moderne, e richiede interventi ad hoc. Il diritto penale è un mezzo per attuare la politica criminale dello Stato, e deve presentare norme specificamente dirette a contrastare un fenomeno eccezionalmente allarmante, così come è sempre stato.

Non sembra, tuttavia, che il recente acuirsi del fenomeno debba indurre i paesi occidentali a spingersi più in là di quanto già fatto nell’ultimo decennio. Il reato di apologia del terrorismo ha aperto una strada che non può essere ulteriormente percorsa, senza rischiare di mettere lo Stato democratico in contraddizione con il principio stesso su cui la democrazia si fonda, e cioè la libertà di manifestazione di idee politiche.

Non si cada nell’errore di ritenere che la prevenzione sia necessariamente più buona della reazione. Non è così nel campo della legge penale: punire qualcuno dopo che un atto terroristico è stato commesso è un conto. Un altro è punirlo prima, e a prescindere dalla commissione dell’atto. Per fronteggiare la specificità del terrorismo islamico lo Stato democratico può e deve dispiegare i propri strumenti – l’ordinamento giuridico e gli apparati di sicurezza – ma senza negarsi.

 

6 - Sotto diverso profilo, non può disconoscersi che anche a prescindere da ogni valutazione nel merito, l’avere arretrato la punibilità prima della soglia del tentativo rende difficile raggiungere la prova del reato.

Il dover provare una ‘’finalità’’ piuttosto che una condotta offensiva oggettivamente univoca rappresenta una debolezza strutturale dei procedimenti in materia di terrorismo. Non è facile provare una finalità, pur nello sforzo di distinguerla dall’ intenzione.

Se le indagini in materia di terrorismo scontano di per sé una serie di difficoltà, legate principalmente alla natura transnazionale del fenomeno; se la cooperazione internazionale, che in tale situazione diventa essenziale, è complicata dal fatto che certi governi non vogliono rendere pubblica la loro cooperazione, resta il fatto che il nodo dei procedimenti per terrorismo risiede nella difficoltà di provare la finalità terroristica.

Tutti i paesi occidentali hanno, chi più chi meno, norme penali che consentono loro, in astratto, di condannare sospetti terroristi. In concreto, è avvenuto che un numero relativamente basso di procedimenti per terrorismo ha avuto esito favorevole all’accusa.

In Italia, in particolare, l’introduzione del reato di terrorismo internazionale e della definizione di finalità terroristica, attraverso l’articolo 270 sexies, ha creato enormi difficoltà interpretative, e seri sbandamenti nella giurisprudenza di merito e legittimità, a cominciare dalla sentenza sulle differenze tra terrorista e legittimo combattente ( Tribunale Milano, gennaio 2005), per passare a Sez. fer. n. 34180/2009 in tema di  atti terroristici compiuti nel contesto di conflitti armati, a Sez V n. 12252/2012 che ha escluso (incredibilmente) la finalità di terrorismo ove il soggetto si proponga di colpire obiettivi di elezione, a Sez. VI, n. 916 /2014 sui NO TAV.

Vi è, da un lato, una evidente unsufficienza della legge penale a disciplinare le complesse situazioni generate in situazioni di conflitto armato e di vere e proprie occupazioni di territori statali da parte di gruppi organizzati, come è il caso dell’ISIS.

Dall’altro lato vi è, più in generale, una crisi della nozione stessa, tradizionale, di terrorista.

Da fenomeno eversivo esclusivamente interno, il terrorismo ha lentamente mutato faccia: l’azione terrorista si lega, oramai, a qualsiasi possibile obiettivo, ideologia e fondamentalismo: può riferirsi ad un determinato territorio o nazione, e rappresentare  il braccio armato di movimenti di liberazione nazionale, ovvero assumere le caratteristiche di rete terroristica o cupola transnazionale  non solo islamica.

Gli stati hanno perso il monopolio della minaccia ad altri stati: grazie ad una serie di nuovi fenomeni e condizioni, tra cui il progresso tecnologico, l’integrità degli stati è minacciata non da altri stati, ma da individui e reti che agiscono a livello sub –statuale e non territoriale.

Assieme alla nozione di terrorista è andato in crisi l’approccio tradizionale, di tipo criminale, al fenomeno.

Intanto, è divenuta più difficile la circoscrizione tra la sfera degli interventi militare e giudiziario. Anche ove sia riconosciuta la priorità dell’intervento giudiziario, poi, si registra una tendenza a sovvertire le regole tradizionali delle giurisdizioni statali, così come quelle della guerra: è diventato arduo individuare quale sia lo stato, o gli stati, legittimato a procedere contro i terroristi.

Inoltre, sono divenuti più evanescenti i criteri di collegamento per l’esercizio della giurisdizione, che quando non scompaiono del tutto tendono a ridursi ad uno: quello della nazionalità delle vittime.

Si fa strada, allo stesso tempo, la soluzione contraria: non si vuole, da parte di alcuni, che le vittime assumano contemporaneamente il ruolo dell’accusa, e si propone che forme di terrorismo che costituiscono minacce per l’intera umanità siano devolute a giurisdizioni sovranazionali.

 

7 - Vi è poi la questione della definizione di terrorismo, che ostacola la cooperazione penale con molti paesi terzi, soprattutto islamici, la cui collaborazione alle indagini svolte in Europa sarebbe, invece, cruciale.

Essa è il presupposto di molte delle questioni di diritto sollevate dal fenomeno del terrorismo.

Il tema è antico, ma torna periodicamente d’attualità: basti pensare agli sviluppi del conflitto mediorientale e alla difesa del concetto di Intifada come ‘’resistenza‘’ legittima ad Israele, condotta ancora in epoca recente da un numero elevato di stati arabi. Molti di essi rifiutavano, in effetti, di riconoscere la qualifica di ‘’terrorismo’’ agli attacchi contro civili condotti dalle ‘’bombe umane’’ palestinesi.

L’efferatezza degli stermini operati dall’ISIS sembra aver modificato, su questo punto, le posizioni degli stati arabi, quantomeno a livello ufficiale.

E tuttavia, il punto resta cruciale: sul piano del diritto internazionale, il dire che cosa s’intenda per terrorismo significa, infatti, stabilire i confini del fenomeno, con riferimento non solo ai reati comuni dello stesso tipo - omicidio, sequestro di persona ecc.- ma anche, e soprattutto, rispetto a condotte che il diritto internazionale considera o legittime o, quantomeno, disciplinate da strumenti internazionali diversi dalle convenzioni penali sul terrorismo e, segnatamente, dal diritto umanitario internazionale.

E’, qui, coinvolta la delicatissima questione della giustificabilità degli atti di terrorismo, anche da un punto di vista strettamente penale: si pensi al rilievo della questione della motivazione politica della condotta ed alle conseguenze in tema di estradizione (artt. 10 e 26 della Costituzione).

Gli eventi degli ultimi quindici anni hanno, d’altra parte, determinato l’accelerazione di un processo che era già in atto sul piano internazionale, e che si risolve nella caduta di una serie di barriere, in materia soprattutto di cooperazione giudiziaria e  di diritto di asilo, nei confronti di chi venga considerato ‘terrorista’, e nella applicazione di tutta una serie di sanzioni (congelamento dei beni, embargo ecc.) nei loro confronti.

Non è un caso, quindi, che nessuno degli strumenti internazionali globali contro il terrorismo, e segnatamente nessuna delle dodici convenzioni delle Nazioni Unite contro il terrorismo, contenga una definizione di terrorismo e di terrorista, e ciò rappresenta un evidente ostacolo alla cooperazione giudiziaria con i paesi terzi.

 

8 - In conclusione, prudenza nel percorrere la strada della prevenzione e più in generale della legislazione di emergenza, che va comunque sottoposta ad attenta verifica di costituzionalità e di compatibilità con i diritti  fondamentali.

Ampio spazio, invece, alla cooperazione tra stati, la quale ora, se con i paesi terzi ancora incontra qualche ostacolo, dispone invece, in Europa, di strumenti efficaci. Si tenga presente, a questo proposito, che se è vero che l’ISIS, a differenza di Al Qaeda sembra avere una struttura verticale, è anche vero che l’organizzazione si avvale di contatti e basi all’interno del paese europeo dove l’attacco è pianificato. Inoltre, come abbiamo dovuto constatare, spesso gli stessi autori materiali dell’attacco terroristico sono cittadini europei.

Uno strumento che potrebbe rivelarsi valido, nelle indagini di terrorismo che coinvolgono più stati europei, è quello del Procuratore europeo (proposta di Regolamento del luglio 2013) che se pur previsto, in astratto, per la protezione degli interessi finanziari europei, potrebbe essere esteso a coprire i gravi reati transnazionali, come il terrorismo, ai sensi dell’art. 86 del TFUE.

Anche la Direttiva sull’Ordine investigativo europeo, recentemente approvata, potrà divenire uno strumento utile, una volta attuata dagli stati membri, essendo fondata sul principio del mutuo riconoscimento.

Come ricordato dai migliori commentatori, come il Donini, già durante le passate emergenze, il contrasto a fenomeni anche gravi come il terrorismo va conciliato coi principi di tassatività e di irretroattività, con il diritto penale come garanzia di tutti - e non solo del cittadino rispetto allo straniero - contro gli abusi del potere pubblico, e con il processo giusto: luogo garantito di accertamento di fatti attraverso regole e mezzi la cui forma assicura il rispetto dei diritti fondamentali e la parità tra accusa e difesa. 

Il diritto penale, dove esistono sperimentati meccanismi di controllo, è la sede naturale dove collocare le misure contro il terrorismo, che è anzitutto un crimine.

Il diritto penale stesso dovrà essere sottoposto ad un attento controllo giurisdizionale e di legittimità, perché quando esso lede i diritti fondamentali delle persone, non è eticamente indifferente per la società che lo subisce, e non lo è esattamente neppure nei confronti dei cosiddetti nemici.

 

07/05/2015
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