Magistratura democratica
Magistratura e società

Elisa Pazè: "Anche i ricchi rubano" la recensione

di Paola Perrone
già presidente di Sezione della Corte d’appello di Torino
Anche i potenti delinquono, eppure non patiscono conseguenze se non in minima parte

Scritto da un pubblico ministero che si occupa di reati economici, questo libro (uscito nel solo formato e-book e dal 20 maggio disponibile anche in cartaceo nelle librerie) riflette l’esperienza professionale dell’Autrice. La quale ha maturato idee molto chiare, annunciate già nel titolo: Anche i ricchi rubano. La tesi è chiarissima: davanti all’innegabile situazione sbilanciata delle nostre carceri (ove i colletti bianchi sono pressoché inesistenti) il libro dimostra e sottolinea che anche i potenti delinquono, eppure non patiscono conseguenze se non in minima parte.

Quale metodo sceglie Pazé per supportare questa tesi? Non quello che segue il percorso di argomenti generici e ideologici; ma quello della ricerca, per ciascuna categoria di reati imputati a potenti, degli specifici motivi di tale squilibrio. Tali motivi, a volte, sono rinvenibili già nella struttura delle norme incriminatrici (spesso a pena bassa, il che comporta condizionale, pene alternative al carcere se non prescrizione). Talvolta, invece, a creare, in concreto, differenza di trattamento tra imputati di diverse classi sociali, è la complessità dell’accertamento dei reati abitualmente commessi dai diversi ceti sociali (complessità che, per i ricchi, allunga i tempi dell’indagine, con rischio di prescrizione). Infine, gioca la più facile disponibilità da parte dell’imputato ricco di un’abitazione in cui scontare pene meno afflittive del carcere. 

In linea generale, la tesi dell’Autrice parte dalla constatazione che i reati commessi dalle classi disagiate sono normalmente a struttura semplice e di immediata comprensione: ciò comporta una discreta facilità nel provarli. Mentre i reati commessi dai potenti hanno spesso struttura complessa, il che ne rende ardua, nei termini di legge, la completa ricostruzione da parte del pubblico ministero.

L’Autrice avverte poi che vi è una certa cautela culturale nel perseguire reati che affondano nella realtà economica perché si teme il rischio di influire negativamente sul tessuto sociale.

A ciò si aggiunga il populismo penale che consiste nel generare diffuse paure, indirizzando al corpo dei cittadini messaggi di intransigenza davanti al crimine; ove per crimine si intende solo quello commesso dalle classi disagiate. Gioco sin troppo facile: perché, normalmente, quel tipo di reati viene commesso alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti. La percezione quotidiana riguarda soprattutto quei reati. Il tam tam giornalistico insiste su quei reati. E dunque, è naturale che l’invocazione della “certezza della pena” e della sua severità, riguardi esclusivamente quei reati.

Solo nel 1999 – ricorda suggestivamente l’Autrice - è stato abrogato il reato di duello, dietro il quale si individuava un tipico reato da ricchi. La medesima condotta commessa da poveri, in contesti più ampi, origina invece un delitto più grave: la rissa aggravata. In effetti, non si è mai visto, neppure in letteratura, un duello tra due poveracci. Per contro, è difficile ricordare un reato di rissa contestato a frequentatori dei salotti del bel mondo. 

Ma fatte queste premesse di ordine generale, l’analisi si rivolge ai singoli reati.

Così.

Pensiamo – ci suggerisce l’Autrice – a reati con offensività simile: da un lato, il furto, l’appropriazione indebita e l’insolvenza fraudolenta; dall’altro, l’evasione fiscale (che, in fin dei conti, è un furto ai danni della collettività). Ebbene, i primi sono di facile struttura e ricostruzione. Il secondo è di struttura e prova intricatissime; e, per giunta, è soggetto ad una soglia di sbarramento e perfino assistito da una causa di non punibilità quando si tratti di legge di difficile interpretazione. Tale causa di non punibilità, a ben vedere, non era necessaria, in quanto già prevista in via generale dall’art. 5 c.p. così come interpretato dalla Corte costituzionale dal 1988. La sua specifica previsione per i reati fiscali (introdotta con l’art. 15 del d.lgs n. 74/2000) ha dunque il sapore di una sottolineatura squisitamente ideologica.

E’ dunque facile spiegarsi il perché delle innumerevoli prescrizioni che colpiscono tale reato. Esito processuale che non porta ad alcuna reazione popolare, se è vero che la pubblica opinione è orientata a vedere nella condotta del reo di evasione fiscale solo un comportamento da furbetto che riesce ad evitare che lo Stato padrone si appropri di parte del suo reddito.

Anche la sorella minore dell’evasione, l’elusione, permette ancor di più epiloghi assolutori. Infatti, lo spostamento della sede societaria in uno Stato a prelievi minori (esterovestizione) nonché la truffa carosello con evasione dell’Iva, sono condotte riqualificate (con d.lgs n. 128/2015) come violazioni amministrative e che quindi oggi sfuggono alla repressione penale. Con la conseguenza che oggi non è il governo a garantire la concorrenza delle imprese ma sono le imprese a scegliersi lo Stato più favorevole per il prelievo fiscale.

La bancarotta fraudolenta prevede una pena severa ma, nei casi più gravi (dissesto di banche o assicurazioni) si è assistito al salvataggio continuo da parte delle Stato: con la conseguenza che, mancando la dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) il procedimento giurisdizionale non parte nemmeno. Altro strumento per non far fallire queste banche è quello della bad bank (banca che assorbe il debito della banca dissestata e lo cede ad altre banche); con la conseguenza che alla fine lo scoperto viene posto a carico dei cittadini. La conclusione finale è che di bancarotta fraudolenta risponde solo il piccolo imprenditore. Il risultato è in linea con la tendenza imperante oggi in economia: favorire l’ingrandimento delle dimensioni delle imprese, considerata garanzia maggiore per il cittadino. Senonché il rischio per l’economia generale che fallisca una impresa di gradi dimensione produce il too big to fail che garantisce in realtà solo il grosso imprenditore dal rischio di fallimento.

La usura bancaria si realizza quando un istituto di credito impresta il denaro oltre un tasso-soglia di interessi, che è quello pari alla media praticata dagli altri istituti di credito aumentato di un quarto e di altri quattro punti. Pazè sottolinea la anomalia di un tasso-soglia di fatto stabilito da coloro che potrebbero essere chiamati a rispondere del reato.

Lo sfruttamento di mano d’opera reclutata da caporali: pur essendo la normativa mutata in senso repressivo rispetto alla originaria formulazione (prevedendo che risponde del reato non solo il caporale ma anche l’imprenditore che assume il lavoratore) l’Autrice ritiene che esista spesso una difficoltà a dimostrare la responsabilità degli imputati insita nelle condizioni di inferiorità e precarietà economica della vittima del reato. Condizioni che rendono concretamente difficile la decisione del lavoratore di presentare denuncia e di dichiarare i fatti. Situazione che, a ben vedere, non è specifica solo di questo reato ma si incontra purtroppo in tutti i processi per delitti in cui la vittima si trovi in una situazione di soggezione o di rischi di ritorsione.

La truffa prende oggi la forma ricorrente delle frodi delle banche nei confronti di correntisti interessati ad un investimento: il promotore finanziario con cui verranno in contatto ha innanzitutto l’interesse di far guadagnare la banca di appartenenza e quindi non sponsorizzerà altri strumenti. Vista la complessità della materia, sarà gioco facile indirizzare il cliente verso titoli che siano riconducibili a tale banca, anche se oggi vi è obbligo di stipula del contratto per iscritto, perché il contratto rimane di difficile lettura. Recenti direttive europee hanno imposto l’obbligo non solo di informare ma di far comprendere gli estremi del contratto. Davanti a questo tipo di reati la strada delle indagini è aspra: poiché si tratta di un settore economico in cui l’alea è connaturata nei contratti ed in cui non viene mai promessa in termini di certezza la redditività dell’operazione, la Cassazione ha ritenuto che non può esserci truffa giacché non ci sono gli estremi di una presentazione capziosa degli elementi caratterizzanti l’operazione.       

L’insider trading, reato in Italia dal 1991, presenta, secondo Pazè, elementi di debolezza: la notizia riservata propalata diventa illecita quando viene comunicata ad un investitore ragionevole. Cosa significa ragionevole? E’ ovvio che su tale definizione si giocano le sorti dei processi. Anche l’inverso non è di facile lettura: se una grossa società privatizzata sotto il controllo dello Stato tace su grosse operazioni che intenda intraprendere, basterà il controllo – la golden share - a bloccare l’operazione?

L’Autrice scorge nel sistema anche qualche elemento di riequilibrio: il decreto legislativo n. 231 del 2001 statuisce che di alcuni reati rispondono anche le società di cui siano dirigenti gli imputati condannati; è la responsabilità amministrativa degli enti, chiamati a versare sanzioni pecuniarie. Ma – secondo l’Autrice - è un rimedio troppo timido: oltre a prescriversi in cinque anni, non riguarda enti pubblici e partiti politici ed inoltre non inserisce nella lista dei reati alcune condotte tipiche dell’attività imprenditoriale, come frode in pubbliche forniture ed usura bancaria.

Considerazioni analoghe vengono proposte per i reati di aggiotaggio, falso in bilancio, concussione, falsa indicazione di provenienza dei prodotti, lottizzazione illecita, scambio politico-mafioso, soffermandosi in particolare sugli omicidi colposi compiuti dai ricchi e richiamando il disastro del Vajont, il terremoto de l’Aquila, l’alluvione di Sarno, le malattie da esposizione a fattori nocivi, inquinamento ambientale ed altro ancora. Anche qui difficoltà enormi in tema di ricostruzione degli eventi e della responsabilità ad essa connessa. 

Un capitolo a parte viene dedicato alle norme dettate in tema di prevenzione degli incidenti sul lavoro sanzionate come contravvenzioni e dunque votate alla prescrizione. Dell’omicidio in fabbrica si rinviene una delle cause nella precarietà del rapporto di lavoro che, facendo ruotare i lavoratori malgrado l’emissione di un T.U. sulla sicurezza sul lavoro da una mansione all’altra, impedisce quella professionalità che è precondizione per la sicurezza. Anche se recentemente è stato varato un testo unico nella materia (d.lgs n. 81/2008), l’Autrice constata che le vittime di questi reati aumentano. Citando il processo Thyssen Krupp (in cui non vi è stata alcuna prescrizione) l’Autrice lamenta una scarsa propensione dei giudici ad applicare con giusta proporzione le sanzioni. L’argomento non viene ulteriormente sviluppato, anche perché in quel processo le condotte colpose degli imputati vennero in verità sanzionate severamente.

L’attenzione di Pazè non dimentica neppure le responsabilità dei politici ed in particolare l’utilizzo da parte loro di denaro destinato all’attività politica ai fini più disparati. Qui la tesi degli imputati (è legittimo l’uso del denaro per fini istituzionali in senso lato) ha trovato accoglimento in alcune sentenze assolutorie.

Per quel che riguarda la corruzione, l’Autrice riconnette le difficoltà di ricostruzione dei fatti alla struttura stessa del reato che considera imputabili sia il pubblico ufficiale sia il privato che gli versa il denaro (o più spesso altra utilità): l’esistenza di un comune interesse dei due soggetti a che il reato non venga scoperto rende estremamente difficile la sua scoperta.    

Un libro estremamente complesso, questo, che riguarda tutte le sfaccettature delle responsabilità dei potenti nei confronti della comunità. Una lettura utile ed interessante per il cittadino e uno strumento tecnico per l’operatore del diritto.

Per il magistrato un richiamo al dovere di profonda conoscenza del contesto politico e sociale nel quale concretamente si incide applicando le norme poste a fondamento della repressione dei reati.

 

 

07/05/2020
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