Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Dissequestrata la nave Open Arms: soccorrere i migranti non è reato

di Marco Patarnello
magistrato di sorveglianza, Tribunale di sorveglianza di Roma
Pur nella difficoltà di trovarsi al centro del Mediterraneo nel disinteresse molto interessato del resto d’Europa e nella preoccupazione di divenire la meta di ogni migrante, con la decisione del gip di Ragusa l’Italia si sforza di non interrompere il collegamento fra diritto e umanità.

La vicenda del sequestro preventivo della nave della ong spagnola Proactiva Open Arms che aveva soccorso in mare 218 migranti conducendoli in Italia si colora di nuovi sviluppi, ma non si può affermare con certezza che essa sia ancora giunta ad un “approdo sicuro”.

Il 16 aprile il gip di Ragusa, investito della cognizione in seguito alla pronunzia del gip di Catania, ha rigettato la richiesta di sequestro preventivo dissequestrando la nave, avendo ritenuto non sussistente neppure il fumus del delitto di cui all’articolo 12, comma 3 lett. a) e b), 3-bis, del d.lgs 286/98, dopo che il gip del Tribunale di Catania aveva già ritenuto insussistente quello del delitto di associazione a delinquere.

La ricostruzione dei fatti operata dalle due diverse Autorità giudiziarie non è significativamente differente. Esse, pur muovendo da analoghe acquisizioni in fatto, divergono essenzialmente in ordine alla valutazione dei presupposti per la sussistenza della scriminante dello stato di necessità prevista dall’art. 54 del codice penale.

Questa rivista ha già ospitato un primo commento a caldo al sequestro disposto dal gip catanese [1]. Sostanzialmente sul solco del commento si colloca oggi la decisione del giudice di Ragusa.

La valutazione del fatto (per la cui ricostruzione sembra utile fare rinvio alla lettura del provvedimento giudiziario separatamente pubblicato) muove attorno ad alcuni temi di particolare interesse, anche a causa delle loro potenziali ricadute politiche e giuridiche.

Nel ripercorrere le tappe salienti del ragionamento seguito nel provvedimento giudiziario, una prima questione riguarda la legittimità del recupero dei migranti in mare, avvenuto al di fuori della zona Sar italiana (Search and rescue). Sulla base degli atti è pacifico che il soccorso della ong spagnola, pur avviato a seguito di espressa richiesta di intervento avanzata nei suoi confronti dalla Imrcc di Roma (Italian maritime rescue coordination centre), sia stato portato a compimento dopo che quest’ultima aveva esplicitamente avvertito la Proactiva Open Arms che del recupero avevano assunto il controllo e la responsabilità le autorità libiche, con l’invito ad interrompere l’intervento e tenersi a distanza dalla zona di prossimità alle imbarcazioni da soccorrere. Sul punto sembra condivisibile la valutazione operata nel provvedimento, di non dubitare della astratta legittimità dell’intervento libico pur nell’incertezza circa la sussistenza di una zona Sar libica legittimamente riconosciuta, non essendo veramente in discussione la possibilità di operare del Paese costiero, anche in assenza di una zona Sar ufficialmente riconosciuta, ma comunque segnalata all’Imo (International maritime organization). Il gip di Ragusa sembra collocare, piuttosto, il dubbio nell’ambito dell’elemento soggettivo sulla cui base la nave Open Arms ha scelto di portare avanti il soccorso anche contro gli ordini delle autorità libiche ed entrando, anzi, in diretto contrasto con esse, sin quasi allo scontro fisico fra i diversi mezzi navali coinvolti (almeno per quanto attiene ad una delle tre imbarcazioni in difficoltà soccorse), interrogandosi sulla la sussistenza di ragionevoli dubbi circa la legittimità di tale intervento libico. Ma in definitiva il provvedimento non si sottrae dall’esaminare l’unico tema davvero suscettibile di condurre questa prima parte della vicenda fuori dal perimetro penale, vale a dire la considerazione che il semplice recupero fisico dei migranti dalle imbarcazioni alla deriva non esaurisce il salvataggio dei medesimi, senza prendere in considerazione la destinazione finale del soccorso, da consolidarsi in un Pos (Place of safety) effettivo ed affidabile, vale a dire in una destinazione dove la vita delle persone sia messa in effettiva sicurezza, dovendosi ritenere tale non solo un posto sulla terra ferma dove sia possibile far fronte alle esigenze di cibo e di acqua, ma anche un posto che sia al riparo dalle minacce alla vita ed alla incolumità personale, nel rispetto dei diritti fondamentali. Il gip di Ragusa, legando opportunamente la vicenda al principio di non refoulement, ritiene che vi siano ancora attualmente diverse ragioni documentate e serie per non considerare il territorio libico un posto al sicuro dalla pena di morte, tortura, persecuzioni o trattamenti inumani o degradanti, al riparo da minacce fondate sulla razza, l’orientamento sessuale, l’appartenenza ad un gruppo sociale o politico. Dunque se la Libia non costituisce un Pos affidabile il recupero dei 218 migranti da parte della nave di Proactiva Open Arms è stato quello che appare: un legittimo salvataggio a tutti gli effetti e non il pròdromo di un traffico di esseri umani.

Tuttavia questo primo punto fermo − invero già carico di potenziali ricadute, anche di portata inaspettata e coinvolgenti le relazioni con le autorità locali libiche e gli accordi con esse raggiunti − non esaurisce affatto la questione, dal momento che le modalità e le circostanze per il raggiungimento del territorio italiano e lo sbarco dei migranti potrebbero risultare decisive ai fini della configurabilità del reato di immigrazione clandestina contestato. Infatti una volta effettuato il salvataggio in mare anche l’individuazione ed il raggiungimento del Pos deve seguire regole precise. Secondo la ricostruzione emersa nel provvedimento giudiziario (anche qui non dissimile dal precedente catanese) è pacifico che la nave di Open Arms, rimasta -quanto meno da un certo punto in poi- al di fuori del perimetro della gestione dell’Imrcc di Roma, ed avendo come porto più vicino quello de La Valletta (distante, ad un certo punto, solo quattro miglia), avrebbe dovuto recarsi nel porto maltese, come in fin dei conti indicato dalla stessa autorità di bandiera della nave. E questa è forse la parte più debole della decisione − comunque condivisibile nelle conclusioni − del giudice di Ragusa. Molti elementi emergenti dalla ricostruzione contenuta in entrambi i provvedimenti giudiziari (catanese e ragusano) evidenziano che la nave spagnola avesse in animo sin dall’inizio di condurre i migranti in Italia, nonostante il soccorso fosse avvenuto al di fuori della Sar italiana e le coste italiane non fossero affatto le più prossime, ma anzi si trovassero a notevole distanza. Trovandosi in acque non rientranti nella Sar italiana e ripetutamente invitata dall’Imrcc a contattare le proprie autorità di bandiera per ottenere indicazioni sul Pos da raggiungere, la nave − anche nel silenzio probabilmente non casuale e disinteressato delle autorità spagnole − ha in concreto intrapreso una vera e propria marcia verso l’Italia. Anche quando finalmente − su sollecitazione e supporto tecnico delle autorità italiane − la nave della ong ha allacciato il contatto con le proprie autorità di bandiera e ne ha ottenuto l’invito a mettersi in contatto con le autorità maltesi ai fini della richiesta di un Pos (come del resto indicato anche dall’Imrcc) la medesima si è sostanzialmente rifiutata di farlo, tirando dritto verso l’Italia. Ciò, nonostante la nave della ong avesse già contattato le autorità maltesi ai limitati fini di segnalare un’emergenza medica a bordo e pur avendone ottenuto il prelievo con soccorso aereo della donna e del neonato in gravi condizioni di salute tali da giustificare l’intervento d’urgenza. La plausibilità della scelta della ong di puntare verso il territorio italiano contro le indicazioni del proprio Paese di bandiera e delle autorità italiane senza neppure tentare di avanzare una richiesta di Pos verso Malta è affidata alla dedotta convinzione che mai le autorità maltesi avrebbe consentito uno sbarco, non avendolo mai consentito nel recente passato. Va detto che − compulsata dalla segnalazione di un’emergenza sanitaria indifferibile − La Valletta aveva espressamente riconosciuto alla nave carica di migranti la disponibilità a prelevare con soccorso aereo i due malati, con ciò implicitamente rifiutando di accogliere il resto dei migranti. Opportunamente il provvedimento ricorda che Malta non ha mai ratificato gli emendamenti alle convenzioni Sar e Solas (International convention for the safety of life at sea) che l’avrebbero obbligata a fornire il Pos in caso di richiesta. Tuttavia, trattandosi dell’applicazione di una scriminante, con il suo carattere di eccezionalità e rigore, la scelta della ong di non avanzare neppure la richiesta lascia perplessi e potrebbe riservare qualche sorpresa nei possibili sviluppi del caso. Non v’è dubbio che una decisione diversa l’avrebbe messa al riparo da ogni addebito.

Invero, come giustamente osservato su questa Rivista da Simone Perelli nel menzionato commento al sequestro catanese, è del tutto dubitabile che − una volta stabilito che il soccorso fu effettuato correttamente e nella totale assenza di elementi che lo avvicinino alla condotta concorsuale con i trafficanti di esseri umani − possano sussistere i presupposti della fattispecie contestata. Infatti, se di soccorso in mare si trattò, non si trattò di “trasporto” di stranieri nel territorio italiano e neppure del compimento di atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso. Nonostante una giurisprudenza talvolta poco incline a stemperare le asprezze di una disciplina normativa italiana estremamente severa e diffidente verso gli stranieri, appare ragionevole valorizzare il significato del termine “trasporto” e la sua finalizzazione all’ingresso illegale per rendersi conto che entrare con l’autorizzazione delle Autorità in un porto italiano con una nave carica di 218 disperati soccorsi in mare alla deriva e verosimilmente legittimati, quanto meno in parte, a chiedere asilo politico o protezione internazionale non significa trasportare stranieri per farli entrare illegalmente in Italia e non è condotta da punire penalmente con una pena da che parte da un minimo di quasi sette anni di reclusione ed una multa di oltre tre milioni di euro fino a ben venti anni di galera!

È ben vero che la lettura del secondo comma dell’art. 12 del d.lgs 286/98, nella diffidente prospettiva appena ricordata, precisando che «non costituiscono reato le attività di soccorso e assistenza umanitaria prestate in Italia nei confronti degli stranieri in condizioni di bisogno comunque presenti nel territorio dello Stato» sembra voler legare irrimediabilmente la condotta scriminata all’aiuto prestato a chi già si trovi nel nostro Paese, ma come già osservato nel richiamato commento del 31 marzo l’interpretazione letterale della norma non tiene adeguato conto dei valori costituzionali e in un certo senso bisticcia con l’ovvio, dal momento che le fattispecie penali sono sempre finalizzate a regolare condotte poste in essere nel territorio. A ciò si aggiunga che l’espressione «comunque presenti» può plausibilmente alludere al fatto che ciò che conta per la ricorrenza della fattispecie è che gli stranieri oggetto di aiuto siano presenti nel territorio a prescindere dal modo in cui vi siano giunti. In ogni caso, come stabilito nel provvedimento in commento, il secondo comma dell’art. 12 cit. lascia espressamente impregiudicata la scriminante di cui all’art. 54 cp.

Detto questo, è del tutto evidente che il provvedimento in esame nella sostanza “smonta” un intero impianto complesso, costruito con la comprensibile finalità di evitare che l’Italia diventi (sarebbe più corretto dire “resti”) l’unico obiettivo di tutte le ong che pattugliano per ragioni umanitarie l’intero Mediterraneo, a prescindere dal luogo del salvataggio. Ma, in assenza di elementi concreti che raccordino i soccorritori e i trafficanti, la soluzione del problema non può essere la sanzione penale (peraltro gravissima) in capo a chi, per puro spirito umanitario, salva dalla morte e dalle violenze i disperati. Il diritto penale non può prescindere dal disvalore sociale della condotta senza trasformarsi in uno strumento repressivo per promuovere risultati politici e proteggere condizioni sociali piuttosto che sanzionare condotte individuali che aggrediscono specifici e significativi beni/interesse.

Allora deve dedursi che gli accordi internazionali e le convenzioni siglate con le ong (violate dalla condotta di Proactiva Open Arms, secondo quanto emerge dall’accertamento compiuto nel provvedimento giudiziario) sono prive di valore e di significato? Non è questa l’occasione per una disamina approfondita dei limiti giuridici della linea sottesa alla attuale organizzazione dei soccorsi ai migranti nel Mediterraneo. Né per una valutazione politica − pur necessaria − di un indirizzo organizzativo che trovasse in concreto il suo architrave nella violazione dei diritti fondamentali di soggetti già vessati dalla sorte, sol perché effettuata fuori dal nostro territorio, ma col nostro accordo. Ancora adesso molteplici elementi concreti inducono quanto meno a dubitare fondatamente che il territorio libico possa costituire un luogo in cui soccorrere e accogliere i migranti. Oltre alle consistenti tracce anche giudiziarie [2] di ciò che accadeva appena nel 2016 in Libia quanto ad “accoglienza” di coloro che fuggono da alcune zone infernali dell’Africa, anche il recente rapporto di Amnesty international, opportunamente menzionato nel provvedimento in esame, mette in evidenza come ancora oggi in larga parte del territorio libico la situazione sia di abuso diffuso e gravissimo in danno dei diritti fondamentali dei migranti ivi presenti e come anche gli organismi Onu non riescano ad essere efficacemente presenti in loco ed impedire del tutto queste gravissime violazioni. In tal senso vi sono anche espliciti riconoscimenti pubblici di autorevoli rappresentanti di taluni organismi delle Nazioni unite e dello stesso Segretario generale o di altri autorevoli rappresentanti di importanti organismi internazionali. Per non parlare dei molteplici riscontri giornalistici e di informazione e delle ricorrenti testimonianze dirette intorno al tema. Con certezza si può dire che il rispetto degli accordi e delle convenzioni mette quanti operano nell’ambito dei soccorsi nel Mediterraneo al riparo − senza margini di opinabilità − da iniziative giudiziarie applicative di una disciplina che si presta certamente ad una lettura quanto meno “ostile” ai soccorsi, delle norme italiane vigenti. Ma la violazione di tali accordi o convenzioni non può condurre ipso facto alla integrazione del reato di immigrazione clandestina.



[1] S. Perelli, Il sequestro della nave Open Arms: è reato soccorrere migranti in pericolo di vita?, in questa Rivista on-line, 31 marzo 2018, http://questionegiustizia.it/articolo/il-sequestro-della-nave-open-arms-e-reato-soccorrere-migranti-in-pericolo-di-vita-_31-03-2018.php

[2] Si veda la sentenza della Corte di assise di Milano del 10 ottobre 2017, nella sezione “Giurisprudenza e documenti” di questa Rivista on-line, http://questionegiustizia.it/doc/sentenza_corte_assise_milano_10_ott_1_dic_2017.pdf.

19/04/2018
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