Magistratura democratica

Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603-bis cp tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale

di Valeria Torre

Il moltiplicarsi di delitti contro la personalità individuale, dalla tipicità poco definita e posti a tutela di beni giuridici non sempre afferrabili, pone notevoli problemi applicativi: in particolare, i concetti di “sfruttamento lavorativo” e “approfittamento dello stato di bisogno” sono elementi alquanto vaghi, che costringono l’interprete a un ruolo di supplenza giudiziaria che travalica i limiti garantistici entro i quali deve iscriversi qualsiasi intervento repressivo.

1. L’evoluzione normativa della fattispecie di intermediazione illecita e sfruttamento di manodopera

Nell’arco degli ultimi decenni, diverse sono state le sollecitazioni internazionali ed europee che hanno richiesto un adeguamento degli ordinamenti nazionali in materia di riduzione in schiavitù e sfruttamento lavorativo: le principali  fonti sono, a livello internazionale[1], il «Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare donne e bambini» del 2000 e, a livello europeo, la decisione quadro 2002/629/GAI del 19 luglio 2002. La decisione quadro è stata, in seguito, sostituita dalla direttiva 2011/36/UE, concernente la prevenzione e la repressione della tratta degli esseri umani e la protezione delle vittime. La direttiva prevede, all’art. 2, una serie di atti dolosi che gli Stati membri devono punire, includendo tra le condotte selezionate il reclutamento di persone ai fini di sfruttamento, che può realizzarsi attraverso l’uso della forza o altre forme di coercizione o abuso di potere o dello stato di vulnerabilità. Il secondo comma dell’art. 2 definisce la posizione di vulnerabilità come: «situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima». Il terzo comma include nello sfruttamento: «lo sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i servizi forzati, la schiavitù o pratiche simili alla schiavitù, la servitù, lo sfruttamento di attività illecite o il prelievo di organi».

Nel nostro ordinamento penale, diverse disposizioni normative vietano forme di lavoro schiavistico e/o forme di servitù, anche contrattualizzata, nonché la tratta di essere umani. In particolare l’art. 600 cp, riformato già con la l. n. 228/2003, punisce assai gravemente la riduzione o il mantenimento in schiavitù o in servitù, includendo nell’ipotesi di riduzione in servitù anche forme di lavoro forzato o obbligatorio. Il primo comma dell’art. 600 cp prevede la condotta di ridurre o mantenere una persona «in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative». Il secondo comma stabilisce che la riduzione o mantenimento nello stato di soggezione si ha «quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità». In attuazione della direttiva 2011/36/UE, la fattispecie è stata ulteriormente modificata con il d.lgs 4 marzo 2014, n. 24 ed è stato inserito il riferimento all’ «approfittamento di una situazione di vulnerabilità» quale elemento significativo della riduzione o mantenimento dello stato di soggezione. L’ambito di operatività della riduzione in schiavitù o servitù è divenuto, pertanto, abbastanza ampio, tanto da comprendere non solo condizioni di totale negazione della libertà e della dignità umana, ma anche quelle situazioni che comportano una significativa compromissione della capacità di autodeterminarsi della persona, senza tuttavia annullarla del tutto[2].

Rispetto alle sollecitazioni unionali e convenzionali, l’ordinamento penale italiano non solo non presentava alcuna lacuna di tutela, ma aveva predisposto un armamentario repressivo di notevole efficacia[3], visto che per l’art. 600 cp era già prevista la responsabilità degli enti (come richiesto dalla direttiva 2011/36/UE), la confisca ex art. 600-septies cp, diverse pene accessorie di natura interdittiva, la punibilità anche per il fatto commesso all’estero ex art. 604 cp, nonché un aggravamento di pena per l’associazione a delinquere finalizzata al compimento dei reati di schiavismo previsti dagli artt. 600 cp ss.

Se questo è il quadro normativo, si fatica a cogliere le ragioni di necessità e urgenza che hanno spinto il legislatore, attraverso il dl 13 agosto 2011, n. 138, a inserire nel codice penale il delitto di cui all’art. 603-bis cp (decreto legge che, in realtà, non aveva come scopo quello di affrontare il fenomeno del caporalato, quanto quello di approntare «ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e lo sviluppo»)[4].

Invero, le ragioni politico-criminali che hanno giustificato l’intervento normativo del 2011 erano legate a esigenze interne del sistema penale nazionale, ovvero la necessità di colmare la lacuna rispetto a forme di schiavitù contrattualizzata e forme di intermediazione illecita, che si ponevano in quello spazio vuoto creatosi fra il confine delle gravi ipotesi di riduzione in schiavitù e tratta degli esseri umani e quello degli illeciti contravvenzionali, di effimero disvalore penale, previsti dalla cd. “legge Biagi”[5]. Un simile intervento penale, in un settore così complesso e delicato, richiedeva forse una riflessione pacata e razionale, che non si combina con l’emotività di una procedura d’urgenza come quella del decreto legge.

L’art. 603-bis cp, nella sua originaria formulazione, puniva chiunque svolga «un’attività organizzata di intermediazione, reclutandone manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori». La condotta tipica era solo quella di intermediazione: inspiegabilmente, non veniva prevista una fattispecie ad hoc di sfruttamento[6]. Nonostante il ridotto ambito di operatività, la fattispecie di intermediazione illecita presentava una tipicità alquanto articolata e complessa, che ha condizionato la sua praticabilità processuale[7], tanto da determinare un’operatività limitata della norma, testimoniata da una scarsissima casistica giurisprudenziale[8]. Proprio perché caratterizzata da condotte di violenza, minaccia e intimidazione, la disposizione dell’art. 603-bis cp poneva, inoltre, un problema di concorso apparente di norme con le ipotesi più gravi, tipizzate dall’art. 600 cp. A ciò si aggiunga – come già anticipato – che, in seguito alla modifica apportata dal d.lgs 4 marzo 2014, n. 24, l’art. 600 cp ha previsto quale elemento tipico dello stato di soggezione anche l’approfittamento di una situazione di vulnerabilità, ampliando così lo spazio di illeceità riconducibile alla riduzione o al mantenimento in schiavitù o servitù. L’art. 603-bis assumeva, così, una funzione residuale e uno spazio di operatività molto ridotto[9], anche per la presenza della clausola di riserva.

2. La lacuna di tutela e la riforma del 2016

Da un lato, quindi, la complessa tipicità della fattispecie di intermediazione illecita[10]; dall’altro, una opaca delimitazione – se non sovrapposizione – con l’ipotesi di riduzione in schiavitù, hanno decretato l’ineffettività della nuova ipotesi delittuosa, frustrando così le finalità politico-criminali che il legislatore intendeva perseguire. Se, infatti, l’art. 603-bis veniva introdotto nel nostro ordinamento per colmare quello spazio di irragionevole liceità penale creatosi fra la riduzione in schiavitù e le ipotesi contravvenzionali della “legge Biagi”, tale lacuna persisteva anche dopo la riforma del 2011. Modalità più diffuse di sfruttamento, poste in essere senza ricorrere necessariamente alla violenza, alla minaccia o all’intimidazione, erano lasciate alla blanda gestione di un sistema penale più mite, quello predisposto attraverso le ipotesi contravvenzionali previste in tema di intermediazione illecita ex art. 18 d.lgs n. 273/2003[11]. Cionondimeno, situazioni di cd. “caporalato grigio”, di schiavitù contrattualizzata o consensuale[12] possono comportare una lesione del bene giuridico della personalità individuale[13], meritevole di una più severa reazione da parte dell’ordinamento penale rispetto alle sole ipotesi contravvenzionali extra codicem[14].

La mancata previsione della responsabilità degli enti[15], infine, costituiva il più grande segno di miopia empirico-criminologica del nostro legislatore che, evidentemente, ignorava come l’attuale fenomeno del caporalato sia schermato da agenzie di intermediazione o società cooperative e come le stesse imprese siano gestite da soggetti collettivi[16]. Tra l’altro, come evidenziato da parte della dottrina: «lo sfruttamento del lavoro schiavistico si pone, normalmente, al livello più basso di una filiera produttiva verticale al culmine della quale vi è un’impresa che colloca il prodotto al consumatore finale»[17].

La scarsa effettività dell’art. 603-bis cp e la sua totale inefficacia hanno indotto, così, il legislatore a riformulare la fattispecie, prevedendo un alleggerimento sostanziale della tipicità, così da ampliare la sua sfera di operatività e favorire una più agevole praticabilità processuale, grazie anche a un più limitato onere probatorio[18]. La l. 29 ottobre 2016, n. 199 ha modificato l’art. 603-bis cp e distinto l’ipotesi di intermediazione illecita, il cd. “caporalato”, configurandolo come delitto di pericolo a dolo specifico, da quella di sfruttamento del lavoro, condotta propria del datore di lavoro, equiparandole – irragionevolmente – sul piano sanzionatorio. A caratterizzare penalmente la condotta di reclutamento e di utilizzo sono solo lo sfruttamento e l’approfittamento dello stato di bisogno, concetti già presenti nella disposizione codicistica precedente, mentre la violenza e la minaccia costituiscono circostanze aggravanti.

La legge n. 199/2016 non si limita, tuttavia, a una modifica della fattispecie penale, ma, attraverso un approccio integrato fra sistema penale ed extrapenale, articola una strategia razionale di lotta al fenomeno del caporalato e, più in generale, allo sfruttamento lavorativo, in particolare nel settore agricolo. A tal riguardo, la legge amplia la responsabilità da reato dell’ente giuridico, con l’inserimento dell’art. 603-bis nell’elenco dei reati di cui l’ente risponde ex art. 25-quinquies d.lgs n. 231/2001. Il ricorso a strumenti repressivi di tipo patrimoniale, come i diversi tipi di confisca e il sequestro giudiziario, segnalano una maggiore consapevolezza empirica del legislatore nel gestire forme di criminalità a tutti gli effetti economica[19]. Il rafforzamento, infine, della rete del lavoro agricolo di qualità con la cabina di regia rappresenta l’aspetto più qualificato della prospettiva promozionale e premiale, che si inserisce in un più organico intervento nel solo settore agricolo[20].

Ciò che resta immutata, invece, è la struttura della disposizione penale, non solo perché basata sul concetto di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno, ma anche perché il legislatore ha adottato la medesima tecnica legislativa e di tipizzazione della condotta di sfruttamento.

3. La tipicità debole dell’art. 603-bis cp e la sua connotazione in termini processuali-probatori

In particolare, il legislatore, come già nel 2011, non definisce il concetto di sfruttamento – almeno non lo definisce in modo diretto –, ma lo “indicizza”[21], individuando alcuni elementi di contesto da cui è possibile desumere la prova dello sfruttamento.

Sebbene, astrattamente, possa essere condivisa la scelta di ricorrere ai cd. indici per delineare una “tipicità dinamica” del concetto di sfruttamento[22], sono i risultati cui si giunge che non appaiono convincenti.

Gli indici di sfruttamento, come chiaramente affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento alla legge, non fanno parte del fatto tipico, tanto che la loro genericità non costituirebbe un vulnus alle garanzie sottese al principio di legalità. Né, tantomeno, tali indici possono consentire presunzioni, assolute o relative, dello sfruttamento, perché allora contrasterebbero con i principi di garanzia che presiedono alla materia processuale. Tutt’al più, costituiscono delle linee guida[23] che, secondo le intenzioni del legislatore, orientano l’interprete, che deve destreggiarsi in un universo semantico così poco definito.

La vaghezza del concetto di sfruttamento non è, però, riducibile attraverso un mero esercizio ermeneutico perché la sua definizione implica un bilanciamento delicato tra interessi economici e diritti fondamentali, che compete solo al sistema politico e, quindi, al legislatore[24]. La mancanza di una scelta politica in grado di conferire una fisionomia più netta alla tipologia criminologica che si intende reprimere, in realtà, è sintomatica di insipienza legislativa, se non anche di una certa schizofrenia politica, per cui, da un lato, si assiste alla legittimazione da parte dell’ordinamento giuridico di un sistema di produzione la cui tendenza evolutiva è segnata da una costante destrutturazione della disciplina del mercato del lavoro e dallo smantellamento dei diritti dei lavoratori – esempio lampante è l’universo di precarietà che avvolge la cd. “gig-economy” –; dall’altro, si introducono rimedi agli effetti distorsivi di tale politica lavorativa attraverso un confuso e ambiguo intervento repressivo[25]. Il legislatore avrebbe dovuto fornire una più significativa indicazione di valore, in modo da poter chiarire anche la differenza fra le ipotesi gravi di schiavismo, le forme di schiavitù contrattualizzata e tipologie di lavoro del tutto legali, seppur lesive di diritti fondamentali dei lavoratori[26] (che potrebbero, tra l’altro, essere in contrasto con la recente direttiva 2019/1152/UE, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili e volta ad assicurare diritti minimi ai lavoratori nell’Ue, inducendo così il giudice alla disapplicazione del diritto interno). Tale deresponsabilizzazione e latitanza del sistema politico non può, pertanto, essere sostituita da una tecnica di tipizzazione dinamica, che faccia riferimento al contesto di riferimento[27], se non si vuol nuovamente accettare come soluzione un intervento sovradimensionato della magistratura, che eserciterebbe una funzione di supplenza giudiziaria.

Se quindi è condivisibile, se non anche apprezzabile, la scelta di declinare secondo una logica processuale-probatoria la tipicità dello sfruttamento lavorativo, è pur sempre necessario che il fatto tipico sia espressivo di un disvalore che consenta all’interprete di distinguere le ipotesi penalmente rilevanti e di demarcare il confine con ipotesi limitrofe. In sintesi: l’oggetto sostanziale dell’inferenza induttiva, che attraverso l’indice è possibile provare, deve essere determinato chiaramente dal legislatore. Si può anche convergere sul fatto che le condizioni di sfruttamento consistano in una “coartazione del soggetto a vivere una condizione lavorativa di cui subisce l’imposizione”, ma attraverso la “definizione operativa” adottata dall’art. 603-bis cp non è possibile distinguere la condizione di sfruttamento lavorativo che integra l’ipotesi dell’art. 600 cp da quella dell’art. 603-bis cp, né è possibile tracciare una linea di demarcazione con quella che sembra una condizione tipica del contesto produttivo e di relazioni industriali, sempre più insensibile alla tutela delle fasce deboli, che tuttavia è legalmente consentita[28].

Tra l’altro, la tipologia degli indici individuati dal legislatore – ovvero la remunerazione, il tempo di lavoro, le condizioni di salute e di sicurezza sul lavoro, i metodi di sorveglianza e le situazioni alloggiative[29] – è la stessa che già la giurisprudenza aveva enucleato rispetto alla fattispecie di cui all’art. 600 cp[30]. E questo non fa che aumentare la difficoltà di distinguere le due fattispecie.

Il secondo elemento tipico dell’intermediazione illecita e dello sfruttamento lavorativo è l’approfittamento dello stato di bisogno. Anche questa condizione non pare connotare in modo significativo l’ipotesi di sfruttamento lavorativo, tale da essere discretivo rispetto alle fattispecie di riduzione in schiavitù e di tratta[31]: sebbene con sfumatura lessicale diversa, come l’approfittamento dello stato di necessità e delle condizioni di vulnerabilità[32], tale condotta connota anche queste ultime fattispecie.

L’approfittamento dello stato di bisogno, quindi, avrebbe la funzione di selezionare, fra le condotte di sfruttamento, quelle meritevoli di pena. Tuttavia, lo sfruttamento lavorativo è già di per sé espressivo di un disvalore penale e, perciò, meritevole di stigmatizzazione a prescindere daun abuso delle condizioni esistenziali della persona[33] quale modalità di realizzazione dello sfruttamento.

Inserire nel fatto tipico tale elemento nulla aggiunge a una valutazione sia in termini di meritevolezza che di bisogno di pena dello sfruttamento lavorativo[34], ma rischia solo di introdurre un onere probatorio, sul piano oggettivo e soggettivo, tale da rendere non punibile lo sfruttamento lavorativo, ove non sia provato anche un approfittamento di uno stato di bisogno. O, viceversa, come alle volte lo interpreta la giurisprudenza, l’approfittamento dello stato di bisogno viene considerato un elemento in re ipsa nella condizione di disagio esistenziale vissuto da alcune categorie di lavoratori, ed elemento implicito dello sfruttamento[35].

4. Qualche spunto di riflessione conclusiva a partire dagli orientamenti giurisprudenziali

 La giurisprudenza ha fornito alcuni interessanti spunti di riflessione sulle questioni problematiche esposte nei paragrafi precedenti, evidenziando, in un quadro d’insieme, profili applicativi e prasseologici, che a livello teorico rischiano di essere trascurati[36].

Non è ancora possibile, tuttavia, individuare attraverso la prassi giurisprudenziale un significato univoco che i termini assolutamente vaghi come lo sfruttamento lavorativo e l’approfittamento dello stato di bisogno assumono nell’ambito dell’art. 603-bis cp, in quanto la casistica è ancora piuttosto limitata e, pertanto, non ancora indicativa per cristallizzare un indirizzo interpretativo.

Rilevante, invece, è l’interpretazione giurisprudenziale in tema di riduzione in servitù. Secondo un orientamento ormai consolidato, le condizioni di sfruttamento che possono derivare dalla violazione di norme poste a tutela del lavoratore non costituiscono una prova dello sfruttamento inteso come riduzione in servitù, se non sia dimostrata anche la compromissione della capacità di autodeterminarsi[37]. La giurisprudenza di legittimità evidenzia, inoltre, che condizioni lavorative defatiganti e situazioni abitative precarie sono solo sintomatiche di una eventuale soggezione continuativa, elemento tipico della riduzione in servitù, ma non costituiscono la prova di «una significativa compromissione della capacità di autodeterminazione della persona, necessaria per la configurazione di quello stato di soggezione rilevante ai fini della sussistenza del reato in questione, anche indipendentemente da una totale privazione della libertà personale»[38].

In particolare la Corte di assise di Lecce[39] ha cercato di distinguere le fattispecie di cui agli artt. 600 e 603-bis cp, nel caso in cui lo stato di riduzione in servitù sia realizzato attraverso lo sfruttamento lavorativo, accompagnato dall’approfittamento dello stato di bisogno/necessità. L’iter motivazionale mette in evidenza che non vi sarebbe una differenza qualitativa, ma solo quantitativa fra gli elementi del fatto tipico dello sfruttamento lavorativo ex art. 603-bis cp e riduzione in schiavitù o servitù. Quest’ultimo reato è significativamente più grave «per la più estesa privazione della libertà di autoderminazione»[40]; tale gravità non è, però, legata a una diversa interpretazione dello sfruttamento lavorativo e approfittamento dello stato di necessità e/o vunerabilità, ma dipende dalla presenza di ulteriori elementi che arricchiscono la fattispecie di riduzione in schiavitù rispetto allo scarno fatto tipico dell’art. 603-bis cp.

L’art. 600 cp individua una fattispecie a condotte alternative, tutte tra loro equivalenti sul piano del disvalore penale e della capacità lesiva. Lo sfruttamento di prestazioni lavorative, elemento tipico della riduzione in schiavitù e/o servitù, deve essere quindi interpretato alla luce del disvalore penale che emerge dagli altri elementi del fatto tipico. In particolare, l’ipotesi della riduzione in servitù prevede il caso in cui si costringa qualcuno a «prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi». La prestazione lavorativa, concetto in sé neutro, privo di connotati illeciti e di pregnanza lesiva, assume un particolare disvalore penale in quanto, nell’art. 600cp, è al tempo stesso oggetto della costrizione e modalità di sfruttamento, al pari delle prestazioni sessuali, dell’accattonaggio e del prelievo di organi. Questa equiparazione costituisce una utile premessa, da cui si desume che solo lo sfruttamento delle prestazioni lavorative che sia in grado di eguagliare il disvalore penale dello sfruttamento delle prestazioni sessuali, dell’accattonaggio e del prelievo di organi corrisponde alla fattispecie di riduzione in servitù. Come correttamente evidenziato dalla prassi giurisprudenziale, quelle condizioni di particolare degrado abitativo e/o la violazione di basilari norme di diritto del lavoro possono essere sintomatiche di sfruttamento, ma non sono ancora prova di una compromissione della capacità di autodeterminazione, necessaria per integrare l’art. 600 cp[41].

Attraverso un’interpretazione a contrario, è possibile ricondurre all’ipotesi dell’art. 603-bis cp lo sfruttamento lavorativo che non assuma, quindi, quei particolari connotati lesivi che caratterizzano solo la riduzione in servitù. E avendo il legislatore elencato una serie di indici di sfruttamento, questi potrebbero essere considerati come esemplificativi delle modalità di sfruttamento che devono caratterizzare il fatto tipico: ovvero uno sfruttamento che, sostanzialmente, si caratterizza per la violazione “reiterata” della normativa giuslavoristica posta a presidio dei diritti fondamentali del lavoratore. Non vi sarebbe un’offesa diretta alla libertà di autodeterminazione e alla dignità della persona, quanto piuttosto una lesione della sua libertà contrattuale, che si manifesta nella violazione di norme extrapenali poste a tutela della sua dignità[42]. Per evitare, tuttavia, un’applicazione formalistica della fattispecie, occorre valorizzare tutti gli elementi di contesto, delineati dal legislatore proprio attraverso gli indici di sfruttamento. Anche l’indagine empirica colloca il fenomeno dello sfruttamento lavorativo in un contesto criminoso, caratterizzato da ripetute e diversificate lesioni della dignità e della libertà del lavoratore. Pertanto, non potrà certo essere la prova di un solo indice a costituire un sintomo di sfruttamento, ma sarà necessario che si verifichino più condizioni caratterizzate dalla reiterata violazione di basilari norme poste a tutela del lavoratore. Da questo punto di vista, è possibile considerare lo sfruttamento lavorativo quale reato abituale[43].

Anche questa interpretazione, finalizzata a preservare un equilibrio sistematico fra fattispecie, risulta avere consistenza fragile, a causa della debole tipicità dell’art. 603-bis cp: il rischio è che la funzione del diritto penale diventi meramente sanzionatoria di normative extrapenali e la tutela penale della persona si realizzi attraverso una amministrativizzazione della tutela del bene giuridico. Se la prova degli indici di sfruttamento sostituisce la prova dello sfruttamento e l’approfittamento dello stato di bisogno viene presunto nella condizione di straniero extra-comunitario, o lo si considera un elemento implicito dello sfruttamento –come già ha fatto parte della giurisprudenza – potrebbe accadere che anche elementi del fatto concreto di limitato disvalore siano ricondotti all’ipotesi dell’art. 603-bis cp[44].

Questa tipicità debole, oltre a ledere principi garantistici fondamentali, potrebbe tuttavia andare anche a detrimento delle vittime qualora, a causa dell’affinità e prossimità di tutela fra l’art. 600 e l’art. 603-bis cp, il concorso apparente di norme venga risolto a favore dell’art. 603-bis cp sulla base di una valutazione della gravità dell’offesa assolutamente discrezionale, in quanto compiuta in assenza di una predeterminazione legislativa. Fatti connotati da una gravità notevole rischiano di essere inquadrati nel reato di sfruttamento lavorativo ex art. 603-bis cp, e non nella fattispecie di riduzione in servitù, sulla base di una inconsistente sfumatura valoriale. Entrambe le fattispecie tutelano in misura differente medesimi beni giuridici, poco afferrabili: la dignità umana e la libertà personale[45]. Un medesimo fatto potrebbe essere inquadrato nell’ambito dell’art. 600 cp, là dove si ritenga prevalente la lesione alla libertà di autodeterminazione. Sulla base di una diversa argomentazione, i medesimi fatti potrebbero ritenersi, invece, lesivi solo della sua libertà contrattuale del lavoratore, costretto a condizioni poco dignitose e pertanto rientrare nella sfera di operatività dell’art. 603-bis cp[46].

Per quanto apprezzabili possano essere gli sforzi ermeneutici volti a rendere più determinata e tassativa la fattispecie, qualsiasi “equivalente funzionale” di legalità indebolisce la forza delle garanzie sottese ai principi del diritto penale e non sembra neanche sufficiente a rispondere alle esigenze di tutela delle vittime. L’illusione di poter fare affidamento sull’attività compensativa del giudice si rivela, pertanto, fallace laddove il legislatore non si sia fatto carico del compito di esprimere, attraverso il fatto tipico, una sintesi di disvalore omogeneo.

[1] Tra le fonti internazionali e convenzionali, vi è anche la Cedu, che all’art. 4 vieta la schiavitù e la servitù, distinguendole rispetto al lavoro forzato o obbligatorio.

[2] Sul punto, ex pluribus, Cass., sez. V pen., 18 novembre 2010, n. 2775.

[3] K. Summerer, I delitti di schiavitù e tratta di persone, in A. Cadoppi - S. Canestrari - A. Manna - M. Papa (a cura di), Trattato di diritto penale. Parte speciale – I delitti contro l’onore e la libertà individuale, Utet, Torino, 2010, p. 232, evidenzia come l’ordinamento italiano abbia introdotto moderni strumenti di contrasto ai fenomeni di neo-schiavismo, ponendo il nostro Paese all’avanguardia in Europa rispetto a questa forma di crimine.

[4] Sul punto, A. Di Martino, “Caporalato” e repressione penale: appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Dir. pen. cont., n. 2/2015, pp. 106-107; A. Scarcella, Il delitto di “caporalato” entra nel codice penale, in Dir. pen. proc., n. 10/2011, p. 1183.

[5] S. Fiore, (Dignità degli) Uomini e (punizione dei) Caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Aa. Vv., Scritti in onore di Alfonso Stile, ESI, Napoli, 2014, p. 881; S. Tordini Cagli, Profili penali del collocamento della manodopera. Dalla intermediazione illecita all’ “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, in Ind. pen., 2017, p. 727. Sul punto, Cass., sez. V pen., 4 febbraio 2014, n. 14591.

[6] Il datore di lavoro poteva solo concorrere con l’intermediario nel delitti di cui all’art. 603-bis cp. Sul punto, vds. A. Di Martino, “Caporalato”, op. cit., p. 108.

[7] Vds. A. Di Martino, op. ult. cit., pp. 106 ss., secondo il quale la norma è «strabica e distorsiva. Strabica, perché identifica condotte riferibili a soggetti che, almeno secondo la diagnosi corrente e unanime, non sono quelli che la fattispecie stessa dichiara responsabili, mentre dichiara responsabili soggetti che non possono realizzarle se non relativamente a talune ipotesi, e comunque indirettamente. Distorsiva, correlativamente, perché è un modo distorsivo d’intervenire sul funzionamento del mercato del lavoro (di un certo tipo di lavoro, almeno) quello con il quale – almeno stando alla lettura corrente – sono criminalizzati selettivamente taluni soggetti, che svolgono un ruolo solo strumentale ad un intero modo di produzione i cui attori primari realizzano di fatto e direttamente le condotte assunte come tipiche ma non sono puniti». Più avanti, l’Autore evidenzia l’inidoneità strutturale del reato a svolgere lo scopo di tutela, per cui restano impunite gravi offese alla persona rappresentate dal fenomeno del caporalato (p. 112). Sul punto, vds. Cass., sez. V pen., 18 dicembre 2015, n. 16735.

[8] D. Ferrante, La legge n. 199/2016: disposizioni penali in materia di caporalato e sfruttamento del lavoro nell’ottica del legislatore, in Dir. pen. cont., 15 novembre 2016, www.penalecontemporaneo.it/d/5058-la-legge-n1992016-disposizioni-penali-in-materia-di-caporalato-e-sfruttamento-del-lavoro-nellottica.

[9] Vds. A. Di Martino, “Caporalato”, op. cit., pp. 114-115: «la differenza tra le fattispecie finisce con lo sfumare, sia se si prende atto dell’ingresso nella fattispecie dell’art. 600 cp delle condizioni di vulnerabilità, sia se si tiene in considerazione quell’interpretazione giurisprudenziale secondo la quale la condizione di “necessità”, “il cui approfittamento costituisce condotta integrante il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, deve essere intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale atta a condizionare la libertà della vittima”».

[10] Oltre che rispetto alla presenza di elementi quali la minaccia, la violenza e le intimidazioni, notevoli problemi interpretativi sono sorti anche rispetto al carattere “organizzato” dell’attività di intermediazione.

[11]Vds. A. Scarcella, Il delitto di “caporalato”, op. cit., p. 1187. In giurisprudenza, Cass., sez. V, 18 dicembre 2015, n. 16735. Peraltro, gli illeciti contravvenzionali della “legge Biagi” erano stati sostanzialmente espunti dall’ordinamento, in quanto dapprima il Jobs Act (con l’art. 55, comma 1, lett. d, d.lgs n. 81/2015) ha abrogato espressamente l’art. 28 d.lgs n. 276/2003, limitando le reazioni sanzionatorie alle fattispecie di somministrazione irregolare e somministrazione abusiva, poi il d.lgs n. 8/2016 ha trasformato in illeciti amministrativi i reati di somministrazione abusiva e di utilizzazione illecita, fatto salvo soltanto il caso dell’impiego di minorenni.

[12] Sul punto, si veda A. Jannarelli, Osservazioni preliminari per una definizione giuridica per le forme contemporanee della schiavitù, in Riv. dir. priv., n. 3/2014, pp. 335 ss.

[13] Sulla collocazione codicistica e il bene giuridico, vds. S. Fiore, (Dignità degli), op. cit., 873; A. Giuliani, Profili di (ir)responsabilità da reato delle persone giuridiche rispetto ai fatti di c.d. “caporalato” (art. 603-bis c.p. e d.lgs. 231/2001 a confronto), in Bocconi legal papers, n. 6/2015, p. 273. In giurisprudenza, Cass., sez. V, 4 febbraio 2014, n. 14591.

[14] La norma, infatti, dovrebbe collocarsi nello spazio fra le disposizioni codicistiche a tutela della persona e le disposizioni contravvenzionali – Cass., sez. V, 4 novembre 2014, n. 14591. La giurisprudenza aveva, in passato, colmato il vuoto di tutela ricorrendo a fattispecie limitrofe: sul punto, Cass., sez.V, 12 novembre 2010, n. 40045; tuttavia, come evidenziato dal provvedimento del gip di Brindisi, 8 giugno 2017, in www.dpei.it (www.dpei.it/diritto-penale-sicurezza-sul-lavoro/successioni-leggi-penali-caporalato-trib-brindisi-sent-2017-n), l’art. 603-bis si è rivelato «strutturalmente inidoneo a svolgere la funzione per cui era stato introdotto», ovvero a colmare il vuoto di tutela.

[15] Sul punto, A. di Martino, “Caporalato”, op. cit., p. 110; A. Giuliani, Profili, op. cit., pp. 269 ss.

[16] Sui caratteri del “caporale” del mercato globale e della post-modernità, si vedano le riflessioni di E. Lo Monte, Osservazioni sull’art. 603-bis c.p. di contrasto al caporalato: ancora una fattispecie enigmatica, in Aa.Vv., Scritti in onore di Alfonso Stile, ESI, Napoli, 2014, pp. 955 ss. Più in generale, F. Di Marzio, Agricoltura, caporalato e questo libro, in Id. (a cura di), Agricoltura senza caporalato. Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, Donzelli, Roma, 2017, pp. 3 ss.La presenza di uno schermo legale e/o il ricorso all’istituto dell’appalto è ben evidenziato anche nella circolare n. 5/2019 dell’INL.

[17] Così M. Rescigno, “Impresa schiavistica”, decentramento produttivo, imputazione dell’attività e applicazione delle regole, in F. Buccellato e M. Rescigno (a cura di), Impresa e «forced labour»: strumenti di contrasto, Il Mulino, Bologna, 2015, p. 69.

[18] Così gip Brindisi, 8 giugno 2017, cit.

[19] Sul punto, F.R. Pirrelli, Contrasto al lavoro sfruttato. Strumenti processuali e tecniche investigative, in Crit. dir., n. 2/2018, p. 55.

[20] Non è questa la sede per affrontare un’analisi sull’effettività di tali misure, ma purtroppo la strategia promozionale è quella meno implementata, pertanto il rischio concreto è che per contrastare il fenomeno dello sfruttamento lavorativo resti solo l’intervento repressivo, spesso insufficiente e anche ineffettivo. Sul punto, vds. M. D’Onghia e C. De Martino, Gli strumenti giuslavoristici di contrasto allo sfruttamento del lavoro in agricoltura nella legge n. 199 del 2016: ancora timide risposte a un fenomeno molto più complesso, in Variazioni su temi di diritto del lavoro, n. 1/2018, pp. 157 ss.; V. Pinto, Filiere agro-alimentari e agro-industriali, rapporti di produzione agricola e lavoro nero, in V. Ferrante (a cura di), Economia “informale” e politiche di trasparenza. Una sfida per il mercato del lavoro, Vita e Pensiero, Milano, 2017, pp. 83 e 96.

[21] A. Di Martino, Tipicità di contesto. A proposito dei c.d. indici di sfruttamento dell’art. 603-bis c.p., in Arch. pen., n. 3/2018, p. 3.

[22] Sul punto appaiono condivisibili le conclusioni di A. Di Martino, op. ult. cit., p. 60. Tuttavia, non sono la tecnica di tipizzazione o i criteri di selezione dei fatti penalmente rilevanti a destare perplessità, quanto, nel caso specifico dello sfruttamento lavorativo, la scarsa determinatezza che, seppur secondo una dinamica di contesto, tale fattispecie garantisce. A fini applicativi, il disorientamento della giurisprudenza è testimoniato dall’ampia operatività della fattispecie, che affianca nel medesimo contesto di illiceità designato dall’art. 603-bis cp forme di schiavismo vero e proprio e situazioni lavorative disciplinate dalla legge, come nel caso dei cd. “riders”, ma che si prestano all’elusione di garanzie fondamentali.

[23] Sulla funzione e struttura degli indici, vds. A. Di Martino, Tipicità di contesto, op. cit., p. 8; S. Fiore, La nuova disciplina penale della intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, tra innovazioni e insuperabili limiti, in Dir. agr., n. 2/2017, p. 267; A. Gaboardi, Commento alla l. 199/2016, in Leg. pen., 1° aprile 2017, www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2017/04/studi_gaboardi2017.pdf; sul punto, sia consentito di rinviare anche a V. Torre, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2018, pp. 289 e 304. Vds. Corte assise Lecce, 13 luglio 2017, n. 2 (www.dpei.it/diritto-penale-sicurezza-sul-lavoro/rapporto-tra-reato-cd-caporalato-art-603bis-cp-reato-riduzione).

[24] Sul punto, vds. C. Bernasconi, La metafora del bilanciamento in diritto penale. Ai confini della legalità, Jovene, Napoli, 2019, passim.

[25] Per analoghe considerazioni, nell’ambito del lavoro in agricoltura, vds. V. Pinto, Filiera agro-alimentare, op. cit., pp. 85 ss.; Id., Indici di congruità e contrasto al lavoro irregolare in agricoltura, in Riv. dir. agr., n. 3/2014, pp. 356 e 359 ss.

[26] A. De Rubeis, Qualche breve considerazione critica sul nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Dir. pen. cont., n. 4/2017, pp. 221 e 223.

[27] A. Di Martino, Tipicità di contesto, op. cit., p. 6.

[28] Opera una distinzione rispetto al grado di compressione della libertà personale A. Di Martino, Stato di bisogno o condizione di vulnerabilità tra sfruttamento, tratta e schiavitù. Contenuti e metodi fra diritto nazionale e orizzonti internazionali, in Arch. pen., n. 1/2019, p.47. Ugualmente, Corte assise Lecce, 7 luglio 2017, n. 2. Sulla difficoltà di tracciare una netta linea di demarcazione, vds. A. De Rubeis, Bene giuridico e corretta definizione delle fattispecie. Sui rapporti tra riduzione in schiavitù e intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Cass. pen., 2018, p. 4361.

[29]Così A. Di Martino, Tipicità di contesto, op. cit., p. 10.

[30] Sul punto, si veda l’approfondita disamina compiuta dalla Corte di assise di Lecce – sentenza 13 luglio 2017, n. 2.

[31] Sul punto, Corte assise Lecce, 13 luglio 2017, n. 2, individua quale contenuto dell’approfittamento dello stato di necessità di cui all’art. 600 cp proprio l’assenza di «alternative esistenziali validamente percorribili».

[32] Vds., sul punto, l’ampia e approfondita analisi di A. Di Martino, Stato di bisogno, op. cit., p. 1.

[33] Sul punto, ivi, pp. 37 ss.

[34] A. De Rubeis, Qualche breve considerazione, op. cit., p. 231.

[35] Cass., sez. V, 12 gennaio 2018, n. 17939, ha ritenuto che: «l’ulteriore elemento dell’approfittamento dello stato di bisogno dei lavoratori era oggetto di congrua motivazione nel riferimento alla situazione di clandestinità dei predetti, che li rendeva disposti a lavorare in condizioni disagevoli». Così Trib. Milano, sez. mis. prev., decreto 7 maggio 2019, n. 59 (cfr. www.penalecontemporaneo.it/upload/9790-merlo2019a.pdf), pur soffermandosi approfonditamente sulla prova degli elementi sintomatici dello sfruttamento, risulta carente sulla prova dell’approfittamento dello stato di bisogno. Sulla condizione di vulnerabilità dello straniero, in particolare nel comparto agroalimentare, si veda V. Papa, “You’re lucky to get paid at all”. Segregazione occupazionale e sfruttamento lavorativo degli stranieri nel comparto agroalimentare, in Crit. dir., n. 2/2018, pp. 35 e 40 ss.

[36] L’Inl ha adottato la circolare n. 5/2019, fornendo agli ispettori le prime linee guida da adottare durante l’attività di vigilanza finalizzata a scoprire, contenere e debellare il reato di sfruttamento lavorativo. Vengono, così, individuate prassi volte a indirizzare l’attività ispettiva, evidentemente non supportata da un testo legislativo chiaro e univoco.

[37] Così Cass., sez. V, 10 febbraio 2011, n. 13532: «nel caso dello sfruttamento delle prestazioni altrui, la condotta criminosa non si ravvisa per sé nell’offerta di lavoro implicante gravose prestazioni in condizioni ambientali disagiate verso un compenso inadeguato, poi neanche versato, sol che la persona si determini liberamente ad accettarla, ma può sottrarvisi una volta rilevato il disagio concreto che ne consegue. In ogni caso la condizione sussiste se si impedisce alla persona di determinarsi liberamente nelle sue scelte esistenziali, per via o in costanza di una situazione di soggezione».

[38] Così Cass., sez. V, 24 settembre 2013, n. 44385; Cass., sez. V, 17 giugno 2016, n. 31647.

[39] Corte assise Lecce, 13 luglio 2017, n. 2.

[40] Ivi.

[41] Sul punto, vds. D. Genovese, Nessuno più al mondo deve essere sfruttato: nuovi strumenti per una vecchia utopia, in Leg. pen., 22 marzo 2018, pp. 10 ss.

[42] Sul fatto che la dignità possa considerarsi un valido criterio valoriale per le scelte di tutela penale e come criterio interpretativo, si vedano le condivisibili riflessioni critiche di A. De Rubeis, Bene giuridico, op. cit., p. 4361; D. Genovese, Nessuno più, op. cit., pp. 3 ss. Secondo F. Di Marzio, Agricoltura, op.cit., saremmo di fronte a un fenomeno di “sotto-lavoro”; secondo P. Passaniti, Il diritto del lavoro come antidoto al caporalato, in F. Di Marzio (a cura di), Agricoltura, op. cit., p. 35,il caporalato alligna in un territorio dominato da un «pre-diritto del lavoro» di perdurante ineffettività della legge.

[43] Diversamente si era, invece, espressa la Cass., sez. V, 11 gennaio 2018, n. 17939, che ha ritenuto sufficiente anche la prova di un solo indice, purché significativo della condizione di sfruttamento. Seppur nell’ambito di un procedimento cautelare, l’accertamento della condizione di sfruttamento si è basato su una puntuale e approfondita ricostruzione dei fatti, frutto di una complessa e articolata indagine che ha fornito ampia prova dell’esistenza di tutti gli indici di sfruttamento, nel primo caso di sequestro giudiziario previsto per il reato di caporalato in Capitanata. Sul punto, gip Foggia, 27 giugno 2019. Così anche nell’ambito di altri procedimenti cautelari: Cass., sez. V, 20 aprile 2018, n. 17939; Cass., sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 43683; Cass., sez.IV, 29 novembre 2019, n. 48659. In questo senso anche Trib. Bari, sez. I, 2 ottobre 2019, n.3466 in cui correttamente si evidenzia come non sia sufficiente ad integrare il disvalore offensivo dello sfruttamento di manodopera la violazione di norme in materia di sicurezza ed igiene attinenti solo ad obblighi di informazione e formazione. Sulle tecniche di indagine, vds. F.R. Pirrelli, Sfruttamento, op. cit., pp. 58 ss.

[44] Se, come riporta D. Genovese, Nessuno più, op. cit., p. 12, nota 42, fino al 2018 si contavano circa 18 inchieste per sfruttamento lavorativo ex art. 603-bis cp, alla fine del 2019 non pare che vi sia stato un incremento notevole delle inchieste o che vi siano almeno sentenze di merito di condanna. Il rischio è, quindi, che l’art. 603-bis cp possa essere una fattispecie ad uso delle procure, anche per gli ampi poteri e strumenti investigativi previsti, ma che non sia sostanzialmente una fattispecie in grado di selezionare fatti che abbiano una praticabilità processuale-probatoria tale da far superare anche la fase del dibattimento.

[45] Cass., sez. V, 23 novembre 2016, n. 6788, che rigetta il ricorso degli imputati contro il Tribunale della libertà di Lecce. I fatti, come descritti nella sentenza, sono sintomatici di uno sfruttamento lavorativo che può essere  ricondotto all’ipotesi di riduzione in schiavitù: 12/18 ore di lavoro, senza riposi settimanali, senza alcun rispetto della normativa in materia di sicurezza sul lavoro, con modalità di controllo tali da limitare persino elementari esigenze fisiologiche, non possono risolversi solo nello sfruttamento lavorativo ex art. 603-bis cp, ma integrano forme di soggezione continuativa di cui all’art. 600 cp. Sul punto, A. Bevere, La condizione analoga alla schiavitù nella giurisprudenza e nella riforma legislativa, in Crit. dir., n. 1/2016, p. 7.

[46]Pur non conoscendo ancora le motivazioni, tale argomentazione deve aver sostenuto anche la decisione della Corte di assise di appello di Lecce nel noto “caso Sabr” di Nardò (Le). L’art. 603-bis cp non era ancora entrato in vigore al momento dei fatti oggetto della pronuncia, ma il giudicante ha ritenuto che non fosse integrata neanche l’ipotesi più grave di riduzione in schiavitù o servitù, accertata invece in primo grado con la sentenza pronunciata dalla Corte di assise di Lecce, 13 luglio 2017, n. 2.