Magistratura democratica

La formazione del giurista, dell’interprete e del traduttore nello spazio giuridico integrato europeo: la «Refugee Law Clinic Trieste» e la «Transcultural Law Clinic»

di Fabio Spitaleri e Caterina Falbo
Il Dipartimento di «Scienze giuridiche, del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione» dell’Università di Trieste ha creato due cliniche legali che presentano entrambe specificità strettamente legate alla sua struttura. Nella «Refugee Law Clinic Trieste», istituita nel 2017, gli studenti svolgono un’attività di assistenza e consulenza in favore dei richiedenti protezione internazionale presso una realtà esterna all’Ateneo; a sua volta, l’avvio di una «Transcultural Law Clinic» prevede la formazione congiunta di studenti di interpretazione e di giurisprudenza per l’assistenza linguistica in favore di persone indagate e imputate alloglotte.

1. Introduzione: il contesto in cui si collocano le cliniche legali dell’Università di Trieste

Nell’ambito dell’Ateneo triestino sono state ideate due “cliniche legali”[1]: la «Refugee Law Clinic Trieste», istituita nel 2017, e la «Transcultural Law Clinic», attualmente in fase di primo avvio[2].

Si tratta di due iniziative che presentano specificità strettamente legate alla struttura del dipartimento universitario che le ha promosse. Affiancando una Sezione di studi giuridici a una Sezione di studi in lingue moderne per interpreti e traduttori, il Dipartimento di «Scienze giuridiche, del Linguaggio, dell’Interpretazione e della Traduzione» dell’Università di Trieste (nel prosieguo: «Dipartimento IUSLIT») rappresenta un unicum a livello nazionale e uno dei pochi esempi, a livello internazionale, di strutture accademiche che uniscono studiosi del diritto e studiosi di lingue, di interpretazione e di traduzione. Questa particolarità si riverbera sull’organizzazione delle cliniche legali triestine, le quali prevedono il coinvolgimento e l’interazione degli studenti e dei docenti delle due diverse Sezioni.

Più in generale, questa impostazione riflette uno degli obiettivi fondamentali del Dipartimento IUSLIT, vale a dire la formazione di operatori che sappiano agire nel contesto europeo, consapevoli della complessità che lo caratterizza.

Il processo di integrazione europea ha creato una Comunità di diritto, che integra le norme dell’Unione con i sistemi giuridici nazionali.

Si tratta di un ordinamento giuridico nuovo[3], che è stato plasmato, nei suoi principi generali, dal dialogo tra Corte di giustizia, corti costituzionali e Corte europea dei diritti dell’uomo. Esso mira a garantire, nel suo complesso, elevati standard di tutela dei diritti fondamentali, la cui determinazione è responsabilità comune e condivisa di queste corti e la cui applicazione spetta ai giudici comuni, che sono al contempo giudici nazionali e dell’Unione. Dovendosi confrontare con norme di ordinamenti diversi e integrati, sui quali incide, più che in passato, l’attività delle corti supreme, i giuristi europei che il Dipartimento IUSLIT intende formare devono essere capaci di operare nelle diverse dimensioni che connotano questo spazio giuridico.

Il diritto dell’Unione presenta anche un’altra particolarità, di cui si è tenuto conto nell’elaborazione delle finalità del Dipartimento e nella configurazione delle cliniche legali.

L’ordinamento dell’Unione poggia infatti su un sistema istituzionale complesso, che ha tra i suoi elementi caratterizzanti il multilinguismo[4]. Le istituzioni dell’Unione operano con ventiquattro lingue ufficiali, che hanno pari dignità, e utilizzano diverse lingue di lavoro. Il corretto funzionamento di questa organizzazione complessa presuppone l’adozione di accorgimenti tecnici e l’impiego di risorse, in termini finanziari e di personale, importanti. La costante interazione tra giuristi, interpreti e traduttori caratterizza l’operato dei funzionari dell’Unione. In questo nuovo contesto europeo, la formazione di giuristi capaci di lavorare in più lingue e di interpreti e traduttori consapevoli delle diverse esperienze e culture giuridiche che contribuiscono alla formazione dell’Unione è, pertanto, indispensabile. Anche di ciò si è tenuto conto, quando si è scelto di utilizzare lo strumento delle cliniche legali nella formazione degli studenti di giurisprudenza e di interpretazione e traduzione. La partecipazione degli uni e degli altri a queste attività è motivata quindi dalle finalità che il Dipartimento IUSLIT ha inteso perseguire elaborando un progetto formativo autenticamente europeo.

L’obiettivo del presente articolo è quello di illustrare l’organizzazione della «Refugee Law Clinic Trieste»(par. 2), di spiegare il ruolo che in essa assumono, accanto agli studenti di giurisprudenza, gli studenti di interpretazione e traduzione (par. 3) e, infine, di descrivere il progetto «Translaw» nell’ambito del quale è stata ideata la «Transcultural Law Clinic» (par. 4). Verranno, quindi, tratte le debite conclusioni (par. 5).

2. La «Refugee Law Clinic Trieste»

La «Refugee Law Clinic Trieste» è una clinica legale per lo studio e la pratica del diritto d’asilo da parte degli studenti di giurisprudenza e di traduzione specialistica e interpretazione di conferenza dell’Università di Trieste.

La richiesta dell’istituzione della clinica legale è venuta da alcune studentesse del Corso di laurea in giurisprudenza, che hanno avuto modo di osservare il funzionamento di queste realtà in occasione dell’Erasmus presso altre università europee. Dopo una fase di studio e di analisi delle iniziative già intraprese in Italia e all’estero, la «Refugee Law Clinic Trieste» è stata configurata secondo il modello dello “sportello esterno”, prevedendo cioè un’attività di assistenza e consulenza da parte degli studenti presso una realtà esterna all’ateneo, che fornisce supporto ai richiedenti protezione internazionale. Questa realtà è stata individuata nell’Ufficio rifugiati del «Consorzio italiano di solidarietà» (Ics), il quale ha supportato l’iniziativa e ha partecipato fin dall’inizio alla sua configurazione.

L’attività della clinica legale si articola in quattro fasi: la selezione, la formazione, il tirocinio e il colloquio finale.

Gli studenti vengono selezionati sulla base di un avviso, applicando criteri di merito che prendono in considerazione i risultati accademici conseguiti. Sono ammessi a partecipare studenti iscritti al quarto e al quinto anno del Corso di laurea in giurisprudenza, nonché studenti iscritti al Corso di laurea magistrale in traduzione specialistica e interpretazione di conferenza. Il numero di posti disponibili è fissato a dieci persone.

La formazione è una fase essenziale dell’iniziativa, in quanto mira a fornire ai partecipanti le competenze necessarie per poi operare a supporto delle attività di Ics. Essa consta di seminari, per complessive quaranta ore, dedicati allo studio degli aspetti sia teorici che pratici del diritto d’asilo[5]; alcune ore seminariali vengono incentrate sugli aspetti fondamentali della comunicazione interlinguistica. Ampio spazio è riservato ad attività di legal writing per apprendere le tecniche di redazione delle memorie prodotte in vista dell’audizione del richiedente protezione internazionale e del ricorso contro il provvedimento di diniego della protezione. Sono coinvolti nella formazione docenti universitari, funzionari di organizzazioni internazionali e di istituzioni e agenzie dell’Unione (in particolare Unhcr, Commissione europea ed Easo), avvocati specializzati nel diritto d’asilo e un magistrato della sezione specializzata del Tribunale di Trieste in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea. Il coinvolgimento nella docenza di operatori impegnati nei diversi aspetti del diritto d’asilo risponde all’obiettivo di fornire agli studenti conoscenze complete sulla protezione internazionale. Inoltre, l’adesione di una platea così ampia e diversificata di docenti consente di far comprendere la complessità dell’iter di riconoscimento della protezione internazionale e, ancor più, la delicatezza dei processi giuridici e cognitivi per giungere a una decisione motivata.

Il tirocinio, della durata di 150 ore, è svolto presso l’Ufficio rifugiati dell’Ics, sulla base di un’apposita convenzione conclusa dal Dipartimento IUSLIT con questo ente. Sotto la supervisione del personale e dei legali dell’Ufficio rifugiati, gli studenti assistono gli stranieri nelle diverse fasi della procedura amministrativa per il riconoscimento della protezione internazionale: collaborano nel fornire agli interessati le prime indicazioni per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale (colloqui cd. “pre-C3”); partecipano ai colloqui finalizzati alla preparazione dell’audizione presso la commissione territoriale; ricercano informazioni aggiornate sulla situazione dei Paesi di origine attraverso i «Country of Origin Information Reports» (COI); contribuiscono alla stesura della memoria da depositare in vista dell’audizione del richiedente. L’esperienza pratica prevede anche circa dieci giorni di frequentazione di un centro di prima accoglienza, durante i quali gli studenti coadiuvano gli operatori in tutte le loro attività, in modo da prendere coscienza diretta delle dinamiche dell’accoglienza.

La clinica legale si conclude con un colloquio per la verifica delle conoscenze e delle competenze apprese e per fare un bilancio dell’esperienza compiuta, anche al fine di verificare se questa ha risposto alle aspettative degli studenti coinvolti.

3. Il ruolo degli studenti di interpretazione e traduzione nella clinica legale

L’idea di prevedere la partecipazione di studenti di interpretazione/traduzione (d’ora in poi “I/T”) alla «Refugee Law Clinic Trieste» nasce da una constatazione, e persegue l’obiettivo della formazione degli studenti, a cui, per un effetto di serendipità, si è aggiunto l’auspicio di poter avere un impatto sulla realtà dell’assistenza linguistica nelle interazioni con i richiedenti protezione internazionale.

La constatazione, piuttosto banale, riguarda la presenza di persone alloglotte e la necessità, da parte loro e delle istituzioni, di comprendersi. Per definizione, infatti, la protezione internazionale, nelle sue varie forme, viene richiesta da stranieri, che ovviamente sono portatori di lingue e culture diverse da quella del Paese di accoglienza e che solitamente non conoscono la lingua ufficiale del Paese di arrivo. Queste persone, pertanto, interagiscono fin da subito con i rappresentanti dell’autorità o con gli operatori preposti alla loro accoglienza attraverso una lingua veicolare (solitamente l’inglese) oppure grazie a un interprete o, come solitamente viene denominato in Italia, un mediatore culturale (d’ora in poi “I/M”[6]). Nel primo caso, spesso la conoscenza della lingua veicolare non è così approfondita da permettere agli interlocutori (richiedenti e operatori) di esprimersi liberamente e pienamente; nel secondo caso, emerge il ruolo determinante dell’I/M poiché è attraverso la sua intermediazione che si costruirà poco alla volta il percorso del richiedente.

Due, forse, sono le fasi in cui il processo traduttivo esprime tutto il suo peso e può determinare l’esito – o comunque influenzare – il percorso della richiesta: la formulazione della domanda di un tipo di protezione che, talvolta, implica la stesura di una memoria durante i colloqui con gli avvocati che assistono il richiedente, e l’audizione in commissione territoriale. Sono due momenti importanti, in cui è possibile avvertire la rilevanza del processo traduttivo e, soprattutto, il carattere determinante della qualità di tale processo e del suo risultato. Ne è prova il fatto che alcuni operatori riferiscono che, talvolta, tra ciò che emerge duranti i colloqui con gli avvocati o gli operatori – e che confluisce poi nella memoria – e ciò che si evidenzia in sede di audizione con la commissione territoriale si riscontrano incongruenze che possono mettere in discussione la veridicità di ciò che viene dichiarato e offuscare, in tal modo, l’immagine del richiedente. Ovviamente non è detto che il problema risieda proprio a livello traduttivo, ma una disamina delle caratteristiche professionali degli I/M e delle modalità secondo cui si procede alla traduzione porta a pensare che la questione sia affrontabile e risolvibile agendo proprio sul processo traduttivo.

In questo quadro, e dopo aver acquisito i contenuti relativi alla normativa e alle procedure che disciplinano il diritto alla protezione internazionale durante le ore dedicate alla formazione frontale, per gli studenti di I/T, durante il tirocinio, diventa preminente osservare gli I/M al lavoro e cercare di identificare quelle dinamiche interazionali messe in atto dagli interlocutori (operatore/avvocato – I/M – richiedente) durante i colloqui.

Tali dinamiche, ben descritte e analizzate secondo i principi dell’analisi conversazionale[7], possono configurarsi in diversi modi a seconda delle caratteristiche delle persone coinvolte (stile conversazionale), dell’attitudine di alcuni interlocutori a dominare l’interazione e del basso profilo adottato da altri che potrebbero, per esempio, escludere in modo più o meno evidente proprio l’interlocutore più debole. Per definizione, la posizione di “interlocutore debole” viene solitamente occupata da chi, all’interno dell’interazione, non padroneggia la lingua dell’istituzione o della procedura e ha un bagaglio di conoscenze riferibili alla materia in questione decisamente inferiori agli altri interlocutori: ossia, nel caso specifico, il richiedente. Questa relazione asimmetrica tra i diversi interlocutori fa sì che il servizio di assistenza linguistica diventi fondamentale, in particolare per il richiedente, che dipende completamente dall’I/M.

Spesso per gli studenti di I/T non è possibile entrare nel merito dell’adeguatezza e dell’accuratezza della traduzione, in quanto le lingue usate, oltre ovviamente all’italiano, sono lingue dette di minor diffusione in Italia. Si tratta di lingue per le quali, nella maggior parte dei casi, non sono disponibili I/M adeguatamente formati, ma solo parlanti nativi che, grazie alla conoscenza dell’italiano – spesso appreso risiedendo nel Paese e padroneggiato a livelli molto diversi – vengono ingaggiati come I/M. Malgrado la non conoscenza delle lingue usate dai richiedenti, gli studenti di I/T, formati e pertanto sensibili al processo di mediazione interlinguistica e interculturale, sono in grado di cogliere il rapporto di dominanza fra gli interlocutori, riflettere sulle conseguenze dei rapporti di forza/debolezza che si instaurano e trarre insegnamenti da tale osservazione[8].

Non è detto, però, che gli studenti di I/T non possano anche essere parte attiva durante il tirocinio, predisponendo, per esempio, la traduzione – soprattutto dall’inglese – delle COI o di altri documenti in italiano, facilitando così il lavoro di operatori e avvocati, o ancora assumendo il ruolo di operatore laddove si tratti di raccogliere semplici informazioni e sia possibile e/o richiesto l’uso di una lingua veicolare (inglese, francese, spagnolo).

Si sono fin qui descritti i compiti “formativi” assegnati a studenti di I/T e le motivazioni su cui si fondano. Va detto, però, che durante il percorso della clinica legale è andato delineandosi un obiettivo a medio e lungo termine, che deriva proprio dall’attività degli studenti di I/M all’interno della «Refugee Law Clinic Trieste». La loro presenza permette infatti di portare alla superficie le difficoltà e gli ostacoli che possono intralciare la comunicazione interlinguistica e interculturale, e che attengono alla conoscenza delle dinamiche interazionali, le conoscenze linguistiche, le conoscenze procedurali, le competenze comunicative e la consapevolezza delle caratteristiche proprie del processo traduttivo – sia esso orale o scritto. Succede che vedere all’opera studenti di I/T sproni alcuni I/M senza formazione formale a interrogarsi sulle proprie competenze e conoscenze professionali, fino a interessarsi a percorsi di formazione ad hoc o di aggiornamento professionale.

Il dialogo con operatori e avvocati è, invece, meno immediato e necessiterebbe di interventi volti a creare consapevolezza sulla delicatezza dell’interpretare e del tradurre e sul carattere pervasivo di queste due attività in un contesto come quello dei richiedenti protezione internazionale, dove poco o nulla passa per una sola e unica lingua, cioè l’italiano[9].

Inoltre, occorre portare la riflessione anche sul piano sociologico. L’interazione mediata da I/M è, formalmente, per i richiedenti il primo contatto con e il primo passo alla scoperta della società in cui vorrebbero inserirsi; è il primo momento in cui l’autorità dovrebbe essere in ascolto della persona prima di decidere sul suo futuro; è il primo gradino verso l’integrazione. In questi momenti, la persona portatrice di lingua e cultura altra dovrebbe essere al centro e dovrebbe percepire di essere effettivamente al centro. Un obiettivo raggiungibile attraverso l’applicazione delle norme che tutelano i diritti della persona, ma senza dimenticare che è la qualità dell’interazione verbale interlinguistica che renderà tutto ciò tangibile per il richiedente, facilitando nel contempo il lavoro di operatori e avvocati.

4. Il progetto «TransLaw» e la «Transcultural Law Clinic»

Oltre alla «Refugee Law Clinic Trieste», la partecipazione a un progetto europeo finanziato dalla Direzione generale «Giustizia» della Commissione europea, ha fatto sì che si lavorasse alla creazione di una seconda clinica legale.

Il progetto «TransLaw[10] Exploring Legal Interpreting Service Paths and Transcultural Law Clinics for persons suspected or accused of crime»,prevede infatti l’avvio di una «Transcultural Law Clinic», ossia una Clinica legale per la formazione congiunta di studenti di interpretazione e di giurisprudenza per l’assistenza linguistica in favore di persone indagate e imputate alloglotte.

L’idea di questa clinica legale risponde, in parte, alle molteplici criticità riscontrate in vari Paesi, e soprattutto in Italia, in materia di interpretazione (e traduzione) in ambito giudiziario. Prima di descrivere le caratteristiche e le peculiarità di questa clinica legale, è senz’altro utile ricordare brevemente, senza entrare nei dettagli, qual è la situazione attuale[11].

A livello internazionale, l’assistenza linguistica per le persone alloglotte è prevista in due convezioni, ratificate dall’Italia, ossia la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) e la Convenzione internazionale dei diritti civili e politici, meglio nota come Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici. Tali convenzioni sanciscono[12] il diritto di ogni persona arrestata a essere informata, nel più breve tempo possibile, delle accuse elevate contro di lei in una lingua a lei comprensibile e, se non comprende o non parla la lingua della procedura, a essere assistita gratuitamente da un interprete.

A livello nazionale, l’assistenza linguistica nei procedimenti penali è disciplinata dal codice di procedura penale agli artt. 143-147, modificati in seguito al recepimento delle direttive 2010/64/UE e 2012/29/UE[13]. In particolare, la direttiva 2010/64/UE sottolinea con forza l’aspetto della qualità dell’interpretazione e della traduzione[14], un obiettivo raggiungibile grazie alla creazione di registri di interpreti e traduttori formati e indipendenti. Nessuno dei due decreti legislativi (d.lgs 4 marzo 2014, n. 32, e d.lgs 23 giugno 2016, n. 129) che si sono susseguiti nel recepimento della direttiva ha, però, avuto un impatto tangibile sulla realtà dell’assistenza linguistica in ambito giudiziario in Italia[15]. Altrimenti detto, nulla si è fatto per regolare l’accesso all’interpretazione e alla traduzione attraverso la determinazione di criteri qualitativi appropriati con successiva iscrizione negli elenchi esistenti presso i tribunali.

In diversi Paesi europei, l’accesso alla professione di interprete/traduttore in ambito giudiziario è regolato da norme che prevedono la verifica della presenza di una formazione specifica, il superamento di esami e l’accreditamento professionale da parte di enti preposti[16].

In Italia, invece, tutto viene demandato ai singoli tribunali e gli elenchi di interpreti e traduttori previsti obbligatoriamente (art. 67 disp. att. cpp) a livello locale presso i tribunali non vengono redatti sulla base di una verifica delle competenze delle persone che si propongono come interpreti/traduttori. Il registro nazionale, previsto dal d.lgs 23 giugno 2016, n. 129, non è altro che la somma degli elenchi presenti presso ogni singolo tribunale (art. 67-bis disp. att. cpp). A questo va aggiunto il fatto che, spesso, le cancellerie ricorrono a interpreti non presenti negli elenchi ufficiali per ragioni legate alla disponibilità delle persone o delle lingue necessarie.

Accanto a questi aspetti attinenti alle procedure di nomina degli interpreti e dei traduttori, vanno menzionati quelli più inerenti alla pratica dell’interazione mediata da interprete.

L’osservazione sul campo e numerose interviste condotte in seno ad alcuni progetti di ricerca[17] hanno fatto emergere con indiscutibile chiarezza la mancanza di consapevolezza da parte di magistrati, avvocati e personale amministrativo riguardo alle caratteristiche del processo traduttivo – sia esso orale o scritto – e delle buone pratiche per un’interazione qualitativamente apprezzabile quando sia presente un interprete.

Non è un caso infatti che la direttiva 2010/64/UE preveda, all’art. 6, la formazione del personale della giustizia: «fatta salva l’indipendenza della magistratura e le differenze nell’organizzazione del potere giudiziario in tutta l’Unione, gli Stati membri richiedono ai responsabili della formazione di giudici, procuratori e personale giudiziario coinvolti nei proce­dimenti penali, di prestare particolare attenzione alle specificità della comunicazione assistita da un’interprete in modo da ga­rantirne l’efficacia e l’efficienza».

È su tali premesse che nasce il progetto «TransLaw», con l’idea-guida di istituire cliniche legali nei quattro Paesi partecipanti (Italia, Austria, Belgio e Slovenia) incentrate proprio sulla formazione congiunta di futuri giuristi e futuri interpreti/traduttori, iniziando perciò fin da subito a sensibilizzare gli uni e gli altri alle caratteristiche ed esigenze reciproche.

In preparazione dell’avvio della clinica legale, il progetto prevede anche incontri con personale del mondo giudiziario e interpreti/traduttori al fine di rendere noti i risultati delle varie ricerche e sensibilizzare i partecipanti agli aspetti solitamente ignorati e negletti dell’interpretazione e della traduzione in ambito giudiziario. La presenza di due lingue e, dunque, di due culture esige, nella ritualità dell’interazione istituzionale, che tutti i partecipanti abbiano consapevolezza dei tempi e delle modalità dell’interpretazione così come delle pratiche che ostacolano o favoriscono la comunicazione.

Occorre sfatare il convincimento piuttosto diffuso che l’atto traduttivo, sia esso orale o scritto, sia un passaggio lineare e trasparente tra una lingua e l’altra. Tale passaggio avviene, in realtà, da un testo in una lingua-cultura a un altro in un’altra lingua-cultura e determinante è il soggetto traducente. Sono le sue conoscenze, abilità e competenze[18] che renderanno il processo e il risultato del tradurre un atto consapevole e aderente alle intenzioni comunicative del locutore originario.

5. Conclusioni

La «Refugee Law Clinic Trieste» e la «Transcultural Law Clinic» perseguono una pluralità di intenti formativi.

Anzitutto, esse mirano a fornire competenze elevate nei settori del diritto d’asilo e della procedura penale, acquisite secondo il metodo, che sta alla base delle cliniche legali, dell’“imparare facendo”.

Inoltre, il contatto con le realtà complesse degli stranieri richiedenti protezione internazionale e delle persone alloglotte indagate o imputate permette di acquisire la capacità di affrontare situazioni che, per ragioni fin troppo evidenti, sono complesse, dal punto di vista della ricostruzione dei fatti, dell’interpretazione delle norme, dell’intermediazione linguistica e (cosa che non va trascurata nella prospettiva degli studenti) anche dal punto di vista emotivo.

Infine, si tratta di esperienze che mirano a far maturare la consapevolezza (che vale tanto quanto le conoscenze tecniche) dell’impatto che le pubbliche autorità hanno sulla vita delle persone quando entrano in gioco i diritti fondamentali. I diritti fondamentali sostanziali (come l’asilo e la libertà) e procedurali (come l’assistenza di un interprete debitamente formato) acquisiscono in tal modo una dimensione concreta, che gli studenti possono toccare con mano.

Facendo un bilancio finale di quanto appreso, gli studenti coinvolti nella «Refugee Law Clinic Trieste» hanno dichiarato di sentirsi arricchiti da un punto di vista professionale e umano. Hanno imparato a gestire situazioni di emergenza, a sperimentare veri orari di lavoro, a utilizzare meglio il tempo di studio e di impiego. Secondo i partecipanti, l’iniziativa ha consentito di toccare con mano il fenomeno delle migrazioni, in tutta la sua complessità, e di acquisire in tal modo una visione “nuova” del mondo che li circonda.

In definitiva, si tratta di un’esperienza all’esito della quale la convinzione che i diritti vanno «presi sul serio»[19] diventa un bagaglio personale dello studente, che completa il percorso di studio e di crescita personale compiuto all’università.

[1] L’ «European Network of Clinical Legal Education»(ENCLE) definisce come segue il concetto di “clinica legale”:

«clinical legal education is a legal teaching method based on experiential learning, which fosters the growth of knowledge, personal skills and values as well as promoting social justice at the same time. As a broad term, it encompasses varieties of formal, non-formal and informal educational programs and projects, which use practical-oriented, student-centered, problem-based, interactive learning methods, including, but not limited to, the practical work of students on real cases and social issues supervised by academics and professionals. These educational activities aim to develop professional attitudes, and foster the growth of the practical skills of students with regard to the modern understanding of the role of the socially oriented professional in promoting the rule of law, providing access to justice and peaceful conflict resolutions, and solving social problems» (http://encle.org/about-encle/definition-of-a-legal-clinic).

[2] La «Transcultural Law Clinic» è stata avviata, come esperienza pilota, nei mesi di ottobre e novembre 2019. La clinica vera e propria sarà organizzata a partire da febbraio 2020.

[3] Secondo una celebre pronuncia della Corte di giustizia «la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini» (Cgce, 5 febbraio 1963, C- 26/62, Van Gend & Loos, in Racc., p. 3, spec. p. 23). Sulla natura e sulle caratteristiche essenziali dell’Unione, vds. anche il fondamentale parere 2/13 del 18 dicembre 2014, Adesione dell’Unione alla Cedu, spec. i punti nn. 156-176. In dottrina, vds. B. Cortese, L’ordinamento dell’Unione Europea tra autocostituzione, collaborazione e autonomia, Giappichelli, Torino, 2018 e L. Daniele (a cura di), Diritto dell’Unione Europea. Sistema Istituzionale – Ordinamento – Tutela giurisdizionale – Competenze, Giuffrè, Milano, 2018, spec. pp. 48 ss.

[4] Sul punto, vds. J. Ziller, Le multilinguisme, caractère fondamental du droit de l’Union européenne, in Aa.Vv., Liber Amicorum Antonio Tizzano De la Cour CECA à la Cour de l’Union: le long parcours de la justice européenne, Giappichelli, Torino, 2018, p. 1067.

[5] Per un quadro sintetico del diritto d’asilo dell’Unione europea, vds. S. Amadeo e F. Spitaleri, La politica comune dell’immigrazione e dell’asilo, in L. Daniele (a cura di), Il diritto del mercato unico europeo e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Giuffrè, Milano, 2019, p. 393, spec. pp. 408 ss. Per una disamina approfondita, vds. S. Amadeo e F. Spitaleri, Il diritto dell’immigrazione e d’asilo dell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 2019 (in corso di pubblicazione).

[6] Non si vuole, in questa sede, addentrarsi nelle reali o presunte differenze fra interprete e mediatore culturale; per un approfondimento, si rimanda a C. Falbo, La comunicazione interlinguistica in ambito giuridico. Temi, problemi e prospettive di ricerca, EUT, Trieste, 2013, pp. 19-44 (www.openstarts.units.it/handle/10077/9306); C. Falbo, "Interprete" et "mediatore linguistico-culturale": deux figures professionnelles opposées?, in G. Agresti e C. Schiavone (a cura di), Plurilinguisme et monde du travail. Professions, opérateurs et acteurs de la diversité linguistique. Actes des Cinquièmes Journées des Droits Linguistiques, Aracne, Roma, pp. 257-274.

[7] L’analisi della conversazione è un approccio analitico al parlato che persegue l’obiettivo di analizzare le azioni degli interlocutori nel loro susseguirsi attraverso la produzione di turni di parola. Si cita, qui, l’articolo fondatore di questo campo di ricerca: H. Sacks - E. Schegloff - G. Jefferson, A simplest systematics for the organisation of turn taking for conversation, in Language, n. 50/1974, pp. 696-735.

[8] Cfr. S. Billett, The practices of learning through occupations, in Id. (a cura di), Learning through Practice: Models, Traditions, Orientations and Approaches, vol. I, Springer, Dordrecht, 2010, pp. 59-81.

[9] Durante il secondo incontro del gruppo di ricerca del progetto TRAMIG (https://tramig.eu/), che si è svolto a Oslo il 3 e 4 luglio 2019, è stato evidenziato che in Norvegia si prevedono corsi di formazione per il personale che, in seno alle diverse istituzioni, si trovi a dover interagire con una persona alloglotta tramite un interprete. Il bisogno di formazione nasce, prima di tutto, dalla consapevolezza della delicatezza delle diverse situazioni e del processo traduttivo in particolare, nonché dalla necessità di rendere il lavoro degli operatori e degli interpreti il più fluido possibile, perseguendo l’obiettivo della qualità dell’interazione interlinguistica e rispettando in tal modo i diritti della persona alloglotta.

[10] «TransLaw – Exploring Legal Interpreting Service Paths and Transcultural Law Clinics for persons suspected or accused of crime». Il progetto ha durata biennale (2018–2019) ed è finanziato dalla «DG Justice» [Grant Agreement number: 760157 — TransLaw — JUST-AG-2016/JUST-AG-2016-06], https://translaw.univie.ac.at/.

[11] Per un approfondimento vds., per gli aspetti giuridici, M. Gialuz, L’assistenza linguistica nel processo penale. Un meta-diritto fondamentale tra paradigma europeo e prassi italiana, Wolters Kluwer, Milano, 2018 e, per gli aspetti più prettamente linguistici e traduttivi, C. Falbo, La comunicazione, op. cit.

[12] Cedu, artt. 5, par. 2, e 6, par. 3; Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, art. 14, par. 3, lett. a e f.

[13] Rispettivamente: direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010, sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, e direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce la decisione quadro 2001/220/GAI.

[14] Le attività di traduzione e interpretazione, per quanto possano essere completamente diverse in alcuni contesti, tendono a coesistere e ad intrecciarsi in ambito giudiziario. Spesso, gli interpreti che lavorano per la procura o il tribunale sono le stesse persone che traducono gli atti.

[15] Cfr. C. Falbo, I risultati emersi dal progetto FRA 2011. Bisogni e bisogni formativi nella comunicazione interlinguistica con i servizi di polizia e nei procedimenti penali,  in C. Falbo e M. Viezzi (a cura di), Traduzione e interpretazione per la società e le istituzioni, EUT, Trieste, 2014, pp. 19-39 (www.openstarts.units.it/handle/10077/9829); C. Falbo, L’interprétation juridique en Italie: droits linguistiques et droits de défense, in Études de linguistique appliquée, n. 55/2016, pp. 43-54; M. Gialuz, L’assistenza linguistica nella prassi giudiziaria e la difficile attuazione della Direttiva 2010/64/UE, in C. Falbo e M. Viezzi (a cura di), Traduzione e interpretazione, op. cit., pp. 83-96.

[16] Così è, per esempio, nei Paesi Bassi (cfr. L. Davolio, La figura dell’interprete nel procedimento penale olandese: un’indagine conoscitiva, tesi di laurea magistrale, non pubblicata, 2014) e in Norvegia – cfr. D. Mortensen, The Norwegian Interpreter certification Examination, in H. Skaaden e T.R. Felberg (a cura di), Nordic Seminar on Interpreter Training and Testing, vol. 12, Høgskolen i Osloog Akershus (HiOA), Oslo, 2012, pp. 53-60.

[17] Volendo ricordare solo i progetti che hanno visto il coinvolgimento di ricercatori dell’Università di Trieste: progetto locale «FRA 2011 Bisogni e bisogni formativi nella comunicazione interlinguistica con i servizi di polizia e nei procedimenti penali», il progetto europeo «AVIDICUS III – Assessment of Videoconference-based interpreting in the Criminal Justice Services», e il progetto tuttora in corso «TransLaw». Per una visione completa dei progetti attinenti alla materia, vds. il sito online di EULITA («European Legal Interpreters and Translators Association»): https://eulita.eu/.

[18] Vds., a tal proposito, la norma UNI 11591 del 2015: «Attività professionali non regolamentate. Figure professionali operanti nel campo della traduzione e dell’interpretazione. Requisiti di conoscenza, abilità e competenza».

[19] Com’è noto, l’espressione è di R. Dworkin, I diritti presi sul serio, Il Mulino, Bologna, 2010.