Magistratura democratica

La «Clinica legale di giustizia penale» dell’Università degli Studi di Milano

di Angela Della Bella
Attraverso il corso di «Clinica legale di giustizia penale», si è inteso rispondere al bisogno degli studenti di sperimentare la “law in action”, cimentandosi con la soluzione di un problema reale sotto la guida del docente e degli avvocati. Al contempo, la clinica si è rivelata uno strumento prezioso per avvicinare gli studenti a problematiche sociali, rendendoli consapevoli del ruolo del giurista all’interno della società.

1. Gli obiettivi

Nel corso dell’anno accademico 2018/2019, il Dipartimento “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano ha attivato la prima edizione del corso di «Clinica legale di giustizia penale».

Gli obiettivi di questa nuova iniziativa didattica sono molteplici.

Innanzitutto, si è inteso offrire agli studenti l’opportunità di affiancare allo studio teorico del diritto un’esperienza di tipo pratico, coinvolgendoli nella soluzione di casi “reali”, sotto la guida del docente e di professionisti esperti[1].

Apro qui una veloce parentesi per ricordare che l’idea di istituire nelle facoltà di giurisprudenza delle “cliniche legali”, ove – similmente a quanto accade nelle cliniche mediche – lo studente possa assistere a “operazioni legali”, non è certo nuova: è, infatti, nelle law school americane dei primi anni del Novecento che si cominciano a fare alcune riflessioni sul metodo dell’insegnamento giuridico e sulla necessità di integrare lo studio teorico con un approccio di tipo empirico[2]. Gli echi di tale dibattito approdano nel vecchio continente a far data dagli anni trenta del secolo scorso. Anche in Italia se ne discute, come testimonia il brillante contributo di Francesco Carnelutti intitolato «Clinica del diritto», pubblicato nel 1935 sulla Rivista di diritto processuale, nel quale l’Autore osserva che tanto i medici quanto i giuristi, pur nella diversità delle prospettive, «operano sull’uomo», ma che «a differenza del futuro medico, il futuro giurista, finché rimane nell’università, al contatto di quel reale, il cui possesso è la meta ultima della sua cultura, non arriva mai», con il risultato «assurdo» che «i nostri discenti diventano dottori senza aver mai veduto un caso vivo del diritto»[3].

A questa “assurdità” il modello delle “cliniche legali” – che si è poi andato diffondendo con grande successo nella università americane a partire dagli anni sessanta[4] – ha inteso porre rimedio, offrendo un modello di apprendimento del sapere giuridico fondato sul cd. “learning by doing”, in grado di trasmettere insieme alle conoscenze anche l’acquisizione di abilità professionali e di valori deontologici.

Con l’attivazione della Clinica legale di giustizia penale si è perseguito, poi, un altro obiettivo, forse ancora più ambizioso, ossia quello di promuovere un processo di sensibilizzazione degli studenti verso le problematiche sociali e di favorire in loro una presa di coscienza circa il ruolo del giurista all’interno della società[5].

È questa, del resto, la seconda faccia del movimento delle cliniche legali, inscindibile dalla prima. Bisogna ricordare infatti che il massiccio sviluppo e il successo delle legal clinic nelle law school americane si ebbe a partire dagli anni sessanta, quando alla funzione didattica della clinica si andò legando una funzione di utilità sociale: le legal clinic, infatti, si affermarono come centri di legal aid, deputati a dare assistenza alle fasce marginali della popolazione e garantire l’accesso alla giustizia a tutti coloro che ne fossero esclusi[6].

Tornando a noi, occorre poi osservare che le cliniche legali, in quanto strumento in grado di creare collegamenti tra il diritto e il contesto sociale, si iscrivono perfettamente – come è già stato in più occasioni evidenziato – nell’ambito della cd. “terza missione” dell’università, che, oltre a svolgere compiti di ricerca e di didattica, è chiamata a interagire con il territorio, mettendo a disposizione della collettività le proprie risorse e competenze[7].

La convinzione che la metodologia clinica rappresenti un tassello essenziale della formazione universitaria del futuro giurista ci ha indotto a configurare questa esperienza didattica come un vero e proprio corso curriculare anziché come un’attività didattica integrativa.

2. Le attività proposte e lo svolgimento del corso

Al fine di garantire la partecipazione al corso del maggior numero possibile di studenti (visto l’elevato numero di richieste pervenute), abbiamo organizzato due diverse tipologie di attività[8]. Da un lato, un’attività di assistenza giudiziale a favore di soggetti coinvolti in procedimenti penali e, dall’altro, un attività di street law[9]in materia di immigrazione.

Prima di entrare nel merito della descrizione, occorre evidenziare come, a differenza delle attività didattiche tradizionali che possono essere gestite in autonomia dal singolo docente, un corso di clinica legale che ambisca a coinvolgere un numero consistente di studenti implica un importante sforzo organizzativo e la disponibilità di molte forze. Sotto questo profilo, la Clinica legale di giustizia penale – che ha visto la partecipazione di una trentina abbondante di studenti – ha potuto prendere vita grazie alla collaborazione di molti: di un gruppo nutrito di avvocati, che hanno fornito i casi e hanno coinvolto gli studenti nelle attività processuali; degli operatori delle tre organizzazioni ove si è svolta l’attività di street law; dei collaboratori del Dipartimento “Cesare Beccaria” (nella stragrande maggioranza dei casi, dottorandi), che hanno affiancato gli studenti con una preziosa opera di tutoraggio.

In relazione all’attività di assistenza giudiziale, il primo problema da affrontare è stata la scelta dei casi da assegnare agli studenti. Nella selezione dei casi, si è cercato di tenere in considerazione entrambi gli obiettivi della clinica: quello “didattico”, finalizzato a sviluppare le abilità di problem solving dello studente, e quello “sociale”, finalizzato a promuovere la responsabilizzazione e l’impegno sociale. Per soddisfare il primo obiettivo, ci siamo orientati su casi che – per le tempistiche processuali e per le questioni giuridiche affrontate – consentissero agli studenti di apportare un contributo concreto (ad esempio, preparazione dell’esame o del controesame dei testi; redazione di una memoria; preparazione delle conclusioni dibattimentali; redazione di istanze per la richiesta di misure alternative).

Per soddisfare il secondo obiettivo, abbiamo cercato di dare preferenza a casi che mettessero gli studenti a contatto con problematiche sociali rilevanti (ad esempio: maltrattamenti tra familiari in un contesto “culturalmente orientato”; sottrazione di minorenne in contesto di violenze familiari; occupazione di immobili in contesto di marginalità urbana; istanza di misura alternativa per detenuto con gravi problemi familiari).

Dopo un primo incontro introduttivo, dedicato alla condivisione delle aspettative e all’illustrazione dei casi, si è dato avvio alle attività dei gruppi. Ogni avvocato ha quindi lavorato sul caso con il proprio team (costituito ciascuno da tre studenti e da un tutor), incontrandosi ora in studio, ora in università e, ovviamente, anche in tribunale. Gli studenti hanno così avuto occasione di vedere lo studio di un professionista (per molti si è trattato della prima volta), di partecipare – quando è stato possibile – alle riunioni con il cliente (in studio e, in un caso, nella sala colloqui di un istituto penitenziario), di assistere alle udienze del procedimento preparate anche con il loro contributo.

Al fine di svolgere i compiti affidati dagli avvocati, gli studenti hanno lavorato in spazi loro riservati all’interno del dipartimento: anche sotto questo profilo, la metodologia clinica si è rivelata preziosa, consentendo allo studente di sperimentare, spesso per la prima volta, il lavoro di gruppo (dando vita a grandi sinergie e, in alcuni casi, a evidenti difficoltà) e di sviluppare quindi una capacità, quella appunto del lavoro in team, che si rivela molto spesso essenziale nel mondo del lavoro. 

Venendo ora all’attività di street law, abbiamo scelto come ambito la materia dell’immigrazione, che rappresenta la vera emergenza sociale di questa epoca, ma che spesso non è percepita dal cittadino nella sua effettiva drammaticità. Da un punto di vista didattico, poi, il tema della tutela dei diritti del migrante consente di riflettere su questioni cruciali per un penalista – ad esempio, l’utilizzo del diritto penale come strumento di stigmatizzazione sociale, o le conseguenze, in termini di assenza di garanzie, derivanti dalla qualificazione come «amministrative» di misure (come i respingimenti o la detenzione nei centri di trattenimento) che sono in realtà sostanzialmente penalistiche e che dovrebbero, perciò, essere circondate dalle relative garanzie.

Nello svolgimento delle attività di street law, gli studenti coinvolti – tre gruppi da tre studenti ciascuno, coordinati anche in questo caso da un tutor e guidati da un avvocato esperto di diritto dell’immigrazione – hanno frequentato settimanalmente, per la durata del semestre, tre diverse realtà milanesi che si occupano, sotto diversi profili, di assistenza ai migranti: il Servizio di etnopsichiatria dell’Ospedale “Niguarda” di Milano; la Casa della Carità della Caritas; il Cas di Casa Chiaravalle. Il ruolo degli studenti all’interno di queste strutture è stato duplice: da un lato, collaborare con gli operatori di tali strutture nella soluzione delle diverse problematiche individuali emerse durante i colloqui con gli utenti; dall’altro, “intercettare” e comprendere le problematiche giuridiche che più frequentemente coinvolgono questa categoria di soggetti vulnerabili, al fine di giungere alla redazione di un vademecum (in corso di elaborazione) sulle questioni più controverse od oggetto di recenti modifiche normative che possa essere di ausilio all’attività degli operatori. Il vademecum, nelle nostre intenzioni, è da concepire come una sorta di “raccoglitore virtuale”, da arricchire con nuove pagine ad ogni edizione della clinica.

Pur con alcune difficoltà organizzative iniziali, gli studenti si sono inseriti all’interno dell’organizzazione in cui hanno operato, venendo a contatto con gli utenti e apportando un contributo effettivo – in misura diversa a seconda del contesto in cui hanno lavorato – alle attività del centro. Certamente, per tutti, l’attività è stata estremamente formativa sotto il profilo della presa di coscienza del problema e del ruolo che un giurista può svolgere nella tutela dei diritti di soggetti in situazione di grave vulnerabilità.

Un’altra evidenza che l’attività di street law ha fatto emergere è l’artificiosità degli steccati disciplinari a cui l’università ci forma: nel momento in cui si deve affrontare “the law in action”, specie poi se si ha a che fare con la tutela dei diritti degli stranieri, ci si rende conto che le branche del diritto sono in realtà connesse e che, spesso, per risolvere un quesito, ad esempio penalistico, bisogna affrontare questioni che hanno a che fare con il diritto dell’immigrazione o con il diritto amministrativo o con il diritto di famiglia… Ciò porta a riflettere sul fatto che sarebbe necessario creare connessioni, nel percorso universitario, tra i vari insegnamenti giuridici, così da abituare il futuro giurista a una prospettiva interdisciplinare: anche sotto questo profilo, dunque, le cliniche legali – qualora strutturate con un taglio interdisciplinare – rappresentano uno strumento didattico estremamente efficace.

Accanto all’attività di lavoro dei gruppi, il corso ha previsto lo svolgimento di ulteriori 42 ore di lezioni per l’intera classe: un adempimento che si è rivelato necessario poiché, secondo quanto previsto nel regolamento didattico del corso di studi di giurisprudenza della nostra Università, per riconoscere un determinato numero di crediti agli studenti (nel nostro caso, sei) devono necessariamente essere svolte un certo numero di ore “frontali”. Tale adempimento, sulla cui opportunità occorrerebbe in futuro aprire una riflessione, se da un lato ha reso molto impegnativa l’attività per gli studenti (concretizzandosi in un impegno molto maggiore, per numero di ore, rispetto a quello normalmente richiesto per un corso da sei crediti), dall’altro si è rivelato utile, traducendosi in un’occasione di confronto e di condivisione tra le attività dei vari gruppi.

In particolare, le prime ore sono state dedicate ai profili deontologici dell’attività dell’avvocato: gli incontri, tenuti da un avvocato esperto della materia, hanno avuto un taglio molto pratico e interattivo, in linea con la metodologia clinica. Nelle lezioni successive, si è affrontato lo studio dei vari casi: analisi delle fattispecie e approfondimento delle questioni giuridiche emerse. Con riferimento alla street law, qualche lezione – realizzata con il contributo di un avvocato esperto di diritto dell’immigrazione – è stata dedicata a un inquadramento generale del diritto degli stranieri, ai profili di interazione con il diritto penale (la cd. “crimmigration”) e alle modifiche normative più recenti contenute nei vari decreti sicurezza che si sono succeduti negli ultimi tempi. Gli ultimi incontri, infine, sono stati utilizzati per le presentazioni dei casi da parte degli studenti: servendosi di slide, gli studenti hanno esposto il loro caso alla classe, raccontando le attività svolte e illustrando le questioni giuridiche affrontate.

3. Qualche riflessione a caldo

All’esito della prima edizione del corso, l’impressione è di aver intercettato e di aver offerto, quanto meno, una prima risposta a un bisogno effettivo degli studenti, quello cioè di essere coinvolti in un’esperienza che li calasse nel reale, che permettesse loro – oltre che di studiare “the law in the books” – di sperimentare “the law in action”, avendo così l’opportunità di utilizzare le conoscenze teoriche per risolvere problemi reali e di affacciarsi al mondo del lavoro, affiancando i professionisti nella loro attività quotidiana.

L’entusiasmo degli studenti è apparso evidente sin dalla presentazione della Clinica, effettuata qualche mese prima dell’inizio dei corsi, e si è tradotto nell’iscrizione al corso di un numero molto elevato di studenti (che, purtroppo, abbiamo potuto accogliere solo in parte per l’impossibilità di gestire grandi numeri in questo genere di attività). Gli studenti che hanno frequentato il corso hanno risposto alle attività proposte con un impegno straordinario in termini di costanza, responsabilità e rendimento. Ne ho avuto conferma, oltreché dalla qualità delle presentazioni svolte in classe, anche dalle valutazioni degli avvocati e dei tutor, che hanno rilevato la costante partecipazione, il coinvolgimento attivo e l’impegno degli studenti.

Un altro profilo che tengo a segnalare è la calorosa accoglienza riservata alla Clinica dagli avvocati. Mi riferisco agli avvocati che si sono impegnati in prima persona, e con totale gratuità, nelle attività della clinica legale, condividendo con gli studenti un proprio caso e dedicando loro tempo e attenzione. La collaborazione è stata proficua tanto nella fase della progettazione delle attività, a partire dalla quale ho ritenuto essenziale coinvolgerli, quanto nella fase di attuazione, durante la quale abbiamo affrontato insieme i problemi e le questioni che, di volta in volta, si sono presentati. L’esperienza ha messo in evidenza quanto sia vitale il collegamento tra l’università e il mondo professionale, non solo sul versante della ricerca, ma anche su quello della didattica.

Sotto questo profilo, si è rivelata essenziale la disponibilità dell’Ordine degli avvocati di Milano, che – rivelando ancora una volta una grande apertura verso le attività della nostra facoltà – ha mostrato un vivo interesse per la Clinica legale di giustizia penale. Interesse che si è concretizzato in una convenzione tra l’Ordine e il Dipartimento “Cesare Beccaria”, volta a disciplinare sotto vari profili le modalità della partecipazione degli avvocati nell’attività delle cliniche.

All’esito della prima edizione della clinica legale, che sarà riproposta nel prossimo anno accademico, ho avuto conferma dell’enorme potenzialità di questo strumento didattico che, stimolando l’interesse degli studenti, fornisce loro una solida motivazione allo studio e predispone in modo costruttivo all’apprendimento delle nozioni giuridiche, nonché di abilità tecniche e di valori deontologici.

Sotto un altro profilo, non meno rilevante, la clinica legale si è rivelata un prezioso strumento per avvicinare gli studenti a problematiche sociali e per fare acquisire loro consapevolezza circa il ruolo del giurista all’interno della società, che deve sentirsi chiamato a intervenire con i mezzi a sua disposizione per garantire l’accesso alla giustizia e per dare tutela ai diritti di soggetti in situazione di vulnerabilità. Penso, in questo senso, all’attività di street law che abbiamo realizzato in collaborazione con le organizzazioni che si occupano di migranti: un’attività alla quale, nei prossimi anni, la Clinica legale di giustizia penale darà certamente seguito, articolando e strutturando in forma più stabile il tipo di intervento prestato.

Il bilancio, dunque, è più che positivo. La speranza – considerati i riscontri, anche in questo caso molto soddisfacenti, derivanti dalle tante esperienze oramai diffuse nelle università italiane[10] – è che, nel prossimo futuro, gli insegnamenti di clinica legale, che sono nati come sperimentazioni e che in molti casi si reggono sulla “buona volontà” di chi vi collabora (penso, nel nostro caso, agli avvocati e ai tutor), divengano parte integrante del piano formativo dei corsi di laurea di giurisprudenza, come auspicato quasi un secolo fa da un giurista del calibro di Francesco Carnelutti e come accade, da diversi decenni, nelle più prestigiose law school degli Stati Uniti e in molte università europee[11].

[1] Come noto, l’aspetto caratterizzante delle cliniche legali sta nell’utilizzazione di casi “reali”, ossia casi in corso di svolgimento nei quali è richiesto un contributo fattivo degli studenti. Come osserva Marzia Barbera – cui si deve la progettazione e l’istituzione della prima clinica legale in Italia, nell’Università di Brescia – «proprio perché ciò avviene in relazione non a casi pensati, ma a casi reali, le cliniche legali possono essere un potente strumento per connettere sapere giuridico e società, esponendo coloro che insegnano e coloro che apprendono il diritto a rilevanti e concreti problemi di giustizia». M. Barbera, Il movimento delle cliniche legali e le sue ragioni, in A. Maestroni – P. Brambilla – M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali, Giappichelli, Torino, 2018, pp. XIX ss.

[2] È Jerome Frank, esponente del realismo giuridico americano, a individuare nelle “cliniche” delle facoltà di medicina il modello per una possibile via da percorrere: «Our law schools» – così scrive l’Autore – «must learn from our medical schools. Law students should be given the opportunity to see legal operations». J. Frank, Why not a Clinical Lawyer School?, in University of Pennsylvania Law Review, 1933, pp. 907 ss.

[3] F. Carnelutti, Clinica del diritto, in Riv. dir. proc., 1935, I, p. 169. A commento, cfr. M. Carrer, Rileggendo Carnelutti su la Clinica del diritto. Problemi e questioni sui fondamenti della clinica legale, in A. Maestroni - P. Brambilla - M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche, op. cit., pp. 21 ss. Gli auspici di Carnelutti non hanno avuto seguito se è vero che, trent’anni più tardi, un altro illustre giurista, Filippo Gramatica, lamentava l’inadeguatezza della formazione universitaria del giurista, del tutto avulsa dal contatto con il reale. Cfr. F. Gramatica, Le esercitazioni forensi all’università, comunicazione al VIII Congresso nazionale giuridico forense, Giuffrè, Milano, 1965.

[4] Sulle origini e sulla diffusione delle cliniche legali nelle law school statunitensi, cfr., tra gli altri, A. Maestroni, Accesso alla giustizia, solidarietà e sussidiarietà nelle cliniche legali, Giappichelli, Torino, 2018, pp. 113 ss.; G. Smorto, Clinica legale. Un manuale operativo, Next, Palermo, 2015, pp. 33 ss.

[5] Si è in questo senso osservato che, attraverso l’esperienza della pratica giuridica, «gli studenti vengono formati all’idea che il diritto non è un insieme di regole indipendenti dall’uso che di esso si fa nella realtà, né dalle conseguenze che attraverso il sistema giuridico vengono iscritte da uomini nella vita di altri uomini» e, sempre nello stesso senso, che la clinica legale «è comunemente accettato come un modello pedagogico competente che inserisce studenti ed università nella vita di una comunità» F. Di Donato, L’approccio clinico-legale tra visioni pioneristiche e future sfide, in Id. e F. Scamardella (a cura di), Il metodo clinico-legale. Radici teoriche e dimensioni pratiche, Editoriale Scientifica, Napoli, 2016, pp. 13 e 16.

[6] Cfr. G. Smorto, Clinica legale, op. cit., pp. 33 ss.

[7] Secondo la definizione dell’Anvur, per «terza missione» si intende «l’insieme delle attività con le quali le università entrano in interazione diretta con la società, affiancando le missioni tradizionali di insegnamento e di ricerca». Le cliniche legali rientrano nella cd. “terza missione culturale e sociale”, cioè in quell’insieme di attività attraverso le quali vengono prodotti beni pubblici che aumentano il benessere della società. Tali beni possono avere contenuto culturale (eventi e beni culturali, gestione di poli museali, scavi archeologici, divulgazione scientifica), sociale (salute pubblica, attività a beneficio della comunità, consulenze tecnico-professionali fornite in équipe), educativo (educazione degli adulti, life long learning, formazione continua) o di consapevolezza civile (dibattiti e controversie pubbliche, expertise scientifica). Cfr. sul punto M.R. Marella ed E. Rigo, Cliniche legali, Commons e giustizia sociale, in Parolechiave. Giustizia, n. 53 (2015), Carocci, Roma, pp. 181 ss.

[8] Come noto, le modalità di svolgimento di una clinica legale possono essere le più diverse: si possono porre in essere attività a vantaggio di un singolo individuo (ad esempio, assistenza a soggetti in giudizio o attività di sportello legale), attività a favore di una determinata categoria di soggetti (ad esempio, attività di street law) o, ancora, attività dirette all’intera collettività e finalizzate alla sensibilizzazione rispetto a un certo tema (ad esempio, organizzazione di seminari o interventi nelle scuole).

[9] Per “street law” si intende, letteralmente, il diritto portato in strada, nel senso cioè di quel genere di attività nelle quali gli studenti mettono le proprie competenze a disposizione di un gruppo determinato di soggetti, informandoli sulle modalità di accesso alla giustizia e sui propri diritti. Cfr. sul punto G. Smorto, Clinica legale, op. cit., pp. 28 ss.

[10] Per uno sguardo su alcune delle più significative esperienze di cliniche legali in Italia, cfr. A. Maestroni - P. Brambilla - M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche, op. cit.

[11] Su origine e prospettive del movimento delle cliniche legali nel contesto europeo, cfr. C. Bartoli, Legal clinics in Europe: for a commitment of higer education in social justice, in Diritto e Questioni pubbliche, numero speciale, maggio 2016 (www.dirittoequestionipubbliche.org/page/2016_nSE_Legal-clinics-in-Europe/DQ_2016_Legal-Clinics-in-Europe_specialissue.pdf).