Magistratura democratica

Il diritto nel prisma delle cliniche legali: un antidoto alla crisi degli studi giuridici?

di Enrica Rigo e Maria Rosaria Marella
Nella riflessione relativa alla crisi dell’insegnamento del diritto, le cliniche legali rappresentano un fattore di dinamismo e rinnovate passioni. Integrando ambiti di conoscenza diversi, la metodologia in esse applicata attraversa le missioni accademiche della didattica, della ricerca e del public engagement. Allo stesso tempo, esplicitando il punto di vista dell’osservatore, le cliniche legali offrono una prospettiva sul diritto fondamentale per la formazione del giurista, che si confronta con i processi della globalizzazione e del pluralismo giuridico.

1. Le cliniche legali nella crisi dell’insegnamento del diritto

L’affacciarsi sulla scena di un movimento globale delle cliniche legali[1], nonché l’inaspettata diffusione che queste hanno conosciuto nei dipartimenti di giurisprudenza negli ultimi anni[2], hanno coinciso con una rinnovata riflessione sull’insegnamento del diritto che, in Italia, torna periodicamente alla ribalta, più segnatamente in coincidenza con proposte di riforma dei corsi in giurisprudenza[3]. La constatazione che esista una correlazione tra questi due ambiti di interesse non può che muovere da considerazioni più generali sulla crisi dell’insegnamento del diritto, comprovata da un drastico calo delle immatricolazioni nelle facoltà di giurisprudenza che, nell’ultimo decennio, hanno visto diminuire gli studenti iscritti di almeno un terzo[4]. Un dato, quest’ultimo, che continua a essere confermato, nonostante la controtendenza di una generale ripresa delle immatricolazioni negli ultimissimi anni – in particolare nelle facoltà scientifiche – da una lenta e continua emorragia di studenti verso gli studi economici a discapito di quelli giuridici[5].

Attribuire questa crisi solamente a fattori esogeni all’insegnamento del diritto sarebbe, tuttavia, consolatorio. La scelta per gli studi giuridici è notoriamente lontana dalle passioni che guidano altre opzioni. Nelle belle pagine introduttive alla prima edizione al Corso di filosofia del diritto, pubblicate nel 1971 e presenti in tutte le edizioni fino a quelle più recenti, Luigi Lombardi Vallauri la indica come la scelta «per esclusione» o «per la sistemazione». Nel primo caso, è la scelta dell’universalmente dotato, colui che si illude di serbare ogni possibilità, di non limitarsi definitivamente, e che il filosofo del diritto paragona all’uomo di Musil, il quale racchiude in sé tutte le qualità senza davvero riconoscerne alcuna come propria. Nel secondo caso, gli studi giuridici sono considerati come una varco di ingresso che apre le porte di molteplici carriere e professioni. In entrambi i casi, ciò che caratterizza una scelta viva e sana – entusiasmo, passione, meditata consapevolezza, impegno, pienezza di significato, autenticità, vocazione – resta quasi completamente fuori gioco: «Fin dal momento della scelta, il giurista è colui che non sa (per lo meno, non sa in senso forte) quello che fa»[6]. Nonostante l’afflato sagace, le pagine di Lombardi Vallauri, che certamente fanno riflettere ancora oggi, sono lontane dal disprezzo per gli studenti che trapela invece da altri testi[7]. Il biasimo va, piuttosto, al preteso scientismo che informa il diritto – e, di conseguenza, gli studi giuridici –, all’interno del quale lo spazio di libertà e responsabilità aperto al giurista è proprio quello che la scienza giuridica cerca sempre di occultare; da ciò: «quell’impressione dolorosa di falso, di sofisma, di isolamento dalle correnti profonde della vita intellettuale»[8].

Non sorprende dunque che, nella riflessione sull’insegnamento del diritto, le cliniche legali siano state viste come esperienze foriere di dinamismo e di rinnovate passioni, senza tacere che queste ultime possono altresì essere controverse. Anche quella per la carriera, o per lo meno l’aspirazione a trovare una dignitosa fonte di sostentamento, è certo una passione legittima, accompagnata oggi dalla consapevolezza che le professioni legali non sono più ammantate dal prestigio di un tempo. Altrove abbiamo argomentato diffusamente sui lati oscuri delle cliniche legali[9], anch’esse sussumibili all’interno dei criteri di misurabilità che pervadono l’accademia, nonché strumenti che, come tali, possono tendenzialmente essere piegati a fini diversi, da quelli a vocazione prettamente professionalizzante a quelli di empowerment di interessi o gruppi confliggenti. Ciò non toglie che molte delle esperienze di clinica legale, che si sono sviluppate prima negli Stati Uniti e, più di recente, in Europa e in Italia, si siano caratterizzate proprio per passione e impegno civile verso i temi caldi della politica e della società, da quello delle migrazioni a quello ambientale, al supporto per soggetti svantaggiati come i minori, gli anziani, i detenuti, le donne vittime di violenza e così via. Basterebbe citare, per fare un esempio tratto dalla cronaca recente, il lavoro degli studenti del gruppo «Capstone on Counter-Terrorism and International Crimes» di “Sciences Po”, istituto parigino di studi politici, che ha portato a una comunicazione alla Corte di giustizia internazionale contro le politiche europee sull’immigrazione nel Mediterraneo centrale e in Libia[10].

La riflessione sulle cliniche legali è dunque aperta a esiti diversi, così come aperto è lo spazio di libertà e responsabilità del giurista che, come osserva Lombardi Vallauri, non è sinonimo di una rivendicazione corporativa, bensì «uno spazio già dato, tecnicamente insopprimibile, non da rivendicare ma da accettare»[11]. Che passione, vocazione, libertà e responsabilità siano parte delle competenze che l’università dovrebbe essere in grado di trasmettere ai futuri giuristi non è tuttavia scontato, anzi è spesso osteggiato. Come scriveva Mark Tushnet negli anni ottanta[12], le cliniche legali mobilitano emozioni associate con la sfera del femminile e, come tali, considerate un fattore di disturbo rispetto alla formazione giuridica tradizionale fondata sull’astrazione, la struttura e il ragionamento. Rivendicare le passioni tra le competenze dei giuristi è dunque, già di per sé, una scelta viva e sana.

2. Le cliniche legali nella formazione del giurista

Provando a dipanare per gradi la questione di come si inseriscano le cliniche legali nel panorama degli studi giuridici, il primo e fondamentale elemento di rottura introdotto dall’insegnamento clinico del diritto è quello del punto di vista dell’osservatore. La crisi delle categorie giuridiche, intese come nozioni fondanti una “scienza del diritto”, non è certo un tema nuovo al dibattito; essa, anzi, è stata denunciata ogniqualvolta è mutata la coscienza giuridica, come, per esempio, nel passaggio dal paradigma dei diritti soggettivi a quello di un costituzionalismo sociale. Di fronte all’impossibilità per le categorie di sussumere la realtà sociale e di stabilire un sistema coerente e completo, la “scienza giuridica” ha progressivamente accolto un modello discorsivo nel quale alle categorie corrispondono convenzioni stipulative, tendenzialmente polisemiche e non più tali da autorizzare operazioni di semplice sussunzione. Di qui, le incertezze/ambiguità che queste trasformazioni comportano, soprattutto in ragione dell’inedito ampliarsi dei contesti – vuoi normativi, vuoi fattuali – di riferimento[13]. Davanti al complicarsi dei dati della realtà giuridica, la formazione del giurista non può dunque limitarsi a “correggere il tiro” dando conto del diritto vivente o della casistica come fattori altrettanto oggettivi e neutri. È, invece, necessario esplicitare il ruolo dell’interprete – della giurisprudenza così come della dottrina – da un angolo visuale soggettivo, cioè come punto di vista dell’osservatore interno al sistema[14]. Diventa dunque importante mettere in luce, dichiarare il punto di vista dell’osservatore, interrogare i criteri classificatori che utilizza facendo emergere il suo contributo intellettuale; dare conto della storicità dell’osservatore, ma non solo: anche della sua stessa formazione, dei suoi gusti e delle sue aspirazioni.

È proprio su questo terreno che l’insegnamento clinico del diritto, ovvero quell’insegnamento che comporta un’interazione diretta tra gli studenti e la realtà sociale[15], compie un passo in avanti sia rispetto all’insegnamento tradizionale che a quello casistico. Nella metodologia dell’insegnamento clinico, il punto di vista dell’osservatore – ovvero, della clinica legale in quanto essa stessa attrice interna al sistema – non può essere occultato dietro categorie giuridiche o compendi casistici, che presentano agli studenti una realtà giuridica già mediata, ma diventa anzi il punto di partenza delle attività. Lo «spazio di libertà e responsabilità» aperto al giurista – per richiamare ancora Lombardi Vallauri – è necessariamente esplicitato: a partire dalla scelta dei casi trattati all’interno delle cliniche legali, fino alla selezione delle competenze di base necessarie per affrontarli. Ci pare andare in questo senso, seppure in una prospettiva aggiornata ai conflitti della globalizzazione, anche la lettura proposta da Jeremy Perelman a proposito dell’advocacy dei diritti umani da parte delle cliniche legali. Perelman parla, infatti, di una «political economy of accountability»[16] – che potrebbe tradursi come «economia politica della responsabilità» – necessaria come chiave analitica per portare allo scoperto la correlazione tra le pratiche di advocacy e le opzioni sottese a concetti come quelli di “globalizzazione” e “sviluppo”. Una lente autoriflessiva necessaria a dipanare la trama complessa del discorso contemporaneo sui diritti umani, neppure questo avulso da opzioni di carattere economico, politico, sociale che vanno, appunto, esplicitate. Non si tratta semplicemente di esplicitare un diritto “di parte” (in quanto linguaggio normativo, anche l’approccio più tradizionale al diritto lo è inevitabilmente), bensì di invertire il rapporto tra la costruzione intellettuale del diritto, del linguaggio e delle categorie che utilizza, e la realtà sociale che esso regola e, al contempo, determina a seconda delle opzioni selezionate.

Seguendo questo approccio, il ruolo del diritto non ne risulta affatto sminuito; anzi, la crisi degli studi giuridici è senza dubbio da ricondurre anche alla evidente delega, nello studio e nella lettura della realtà, che questi hanno attribuito ad altri ambiti della conoscenza. Il secondo elemento di rottura, introdotto dall’insegnamento clinico del diritto, può infatti essere visto nel rapporto che esso instaura con gli altri settori della conoscenza: dalle scienze umane alle scienze economiche e sociali, finanche alle scienze “dure”. Prima ancora di fornire esemplificazioni, è bene esplicitare il ruolo dell’osservatore anche rispetto alle Autrici di queste note, coordinatrici di due diverse cliniche legali attive nei Dipartimenti di Giurisprudenza delle Università di Roma Tre e Perugia, una centrata su migrazioni e asilo[17], l’altra su salute, ambiente e territorio[18]: ambiti, questi, tradizionalmente appannaggio della sociologia, dell’antropologia, dell’economia, dell’urbanistica, delle scienze naturali, della medicina e così via. Per dar conto della delega che il diritto ha operato rispetto alle altre discipline, basterebbe guardare ai settori previsti dal Consiglio europeo della ricerca (cosiddetti settori “ERC”), tra i quali il diritto non è previsto come disciplina autonoma, così come lo sono invece le scienze sociali, le scienze economiche, le scienze umane, le scienze politiche e le scienze dure. Parte della responsabilità di questo esito è, certo, da attribuire alla tendenza alla conservazione del ceto dei giuristi e a una spiccata attitudine all’autoreferenzialità. Si tratta, peraltro, di una responsabilità condivisa, dal momento che anche gli altri ambiti della conoscenza sono inclini a considerare il diritto come qualcosa di già dato, comprensibile solo secondo parametri di una tecnicalità giuridica oscura, e soprattutto tendono ad attribuirgli un compito di semplice regolazione di realtà preesistenti. Il risultato è quello di relegare il diritto a un ruolo meramente servente: di regolazione o di limite di obiettivi stabiliti altrove, sia che essi riguardino gli sviluppi della scienza che della società.

Tale atteggiamento appare tuttavia viziato da un’epistemologia poco accorta, che la si guardi da un lato o dall’altro. Per fare degli esempi tratti dalle cliniche nelle quali siamo coinvolte: non è certo più obiettivo un giudice chiamato a decidere in materia di diritto d’asilo o dell’immigrazione senza che siano esplicitati i diversi paradigmi di approccio alle migrazioni, per esempio “economiche”, “forzate” o “autonome”, i quali si contendono il campo all’interno delle stesse scienze sociali; così come la sua decisione non è più equidistante se non tiene conto degli orientamenti, radicalmente divergenti, al razzismo, alla cultura, all’etnicità che caratterizzano i dibattiti dell’antropologia. Per converso, la sociologia e l’antropologia non possono fare a meno di considerare le determinanti giuridiche che strutturano i loro oggetti di studio, così come l’architettura e l’urbanistica non possono prescindere dal rapporto determinante che il diritto intrattiene con lo spazio. Il diritto è un insieme di ground rules[19], cioè di regole di base che amministrano e, prima ancora, condizionano e strutturano i rapporti tra gruppi sociali: tra uomini e donne, tra migranti e stanziali, fra eterosessuali e non-eterosessuali, fra classi sociali e fra portatori di opposti interessi. E attraverso le sue regole il diritto distribuisce potere economico, sociale, simbolico, in ciò attribuendo a ciascuno il potere, piccolo o grande, di negoziare le proprie posizioni nella società e nel mercato. I conflitti che innervano la società si sviluppano e si dirimono, appunto, attraverso la negoziazione fra i gruppi sociali all’ombra del diritto[20].

Se questa è la prospettiva, le cliniche legali favoriscono uno scarto in avanti anche rispetto a quegli agli approcci al diritto che, nei decenni più recenti e dall’angolo visuale della critica alle scienze sociali, hanno integrato diritto e altri ambiti di conoscenza secondo il paradigma conoscitivo dalle congiunzione tra diritto e società, diritto e letteratura, diritto ed economia, diritto e tecnologia, etc.[21]. L’interdisciplinarietà delle cliniche legali non ha, infatti, obbiettivi meramente conoscitivi, ma piuttosto di intervento nella realtà sociale: si potrebbe dire che essa esplicita il paradigma costruttivista di cui si nutre, costringendo, ancora una volta, a rendere visibile il punto di vista dell’osservatore. Non è perciò un caso che molte esperienze di cliniche legali, soprattutto quelle che in Italia si sono strutturate da più lungo corso, si avvalgano di competenze molteplici integrando, su base più o meno continuativa o di collaborazione, antropologi, sociologi del lavoro e delle migrazioni, urbanisti, medici e così via. Anche in questo caso non si tratta né di fare un’apologia delle cliniche legali né di tacere che collaborazioni interdisciplinari si instaurino, con più o meno successo, altrove; piuttosto, l’invito è a riflettere su un modello formativo che fuoriesce dagli schemi tradizionali dell’insegnamento giuridico. Un modello che, peraltro, in altri Paesi è stato adottato per caratterizzare felici sperimentazioni, come quella della Scuola di diritto di “Sciences Po”, dove le cliniche legali costituiscono parte fondamentale del curriculum, coniugando sensibilità pratica, expertise tecnica e sofisticazione intellettuale[22].

Sempre in riferimento all’esperienza, seppur giovane, del nostro Paese, vale poi la pena sottolineare come un’apprezzabile “via italiana” alle cliniche legali sia quella che ha visto coniugare didattica, terza missione e ricerca. Gli esempi sono molteplici, dagli osservatori sulla detenzione amministrativa degli stranieri a quelli sui Paesi di provenienza dei richiedenti asilo, allo sfruttamento lavorativo, ai beni comuni[23]. Anche in questo caso, non si tratta certo di un ambito appannaggio delle cliniche legali: basti pensare – tanto per citare esiti non sempre felici dei paradigmi costruttivisti – alla ricerca orientata al policy making. Le distinzioni non sono tuttavia irrilevanti; mentre nel policy making temi e obbiettivi sono per lo più individuati dai finanziamenti alla ricerca, sia pubblici che privati, nelle cliniche legali essi sono, se non determinati, per lo meno contaminati dalla realtà sociale con cui queste interagiscono. Committenti plurali, dunque, che sovente rappresentano gruppi svantaggiati nella società e nel mercato, a coprire settori, prospettive e obiettivi considerati marginali dai programmi di finanziamento alla ricerca mainstream.

3. La prospettiva sul diritto attraverso le cliniche legali

La crisi degli studi giuridici non è certo estranea quella che ha investito le forme novecentesche dello Stato costituzionale di diritto[24]. Crisi della legge e crisi della giurisdizione sono le due piaghe da più parti segnalate. Con il primo termine si intende notoriamente la crisi di legittimità che investe i processi di formazione delle norme, in primo luogo la dipartita dalla mediazione della rappresentanza. Con il secondo, è indicata la crescente fuga dal processo, a sua volta ricondotta alla crisi di efficienza della giustizia. Si tratta, tuttavia, di due questioni che, pur procedendo parallelamente, non sono simmetriche: se alla crisi della legge è sovente la giurisdizione a supplire in funzione legittimante[25], quest’ultima non è immune da logiche governamentali. Da un lato, la diffusione di pratiche di alternative dispute resolution (adr) struttura l’accesso alla giustizia su base sempre più censitaria; dall’altro, l’intento deflattivo, volto principalmente a una giustizia efficiente anziché di qualità, ne restringe gli ambiti di accesso all’interno dello stesso processo. Si potrebbe portare l’esempio della riforma del processo in materia di protezione internazionale, con la cancellazione di un grado di giudizio giustificata da esigenze legate ai costi economici e sociali del suo protrarsi; o, ancora, l’esempio delle restrizioni imposte alla giurisdizione di legittimità, che ha limitato considerevolmente l’accesso all’ultimo grado di giudizio sia in sede civile che penale. Le partizioni interne agli studi giuridici, da cui l’autonomia concettuale che viene attribuita alle singole discipline, non stimolano tuttavia un dibattito all’altezza del presente: le interminabili discussioni sul ruolo del giudice nell’interpretazione della legge, basate per lo più sulle decisioni delle corti apicali, rischiano di far perdere di vista che solo una casistica minoritaria arriva ormai ai gradi più alti di giudizio, nonché che il giudice non è una monade scardinata dal più complessivo apparato della giurisdizione.

Con l’obbiettivo di spostare l’attenzione dall’ossessione per la ricerca di un criterio di unità e coerenza delle fonti alle diverse scale attraverso cui si esercita la giurisdizione, la studiosa del pluralismo giuridico Mariana Valverde ha osservato come la giurisdizione funzioni come una «governance of legal governance»[26] – una governance della governance giuridica. Le scale della giurisdizione non corrispondono semplicemente a dimensioni diverse, più o meno ampie e sovraordinate, come quella sovranazionale, nazionale e locale, ma a priorità diverse e sovente confliggenti. Chi pratica il diritto – dalle corti alle sedi delle decisioni amministrative, fino a quelle stragiudiziali, più o meno formalizzate – lo sa bene, ma questo è raramente oggetto di analisi e studio né, tantomeno, fa parte dei curricula dei corsi di studio in giurisprudenza, se non in maniera sporadica e occasionale. Viene considerato, appunto, un sapere dei pratici del diritto, relegato al rango di tecnicalità o, al più, di interesse per i sociologi del diritto appassionati di studi sulla burocrazia. Eppure, come osserva Valverde, la giurisdizione non organizza solo il chi e il cosa (la competenza e l’oggetto) delle proprie decisioni, ma anche il come del loro governo; ciò nonostante, proprio «la domanda cruciale sul come»[27] della governance delle decisioni finisce con l’essere decisa al di fuori dei dibattiti pubblici.

Anche da questo punto di vista, le cliniche legali promettono uno sguardo sul diritto diverso dall’approccio tradizionale e, soprattutto, non più eludibile per comprendere la complessità dell’esperienza giuridica contemporanea. Non tanto, o non solo, per la vocazione a un approccio pratico, ma proprio perché la governance della giurisdizione – per utilizzare ancora l’espressione della studiosa canadese – costituisce sia l’ambiente entro cui si muovono, sia il sostrato teorico, esplicitato o meno, del loro intervento. Si pensi – per fare ancora una volta esempi tratti dalle esperienze in corso – a come la medesima normativa sul diritto d’asilo è interpretata e applicata dagli apparati di polizia, da organi amministrativi come le commissioni territoriali, dai tribunali civili nei diversi gradi di merito e legittimità, dalle corti internazionali, anche queste secondo le diverse giurisdizioni di competenza[28]. E, ancora, a come ognuno di questi ambiti decisionali segua priorità almeno parzialmente autonome. È da considerare diritto solo quello pronunciato dalle corti apicali, nazionali o internazionali? O è, piuttosto, l’insieme di queste scale, con le loro diverse priorità, a restituire la complessità dell’esperienza giuridica con cui si confrontano sia i giuristi sia coloro i cui comportamenti vengono governati dalle norme?

L’unità del diritto può essere ricostruita a partire dalle fonti, così come la tradizione dello Stato costituzionale ha lasciato in eredità alla ricerca della teoria giuridica prevalente, oppure a partire dai soggetti i cui comportamenti vengono regolati. Come ha di recente osservato Hans Lindahl – uno dei teorici del diritto che più seriamente si è confrontato con la sociologia della globalizzazione –, la globalizzazione degli ordinamenti non procede costruendo uno spazio giuridico omogeneo, ma va di pari passo con la globalizzazione di processi di inclusione e esclusione[29], i quali non si manifestano soltanto secondo la tipica dicotomia legale/illegale, ma determinano capacità e possibilità che divengono più o meno conseguenti o inconseguenti dal punto di vista della regolazione giuridica; da qui, la loro marginalizzazione. In questo quadro, l’unità dell’ordinamento non è più ricostruibile solo come unità delle norme, ma essa si presenta piuttosto come unità pragmatica di una «distribuzione interrelata di spazi, tempi, soggetti, azioni che si relazionano solo approssimativamente a un corrispondente sistema giuridico»[30]. È con questo ordinamento pragmatico che si confronta la metodologia delle cliniche legali, poiché il quadro normativo di riferimento non si limita a quello ricostruibile a priori attraverso i manuali, i codici, i compendi casistici, ma è quello pragmatico nel quale si muovono i soggetti e gli interessi rappresentati.

Le cliniche legali possono, dunque, essere viste come uno strumento didattico di osservazione e comprensione del diritto nelle sue articolazioni plurali. Ci riferiamo con ciò a un approccio al pluralismo giuridico inscritto nella stessa globalizzazione degli ordinamenti, non certo relegabile a settori marginali, quando non ridicolizzato come atteggiamento esotizzante[31]. Uno strumento didattico essenziale alla formazione del giurista ai tempi della globalizzazione. Ma anche uno strumento che, nelle crisi della legge e della giurisdizione, si propone di aprire spazi non solo di resistenza ma, come argomentiamo nella sezione successiva, di partecipazione e trasformazione dell’esistente.

4. Cliniche legali, beni comuni e giustizia sociale

In altre occasioni, abbiamo argomentato diffusamente sulla possibilità di leggere le cliniche legali attraverso la lente dei beni comuni[32]. Anche in questo caso, più che di una sintesi descrittiva comune alle esperienze esistenti, si tratta di una chiave di lettura volta normativamente a “liberare” la cooperazione sociale messa all’opera nell’attività clinica dallo studio, le riflessioni, le emozioni di studenti, utenti, docenti, sottraendola alla messa a valore della misurabilità per giocarla in una direzione diversa. Per esempio, per ri-costruire legami di solidarietà sociale. Tale obiettivo prende corpo dall’analisi della clinical education quale momento peculiare di produzione di sapere giuridico all’interno dell’istituzione universitaria, letti a loro volta, l’uno e l’altra, nella loro dimensione comunitaria e collettiva, come prodotti della cooperazione sociale.  È in questo senso che va a nostro avviso declinata in termini attuali la vocazione sociale delle law clinics degli esordi che, muovendo da istanze di giustizia sociale, hanno inventato forme militanti di accesso alla giustizia; per esempio, negli Stati Uniti, a fianco dei movimenti per i diritti civili delle minoranze o per i diritti delle donne.

Sebbene un fine di giustizia sociale non possa essere imposto nell’insegnamento clinico del diritto, le cliniche legali integrano (o possono integrare) commons dalla connotazione fortemente trasformativa, poiché la loro finalità precipua è condividere la conoscenza prodotta nell’università con l’esterno, con la più ampia comunità che vive fuori dai confini dell’università. Ciò ha delle ricadute anche in termini di accesso alla giustizia, nella misura in cui essa sia concepita come un processo sociale[33]. Temi, priorità e obiettivi vengono infatti costruiti a partire dai concreti portatori di diritti e di istanze con cui la clinica entra in relazione, i quali, a loro volta, sono esposti alla “scoperta” di poter affermare in giudizio le proprie ragioni. Dal punto di vista dell’accesso alla giustizia, non si tratta certo di questione di poco conto, dal momento che nei massimari della giurisprudenza finiscono per lo più temi di interesse per soggetti che hanno un capitale sociale, economico o culturale tale da potersi permettere difese esperte e tutti i gradi di giudizio. La clinica legale, in altre parole, consente a temi sovente trattati come marginali dalla cultura accademica (quando non del tutto ignorati) di divenire rilevanti, contaminando i saperi giuridici tradizionali.

La fisionomia di “bene comune” delle cliniche legali è, inoltre, immediatamente evidente per via della struttura collettiva e tendenzialmente non gerarchica che caratterizza vuoi il loro funzionamento, vuoi la produzione di sapere giuridico del caso concreto cui danno luogo. È in questo senso che la clinica legale attualizza, a nostro avviso, la nozione di bene comune più aggiornata e militante, proprio perché la sua funzione non sta semplicemente nel garantire l’uso e la gestione collettiva delle risorse immateriali che la individuano, ma redistribuisce quelle risorse al di fuori della comunità di riferimento, rafforzando o creando ex novo legami di solidarietà sociale (e politica) fra la comunità studentesca e gli attori sociali al di fuori di essa. In conclusione, l’attività delle cliniche legali può essere letta come un’azione collettiva che, da una parte, redistribuisce potere sociale e simbolico, consentendo a soggetti in vario senso definiti “marginali” di divenire attori sulla scena della giustizia; dall’altra, si inscrive nei processi di produzione di welfare e spazi di partecipazione democratica dal basso.

[1] Cfr. F. Bloch e M. Menon, The Global Clinical Movement, in F. Bloch (a cura di), The Global Clinical Movement. Educating Lawyers for Social Justice, Oxford University Press, Oxford, 2011; R.J. Wilson, The Global Evolution of Clinical Legal Education, Cambridge University Press, Cambridge, 2018.

[2] C. Bartoli, The Italian legal clinics movement: Data and prospects, in International Journal of Clinical Education, vol. 22, n. 2/2015, pp. 1-16; A. Maestroni - P. Brambilla - M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche nelle cliniche legali. Cliniche legali,vol. II, Giappichelli, Torino, 2018.

[3] Tra i contributi recenti, vds. B. Pasciuta e L. Lo Schiavo, La formazione del giurista. Contributi a una riflessione, RomaTrE-Press, Roma, 2018, ai quali si rimanda anche per la bibliografia sul tema.

[4] Per fonti di stampa, vds. www.repubblica.it/scuola/2018/01/09/news/calo_immatricolazioni_giurisprudenza-186120793/ (ultimo accesso 30/06/2019); per i dati statistici sull’istruzione, vds. http://ustat.miur.it/opendata/ (ultimo accesso 30/06/2019).

[5] Vds. il bollettino statistico 2017 a cura del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca: MIUR – Ufficio statistica e studi, http://ustat.miur.it/media/1116/notiziario-statistico-2017-1.pdf (ultimo accesso 30/06/2019).

[6] L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 1981.

[7] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, ESI, Napoli, 2007.

[8] L. Lombardi Vallauri, Corso, op. cit., p. 4.

[9] M.R. Marella ed E. Rigo, Le cliniche legali, i beni comuni e la globalizzazione dei modelli di accesso alla giustizia e di lawyering, in Rivista critica del diritto privato, vol. XXXIII, n. 4/2015, pp. 537-556.

[10] «Communication to the Office of the Prosecutor of the International Criminal Court Pursuant to the Article 15 of the Rome Statute», 3 giugno 2019,  www.statewatch.org/news/2019/jun/eu-icc-case-EU-Migration-Policies.pdf (ultimo accesso 30/06/2019).

[11] L. Lombardi Vallauri, Corso, op. cit., p. 3.

[12] M. Tushnet, Scenes from the Metropolitan Underground: A Critical Perspective on the Status of Clinical Education, in George Washington Law Review, vol. 52, 1984, pp. 272-279.

[13] Si consenta il rimando a M.R. Marella, Per un’introduzione allo studio del diritto: costruire le competenze di base, in B. Pasciuta e L. Lo Schiavo, La formazione, op. cit.

[14] Esplicito sul punto Y. Thomas, Le sujet de droit, la personne et la nature, in Le débat, n. 100/1998 (maggio-agosto), ripreso da J. Rochfeld, Les grandes notions du droit privé, Puf, Parigi, 2014 (in particolare, nella Prefazione), che ne sottolinea il carattere strutturale rispetto a forma e funzionamento delle «grandes notions». Sul concetto ritorna insistentemente anche N. Lipari, Le categorie del diritto civile, Giuffrè, Milano, 2013.

[15] Per una definizione che include le componenti dell’insegnamento clinico, vds. R. Wilson, Training for Justice: The Global Reach of Clinical Legal Education, in Penn State International Law Review, vol. 22, n. 3/2004.

[16] J. Perelman, Transnational Human Rights Advocacy, Clinical Collaborations, and the Political Economies of Accountability: Mapping the Middle, in Yale Human Rights & Development Law Journal, vol. 16, 2013, p. 89.

[17] Per una descrizione del lavoro della clinica legale su migrazioni e asilo di Roma Tre, vds. F. Asta – C. Caprioglio – E. Rigo, Il ruolo delle cliniche legali come strumento di insegnamento e approccio al diritto. L’esperienza della Clinica del diritto dell’immigrazione e della cittadinanza di Roma Tre, in A. Maestroni – P. Brambilla – M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche, op. cit.

[18] Per una riflessione sul ruolo della Clinica legale dell’Università di Perugia, vds. M.R. Marella, L’uso dello spazio urbano fra questione proprietaria e accesso alla giustizia, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2017, www.questionegiustizia.it/rivista/2017/2/l-uso-dello-spazio-urbano-fra-questione-proprietaria-e-accesso-alla-giustizia_448.php; G. Landi, La Law Clinic “Salute, Ambiente e Territorio”, in A. Maestroni – P. Brambilla – M. Carrer (a cura di), Teorie e pratiche, op. cit., pp. 191-198; G. Landi, La Law Clinic come supporto ai movimenti per la salute e per l’ambiente. L’esperienza della Facoltà di Giurisprudenza di Perugia, in Sistema salute, n. 4/2017, pp. 64-71.

[19] D. Kennedy, The Stakes of Law, or Hale and Foucault!, in Legal Studies Forum, vol. XV, n. 4/1991.

[20] R.H. Mnookin e L. Kornhauser, Bargaining in the Shadow of the Law. The Case of Divorce, in Yale Law Journal, vol. 88, 1979.

[21] Tra i testi più influenti, vds. R.A. Posner, Frontiers of Legal Theory, Cambridge University Press, Cambridge, 2004.

[22] Si veda, ancora una volta, J. Perelman, Transnational Human Rights Advocacy, op. cit.

[23] Per la detenzione amministrativa, si vedano la ricerca «Lexilium», coordinata dalla Clinica legale dell’Università di Roma Tre e condotta da una rete nazionale di cliniche legali (www.lexilium.it/), e i rapporti pubblicati a cura di F. Mastromartino, E. Rigo e M. Veglio (Lexilium. Osservatorio sulla giurisprudenza in materia di immigrazione del giudice di pace: sintesi rapporti 2015, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 2/2017). Per le informazioni sui Paesi di origine dei richiedenti asilo, si veda l’osservatorio della «Human Rights and Refugee Law Clinic» dell’Università di Roma Tre, (http://protezioneinternazionale.giur.uniroma3.it/humanrightsrefugeelawlegalclinic/coi/). Per lo sfruttamento lavorativo, si veda l’osservatorio de «L’altro diritto», dell’Università di Firenze (www.adir.unifi.it/osservatorio-sfruttamento-lavorativo.pdf). Per i beni comuni, si veda l’osservatorio curato dalla Clinica dell’Università di Perugia, (www.comunemente.unipg.it/).

[24] Il dibattito sul tema è amplissimo. Tra gli altri, si vedano G. Azzariti, Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Roma-Bari, 2013; M.R. Ferrarese, Governance. Sugli effetti politici e giuridici di una «soft revolution», in Politica del diritto, n. 2/2014; M. La Torre, Miseria del costituzionalismo globale, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il Mulino, Bologna, n. 1/2017.

[25] Per una discussione sul ruolo legittimante della giurisdizione in riferimento al trattenimento degli stranieri, si consenta il rimando a E. Rigo, Spazi di trattenimento e spazi di giurisdizione. Nota a margine di materiali di ricerca sul trattenimento amministrativo degli stranieri, in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il Mulino, Bologna, n. 2/2017.

[26] M. Valverde, Jurisdiction and Scale: Legal “Technicalities” as Resources for Theory, in Social & Legal Studies, vol. 18, n. 2/2009, p. 141.

[27] Ivi, p. 144.

[28] Per una ricerca sul tema, si consenta il rimando a E. Rigo, La protezione internazionale alla prova del genere: elementi di analisi e problematiche aperte, in questa Rivista trimestrale, n. 2/2018, www.questionegiustizia.it/rivista/2018/2/la-protezione-internazionale-alla-prova-del-genere-elementi-di-analisi-e-problematiche-aperte_538.php.

[29] H. Lindahl, Authority and the Globalisation of Inclusion and Exclusion, Oxford University Press, Oxford, 2018.

[30] Ivi, p. 60.

[31] G. Teubner, The Two Faces of Janus: Rethinking Legal Pluralism, in Cardozo Law Review, vol. 13, 1991.

[32] M.R. Marella ed E. Rigo, Le cliniche legali, op. cit.

[33] Rimane fondamentale sul tema il riferimento a M. Cappelletti e B. Garth, Access to Justice and the Welfare State. An Introduction, in M. Cappelletti (a cura di), Access to Justice – Volume IV, European University Institute, Firenze, 1981.