Magistratura democratica

Cliniche legali in carcere

di Patrizio Gonnella
Il carcere è una fabbrica fondata sui bisogni. Tra quelli più sentiti dalle persone detenute, vi è il bisogno legale, ma in carcere non è facile distinguere la sfera legale da tutte le altre. Enorme è la componente umana che – per mancanza di risorse economiche, sociali, educative, linguistiche – vive costantemente il rischio di un trattamento legale infra-murario non equo. Strutturata secondo modalità di formazione non convenzionali, la clinica legale in un carcere dovrebbe rispondere a questo bisogno, nella consapevolezza dell’iniquità del sistema penale e penitenziario.

Il carcere quale fabbrica del bisogno

Il carcere – scriveva l’indimenticato Massimo Pavarini[1] – ha una funzione selettiva e non può essere letto adeguatamente nella sua dimensione qualitativa e quantitativa senza uno sguardo più ampio ai fattori di produzione dei tassi di internamento nonché alla più complessa questione criminale. Il carcere ha un suo modello esplicativo, anche se non è sempre facile da individuare e, di conseguenza, da raccontare. È essenziale indagare le modalità di esecuzione delle pene per dare senso a tutte quelle azioni di ricerca, di osservazione, di promozione e protezione dei diritti dei detenuti volte alla riduzione del divario tra norma e prassi, tra funzione dichiarata della pena e suo effettivo scopo sociale. Il monitoraggio di quello che accade in un istituto penitenziario, così come lo studio delle biografie dei detenuti, costituisce un buon punto di partenza per andare a scoprire l’esistenza e le ragioni sociali, economiche, culturali, politiche di questo enorme divario.

Il carcere è una fabbrica fondata sui bisogni. Attraverso la parola “bisogno” si può andare alla ricerca e alla determinazione del modello esplicativo del carcere. Il bisogno, infatti, è parte delle biografie socio-penali delle persone detenute. Accompagna tutte le fasi della loro vita, da quella pre-detentiva (sia essa di natura criminale o meno) a quella processuale, da quella riguardante il periodo di vita reclusa fino al periodo di ritorno alla condizione di libertà.

Rivedere la questione carceraria attraverso la lente dei bisogni individuali aiuta a definire meglio le forme di contenimento delle politiche custodialistiche.

In primo luogo, vi è un bisogno di tipo sociale. La composizione anagrafica, etnica, nazionale della popolazione detenuta evidenzia storie personali di solitudine e di vuoto relazionale. La conoscenza approfondita delle storie di vita dei detenuti costituisce sempre un buon punto di partenza per chi programma politiche pubbliche. Dovrebbe essere all’origine di una valutazione approfondita e non standardizzata della qualità dell’offerta dei servizi sociali, educativi, di avvio al lavoro e all’impresa. Ancora più efficace, in quanto meno manipolabile, è l’adozione della tecnica non neutra dell’autobiografia. L’auto-narrazione dei detenuti riduce al massimo gli errori interpretativi del mediatore ed evita dunque un’interpretazione stereotipata ed esogena dei bisogni sociali pre-esistenti e coevi alla detenzione[2]. Attraverso questa modalità di conoscenza delle carenze di protezione sociale delle persone private della libertà – carenze che, probabilmente, sono state la causa prevalente, anche se non esclusiva, della carcerazione –, vengono altresì soddisfatti i bisogni narrativi che ha ogni persona che si trovi in uno stato di difficoltà materiale o emotivo. Pur essendo il carcere un luogo dove, soprattutto per i lungo-degenti, ben sarebbe utile (nonché semplice) pensare a strutturare percorsi psico-terapeutici, le persone sono lasciate sole anche con la propria voglia di “esprimere il proprio punto di vista” sulla propria esistenza. La costituzione di un archivio autobiografico dei detenuti avrebbe un grande valore ermeneutico. Molto ci potrebbe dire sullo stato della giustizia e del welfare. Ci aiuterebbe a decodificare il modello sociale esplicativo del carcere nella sua interezza.

In secondo luogo, vi è un bisogno di tipo educativo. I tassi di alfabetizzazione delle persone presenti nelle carceri sono ben più bassi rispetto a quelli della società libera. Un gap che segna irrimediabilmente i destini delle persone detenute fino a condizionarne anche le capacità di avvalersi efficacemente dagli strumenti messi a disposizione dal diritto prima, durante e dopo la carcerazione. Il bisogno educativo è solo parzialmente colmato attraverso la predisposizione di corsi di istruzione all’interno delle carceri. I detenuti non sono messi nelle condizioni di studiare serenamente ed efficacemente. La possibilità di studiare è elargita più che garantita. Non sono pochi i casi di detenuti che entusiasticamente iniziano un percorso di studio e poi rinunciano disillusi, viste le pratiche asfissianti di controllo e gli irragionevoli impedimenti. Sembra quasi che vi sia una regia, più o meno occulta, diretta a voler impedire la crescita culturale del detenuto. Sembra quasi voglia perpetuarsi una subalternità di classe e culturale, che usa il carcere quale insuperabile barriera sociale[3].

C’è, poi, un bisogno di tipo relazionale e affettivo che la legislazione vigente non consente appieno di assecondare. Telefonate e colloqui visivi sono regolamentati in un modo così rigido da impedire un’effettiva garanzia del diritto a vivere in modo profondo i propri affetti e le proprie relazioni. Nella vita quotidiana, ogni essere umano ha momenti di debolezza, di tristezza, di solitudine, di inspiegabile cambio di umore, o semplicemente dubbi su questioni più o meno rilevanti, che richiederebbero risposte da persone care o vicine. Nella vita di tutti i giorni, il bisogno di relazioni umane fa fatica a essere chiuso dentro i tempi definiti e rigorosi della vita carceraria. A differenza che in altri Paesi, in Italia l’uso del telefono è fortemente ridotto (dieci minuti a settimana) e la sessualità è del tutto negata. Tutto ciò contribuisce a isolare la persona reclusa e a far accrescere la quota non soddisfatta dei suoi bisogni affettivi e relazionali[4].

Tra i bisogni più sentiti delle persone detenute, vi è quello legale. L’esecuzione penale non è facilmente intellegibile. È un mosaico intricato di norme internazionali, di leggi nazionali, di leggi regionali, di circolari amministrative, di ordini di servizio delle singole direzioni carcerarie. Le norme secondarie sono quelle che più incidono sulla vita e sui diritti delle persone detenute, ma sono anche le meno note. A volte sono richiamate in modo oracolare senza che sia possibile ricostruirne la fonte o l’origine nel tempo. Il detenuto, per gap linguistico o educativo, non riesce a districarsi, poco ci capisce e non sa come attivare strumenti di garanzia che l’ordinamento mette ipoteticamente a sua disposizione. La composizione sociale delle carceri rende evidente quanto insoddisfatto resti il bisogno legale, inteso nella sua interezza. Bisogni sociali e bisogni legali sono tra loro incrociati e dipendenti. La vita reclusa, inoltre, nel momento in cui separa la persona dai propri affetti, costringe la persona detenuta ad aggrapparsi a tutto pur di costruire una relazione umana. Il bisogno legale è, pertanto, connesso anche a quello relazionale.

2. Una risposta equa al bisogno legale

In carcere non è possibile distinguere la sfera legale da tutte le altre sfere. Enorme è la componente umana che, per mancanza di risorse economiche, sociali, educative, linguistiche, vive costantemente il rischio di un trattamento legale infra-murario non equo. Il tentativo di garantire una più equa soddisfazione dei bisogni legali non può prescindere dalla coscienza della discriminazione di fatto prodotta dalla natura selettiva del sistema penale e dall’essenza punitiva del carcere.

Una gran quota di detenuti proviene da classi sociali subalterne, è tecnicamente povera, convive con doppie diagnosi (problemi di salute mentale e di dipendenza da sostanze), proviene da luoghi lontani. Soffre, dunque, di solitudine e ha una varietà di bisogni, di cui quello legale è una sorta di “grande coperta”. Se queste sono le premesse, si può costruire una forma consapevole di supporto e informazione legale diretta a ridurre il tasso di iniquità che si respira nelle prigioni.

La vita penitenziaria è scandita da tanti momenti, tutti regolamentati e tutti incidenti sulla qualità della vita delle persone recluse nonché sulla loro libertà di movimento. La vita nelle sezioni, la possibilità di lavorare, di andare a scuola, di essere retribuiti se si è impegnati in attività lavorative, di essere trasferiti vicino ai propri affetti, di incontrare amici e fidanzate, di essere o meno espulsi verso il proprio Paese di origine, di essere curati in modo adeguato, di essere risarciti se ingiustamente detenuti in spazi insufficienti o in condizioni degradanti, di essere correttamente giudicati in un procedimento disciplinare, di non essere isolati a lungo, di poter pregare, di mangiare adeguatamente anche se malati, di poter vedere la televisione anche di notte, di avere acqua fresca a disposizione, di vivere in luoghi igienicamente dignitosi, di essere perquisiti in modo non degradante sono tutti esempi che non esauriscono il campo possibile dei bisogni legali dentro il carcere. Si tratta di bisogni che non facilmente trovano risposte nella difesa tecnica personale del detenuto, in parte perché si tratta di fatti che attengono alla vita quotidiana detentiva e che non richiedono un supporto legale tradizionale obbligatorio; in parte perché si tratta di questioni non coperte dalla legge sul gratuito patrocinio; in parte perché è richiesta una competenza penitenziaria specifica che, a volte, neanche gli avvocati hanno.

A tutto questo deve rispondere uno sportello di informazione connesso a una clinica legale universitaria. Ossia, esso deve coprire dei vuoti di tutela, senza mettersi in competizione con il mondo dell’avvocatura.

3. Una breccia nello Stato corporativo

In Italia il diritto di difesa è considerato inviolabile in ogni stato e grado del procedimento dall’articolo 24 della Costituzione. L’art. 24 dice anche qualcosa di più incisivo, che va adeguatamente interpretato e circostanziato: «sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione». L’esecuzione della pena, con tutto ciò che riguarda la vita nelle carceri e le richieste di accesso a benefici premiali, fuoriesce dal contenzioso tradizionale garantito dall’obbligatorietà della difesa tecnica. In Italia non ci si può difendere da soli, tranne che in carcere. Un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme in materia di esecuzione penitenziaria è quella che legittima la previsione di forme di gratuito patrocinio per i detenuti non abbienti a sostegno della litigiosità e delle istanze che nascono nel contesto di detenzione.

Nessuno, in Italia, può intromettersi nella difesa tecnica. Il sistema dell’avvocatura è impenetrabile dall’esterno, nel senso che l’ordine degli avvocati garantisce i suoi iscritti contro chi si accaparra clienti indebitamente o slealmente. Tutte quelle università o associazioni che mettono in piedi progetti di informazione legale all’interno di un carcere devono evitare di incorrere nell’opposizione dei consigli dell’ordine che tendono a fare scudo dei propri iscritti. Agli avvocati di fiducia o di ufficio spetta la gestione del merito del processo e nessuno può interferire. E probabilmente è giusto che sia così. Resta, però, il tema etico concernente il che fare quando ci si rende conto che quella difesa è grossolanamente errata oppure del tutto assente, come accade in alcuni casi di difesa d’ufficio. La difesa corporativa, purtroppo, a volte perpetua le iniquità e non aiuta a svelare i comportamenti deontologicamente non corretti.

Gli sportelli in carcere, istituiti dalle università e dalle associazioni, costituiscono uno sguardo privilegiato sul malfunzionamento dei meccanismi di protezione legale gratuita e della difesa d’ufficio. Si scontrano due etiche: quella della esclusività e intangibilità del rapporto tra il detenuto e il suo difensore (di fiducia o d’ufficio che sia) e quella della garanzia di un trattamento legale equo di una persona priva di adeguati strumenti economici o culturali individuali. Si tratta di una contrapposizione irrisolvibile sulla base del manicheismo legislativo e che deve trovare, nella ragionevolezza degli attori in gioco, una soluzione caso per caso.

Il detenuto non è un’entità monolitica capace di distinguere tra la questione penale o processuale che lo vede protagonista e i fatti di vita penitenziaria. Quando incontra un qualcuno disposto ad ascoltarlo, lo travolge comprensibilmente di domande, quesiti, richieste di aiuto che riguardano il processo in corso, la misura cautelare subita o la salute negata. Di tutto questo parla con la stessa enfasi e disperazione. Nella consapevolezza della salvaguardia della concorrenza e nel rispetto assoluto della difesa tecnica, a questi bisogni si deve comunque rispondere.

4. Le potenzialità e i limiti delle cliniche legali penitenziarie

La clinica legale in un carcere dovrebbe originare un circolo virtuoso, che faccia dialogare mondi che raramente comunicano. Le cliniche legali rispondono a un’esigenza di formazione degli studenti e di organizzazione non cattedratica e convenzionale della didattica. Allo stesso tempo, assolvono a un impegno di tipo sociale dei dipartimenti universitari di giurisprudenza, altrimenti confinati dentro i limiti asfittici di un sapere formale ancorato alla manualistica tradizionale[5].

Le cliniche legali, pur nell’innovatività di una formazione sul campo che avviene attraverso l’analisi e la presa in cura di singoli casi, hanno la loro forza nel costruire un ponte verso persone e luoghi dove c’è ontologicamente un bisogno di tutela, o ancor meglio una carenza strutturale di protezione giuridica. Dunque le cliniche legali dovrebbero contribuire a ridurre quel divario di uguaglianza che rende la legge inflessibile, dura, senza speranze per taluni e garantista, flessibile, tollerabile per altri. L’obiettivo circolare a cui una clinica legale dovrebbe rispondere in un contesto penitenziario è quello di fornire agli studenti gli strumenti teorico-pratici per offrire un’adeguata forma di sostegno informativo alle persone detenute che si rivolgono alla clinica stessa, contribuendo a renderle più coscienti dei loro diritti.

Il carcere vive in un’insanabile e probabilmente irrisolvibile contraddizione[6]: dovrebbe essere il luogo in cui si ricostituisce il patto sociale rotto con il reato, in cui si ripristina la legalità perduta. Dovrebbe, quindi, essere il luogo della legalità perfetta, della sovrapposizione, senza sbavature, tra realtà e norme. La sua natura di istituzione chiusa, e dunque opaca, trasforma, o meglio, degrada quest’ambiziosa pretesa di legalità perfetta in un’antinomia densa di ambiguità. Le cliniche legali penitenziarie, nel prevedere forme di sostegno informativo legale delle università ai detenuti, prendono atto di queste ambiguità e del falso mito della funzione rieducativa della pena, per modellare un intervento diretto a garantire forme di protezione ugualitaria della dignità umana.

5. L’etica e il diritto

Come detto, la normativa che regolamenta la vita nelle carceri non è confinabile all’interno del solo ordinamento penitenziario. Vi sono norme a livello superiore, costituzionale e internazionale, che si incrociano con norme regolamentari, norme amministrative di secondo livello e ordini di servizio di singoli direttori. Il tutto va a comporre un mosaico dove, spesso, mancano le tessere e le prassi sono confuse con la legge. Altrettanto rilevante è la dimensione giurisprudenziale. Alla case-law della Corte europea dei diritti umani (non solo quella riguardante l’Italia) si deve aggiungere il complesso delle sentenze della Corte costituzionale, della Corte di cassazione e di quelle di merito, in particolare delle ordinanze dei giudici di sorveglianza. Coloro che prendono parte a un progetto di informazione legale devono perciò avere un background formativo specifico rilevante, sapersi muovere tra dimensione costituzionale, dimensione internazionale, dimensione penale, dimensione penitenziaria, senza trascurare le dimensioni amministrativa e civilistica. C’è un sapere teorico, dunque, che non va sottostimato e che deve affiancarsi a un sapere non manualistico. Infatti, affinché uno studente diventi un buon operatore di clinica legale, deve avere anche conoscenza dell’organizzazione e delle gerarchie presenti all’interno di un carcere. Deve sapere a chi deve dare del “lei”, a chi può dare del “tu”, fino a che punto può osare per chiedere la soluzione di un problema che nulla ha a che fare con il diritto, ma che tutto ha a che fare con la natura assoluta di una vita comunitaria ingabbiata.

La condizione di detenzione è tale da stravolgere i bisogni e le richieste di aiuto, da trasformare una seduta per un consiglio legale in un’occasione imperdibile per poter essere ascoltati da qualcuno. Il carcere è un’istituzione assoluta, dove tutto va richiesto, anche ciò che è parte del proprio statuto di essere umano. Tutto è messo nel gioco della negoziazione, quotidianamente. Senza avere chiara la distinzione, già proposta all’inizio di questo articolo, tra funzione normativa della pena e suo scopo di legittimazione sociale, mal si fa il proprio lavoro di consigliere “legale”.

Si suol dire, a proposito delle cliniche legali, che con esse si “impara facendo”. C’è un’etica che dovrebbe essere spiegata, raccontata, insegnata e che dovrebbe permeare di sé la didattica e, a seguire, la parte pratica di una clinica legale penitenziaria: è l’etica dell’ascolto. Qualunque medico clinico lo potrebbe confermare[7]. Non si può essere buoni medici se non si sa ascoltare. Allo stesso modo, non si può essere buoni avvocati, e buoni operatori penitenziari, se non si è disposti all’ascolto.

«Vasudeva ascoltò con grande attenzione. Tutto assimilò ascoltando: nascita e fanciullezza di Siddharta, tutti i suoi studi, tutto il suo gran cercare, tutta la gioia, tutta la pena. Tra le virtù del barcaiolo questa era una delle più grandi: sapeva ascoltare come pochi (…). Siddharta sentì quale fortuna sia imbattersi in un simile ascoltatore, affondare la propria vita nel suo cuore, i propri affanni, la propria ansia di sapere. (…) “Ti ringrazio” disse Siddharta “… ti ringrazio anche di avermi ascoltato così bene! Sono rari gli uomini che sanno ascoltare, e non ho mai incontrato uno così bravo come te”».[8]

Un pessimo medico pontifica, guarda le carte, non ascolta, prescrive. Ugualmente, un pessimo operatore del diritto veleggia sulle ali del diritto positivo, legge gli atti scritti, non ascolta, giudica. In carcere, la somma di tanti piccoli problemi produce un’infelicità. Molti piccoli o meno piccoli problemi si risolvono con la capacità di ascolto olistico, con il sapiente uso della diplomazia nei rapporti, con le relazioni personali e istituzionali, attraverso i media. Infine, soltanto talune volte, i problemi si risolvono con il diritto.

Oltre all’etica dell’ascolto, vi è quella della responsabilità. In carcere non si può tradire l’aspettativa di chi aspetta una risposta e la potrà avere solo in un incontro personale. L’amministrazione penitenziaria impedisce, infatti, un uso libero del telefono o della mail attraverso cui potrebbe velocizzarsi l’acquisizione di un’informazione, il cui mancato possesso produce ansia e trepidazione nel detenuto. Essere responsabili significa saper ascoltare e assicurare al detenuto richiedente una risposta – negativa, interlocutoria o affermativa che sia. Il detenuto vive spesso nella condizione di chi fa domande (o meglio, “domandine”) al direttore del carcere o al comandante di reparto o al magistrato di sorveglianza, ma non ha diritto alla risposta. L’etica della responsabilità di un operatore del diritto comprende il dovere morale di dare una risposta, di non scomparire, di assicurare una periodica presenza all’interno del carcere, nel giorno e nell’ora prestabiliti. In questo modo, il circolo virtuoso della responsabilità si salda con gli obblighi di natura deontologica e professionale. Se si prende un impegno, si mantiene. Anche questo fa parte della didattica per chi, in futuro, vorrà essere avvocato, magistrato, notaio.

6. Il luogo della clinica

Una clinica penitenziaria svolta a distanza, che non si sporchi le mani con gli odori, i ritmi, i tempi morti, i tempi persi, le assurdità, le irragionevolezze, la vita delle galere, avrebbe un impatto limitato perché non costituirebbe occasione formativa per gli studenti e, allo stesso modo, determinerebbe una maggiore ritrosia ad affidarvisi da parte dei detenuti. Il rapporto tra detenuto e operatore della clinica si trasforma, attraverso la conoscenza personale, in rapporto fiduciario. Il detenuto ha bisogno di tempo per potersi affidare, anche in considerazione della giovane età dell’ascoltatore, che potrebbe essere associata a inesperienza. Dunque il rapporto diretto, personale in ambiente detentivo consente di superare quelle vischiosità interpretative che, altrimenti, si andrebbero a consolidare. Entrare in un reparto detentivo per ascoltare i bisogni legali di un detenuto ha di per sé un valore simbolico. Rompe l’idea della priorità esclusiva dei custodi nei confronti dei custoditi, rende il carcere un po’ meno opaco di quel che è o vorrebbe essere. Inoltre, la presenza fisica dell’operatore legale tra poliziotti, educatori, medici, preti, volontari, direttori facilita la conoscenza dei meccanismi di reclusione, ma anche la conoscenza delle persone stesse. Senza la conoscenza del divario tra pena legale e pena reale, l’aiuto penitenziario risulterebbe ben poco effettivo.

Se un detenuto, ad esempio, si lamenta che è mal curato nell’infermeria del carcere, bisogna avere chiaro cosa è un’infermeria, averla vista. Se un detenuto vuole essere spostato da una sezione ritenuta “particolare”, bisogna sapere che in quel carcere esiste una sezione più dura delle altre. Se un detenuto chiede di poter lavorare, bisogna sapere quanti detenuti lavorano in quel carcere e cosa fanno. Se un detenuto si lamenta degli spazi insufficienti nella cella, è utile averla vista almeno una volta. Se un detenuto si lamenta dei luoghi dove esce all’aria aperta, utile è conoscere i cubicoli. E così via procedendo. La conoscenza dei luoghi, delle procedure informali, delle prassi che si ripetono stancamente, delle dinamiche materiali di potere (non è detto che in carcere decida chi è il più alto in grado) aiuta a muoversi in modo adeguato nella prospettazione di una efficace e concreta soluzione al caso proposto.

7. Roma Tre e le carceri romane

Il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università Roma Tre ha inteso la clinica legale penitenziaria quale uno dei cardini di una più ampia filiera formativa sui temi della pena[9]. In sintesi, il modello prescelto, nonché funzionante da alcuni anni, è il seguente: frequenza di un corso teorico-pratico di «Diritti dei detenuti e Costituzione», all’interno del quale sono anche analizzati casi pratici; svolgimento di parte del corso all’interno di uno degli istituti di pena romani; attivazione di uno sportello di informazione legale presso le carceri di Regina Coeli e Rebibbia femminile; accordo con l’associazione Antigone per la gestione settimanale delle attività dello sportello; selezione, tra gli studenti che hanno seguito il corso, di coloro i quali si rendono disponibili a recarsi presso le carceri per i colloqui con i detenuti; formazione permanente degli studenti sia sugli aggiornamenti legislativi che sugli approfondimenti teorici; presenza settimanale nelle carceri senza soluzione di continuità nel tempo, ossia senza pause nei periodi festivi; costituzione di gruppi di lavoro seguiti e diretti da esperti penitenziari; formalizzazione di un accordo con il garante regionale delle persone private della libertà grazie al quale si prevede che lo sportello universitario in carcere sia anche il front desk dell’autorità garante.

Quasi cento sono stati gli studenti sinora coinvolti con un impegno personale di almeno un anno di presenze in carcere. Oltre mille i detenuti che, nel tempo, sono stati ascoltati. Centinaia gli atti formalizzati. Più rara è l’attivazione del contenzioso, in quanto in carcere la prima soluzione a portata di mano è sempre una soluzione non conflittuale, per non esacerbare i conflitti e per evitare il rischio di ritorsione nei confronti dei detenuti. In generale, i temi sollevati con più frequenza sono: salute, anagrafe, lavoro, permessi di soggiorno, territorialità della pena, accesso alle misure alternative.

La doppia domanda che bisognerebbe legittimamente porsi è la seguente: è migliorata la qualità della vita legale e sociale dei detenuti oppure no? È accresciuta la capacità formativa e professionale degli studenti coinvolti? Le due domande sono tra loro correlate. Non si può rispondere negativamente a una e affermativamente all’altra. Sarebbe un controsenso. Il viaggio tra le due risposte deve essere necessariamente parallelo, la sintonia totale. La soddisfazione dei bisogni legali dei detenuti è correlata alla capacità di chi offre loro risposte. Un’abilità che è data dalla conoscenza, ma anche dall’esperienza. Il carcere è un luogo che va conosciuto antropologicamente e non solo normativamente. Il carcere è, però, anche un luogo che impone interrogativi deontologici. Che fare nel caso di un detenuto morto suicida che si era rivolto agli operatori dello sportello universitario? Sul piatto della bilancia puoi mettere tutto, ma non la vita e l’integrità psico-fisica delle persone. I limiti dettati dalla coscienza devono diventare bussola per l’azione professionale.

Non è facile, in conclusione, fare un consuntivo o esprimere una valutazione definitiva intorno al servizio reso in una prigione da una clinica legale. Essa risponde a un bisogno complesso e articolato. Deve qualificarsi come un servizio flessibile, profondo, motivato, giuridicamente colto, eticamente solido. Nonostante tutto ciò, potrebbe comunque avere un tasso di efficacia ridotto, con frustrazione crescente di chi opera in istituto. È inevitabile che ciò possa accadere: il carcere è onnivoro, è più forte. Il servizio legale di un’università deve incunearsi negli embrioni di tutela lasciati vuoti dall’istituzione, deve allargarli sapendo che risolvere un singolo caso (il diritto all’identità anagrafica, alla salute, agli affetti di un detenuto) non è poca cosa. Tutti siamo uno.

[1]Massimo Pavarini, Governare la penalità. Struttura sociale, processi decisionali e discorsi pubblici sulla pena, Bononia University Press, Bologna, 2014.

[2] Si deve a Duccio Demetrio la teorizzazione del metodo e del pensiero auto-biografico. Vds. D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996.

[3] S. Migliori, Carcere, esclusione sociale, diritto alla formazione, Carocci, Roma, 2007.

[4] Per ciò che riguarda tutte le innovazioni introdotte con la recente riforma dell’ordinamento penitenziario (decreti legislativi nn. 121, 123 e 124 del 2 ottobre 2018, entrati in vigore il successivo 10 novembre), vds. P. Gonnella (a cura di), La riforma dell’ordinamento penitenziario, Giappichelli, Torino, 2019.

[5] Vds. A. Maestroni, Accesso alla giustizia, solidarietà e sussidiarietà nelle cliniche legali – Cliniche legali, vol. I, Giappichelli, Torino, 2018.

[6] Contraddizione, ma anche utopia, perfettamente intuita e spiegata da Altiero Spinelli in P. Gonnella e D. Ippolito (a cura di), Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degli antifascisti, Edizioni dell’Asino, Roma, 2019.

[7] Vds. U. Veronesi e M. Pappagallo, Ascoltare è la prima cura, Sperling & Kupfer, Segrate (Mi), 2016.

[8] H. Hesse, Siddharta, Adelphi, Milano, 1995, pp.144 ss.

[9] Molte delle attività promosse dall’Università Roma Tre che riguardano la questione penitenziaria sono nate per iniziativa di Marco Ruotolo, ordinario di Diritto costituzionale nonché direttore del Master in «Diritto penitenziario e Costituzione» presso lo stesso Ateneo.