Magistratura democratica

Populismo, democrazia e limiti del potere politico

di Pasquale Serra
Il populismo, quale possibile risposta alla crisi della democrazia moderna, va collocato con riferimento all’Italia e all’Europa dentro la categoria di sostituti funzionali del fascismo, perché, pur avendo differenze significative con il tipo ideale classico, ha in comune con esso la passivizzazione politica della società. Una risposta positiva e significativa alla crisi della democrazia moderna può invece venire dalla declinazione inclusiva di populismo che la riflessione argentina propone, benché anche questa forma più avanzata di populismo lascia inevaso, come tutti i populismi, il problema decisivo dei limiti del potere politico. Di qui la necessità di una riflessione nuova sulla democrazia, perché quello che con molta approssimazione definiamo populismo è un’anomalia che si forma all’interno della democrazia e che riguarda noi tutti democratici.

1. Le radici del populismo

Quello che con molta approssimazione definiamo populismo, se davvero, come spesso ripetiamo, rappresenta una anomalia, si tratta di una anomalia molto particolare, che non riguarda solo gli altri, i populisti, appunto, perché è una anomalia che si forma all’interno della democrazia, e riguarda direttamente noi democratici, nella nostra più diretta, e immediata, individualità[1]. Il populismo, infatti, è il risultato delle difficoltà della democrazia liberale di affrontare il problema centrale della nostra epoca, l’insicurezza (non solo economica) degli individui, una difficoltà che lascia una eredità di delusione e di fallimento, e che trascina la società verso una disperata ricerca di nuova rappresentanza o di nuova mobilitazione, per entrare al più presto,in un orizzonte diverso da questo. Ecco perché il nostro problema principale non deve essere quello di tracciare una linea di demarcazione netta tra noi e il populismo, ma, piuttosto, quello di riconoscere e di comprendere questo fenomeno, entrando, in qualche modo, in relazione con esso, senza che questo debba voler dire giustificarlo sul piano storico-politico. Se, invece, si continua a dividere il mondo in bene e male, del male non sarà possibile neanche ridurne l’impatto, perché l’unico modo per attutire il male è, quello di vincolarlo, e lo si può vincolare solo se si riescono «ad esplorare nuove forme democratiche che risolvano o diano una risposta alle attuali contraddizioni strutturali»[2]. Il populismo, infatti, affonda sempre le sue radici in una insufficienza, in qualcosa che manca, che gli uomini percepiscono e vivono sempre a livello di esperienza personale, e il suo ripudio implica sempre che si conosca il perché e il dove dell’attrattiva che esso esercita, e noi dobbiamo capire il valore del populismo, o siamo condannati a non capire la storia, e a collocarci fuori e lontano da essa. Si tratta di un tema, per noi, molto difficile da affrontare, tanto difficile che facciamo fatica finanche a nominarlo, e quando lo nominiamo lo facciamo usando, in maniera molto imprecisa e intercambiabile, categorie come conservatorismo, destra, fascismo, autoritarismo, neo-populismo e, appunto, populismo. Perché questa difficoltà? Da dove essa si origina? Io credo che noi facciamo difficoltà ad analizzare, e a nominare, questo fenomeno (e tutta la costellazione di fenomeni che hanno a che fare con l’autoritarismo moderno[3]) innanzitutto perché non li prendiamo sul serio, e non riconosciamo ad essi nessuna dignità, nessuna autonomia, li consideriamo come fenomeni privi di cultura, residui del passato, e dunque fenomeni occasionali, una sorta di “parentesi”, per riprendere il noto giudizio di matrice crociana sul fascismo, il cui obiettivo fu sostanzialmente quello, come scrisse Del Noce, in un saggio del 1960, anche con riferimento all’azionismo, di «difendere l’innocenza rispetto al fascismo e al nazismo dell’alta cultura laica». Una volta, continua Del Noce, «che si astragga dalla componente culturale, fascismo e nazismo diventano pure crisi morali; e se l’indagine viene messa su questa via, non c’è dubbio che l’interpretazione parentetica sembra fragile, perché ridurre il fascismo all’attività di una semplice banda di avventurieri, senza radici nel passato, non è davvero una spiegazione sufficiente». Ed è qui, nell’esclusione dell’indagine sul momento culturale che deve essere cercata la ragione del poco cammino che la riflessione su questi temi ha percorso[4]. Da qui, credo, anche, l’approssimazione con la quale, ancora oggi, nominiamo questo fenomeno, un fenomeno che, soprattutto a sinistra, non è mai stato affrontato, a causa anche della sua eterna cultura progressista, che gli ha inibito di entrare in una relazione feconda con il problema dell’autorità, come se davvero il discorso sulla libertà potesse essere separato da quello dell’autorità. Si tratta di una filosofia che soprattutto a partire dagli anni Sessanta ha pensato che alle origini di tutti i nostri malori vi fosse l’autorità che ci contiene, mentre in realtà è vero esattamente il contrario, nel senso che è nella crisi d’autorità, piuttosto che nell’autorità stessa, l’origine delle nostre difficoltà e della crisi, la quale si potrebbe dire, riecheggiando Vico e Capograssi è sempre crisi d’autorità. Insomma, di tutta questa costellazione di fenomeni, e in particolare del fenomeno del populismo, si potrebbe dire, generalizzando ciò che Benjamin nelle Tesi sulla filosofia della storia diceva a proposito del fascismo, e cioè che la sua fortuna consiste, «non da ultimo, nel fatto che gli oppositori lo affrontano in nome del progresso, come se questo fosse una norma della storia», e poi si stupiscono del fatto che esso è ancora tra di noi, ma, continua Benjamin, lo stupore «non sta all’inizio di alcuna conoscenza, se non di questa: che l’idea di storia da cui deriva non è sostenibile»[5]. E l’idea di storia che non sta più in piedi è l’idea progressista, ovvero la rottura di ogni relazione tra dialettica e tragedia, tra dialettica e crisi, il che spiega perché la sinistra non riesce mai ad entrare in relazione feconda con questo fenomeno, e con la crisi, con le esistenze della crisi, e proprio nel momento nel quale queste esistenze hanno più bisogno di essa. Ecco perché è difficile andare a fondo su questo tema, perché al fondo di esso vi è la riemersione di un disegno potente di esistenza politica (lo spuntare di una esistenza che non ha più il suo posto nel mondo, perché ai suoi occhi, che possono essere anche occhi ingiusti o prepotenti, dal mondo non ricava più il suo senso), che non si conosce più tramite universali, ma solo entrando in questa tragedia, e standoci dentro. Il tema del populismo non si può separare da questa nuova situazione dell’esistenza, anche se questa domanda esistenziale, questa domanda di nuova esistenza, non si può ridurre al populismo stesso[6].

2. L’autoritarismo moderno quale risposta alle nuove contraddizioni sociali

Il fatto è che, dentro questa impalcatura generale, storico-esistenziale, dentro la quale noi tutti ci troviamo, nel campo di una esistenza che, in democrazia, non sa più molto bene dove andare, e di un mondo che incatena questa esistenza a questo destino, alcuni settori, alcune persone, sono più dislocati e spostati di altri, e più di altri rischiano di essere sommersi, e cercano le vie, quelle che intravedono, quelle che ci sono, per tornare a vivere. E occorre decifrare la composizione sociale dei sommersi (chi è dislocato, e a che gradazioni lo è) se davvero vogliamo comprendere dove va, o vuole andare, o dove semplicemente è trasportato questo nuovo dato esistenziale. Per affrontare il tema del populismo bisogna innanzitutto individuare un denominatore comune dentro il quale collocarlo, e il denominatore comune è l’autoritarismo moderno, le varie forme e manifestazioni di esso, tra cui, appunto, il populismo, il quale, a sua volta, si manifesta in diverse forme, tra di loro anche contrapposte, inclusive o esclusive, e occorre stabilire volta per volta la specificità della forma concreta che si ha concretamente di fronte, e che si vuole analizzare, per meglio attrezzarsi, dal punto di vista democratico, a concretamente fronteggiarla[7]. L’ipotesi generale è che, lo dice molto bene Germani, «la tensione strutturale implicita nella società moderna tra la crescente secolarizzazione da un lato, e la necessità di mantenere un nucleo centrale prescrittivo minimo sufficiente per l’integrazione dall’altro, costituisce un fattore generale causale di crisi catastrofiche che […] porta a soluzioni che minano la democrazia» e, cioè, a soluzioni autoritarie, le quali «sono possibili, e, in certe condizioni probabili, in una qualsiasi delle crisi generate dalle tensioni strutturali implicite nella società moderna, ma la cui forma specifica dipenderà non solo dalle cause profonde sopra menzionate, ma anche da quei fattori di portata media e breve»[8]. Infatti, secondo Germani, esistono diverse soluzioni autoritarie alla crisi della democrazia, diverse forme di autoritarismo, nel senso che la ragion d’essere di fondo dell’autoritarismo, i suoi fini di base, per così dire, può assumere diverse forme politiche. Insomma, l’autoritarismo, per Germani, si può manifestare a differenti gradazioni e direzioni, e ovviamente queste differenti gradazioni e direzioni con il quale esso concretamente si può manifestare «influiscono fortemente sulla forma che assumerà il regime politico ed il grado e la natura dell’autoritarismo»[9]. Tutto dipende dalla forma e dalla natura della crisi (in un certo senso la forma dell’autoritarismo dipende o discende dalla forma della crisi), la quale, a sua volta è «il risultato della confluenza di una gran quantità di fattori», tra cui quelli «che hanno le loro origini in special modo nei processi di marginalizzazione e spiazzamento di categorie e gruppi nella fase di modernizzazione e in società modernizzate», nel senso che «la marginalizzazione non è un tratto rinvenibile solo nei Paesi in via di sviluppo», ma anche in tutte le società industriali avanzate[10]. Lo stesso fascismo classico, nota Germani, «rappresenta un esempio tipico degli effetti della marginalizzazione delle classi medie»[11].Occorre, dunque,sempre distinguere tra la ragion d’essere dell’autoritarismo (che metaforizza sempre il tentativo della società prescrittiva di ritornare ad essere il tipo dominante di società) e le sue possibili forme politiche. Il rischio del mancato riconoscimento della suddetta distinzione è quello di confondere nella stessa categoria gradazioni differenti dello stesso fenomeno, ma anche sistemi socio-economici assai differenti. Perché l’autoritarismo moderno è una delle possibili risposte ad alcune contraddizioni insite nella società moderna e della democrazia moderna, e occorre distinguere tra le varie forme di autoritarismo se vogliamo realmente capire da dove vengono volta per volta gli specifici pericoli e su come realisticamente fronteggiarli. E tra le condizioni che ci aiutano ad operare una distinzione tra le varie forme di autoritarismo (e, innanzitutto, come vedremo, tra populismo e fascismo[12], e all’interno dei populismi, tra populismi inclusivi e populismi esclusivi) vi è, secondo Germani, il tipo (primario o secondario) di mobilitazione e la classe da cui vengono tratte le masse mobilitate[13]. Occorre sempre distinguere tra queste due forme di mobilitazione, perché la natura dei movimenti politici che esse suscitano acquistano un carattere diverso, se non opposto. Perché è chiaro che una forma di mobilitazione (primaria) che ha come obiettivo quello di entrare in una società dalla quale si è stati da sempre esclusi e un tipo di mobilitazione (secondaria) che si struttura, invece, per cercare disperatamente di non uscire da una società nella quale si è già da sempre entrati, è fatta di soggetti diversi (che provengono da classi sociali diverse), e di modi diversi di vivere e di percepire la marginalità, e produce forme molto diverse, se non opposte, di autoritarismo. Quello che muta, e questo mi sembra l’aspetto decisivo, è il modo di percepire e di vivere la marginalità, perché nei due tipi di mobilitazione, la marginalità assume aspetti assai diversi, se non opposti, nel senso che mentre nel caso della mobilitazione primaria i gruppi mobilitati sono gruppi ancora non partecipanti, e la loro marginalità precede l’inserimento di essi nella struttura della società, la mobilitazione secondaria si attua, invece, su gruppi già partecipanti per molti aspetti, e tuttavia spostati o resi marginali da una serie di fattori, e dove la marginalità segue la loro entrata nella struttura della società[14]. Se non teniamo a mente questa distinzione, il rischio che corriamo è non solo quello di confondere nella stessa categoria «sistemi socio-economici assai differenti, ad esempio sistemi il cui fine è la smobilitazione delle classi subordinate con sistemi che esprimono la mobilitazione primaria di queste classi»[15] (ovvero, fascismo e populismo), ma anche quello di chiamare populismo (il quale «ha sempre un giudizio positivo sul popolo, ed ha sempre come referente principale le classi popolari») qualcosa, come il cosiddetto neo-populismo odierno, che populismo non è, nel senso che esso, rivendicando «politiche non d’inclusione, bensì di esclusione e di conferma delle sicurezze – per quanto modeste – acquisite in passato contro il rischio di perderle»[16], va più correttamente collocato dentro la categoria di sostituti funzionali del fascismo, a cui Germani dedica parte del capitolo terzo della versione inglese e poi castellana del volume sull’autoritarismo[17], perché pur avendo differenze significative con il tipo ideale classico, hanno in comune con esso «one of its basic aims, namely, the forced demobilization of the recently mobilizad lower classes»[18].

3. Una chiave interpretativa: i sostituti funzionali del fascismo

Se poi passiamo al caso italiano le cose si complicano ulteriormente, perché occorre innanzitutto stabilire se la categoria di populismo sia di qualche utilità per comprendere la feroce critica della democrazia che l’Italia (e l’Europa) da qualche decennio hanno dentro di sé, o se, invece, sia più pertinente la categoria di sostituti funzionali del fascismo, elaborata da Germani, più pertinente anche rispetto ad altre successive chiavi interpretative che pure si muovono in qualche modo a ridosso della sua elaborazione, o sulla scia di essa, come quella di Cas Mudde, che contrappone (all’interno di una originale teoria del populismo)il populismo europeo al populismo latinoamericano[19], o di Margaret Canovan, la quale sostiene che «per una reale conoscenza del fenomeno è necessario stabilire una tipologia che faccia una netta distinzione tra due grandi famiglie di populismi, internamente molto differenziate: da un lato, il populismo come movimento sociale; dall’altro, il populismo come stile politico»[20], o, infine, di Laclau e Mouffe, i quali contrappongono un populismo di sinistra a un populismo di destra[21], perché tutte queste interpretazioni, pur rilevantissime, continuano ancora a far operare le loro coppie oppositive all’interno della stessa categoria di populismo, come se fossero semplici varianti di esso, a conferma di quanto lamentava la stessa Canovan sulla debole unità di questo concetto[22].In realtà, per quanto riguarda in modo particolare l’Italia, la categoria di populismo «è un’etichetta malposta perché tutt’altra cosa erano i populismi classici, a cominciare dalla loro idea di popolo. Quello del populismo russo, della tradizione americana e dei populismi fioriti in America latina fin dagli anni Venti e nei Paesi ex coloniali dopo gli anni cinquanta era il popolo delle classi popolari. Non saranno sempre le medesime classi: in Russia erano i contadini, in America gli agricoltori e le fasce più deboli delle classi medie del Midwest e del Sud, nei populismi sudamericani e terzamondisti, come il peronismo o il nasserismo, erano le masse povere, contadine o urbane che fossero. Tuttavia, sempre di classi popolari si trattava, per le quali i populisti rivendicavano – o a cui offrivano quand’erano al potere – concrete, ancorché approssimative, misure redistributive. Tutt’altra cosa è il popolo degli pseudo-populisti odierni, in nome del quale essi rivendicano politiche non d’inclusione, bensì di esclusione»[23], ovvero una smobilitazione forzata delle classi subalterne e più povere, che rappresenta il tratto saliente dell’odierna situazione italiana, almeno a partire dall’inizio degli anni Novanta, rispetto alla quale la categoria di sostituti funzionali del fascismo possiede una maggiore pregnanza analitica. Infatti, in Italia, dopo la fine dei grandi partiti di massa, c’è stato poco populismo, e c’è stato poco populismo, perché a partire da Berlusconi è stata sviluppata una critica delle élite o del passato, senza però nessun riferimento al popolo come unità, e come unità positiva da difendere (il riferimento è sempre al singolo individuo, e all’orizzonte delle sue utilità), senza cioè quella “costruzione del popolo” che i populisti mettono al centro di tutto il loro ragionamento, e della loro politica. Quanto al berlusconismo, per esempio, possiamo facilmente riscontrare che si è trattato di un tipo di mobilitazione secondaria (nella quale la classe da cui furono tratte le masse mobilitate è stata sostanzialmente la classe media[24]), una forma determinata di contro mobilitazione, che si oppose alla precedente mobilitazione economico-sociale, e al movimento collettivo che ne seguì, per difendere le classi e gli interessi che erano stati colpiti o, comunque, minacciati, nel ciclo precedente di mobilitazione[25], alle quale si associarono ampi settori (disillusi) del ciclo precedente (rispetto ai quali il concetto di populismo è in grado forse di interpretare in modo adeguato la loro vicenda e i loro spostamenti) che incominciarono a percepire la crisi della mobilitazione economico-sociale come l’inizio di una nuova esclusione, e quindi di una nuova marginalità, i quali, proprio per questo, si resero di nuovo disponibili[26]. Dunque: chi ha paura di scendere, ed è terrorizzato dalla marginalità; chi percepisce disperatamente che, forse, non riuscirà mai più a salire[27], questo è stato il blocco sociale del berlusconismo, un blocco sociale leggibile non con la categoria di populismo, ma con quella, molto più congrua, di sostituti funzionali del fascismo. Berlusconi – ha scritto Ciliberto – «non si è mai mosso in una prospettiva comunitaria e organicistica, cioè populistica […]; ma, anzi, ha accentuato – fino a stravolgerli in senso dispotico – il carattere e la dimensione strutturalmente individualistica della “democrazia dei moderni”. Con il suo messaggio ha proposto, e fatto diventare modello di vita e senso comune, una sorta di bellum omnium contra omnes, per riprendere la distinzione di Hobbes, ha sostenuto, e anche realizzato, una regressione dalla “società politica” alla “società naturale” […], dalla legge al primato degli spiriti animali. Nel suo messaggio Berlusconi non si è mai rivolto né alla massa, né al popolo inteso come un totum ma sempre e soltanto agli individui, ai singoli individui […] chiusi nei loro interessi»[28].Il problema è chead un certo punto questo blocco si sfalda, perché il classismo, che caratterizza la politica di Berlusconi, aveva bisogno per inverarsi di un esplicito apparato autoritario, che Berlusconi, in democrazia, non ha, o non si è voluto dare, e di un rapporto più stretto con l’ideologia populista che Berlusconi non ha mai istituito o non è mai riuscito a istituire. E in assenza di questo sbocco il sostituto funzionale del fascismo rimase come sospeso nell’aria, e passò il testimone ad altri soggetti politici.

A cominciare da Grillo, intorno alla cui figura si sono raccolti negli ultimi quindici anni settori rilevanti del nuovo ceto medio (il nuovo precariato giovanile e intellettuale) bloccato nelle sue aspirazioni, mai incluso nella politica di classe berlusconiana, e ora disponibile ad una nuova mobilitazione politica primaria, per entrare dentro una società che fino ad ora gli ha sempre impedito di entrare e di partecipare; e forze emerse dentro la crisi della mobilitazione secondaria che aveva strutturato nel profondo l’epoca berlusconiana, per aprire una rivolta generalizzata contro la politica e contro la mediazione, intorno alla quale saldare – con effetti non controllabili – le classi medie tradizionali e le classi medie rivoluzionarie, la crisi della mobilitazione secondaria con l’affermarsi di una nuova mobilitazione politica primaria, una miscela magmatica e esplosiva per mettere realmente in questione la forma democratica, difronte alla quale, non a caso, il tentativo di Berlusconi è cozzato, ed è andato in frantumi. Infatti, sebbene si è trattato, almeno prevalentemente o almeno all’inizio, di una mobilitazione politica primaria, questo tipo di mobilitazione oggi assomiglia antropologicamente sempre di più alla mobilitazione politica secondaria, in quanto impregnata pure essa, dei valori di questa società, e dove dominante è il rancore, il «muoia Sansone con tutti i filistei», e quindi la irrazionalità, sentimenti che, invece, sono assenti, o molto attenuati, nella mobilitazione politica primaria, propria dei populismi classici. E tuttavia, occorre dire che la situazione, oggi, è molto più complessa di questo schema e, per certi versi, più esplosiva: in primo luogo, perché queste due forme diverse di dislocazione/mobilitazione si manifestano contemporaneamente o, comunque, sono in campo entrambe; e poi perché le due mobilitazioni sul piano antropologico si assomigliano sempre di più e, proprio per questo, si intersecano e, per molti aspetti, si sovrappongono. Cruciale nel grillismo non è tanto la tematica della democrazia diretta e simili, come stiamo assistendo ad abundantiam in questi ultimi mesi, ma una sorta di desiderio di azzeramento della storia, anche perché, come ci ricorda efficacemente l’Eichman di Hannah Arendt, in alcuni momenti l’alternativa alla distruzione è una vita senza speranza, una specie di morte, e solo la prospettiva dell’azzeramento della storia, offerta ad Eichmann dal nazismo, poteva permettere ad un fallito come lui, «un fallito sia agli occhi del suo ceto e della sua famiglia che agli occhi propri» di poter «ricominciare da zero a far carriera»[29]. Questo blocco oggi sta per implodere, perché è mancata una élite adeguata a questo nuovo blocco, così come una adeguata ideologia[30], e, nel suo implodere, sta trasportando il suo consenso verso la Lega di Salvini, incarnazione perfetta della categoria di sostituti funzionali del fascismo, la quale ha sostanzialmente uno strumentario più adeguato e più coerente rispetto a tale blocco: classismo, introduzione di elementi di autoritarismo, mobilitazione psicologica, per riprendere la definizione del fascismo come rivoluzione psicologica, appunto,proposta da Sternhell, per venire incontro alla necessità che la nostra società ha di continuare a mobilitarsi, seppure con altri mezzi, e per portare così a compimento la lunga transizione dalla mobilitazione economica e sociale alla mobilitazione psicologica[31], che ha caratterizzato la vicenda italiana a partire dagli anni Sessanta. È difficile stabilire con precisione verso dove va o vuole andare Salvini, o verso dove realisticamente potrà andare, ma quel che è certo, così a me sembra, è che la nostra società sta scivolando impercettibilmente in una sorta di pessimismo tragico, in quel senso della morte che incombe che Renzo De Felice individuava a metà degli anni Settanta come la caratteristica fondamentale della destra radicale, e che oggi esprime in forma parossistica le aspirazioni profonde della nostra società: «questa gente, scriveva De Felice, lotta per una affermazione quasi demoniaca della propria personalità, del proprio io, contro tutto il resto; un’affermazione appunto di tragico pessimismo, di un superomismo che sa di morire, ma dice “voglio farvi vedere se ho il coraggio di battermi contro di voi; anche se vi fermo per un decennio solo, per un anno solo, è una affermazione della mia personalità contro di voi. Ma so molto bene che sono morto, ormai”. Questo distingue nettamente il fascismo storico dal neonazismo di oggi. E non solo marca l’enorme differenza, ma determina la drammatica pericolosità di questa gente. Qui, ormai, non siamo più su nessun terreno, altro che su quello del fanatismo fine a se stesso, del “muoia Sansone con tutti i filistei”»[32].

4. Populismo inclusivo e democrazia: una riflessione dall’Argentina

Se le cose stanno in questi termini, se lo spettro che si aggira per l’Italia e per l’Europa non è tanto il populismo, quanto piuttosto il moltiplicarsi di sostituti funzionali del fascismo, forse dal nazional-populismo latinoamericano, e soprattutto argentino, potremmo imparare qualcosa di significativo ai fini della critica e della costruzione di una alternativa nazionale e popolare ad essi, sebbene anche questa forma di populismo incontra, come vedremo più avanti, nel diritto il suo limite invalicabile. E tuttavia, il problema non è qui quello di riproporre il populismo argentino come un modello positivo per l’Europa (il cosiddetto populismo di sinistra, o progressivo, che pure significa qualcosa), ma quello di spingere l’Europa e il suo pensiero politico a confrontarsi con esso, perché dietro la crisi della rappresentanza democratica in Europa, quella scissione drammatica che qui da noi si è venuta a configurare tra sistema della rappresentanza e masse eterogenee, sempre più centrali, e sempre meno omogeneizzabili e integrabili nei quadri delle comunità nazionali, vi è il fatto storico, enorme, della eterogeneità sociale, su cui la cultura politica argentina, da Germani a Laclau, appunto, per ragioni legate alla specificità della sua storia (e alla irriducibile eterogeneità sociale che costituisce nel profondo questa storia), ha riflettuto a lungo, e che oggi riguarda tutti, e in modo speciale, il pensiero europeo, perché il nodo teorico e politico in gioco, in questa discussione, è relativo alla possibilità o meno di definire una unità politica nel mondo contemporaneo, e in quale forma definirla, ovvero se e come questa società radicalmente eterogenea è capace di essere soggetto di un’azione politica, di agire politicamente, e dunque di trasformarsi in una unità politica. Perché non può esistere nessuna dimensione orizzontale di autonomia senza unità politica, senza mettere in campo la questione del politico. Su questi aspetti così problematici di una autonomia senza unità politica, elaborata e sostenuta in particolare da Negri, hanno scritto cose, dal nostro punto di vista, molto interessanti Macherey, Laclau, e Chantall Mouffe. Esemplare, a riguardo, è la polemica tra Macherey e Negri su questo tema, nella quale Macherey pone il problema essenziale e invalicabile: la molteplicità orizzontale (l’eterogeneità della moltitudine) presuppone, per poter continuare ad esistere, una qualche forma di unità verticale[33]. Con ancora maggiore chiarezza il problema è stato posto da Ernesto Laclau: la «dimensión horizontal de “autonomia” […]», scrive Laclau, «corresponde exactamente a lo que en nuestros trabajos hemos denominado “lógicas de equivalencia”. Pero nuestra segunda tesis es que la dimensión horizontal de la autonomía sería incapaz, si es librada a sí misma, de lograr un cambio histórico de largo plazo, a menos que sea complementada por la dimensión vertical de la “hegemonía, es decir, por una radical transformación del Estado. La autonomía, librada a sí misma, conduce, más tarde o más temprano, al agotamiento y la dispersión de los movimientos de protesta. Pero, continua Laclau, la hegemonía, si no es acompañada de una acción de masas al nivel de la sociedad civil, conduce a una burocratización y a una fácil colonización por parte del poder corporativo de las fuerzas del statu quo. Avanzar paralelamente – conclude Laclau – en las direcciones de la autonomía y de la hegemonía es el verdarero desafío para aquellos que luchan por un futuro democrático que dé un real significado al – con frecuencia advocado – “socialismo del siglo XXI”»[34]. E su questo punto, come ha sostenuto ancora lo stesso Laclau, le democrazie latinoamericane, seppure oggi in crisi, «pueden dar un ejemplo a las democracias europeas», soprattutto riguardo a «la naturaleza de los nuevos tipos de movilización y la forma en que estos pueden integrarse institucionalmente»[35].Lo stesso Di Tella, protagonista indiscusso del dibattito latino americano dell’ultimo sessantennio, negli ultimi suoi scritti, aveva sostenuto, seppure da una prospettiva molto diversa da quella di Laclau, che mentre il peronismo si stava trasformando in una variante latinoamericana della socialdemocrazia europea, e stava approdando compiutamente alla democrazia, l’Europa, invece, stava passando dalla socialdemocrazia al populismo, e alla feroce critica della democrazia che questo populismo ha incorporato dentro di sé, un populismo che ha come principali nemici, scrive Di Tella, «non le classi agiate, o la borghesia, grande, media o piccola», ma soprattutto il popolo e le sue organizzazioni, politiche e culturali. E che, quindi, come mai prima d’ora, dall’America Latina poteva venire qualche indicazione per l’Europa di oggi, perché in America Latina, conclude Di Tella, «i “populisti”, o meglio i “nazional populisti” trovano appoggio, fondamentalmente, nelle classi popolari», ed è ancora da lì che l’Europa di oggi deve partire, se vuole davvero, ancora una volta, tornare a guardare davanti a sé[36]. Insomma, una volta definito lo specifico problema che la democrazia ha oggi concretamente di fronte, e che consiste sostanzialmente nella difficoltà di rappresentare l’eterogeneità sociale, enorme e devastante, che sta squadernata davanti ai nostri occhi, la cosa che dobbiamo subito comprendere è come fronteggiare tutto questo, con quale cultura. E qui il dibattito argentino, come ho cercare di ricostruire in un libro recente[37], è di straordinaria importanza, perché è un dibattito che ha provato a sistematizzare i rapporti tra eterogeneità sociale e unità politica, offrendo una rappresentazione unitaria, e politica, della eterogeneità sociale, dal quale può venire un contributo importante alla cultura politica europea, perché tali teorie, da Germani a Laclau, hanno non solo riconosciuto l’unità populista come un problema della democrazia (Germani[38]), ovvero hanno riconosciuto il fatto che se c’è unità populista è perché la democrazia non è riuscita ad intrattenere nessuna relazione produttiva, e feconda, con la eterogeneità sociale, ma l’hanno considerata anche come una componente essenziale della stessa (Laclau[39]), perché, sostiene Laclau, quando ci riferiamo a volontà non pienamente formate, e che vanno formate, la rappresentanza deve introiettare al proprio interno la logica della rappresentazione (deve considerare, cioè, la rappresentazione come una funzione della rappresentanza), la quale diventa così lo strumento per la omogeneizzazione di una massa eterogenea, la cui costituzione richiede la rappresentazione, e la rappresentazione è in fondo la premessa di questa costituzione[40]. L’unità populista, in questa prospettiva, non solo non è contrapposta alla democrazia, ma, in un certo senso, ne è anche la premessa fondamentale e costitutiva. Insomma, Laclau, così a me sembra, radicalizza sostanzialmente la riflessione di Germani, e, radicalizzandola, la trascina nel cuore delle nostre società. Il punto è chementre, per Germani, il populismo è, come abbiamo visto, un problema della democrazia, per Laclau, invece, il populismo è la stessa democrazia, una forma radicale di democrazia. Si tratta di un mutamento significativo di prospettiva, che va letto in parallelo con il mutamento di forma della eterogeneità sociale, nel senso che oggi, rispetto alla realtà analizzata da Germani, le masse eterogenee non sono solo un settore, pur rilevante, della società, ma coprono e occupano l’intero spazio della società. Ecco perché, per Laclau, il populismo non è tanto, o non è più, un problema della democrazia, ma coincide con la stessa democrazia, perché in democrazia (in una democrazia senza ontologia, che è quella che coincide, secondo Laclau, con il populismo) si parla a tutti, e si ascolta tutti, e in certi casi, con certi settori, quelli eterogenei, appunto (soprattutto quando questi casi, e questi settori, si espandono, fino al punto di coprire e di occupare l’intero spazio della società), si può parlare solo utilizzando la logica della rappresentazione, perché solo la rappresentazione è capace di omogeneizzare una massa eterogenea, altrimenti non omogeneizzabile. Da Germani a Laclau, questo mi sembra il percorso argentino su questo tema, anche se qui Laclau introduce una novità rispetto a Germani, e la novità è che Laclau pone sì con forza il problema dell’unità politica (o dell’integrazione, per usare il linguaggio di Germani), ma pone anche, e contemporaneamente, il problema o la necessità di tenere sempre aperta questa unità. Da qui il tema della trascendenza[41],un tema completamente assente in Germani, e il significante vuoto, che riprende da Lacan, così centrale nella sua teoria, non rappresenta nient’altro che questo[42], che mi sembra un reale passo in avanti rispetto al metodo sostanzialmente teologico-politico di Germani, perché il teologico-politico è necessario, ma insufficiente, questo è il punto veramente fondamentale della riflessione di Laclau, il reale punto di svolta del suo pensiero, il punto che lo separa non solo da Germani, ma anche da tutta la tradizione populista argentina. Ecco, in conclusione, l’importanza della svolta di Laclau rispetto alla prospettiva teologico-politica di Germani, perché è una svolta che conduce Laclau a pensare il problema dell’unità politica nel tempo eterogeneo in connessione al problema di come tenere sempre aperta questa unità, al fine di ridurre al minimo tutte quelle tensioni che si possono creare tra «el estilo populista y la protección sustantiva de los derechos de las personas»[43], le quali non stanno tutte e solo dentro la politica, ma in parte preesistono ad essa.

5. Alla ricerca dei limiti del potere

Trascendenza e rappresentazione, questo è il nesso veramente importante della teoria del populismo di Laclau, nonché della sua intera prospettiva di ricerca. Ed è interessante notare come proprio Laclau, la punta più avanzata, e più interessante, del populismo inclusivo a livello mondiale, che pure con la nozione di trascendenza si approssima alle soglie della teoria dei limiti e del controllo del potere, non riesce tuttavia mai ad oltrepassare davvero questa soglia, e a pensare insieme Nomos, norma e trascendenza[44], configurando così un rapporto fecondo tra populismo e istituzionalismo, tra liberalismo e democrazia radicale[45], perché per superare questa soglia è necessario sì dare risposta al problema (schmittiano) dell’ordine del mondo, ma è necessario anche sovrapporre ad esso, e introdurre in esso, qualcosa di altro, che dal di dentro o dall’alto lo metta permanentemente in discussione[46]. “Dal di dentro” e “dall’alto”, contemporaneamente, questo è il punto fondamentale, “dal di dentro” (dove solamente la messa al centro del tema dell’individuo, della sua libertà originaria, della pluralità, del limite giuridico e morale del potere, distrugge l’idea di un potere illimitato nel mondo, come dirà in più occasioni Sturzo, e questo vale sia per lo Stato assoluto e panteista, che considera la società e la vita dei singoli come una appendice di esso, sia per una certa idea di sovranità popolare, che considera il popolo come «fonte assoluta di autorità e di sovranità»[47]) e “dall’alto” (dove solamente il tema della trascendenza fonda questa apertura dal di dentro, perché solo il pensiero di un oltre impedisce la assolutizzazione di qualunque forma politica, e rende vigili rispetto a progetti politici che si pretendono portatori di valori salvifici, che si presentano come misura di ogni pratica, e di ogni linguaggio).Unità/pluralità/istituzionalismo/trascendenza/trasformazione, questo è l’insieme, come ho sostenuto in uno scritto recente[48], che costituisce una svolta, ma questo insieme va oltre tutti i populismi, e rappresenta una radicale alternativa ad essi, perché è solo approdando pienamente ad una cultura che, nei miei studi sull’Europa, ho definito antiperfettista[49], che si possono ricavare materiali fondamentali per impiantare finalmente una scienza critica della società contemporanea, capace di restituire all’intero movimento democratico una nuova e rinnovata presa sull’attualità. Il fatto è che non si costruisce un’alternativa nazionale alla forma di autoritarismo che abbiamo di fronte senza un nuovo rapporto con il popolo, in quanto «i tentativi di trovare una via di fuga in una interpretazione meramente pragmatica della democrazia sono illusori, perché il potere e la legittimità della democrazia come sistema pragmatico continuano a dipendere perlomeno in parte dai suoi elementi redentori»[50]. Infatti, è illusorio pensare di estirpare il populismo dalla democrazia, semplicemente spogliando «la democrazia di tutti i suoi aspetti redentori e di sottolinearne il lato non messianico. Questa è la democrazia senza fondamenti, la democrazia come pratica politica espandibile, la democrazia dalla quale non dobbiamo aspettarci troppo […]. Questo modo di interpretare la democrazia assomiglia al tentativo di far funzionare una Chiesa senza fede. In politica come nella religione, conclude Canovan, riprendendo ancora una volta la classificazione di Michael Oakeshott, la mancanza di fede tende a portare alla corruzione e cede terreno al revivalismo»[51]. E quindi «un qualche grado di promessa di salvezza, tipica della democrazia redentrice, è effettivamente necessario per lubrificare il macchinario della democrazia pragmatica»[52], tanto che «persino dal punto di vista della politica pragmatica, le vitali prassi della capacità di risposta e della responsabilità faticano a crescere se mancano dell’energia fornita dal lato ispirante, mobilitante e redentore della democrazia»[53]. Ma come deve essere il lubrificatore? In che cosa deve consistere l’energia fornita dal lato ispirante? Ovvero quale rapporto tra redenzione e realizzazione? Questo è il vero problema oggi della teoria democratica, perché se il lubrificatore della democrazia va rintracciato in una forma tutta immanente di redenzione[54], in «una visione redentrice, imparentata con la famiglia delle ideologie moderne che promettono la salvezza attraverso la politica»[55], la democrazia è destinata necessariamente a finire prima o poi nel populismo, e, in ogni caso, nelle sue vicinanze immediate, e in prossimità dei suoi punti nevralgici. Infatti, secondo Canovan, «le riflessioni sul populismo mettono in luce l’inevitabile ambiguità della democrazia. La tensione fra i suoi due volti è un perpetuo invito alla mobilitazione populista»[56], e noi dobbiamo riflettere seriamente sulla pretesa populista di legittimità democratica in quanto realmente il populismo fa «affidamento su uno schema di legittimazione fornito dal concetto di potere popolare, cioè, in altre parole, da una certa idea di democrazia»[57], perché «se non lo faremo, perderemo l’opportunità di trarre importanti lezioni sulla natura della democrazia»[58]. Qui, il discorso sul populismo si fa più complesso e, per certi versi, si allarga, perché è esattamente la presenza costante del populismo nelle democrazie consolidate che necessita una riflessione nuova sulla stessa democrazia, e, cioè, precisamente, sul rapporto, tra democrazia e antropologia, che è, oggi, il capitolo cruciale della teoria democratica[59]. Anche perché, nel frattempo, di fronte a noi ci sono «tutti gli ingredienti per delle esplosioni catastrofiche», perché la crisi, come sosteneva acutamente Germani in uno dei suoi ultimi scritti della fine degli anni Settanta, «ha di nuovo messo in marcia il processo di marginalizzazione di settori finora incorporati nel sistema e ha frenato la vera o immaginaria ascesa sociale continua e normalmente attesa degli anni cinquanta e sessanta […]. Da un lato frena l’incorporazione primaria, cioè un enorme settore della popolazione che rimane ancora, per molti aspetti, fuori o ai margini della società nazionale. A questa si aggiunga la possibile e ogni volta più autentica marginalizzazione di settori già incorporati, che ha posto fine alla possibilità dell’ascesa sociale, reale o fittizia», che le generazioni precedenti consideravano perfettamente normale. Insomma, «la crisi, una mescolanza di inflazione e stagnazione, sta mettendo fine a queste speranze e ha creato in cambio una situazione opposta di paura e angoscia per l’avvenire. I giovani specialmente, i gruppi meno favoriti della popolazione e i vari settori delle classi medie e degli strati superiori degli operai temono per il loro impiego e per il valore del loro salario. L’interruzione della crescita reale (necessaria per soddisfare le aspirazioni) sta creando una nuova frattura nelle società avanzate o in via di sviluppo: la parte della popolazione già incorporata nel sistema e che lotta per rimanerci (impiego, salario, domicilio, qualità della vita), e quelli che sono rimasti fuori e che avendo tutti i requisiti per esservi ammessi (educazione ed attitudini specialmente) non lo possono essere perché il sistema ha smesso di espandersi. Dato che come sopra accennato, una parte di coloro che sono già inseriti probabilmente verrà espulsa dal sistema (se non si verifica una inversione di tendenza), si creano tutti gli ingredienti per delle esplosioni catastrofiche. Ancora una volta sono gli “anelli” più deboli dei Paesi industrializzati quelli che si trovano in maggior pericolo […], e che possono mettere a dura prova non solo la propria democrazia ma anche l’equilibrio mondiale»[60].

[1] Cfr. P. Serra, Destra, oggetto misterioso, in Il cerchioquadrato, supplemento domenicale de Il Manifesto, 1993, 5 dicembre, p. 3. L’occasione che mi è offerta, in questo saggio, di rimeditare e di sintetizzare temi e problemi affrontati in precedenza varrà spero a giustificare i frequenti richiami ai miei studi.

[2]. G. Germani, Autoritarismo e democrazia nella società moderna (1979), in R. Scartezzini-L. Germani-R. Gritti (a cura di), I limiti della democrazia, Liguori, Napoli, 1985, pp. 1-40, la citazione è tratta da p. 1.

[3] Su questa tematica, che rappresenta una costante della mia ricerca, rimando ad alcuni testi scritti in epoche diverse, e che rappresentano le tappe essenziali di questo percorso: Anni di destra, in Il Sabato, 1993, 5 giugno, pp. 54-57; Id., Destra e fascismo. Impostazione del problema, in Democrazia e diritto, 1994, n.1, pp. 3-31;Id., Il problema dell’autoritarismo moderno nel pensiero politico di Gino Germani, in Rivista di Politica, 2016, n. 3, pp. 29-64; Id., Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europea, Roma, Castelvecchi, 2018.

[4] A. Del Noce, Idee per l’interpretazione del fascismo (1960), in Id., Il Suicidio della rivoluzione, Milano, Rusconi, 1978, p. 346.

[5] W. Benjamin, Sul concetto di storia, in Id., Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p. 33.

[6] Su questa tematica rimando a P. Serra, I populismi e l’essenza della politica, in l’Unità, 2013, 17 marzo, p. 18.

[7] E qui si incontra la questione cruciale della teoria generale dell’autoritarismo moderno, che è forse la questione più difficile di tutta questa materia. Questo della teoria generale è, per il nostro ragionamento, un settore di studi molto importante, perché il vero problema è quello di come tenere insieme l’unità di questo fenomeno, la sua essenza, per così dire, con la estrema varietà dello stesso, e, quindi, quello di elaborare una teoria dell’autoritarismo che consideri la varietà come la sua essenza, la quale si manifesta, appunto, come varietà. Occorre sempre distinguere i materiali di base dell’autoritarismo moderno dalle gradazioni e direzioni con le quali questi materiali emergono storicamente, perché sicuramente esistono valori comuni tra tutte le forme di autoritarismo moderno, e tuttavia, sul piano storico concreto ciò che realmente conta non sono tanto i materiali di base, quanto, piuttosto, i modi, le gradazioni, le direzioni, attraverso le quali essi emergono nel processo storico concreto. Non si tratta, dunque, dello stesso e medesimo fenomeno, e il compito dello storico non è quello di indagare la perennità e la continuità dei materiali di base (della problematica comune), ma la novità (storicità) delle gradazioni e delle direzioni con le quali essi emergono nel processo storico concreto, perché è esattamente tramite le gradazioni e le direzioni che si rimette continuamente in questione la problematica comune, e si ridefinisce la stessa nozione di tradizione politica, lo stesso concetto di autoritarismo moderno. Il punto è che senza una teoria delle gradazioni e delle direzioni è impossibile affrontare il problema dell’autoritarismo moderno, il quale non è più spiegabile con un semplice richiamo ai materiali di base, tramite una ontologia dei materiali di base, ma solo concentrando l’attenzione sulla specificità dei singoli fenomeni autoritari per come volta a volta storicamente si presentano. Per un approfondimento di questa tematica rimando a P. Serra, La destra e l’anomalia italiana (forum con James Gregor, Dino Cofrancesco, Roger Griffin), in Ideazione, 2002, n. 2, pp. 108-120; Id., Strumenti metodologici per l’analisi della destra, in N. Genga e F. Marchianò (a cura di), Miti e realtà della Seconda Repubblica, Roma, Ediesse, 2012, pp. 51-61; Id., Democrazia e autoritarismo. Uno schema di ricerca, in G. Dessì (a cura di), Democrazia e pensiero politico, Roma, Fondazione Sturzo, 2014, pp., 127-149.

[8] G. Germani, Autoritarismo e democrazia nella società moderna, cit., pp. 13-14.

[9] G. Germani, Autoritarismo e democrazia nella società moderna, cit., p. 24.

[10] G. Germani, Autoritarismo e democrazia nella società moderna, cit., p. 24.

[11] G. Germani, Autoritarismo e democrazia nella società moderna, cit., p. 24.

[12] Tra il populismo, che è «una delle forme che può assumere entro circostanze determinate la mobilitazione politica primaria di grandi settori della popolazione fino ad allora non partecipanti alla società nazionale e moderna» e il fascismo, che è un’altra delle forme che può assumere l’autoritarismo moderno, «definito come fenomeno specifico della società moderna, cioè radicato in alcune contraddizioni insite nella sua struttura “tipica”» (G. Germani, Autoritarismo, fascismo e classi sociali, Il Mulino, Bologna, 1975, p. 226).

[13] La teoria della mobilitazione si applica, infatti, sia a processi che si verificano all’interno delle strutture tradizionali (mobilitazione primaria: ovvero il gruppo dislocato non è partecipante, ma resta in posizione marginale rispetto alla società moderna) sia a quelli che si verificano all’interno delle società moderne (mobilitazione secondaria: ovvero un gruppo che un tempo era partecipe di una struttura moderna, in seguito a qualche tipo di disintegrazione è incapace di partecipare nel modo che gli era precedentemente abituale). Sulla distinzione tra mobilitazione sociale primaria e mobilitazione sociale secondaria Germani, come abbiamo visto, si sofferma spesso. Essenziale per il nostro ragionamento è il paragrafo 3 (Il ruolo della mobilitazione sociale primaria e secondaria nella genesi del fascismo italiano e del peronismo argentino) del capitolo quinto (Fascismo, Nazional populismo e mobilitazione sociale) di Autoritarismo, fascismo e classi sociali, cit., pp. 227-234.

[14] Su questi temi rimando ancora una volta a G. Germani, Autoritarismo, fascismo, classi sociali, cit., in particolare i capitoli II e V.

[15] G. Germani, Autoritarismo, fascismo, classi sociali, cit., p. 53.

[16] A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, pp. 266-267.

[17] Un capitolo che è assente nell’edizione italiana del 1975. Cfr. G. Germani, Middle-Class Authoritarianism and Fascism: Europe and Latin America, in Id. , Authoritarianism, Fascism, and National populism, Transaction Publishers, New Brunswick, New Jersey, 1978, pp. 43-83; in particolare il paragrafo dal titolo Latin American middle class and the functional substitute of fascism, pp. 64-74. Interessante su questo tema, ed anche sulla questione riguardante la teoria generale dell’autoritarismo è il saggio di G. Germani, La socializzazione politica dei giovani nei regimi fascisti: Italia e Spagna, in Quaderni di Sociologia, n. 1-2, 1969, pp. 11-58, e in particolare il primo paragrafo (Fascismo: forma e sostanza. Influenze sulla socializzazione politica dei giovani, pp. 11-19). Il saggio è stato poi ripubblicato come ultimo capitolo delle varie edizioni del volume sull’autoritarismo, senza il primo paragrafo che apriva il testo originario del 1969. Per una ricostruzione dettagliata di questa categoria in Germani rimando a P. Serra, Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europea, cit., in particolare il capitolo III.

[18] G. Germani, Authoritarianism, Fascism, and National populism, cit., p. 73.

[19] Cfr. sulla teoria del populismo C. Mudde, Reflexiones sobre un concepto y so uso, in Letras Libres, aprile, 2002, pp. 16-20; Id., The Populist Zeitgeist, in Government and Opposition, n. 4, 2004, pp. 541-563;sul rapporto tra populismo europeo (Exclusionary) e populismo latinoamericano (Inclusionary) cfr. tra gli altri C. Mudde e C. Rovira Kaltwasser, Voices of the peoples: populism in Europe and Latin America compared, Kellogg Institute, Working Paper, n. 378, 2011, pp. 1-43; Id., Exclusionary vs. Inclusionary Populism: comparing contemporary Europa and Latin America, in Government and Opposition, n. 2, 2013, pp. 147-174, in particolare le Conclusioni, pp. 166-169. Su questi temi rimando anche a P. Serra, Sull’utilità e il danno della categoria di populismo, in Critica marxista, n. 6, 2011, pp. 43-49; Id., Il problema del populismo nel pensiero politico argentino da Germani a Laclau (nei suoi rapporti con la crisi della democrazia europea), in Democrazia e diritto,n. 2, 2015, pp. 185-209.

[20] M. Canovan, Il populismo come l’ombra della democrazia (1999), in Europa Europe, 1993, n. 2, p. 44. Molto schematicamente, per Canovan, mentre il populismo come movimento sociale offre una declinazione economica e sociale (classista) delle sue istanze (in quanto viene considerato fondamentale il posto reale occupato dall’individuo nel sistema di produzione o nella gerarchia sociale); il populismo come stile politico offre invece una declinazione psicologica o romantica delle sue istanze, in quanto l’unità viene considerata al di là, o a prescindere, dal posto reale che gli individui occupano nella gerarchia sociale o nel sistema di produzione. Sulle tesi della Canovan cfr B. Arditi, Il populismo come spettro della democrazia. Una risposta a Margaret Canovan (2004), in Trasgressioni, 2004, n. 38, pp. 25-36. Su questa tematica cfr. anche Z. Sternhell, La terza via fascista, in Il Mulino, 1990, n. 330, pp. 519-520 (oltre che ovviamente il classico Né destra né sinistra, Napoli, Akropolis, 1984), nel quale il fascismo viene letto come una sorta di rivoluzione psicologica.

[21] Cfr., tra i tanti interventi in tal senso, E. Laclau, En América Latina el populismo es de izquierda (intervista a cura di F. Canoni), in Revista Socialista, 2011, n. 5, pp. 17-27; Id., El kirchenerismo es la verdadera izquierda en la Argentina, in H. A. Bernardo e G. Dolce (a cura di), Bisagra K: el kirchenerismo en el contexto latinoamericano, Avellaneda, Acercándonos, 2013, pp. 154-160. Da ultimo di C. Mouffe, Per un populismo di sinistra, Bari-Roma, Laterza, 2018. Cfr. anche P. Serra, Il problema del populismo nel pensiero politico argentino da Germani a Laclau (nei suoi rapporti con la crisi della democrazia europea), cit.

[22] M. Canovan, Populism, New York-London, Harcourt Brace Jovanovich, 1981, p. 175. È come se non si riuscisse ad andare oltre la definizione di Peter Wiles che considerava il concetto come una semplice sindrome: P. Wiles, A Syndrome, not a Doctrine: Some Elementary Theses on Populism, in G. Jonescu e E. Gelner (a cura di), Populism: its Meaning and National Characterisics, London, Weidenfeld & Nicolson, 1969, pp. 166-179. Cfr. anche I. Diamanti, Populismo: una definizione indefinita per eccesso di definizioni, in Italianieuropei, 2010, n. 4, pp. 168-175, il quale ha sottolineato che, oggi, la parola si adopera con dieci sensi diversi.

[23] A. Mastropaolo, La democrazia è una causa persa? Paradossi di un’invenzione imperfetta, Torino, cit., pp. 266-267. Di Mastropaolo cfr. anche Equivoci populisti, in Id., La mucca pazza della democrazia. Nuove destre, populismo, antipolitica, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, pp. 48-64. Lo stesso Asor Rosa, proprio in apertura a Scrittori e popolo (Le premesse: da Gioberti a Oriani), dava una definizione di populismo che rimane tuttora valida: «l’uso del termine populismo è legittimo solo quando sia presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico oppure storico-sociale oppure etico. Perché ci sia populismo, è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello» (A. Asor Rosa, Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1965, p. 13).

[24] Con tutto quello che questo significa riguardo alla razionalità degli attori coinvolti nei processi di mobilitazione politica:«Uno degli aspetti che hanno più fortemente colpito gli studiosi è il carattere “irrazionale” del comportamento delle classi medie – specialmente la piccola borghesia – in relazione al fascismo e al nazismo. In realtà tutta la teoria psicosociale della “personalità autoritaria” si riferisce specialmente a tale “irrazionalità”. Riguardo al peronismo si è tentato di applicare delle spiegazioni simili […]. Ora da quanto si è detto […] non sembra che l’ipotesi della “irrazionalità” sia applicabile al caso del nazional populismo»: G. Germani, Autoritarismo, fascismo, classi sociali, cit., p. 243. Di Germani cfr. anche La irracionalidad de las masas en el nazifascismo y en el peronismo, par. 4 de La integracion de las masas a la vida politica y el totalitarismo (1956), in Id., Politica y Sociedad en una epoca de transicion, Buenos Aires, Paidos, 1962, pp. 245-252.

[25] Sul classismo del sistema Berlusconi cfr. il fascicolo di Democrazia e diritto (Il sistema Berlusconi), 2003, n. 1.

[26] Sulla categoria di disponibilità, categoria centrale della sua teoria generale del fascismo,cfr. G. Germani, Fascismo e classe sociale, in La critica sociologica, 1967, n. 1, pp. 37-44; 1967, n. 2, pp. 76-93.Mioa9rIoBma 7n

[27] Su tutta questa tematica rimando a P. Serra, Individualismo e populismo. La destra nella crisi italiana dell’ultimo ventennio, Roma, Datanews, 1997.

[28] M. Ciliberto, Non confondete berlusconismo con populismo, cit., p. 38. Di Ciliberto cfr. anche Il declino di Berlusconi, in l’Unità, 2011, 26 luglio, p. 1 e p. 24.

[29] E. Eichmann, nota acutamente Arendt, «avrebbe sempre preferito essere impiccato […] anziché condurre una normale e tranquilla esistenza come rappresentante della compagnia petrolifera Vacuum», dove egli lavorava prima di essere licenziato H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 41-42.

[30] Infatti, «l’esistenza di élite interne ed esterne disponibili e mobilitate costituisce una condizione per il sorgere di movimenti basati su processi di mobilitazione di massa, e sono non meno necessari della presenza di questa stessa massa», così come «un’altra componente imprescindibile affinché la mobilitazione si esprima come movimento è la adozione di ideologie adeguate, compatibili cioè sia con il contesto storico-sociale interno della società di cui si tratta, sia con quello esterno o internazionale, sia con la cultura (politica ed altra) delle masse e delle élites, nonché degli interessi “reali” o “percepiti” come tali da ambedue» (G. Germani, Autoritarismo, fascismo, classi sociali, cit., p. 44).

[31] «Il fascismo, scrive Sternhell, pretendeva di essere capace di creare, senza toccare in nessun modo la realtà sociale ed economica, la stessa armonia all’interno del tessuto sociale. Per riuscirvi era sufficiente considerare la società non come un aggregato di individui o come la coesistenza di gruppi antagonisti, bensì come un’unica entità la cui unità organica, biologica e culturale, distrutta, o almeno fortemente compromessa, dalla modernizzazione, potesse e dovesse essere ristabilita. Il fascismo fu in grado di affermarsi nel momento in cui veniva carezzata l’idea che l’uomo, in ultima analisi, no che il fascismo n era l’”homo oeconomicus” del liberalismo e del marxismo. La concezione fascista del mondo prese piede non appena venne raggiunta la conclusione che la vita degli uomini poteva essere trasformata senza scardinare le strutture sociali ed economiche. Questa era una idea che i rivoluzionari del diciottesimo e del diciannovesimo secolo non avevano mai preso in considerazione. Era basata sull’assunzione, così come venne esposta da Hendrik de Man, che “il concetto di sfruttamento è una categoria etica e non economica” […]. Ne conseguiva che se lo sfruttamento era un fenomeno psicologico, allora la soluzione ai problemi economici e sociali doveva necessariamente essere anch’essa di natura psicologica. Questa era l’idea partorita dal fascismo e basata sulla convinzione che i veri problemi erano di carattere culturale, emozionale e affettivo. In questo modo, non ci si preoccupava più del tenore di vita reale, non ci si interessava più del posto reale occupato dall’individuo nel sistema di produzione o nella gerarchia sociale, bensì dei suoi sentimenti, della sua dignità, dei suoi complessi, del suo “istinto di auto rispetto”. Questa era la visione delle motivazioni umane sulla quale era basata la rivoluzione fascista. Ogni cosa, ora, diventava straordinariamente semplice: la rivoluzione appariva possibile, senza dover cambiare le fondamenta dell’ordine sociale esistente». E in un altro luogo: «mentre per il liberalismo e il marxismo i problemi di fondo sono sempre problemi economici, per il fascismo invece i problemi essenziali sono d’ordine psicologico e culturale e possono perciò essere risolti con mezzi d’ordine psicologico e culturale. È possibile rispondere al senso di alienazione o a quello di sfruttamento senza affrontare le leggi del mercato che il fascismo […] considera delle leggi naturali […]. È per questo che la rivoluzione fascista resta quello che fu sin dal momento della presa del potere: una rivoluzione politica […] che non implica mai dei mutamenti delle strutture economiche». Infine, la conclusione: col fascismo la psicologia sostituisce l’economia come forza motrice dell’attività rivoluzionaria (Z. Sternhell, La terza via fascista o la ricerca di una cultura politica alternativa, in Storia contemporanea, 1991, n. 6, pp. 962-963. Per ulteriori approfondimenti sul tema, ed anche per un confronto tra Germani e Sternhell, rimando a P. Serra, «Né destra né sinistra»: uno studio su Zeev Sternhell, in Democrazia e diritto, 1992, n. 4, pp. 69-84. Su questo passaggio dalla mobilitazione sociale alla mobilitazione psicologica rimando a P. Serra, Il secolo che oscilla, Roma, Datanews, 1995; Id., Dalla mobilitazione politica alla mobilitazione psicologica (Intervista a cura di G. Valente), in 30giorni nella Chiesa e nel mondo, 1996, n. 4, pp. 46-50.

[32] R. De Felice, Intervista sul nazismo (a cura di M. A. Ledeen), Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 102-103; Id., Il colore nazista del neofascismo di oggi (intervista a cura di D. Sassoli), in Il Popolo, 1975, 10 ottobre, p. 3.

[33] P. Macherey, Présentation, Chitéphilo, Palais des Beaux Arts, Lille, 19/11/2004, reperibile all’indirizzo www.univ-lille3.fr/set/machereynegri.html, 19 novembre 2004. Una risposta di Negri a questo testo di Macherey (Réponse à Pierre Macherey)è stata pubblicata in «Multitudes», n. 22, 2005, pp. 111-117.

[34] E. Laclau, Prefacio a la edición inglesa, in Id. , Los fundamentos retóricos de la sociedad, Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2014, pp. 19-20. Ma per una analisi dettagliata di tutto questo dibattito rimando ancora una volta a P. Serra, Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europea, cit. 

[35] E. Laclau, Las democracias latinoamericanas pueden dar un buen ejemplo a las democracias europeas, in AA. VV., La palabra política. Debates contemporáneos sobre la emancipación (2011), Buenos Aires, 2012, p. 20.

[36] T. Di Tella, Populismo in Europa? Socialdemocrazia in America Latina? Testo preparato per una Conferenza tenuta al Circolo Rosselli di Milano, il 13-2-2011, messo a disposizione di chi scrive dall’autore. Su questa tematica è di prossima pubblicazione (a cura e con Introduzione di P. Serra) anche l’ultima ricerca di T. Di Tella, Movimenti nazional-popolari e socialdemocrazia. L’esperienza dell’America Latina.

[37]  P. Serra, Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europea, cit.

[38] Sulla prospettiva di Germani rimando a P. Serra, Sulla crisi contemporanea. Uno schema di ricerca su Gino Germani, in Democrazia e diritto, n. 3-4, 2011, pp. 379-412; Id., Il problema del populismo nel pensiero politico argentino da Germani a Laclau (nei suoi rapporti con la crisi della democrazia europea), cit; Id., Il problema dell’autoritarismo moderno nel pensiero politico di Gino Germani, cit; Id., Tres notas sobre populismo, in «Le Monde Diplomatique-Argentina», febbraio-marzo, 2016, pp. 26-27; Id., Sobre la crisis contemporánea. Un plan de investigación en torno a Gino Germani, in Prismas. Revista de histoira intelectual, n. 20, 2016, pp. 85-106; Id., Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europea, cit. Su questo tema è uscito di Samuel Amaral, forse il più importante studioso mondiale di Germani e del peronismo, un libro fondamentale e imprescindibile: S. Amaral, El movimiento nacional-popular: Gino Germani y el peronismo, Buenos Aires, Eduntref, 2018.

[39] Sulla prospettiva di Laclau rimando a P. Serra, Classe nazione filosofia. Tre note sulla sinistra (a partire da Ernesto Laclau), in Democrazia e diritto, 2016, n. 4, pp. 32-60; Id., Eterogeneità e trascendenza. La teoria del populismo nella prospettiva di Ernesto Laclau, in M. Giardiello e M. A. Quiroz Vitale (a cura di), La crisi della contemporaneità. Una prospettiva sociologica, Roma, Roma Tre-Press, 2016, pp. 129-164; Id., Populismo progressivo. Una riflessione sulla crisi della democrazia europea, cit.

[40] E. Laclau, Populismo, rappresentazione e democrazia, in Id. , La ragione populista, (2005), Laterza, Roma-Bari, 2008, a cura di D. Tarizzo, pp. 149-163.

[41] Una critica di questo tema in T. Negri, Un diálogo crítico y cercano, in «Debates y Combates», n. 9, 2015, vol 2, pp. 71-85. Il problema, scrive Mouffe, di «questa ontologia immanentista sta nella sua incapacità di dar conto della negatività radicale, ovvero dell’antagonismo» (C. Mouffe, Immanentismo contro negatività radicale, in Id., Il conflitto democratico, a cura di D. Tarizzo, Mimesis, Milano-Udine, 2015, p. 97), del «carattere ineliminabile dell’antagonismo» (Ivi, p. 101). Ecco perché, secondo Mouffe, «occorre un approccio ontologico diverso. Non è possibile accogliere l’idea di negatività radicale senza abbandonare l’idea immanentistica di uno spazio sociale omogeneo, saturato, e senza riconoscere la funzione fondamentale dell’eterogeneità. Infatti, come evidenziato da Laclau, i due poli dell’antagonismo non appartengono allo stesso spazio di rappresentazione. Sono essenzialmente eterogenei. Ed emergono proprio da questa eterogeneità irriducibile» (Ivi, p. 98). Una critica a questa ontologia immanente di Negri era stata elaborata anche da Ernesto Laclau: E. Laclau, ¿Puede la immanencia explicar las luchas sociales? Crítica a Imperio, in «Sociedad», n. 22, 2003, pp. 209-220. Sul rapporto tra Negri e Laclau cfr. il bel lavoro di R. Nunes, Entre Negri e Laclau: los límites de la multitud, in «Políticas de la Memoria», n. 16,  2015/16, pp. 39-49, nel quale si sostiene che «en definitiva, ambos autores plantean la divergencia en términos de una disyuntiva fundante entre immanencia (Negri) y transcendencia (Laclau)» (Ivi, p. 39).

[42] «Un significante vuoto è, in senso stretto, un significante senza significato». Un significante che non è unito a nessun significato e rimane, «ciononostante, parte integrante di un sistema di significazione»: E. Laclau, Perché i significanti vuoti interessano la politica?, in Id., Emancipazione/i, op. cit., p. 53 (Su questo tema vedi anche il Debate tra E. Laclau e J. Alemán, ¿Por qué los significantes vacíos son importantes para la política?, in J. Alemán, Para una izquierda lacaniana .. Intervenciones y textos, grama, Buenos Aires, 2009, pp. 89-11). 

[43] A. Salinas, El populismo según Laclau: ¿hegemonia vs. derechos?, in Revista de Instituciones, Ideas y Mercados, 2012, n. 57, p. 189.

[44] Così come sostiene con forza per esempio Emilio De Ipola, un importante intellettuale argentino. Laclau, scrive De Ipola, «reconoce que el movimientismo populista no es ni debe ser incompatible con el respeto a las instituciones, o que el rol del Líder, aun siendo fundamental, requiere que el sistema político mantenga el pluralismo como principio intocable. Sin duda, estas cláusulas precautorias introducen proposiciones que compartimos. Pero, si chiede De Ipola, ¿puede compartirlas el populismo? ¿Puede ser institucionalista, respetuoso de la ley, auténticamente pluralista y continuar llamándose “populismo”? No lo creemos: lo que el populismo de Laclau podria ganar en apertura de ideas, en respeto a las reglas institucionales y en apoyo al pluralismo, lo perdería en identidad»: E. De Ipola, La última utopía. Reflexiones sobre la teoría del populismo de Ernesto Laclau, in C. Hilb (a cura di), El Politico y el Científico. Ensayos en homenaje a Juan Carlos Portantiero, Buenos Aires, Siglo XXI, 2009, p. 210.  

[45] Su questa tematica, crucialissima, cfr. S. Critchley, ¿Hay un déficit normativo en la teoría de la hegemonía?, in S. Critchleye O. Marchart (a cura di), Laclau. Aproximaciones críticas a su obra (2004), Fondo de Cultura Económica, Buenos Aires, 2008, pp. 145-155; H. R. Leis e E. Viola, El dilema de América del Sur en el siglo XXI: democracia de mercado con Estado de Derecho o Populismo, in Cadal (Centro para la apertura y el desarrollo de América Latina), 2009, n. 97, pp. 1-7; A. Salinas, Populismo, democracia, capitalismo: La teoría política de Ernesto Laclau, in Crítica Contemporánea. Revista de Teoría Politica,  2011, n. 1; Id., El populismo según Laclau: ¿hegemonia vs. derechos?, cit;G. Bustamante Kuschel, Racionalidad populista versus democracia representativa, in Revista Cultura Económica, 2012, n. 83, pp. 20-35; A. Salinas, Emancipación y hegemonía populista en Laclau: tensiones y críticas desde el liberalismo, in  G. Lousteau (a cura di), Sociedades mayoritarias o sociedades por consenso:¿ hacia un nuevo contrato social?, The Democracy Papers n. 10, Charleston, SC: Inter American Institute for Democracy, 2014, pp. 109-140; H. Fair, Lo ético-politico en las democracias contemporáneas. Reflexiones críticas en torno al déficit normativo en la teoría de la hegemonía de Ernesto Laclau, in Revista CS en Ciencias Sociale», 2014, n. 13, pp. 20-46; D. de Mendonça, O limite da normatividade na teoria política de Ernesto Laclau, in Lua Nova, 2014, n. 91, pp. 135-167,  nei quali si trova anche una ricca bibliografia sul tema.

[46] Critiche interessanti a questo Schmitt, alla teologia politica di Schmitt, in M. Tronti, Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica, Roma, Castelvecchi, 2015.

[47]L. Sturzo, Il Partito popolare italiano, I, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, p. 112.

[48] Cfr. P. Serra, Per una teoria del popolarismo, in Istituto Luigi Sturzo, Attualità del popolarismo? (Atti Tavola rotonda, Roma Istituto Luigi Sturzo 5 luglio 2018), Napoli, Editoriale Scientifica, 2018, pp. 59-71.

[49] Cfr. P. Serra, Europa e mondo. Temi per un pensiero politico europeo, Ediesse, Roma, 2004; Id., Hegel Heller Vico. Frammenti di un nomos europeo, Roma, Aracne, 2009; Id., Il problema dello Stato. Scienza giuridica e rapporto tra ordinamenti (Analisi critica di due modelli di relazione), in Democrazia e diritto, 2008, n. 2, pp. 29-59; Id., La funzione dello Stato. Scienza giuridica europea e rapporti tra ordinamenti, Roma, Aracne, 2010.

[50] Ed è proprio questa interpretazione pragmatica della democrazia che, conclude Canovan, «lascia spazio al populismo, che accompagna le democrazie come un’ombra» (M. Canovan, Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, in Trasgressioni, 2000, n. 31, pp. 25-42, la citazione è tratta da p. 40).

[51] M. Canovan, Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit., pp. 39-40

[52] M. Canovan, Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit., p. 35.

[53] M. Canovan, Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit., p. 34.

[54] Perché se «il contenuto della promessa della democrazia redentrice è il potere al popolo», «sfortunatamente, questa promessa è in profondo e inevitabile conflitto con la democrazia vista alla fredda luce del pragmatismo, e lo scarto tra le due è un fecondo terreno di coltura per la protesta populista» (M. Canovan, Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit. , p. 35).

[55] M. Canovan, Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit., p. 33.

[56] M. Canovan Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit. , p. 40.

[57] M. Canovan Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit. p. 28.

[58] M. Canovan Abbiate fede nel popolo! Il populismo e i due volti della democrazia, cit. p. 29.

[59] Su questa tematica rimando a P. Serra, Democrazia e antropologia, in Id., Trascendenza e politica. Struttura dell’azione sociale e democrazia, Roma, Ediesse, 2012, pp. 11-20.

[60] G. Germani, Autoritarismo e democrazia nella società moderna, cit. p. 26.