Magistratura democratica

La rivendicazione di uno ius existentiae per i cittadini europei come contrasto del populismo sovranista

di Giuseppe Bronzini
A sostegno del rilancio del tema del reddito di base nel dibattito internazionale degli ultimi anni vi sono le nuove tecnologie informatiche che minacciano di distruggere irreversibilmente il lavoro disponibile e le dinamiche di globalizzazione sregolate che generano un nuovo bisogno di protezione il quale però in Europa, stanti la modestia del suo capitolo sociale e le politiche di austerity, viene ricercato in una nuova chiusura dei confini nazionali, alimentando così le spinte populiste. Solo un deciso rilancio dell’Europa sociale con la garanzia di un reddito minimo che recuperi una solidarietà paneuropea può rompere questa spirale distruttiva mediante la combinazione tra la razionalizzazione inclusiva degli esistenti schemi (nazionali) di reddito minimo garantito (che proteggono chi si trova a rischio concreto di esclusione sociale) ed una piccola quota di reddito di base per tutti i residenti stabili nel vecchio continente, finanziato attraverso risorse proprie dall’Unione che mostrino la “potenza” coesiva della cittadinanza sovranazionale.

Premessa

Prima di illustrare in che modo la proposta di uno ius existentiae per i cittadini dell’Unione (e conseguentemente per i residenti stabili in Ue alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti che – a proposito del diritto ad una assistenza sociale ed abitativo diretta ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa – parla di “ognuno” il che implica, secondo il metodo classificatorio utilizzato nella Carta[1], ogni persona residente stabilmente nel territorio dell’Unione) può essere interpretata come una risposta alle dinamiche sovversive messe in atto dalle forze politiche cosiddette populiste contro gli assetti istituzionali sovranazionali occorre fare delle premesse terminologiche.

Utilizziamo il termine ius existentiae nella sua accezione più larga di misura di assicurazione dei “minimi vitali” intermedia tra la nozione di reddito minimo garantito (d’ora in poi Rmg) destinato a coloro che sono concretamente in una situazione di rischio esclusione sociale, in genere subordinato all’accettazione di offerte di lavoro o corsi di formazione[2], e reddito di base (o di cittadinanza) che invece spetta a tutti indipendentemente dalle condizioni economiche e sociali del soggetto che lo riceve[3]. Questo perché – come si accennerà brevemente più avanti – la direzione da seguire (come riteneva anche Stefano Rodotà[4]) non può che essere nel senso dell’introduzione di una misura più radicale di quella attualmente diffusa nei Paesi occidentali che separi più nettamente reddito e lavoro, soluzione necessitata sul lungo periodo dall’innovazione tecnologica ed anche dalle nuove modalità di generazione della ricchezza collettiva che mal si prestano ad essere ricondotte nella costellazione otto-novecentesca del “lavoro”, ma oggi questa svolta implicherebbe trasformazioni rivoluzionarie dei sistemi sociali occidentali (a cominciare da quelli fiscali) ancora difficilmente gestibili, oltre a non essere ancora pienamente in agenda perché ancora il “lavoro” costituisce un aspetto potente nelle nostre vite, anche se sempre più spesso attraverso modalità inedite. Questo percorso gradualistico ed attento alle obiezioni delle forze politiche e culturali pro-labour verso il reddito di base oggi viene in genere riconosciuto anche nelle proposte che vengono dalla Scuola del Basic Income Earth Network e dai suoi Autori più noti ed autorevoli come Philippe Van Parijs e Yannick Vanderborght, come si dirà più avanti nella loro recente summa sul tema[5], che mirano ad un rafforzamento in senso inclusivo (e di affievolimento degli strumenti di controllo e coercizione sui destinatari ) degli esistenti sistemi di Rmg (soprattutto di quelli europei che sono più avanzati ed hanno copertura costituzionale nella Carta di Nizza) e all’introduzione di una piccola e gestibile (sul piano finanziario) quota di reddito di base per tutti (tra 150 e i 200 euro), che però – essendo erogata nella stessa misura a tutti i cittadini Ue – realizzerebbe una embrionale forma di redistribuzione equitativa del reddito dai member states più ricchi a quelli ove questo piccolo contributo sarebbe significativo. Il termine di ius existentiae rende bene, a nostro avviso, l’aria di famiglia tra le due strade per realizzare una “dignità” per tutti che condividono una medesima storia e gli stessi fini; esistono peraltro anche soluzioni intermedie[6] che tengono conto delle difficoltà realizzative o delle obiezioni ancora forti all’idea in sé di un “reddito per tutti”, anche se sempre più deboli e meno ideologiche o di principio[7]. Si tratterebbe, quindi, di partire da ciò che è già stato realizzato soprattutto in Europa come momento più avanzato del welfare post-bellico e cioè una copertura dei bisogni di base per tutti (che quindi si aggiunge allo zoccolo propriamente universalistico dello Stato sociale costituito dal diritto alla salute ed all’istruzione) per renderlo coerente in via tendenziale con le nuove urgenze e gli interrogativi che l’automazione e la cosiddetta economia data driven (fondata sui dati) pone ai nostri sistemi di sicurezza sociale.

L’altra avvertenza riguarda invece il termine “populismo”. Come bene illustra l’ultimo saggio di Marco Revelli[8] è arduo ricondurre il fenomeno “populismo” ad univoche categorie definitorie: sin dagli anni 20 e 30 i politologi (ma non solo, basterà pensare agli studi sulla psicologia delle masse su cui si misurarono Sigmund Freud o Elias Canetti) si sono cimentati con questa sfida ma con dubbi risultati classificatori che – al più- rivelano degli “indici” comportamentali che possono aiutare nell’impresa ricostruttiva ed anche nelle politiche di contrasto. È quindi utile seguire le tracce che ci consegna la ricerca di Revelli senza la pretesa di poter cogliere i mille risvolti del fenomeno della cosiddetta “rinascita del populismo” ma concentrandoci su alcune caratteristiche che in questa fase sembrano salienti e che sembrano rappresentare una discontinuità rispetto a quanto già sperimentato nel 900 (un “populismo 2.0”, quindi). Senza soprattutto la pretesa di una riconduzione forzata di questa “piaga” delle democrazie (anche di quelle più avanzate del Nord Europa) alla coppia destra/sinistra perché purtroppo è innegabile che esiste un nuovo ed aggressivo “populismo di sinistra” che talvolta con Ernesto Laclau[9] e Chantal Mouffe si è dotata di un apparato argomentativo filosofico e gauchista; momenti “populisti“, tutto sommato rimasti non egemoni, hanno certamente conosciuto il primo governo greco di Tsipras (con l’indizione di un improvvisato referendum sul no all’Europa) ed anche il Movimento Podemos, così come fortissima è sempre sembrata la componente folkish[10] del Labour inglese di Jeremy Corbin al punto da non contrastare davvero l’avventura della Brexit.

Cerchiamo di seguire, quindi, alcuni brillanti spunti di Revelli, sotto il profilo del nesso con il rilancio del tema dello ius existentiae nell’impostazione offre la scuola, diffusa a livello planetario, del “reddito di base”.

1. Il nazionalismo sociale del populismo “2.0”

Sembra esserci un certo consenso sul fatto che una matrice essenziale della “costellazione populista” risieda nel risentimento per gli effetti della globalizzazione economica e del connesso indebolimento dell’efficacia delle regolazione degli Stati soprattutto a livello sociale (ma anche di controllo delle migrazioni) che si articola nel ridimensionamento dei sistemi di welfare, del potere dei sindacati e nel peggiorare delle condizioni di lavoro, il tutto miscelato alla paura per l’innovazione tecnologica, la sparizione di posti di lavoro fissi e decenti con una disoccupazione di massa non recuperabile e con il precipitare del ceto medio, anch’esso travolto dalla rivoluzione digitale e costretto a subire una competizione distruttiva a livello internazionale che lo ha spogliato degli antichi privilegi. L’aspetto sociale – semplificando al massimo – e la dilagante ricerca di sicurezza sembrano saldarsi con la nostalgia per i confini protettivi degli Stati nazionali nella diffidenza per quello che un tempo era definito (anche nella sinistra marxista) il “progresso”, legato alla scienza ed alle sue applicazioni[11]. In Europa questo milieu di temi e sentimenti ha come bersaglio prioritario l’Unione europea, per le popolazioni dei Paesi più indebitati dell’area dell’olio d’ulivo per via delle politiche di austerity e per la mancanza di quel minimo di solidarietà, anche per i rischi di crescita economica, che sembrerebbe dovuta per Paesi che condividono un mercato comune, e meccanismi quasi-statali di governance su tanti settori primari (a cominciare dalla moneta); per i Paesi del Nord Europa, che hanno invece ancora efficaci istituzioni di welfare (non messi a repentaglio dalla crisi economica), per il timore che questi vantaggi si possano perdere nella socializzazione dei rischi (soprattutto nei debiti sovrani nazionali) o nel passaggio ad un Governo politico europeo autenticamente sovranazionale che potrebbe sacrificare le esigenze dei singoli popoli. In ogni caso la paura delle dinamiche connesse alla globalizzazione, con l’emergere di nuovi potentati economici come Amazon, Google, Apple, Facebook (ormai dalla redditività superiore a quella di molti Stati nazionali), spinge verso nuovi muri e per la rigidità dei confini che sembrano poter ancora proteggere le persone, in un micidiale cocktail di terrore del nuovo, lavorismo di stampo ottocentesco, nazionalismo di ritorno e retorica dell’Heimat.

Dentro questo quadro, ricostruito sommariamente, si è dispiegato un rilancio del dibattito sulle protezioni di base con la formulazione di alcune proposte in chiave di difesa ed intensificazione del processo di integrazione europea. Ricordiamo che il sorgere della Scuola del reddito di base è riconducibile agli sviluppi della celeberrima polemica tra John Rawls ed il suo allievo Philippe Van Parijs sul “surfista di Malibù” che si fa mantenere (come un parassita) in attività oziose dai suoi concittadini, sabotando ogni obbligo di collaborazione sociale. Durante una presentazione di un volume di Rawls a Parigi fu questa la replica di quest’ultimo all’intervento di Van Parijs che mirava a ricomprendere l’idea di un reddito di base nel disegno rawlsiano di codificare gli schemi di una società giusta condotto soprattutto nel suo capolavoro del 1970, A Theory of giustice[12]. Lo spunto della Scuola di Van Parijs, fondatore (insieme a Guy Standing, Claus Offe ed altri) della rete mondiale prima ricordata, rimane la nozione di “minimo sociale“ elaborato da John Rawls, quell’insieme di prestazioni garantito (in quanto non comprimibile) dalle istituzioni che compongono la struttura fondamentale di una comunità politica in ossequio al cosiddetto “principio di differenza” per cui le ineguaglianze permesse devono poter migliorare la condizione dei meno avvantaggiati. Si cercò di ricondurre l’immagine di un reddito nel sistema ralwsiano affermando che un reddito di base rientrerebbe nel “minimo sociale” che gli individui sceglierebbero, secondo i parametri della scelta razionale, se non conoscessero in concreto la loro posizione sociale, ma solo le condizioni generali socio-economiche del tempo cui appartengono (secondo la nota procedura controfattuale del ”velo di ignoranza”). Sarebbero davvero in pochi a non volere una “copertura” minima del genere affidandosi alla mera competizione propria del sistema capitalistico. Certamente esistono altre vie anche di natura squisitamente filosofica per difendere questa prospettiva (da quella “repubblicana” di Phillip Petitt a quella neo-marxista di Antonio Negri sino alla scuola dell’economia del dono che si richiama all’antropologia di Marcel Mauss etc.) ma la strada neo-contrattualista rimane la più rilevante anche perché si aggancia alle importanti aperture di grandi economisti keynesiani come James Tobin e James Meade. Si replicò a Rawls che solo il reddito di base riesce a valorizzare compiutamente la scelta del “proprio” progetto di vita dei cittadini perché consente a tutti di poter determinare autonomamente il rapporto con la sfera lavorativa optando anche per attività non remunerate (non necessariamente di mero svago) o poco remunerate, o di optare per un maggior tempo libero da destinare a quello che gli antichi definivano otium. In linea di principio il cittadino deve poter conservare una libertà dal bisogno che è la premessa dell’autodeterminazione; ma tuttavia gli Autori della Scuola sono ben consapevoli che l’obiezione di Rawls è ben radicata nell’opinione pubblica democratica e che, proprio in tempi nei quali le risorse pubbliche sono più limitate, l’accusa di favorire con il reddito di base forme di moral hazard o di egoismo solipsistico possono essere distruttive di questa prospettiva. Pertanto la strategia dell’ultimo lavoro di Van Parjis e Vanderborght, un grande successo internazionale[13], è quella di indebolire le obiezioni dei “lavoristi” (cioè di coloro che sostengono che ogni forma di ius existentiae debba essere subordinato ad una disponibilità al “lavoro” o a qualche attività socialmente utile) mostrando il carattere dilemmatico dal punto di vista morale ed anche pragmatico dell’”universalismo selettivo” (quello che – tipicamente nei modelli europei di Rmg – condiziona le misure di garanzia di un reddito non solo all’accettazione di occasioni di lavoro disponibili ma anche ad un means text, cioè ad una concreta situazione di bisogno). Inoltre i due Autori insistono sulle mutazioni del “lavoro” dai tempi di Rawls quando ancora era imperante l’idea di una società del pubblico impiego, raggiungibile soprattutto attraverso un intervento massiccio pubblico nell’economia.

Ora, seguendo gli Autori, non vi è dubbio che il reddito di base torni in agenda prepotentemente in virtù dell’accelerazione in atto nell’innovazione tecnologica: robots, A.I., Internet delle cose, Industria 4.0, platform economy, soprattutto nelle loro interconnessioni, sembrano riscrivere profondamente i sistemi produttivi ed anche gli stili di vita contemporanei. Difficile valutare l’impatto prevedibile nei prossimi anni di questa costellazione di fenomeni: pur essendo le valutazioni diverse, un sensibile declino del tasso di occupazione sembra piuttosto inevitabile (in genere valutato, entro i prossimi venti anni, tra un terzo e la metà delle occupazioni attualmente disponibili). Anche nel voler dare ancora come possibile una riconfigurazione produttiva con l’emergere di nuove attività dopo l’ondata tecnologica in atto non sembra davvero che le occasioni recuperate potranno mai darsi con le modalità di reclutamento imprenditoriali di ieri attraverso forme di aggregazione stabile della forza lavoro a processi produttivi anch’essi durevoli nel tempo e impressi corposamente in una dimensione spaziale obiettiva.

Contemporaneo a questa tendenza, si sviluppa un altro fenomeno forse ancora più evidente: è lo stesso “lavoro” a mutare le proprie caratteristiche di fondo. Con la digital economy i soggetti diventano direttamente produttivi agendo su Internet (il che sembra sopprimere la figura dell’imprenditore weberianamente inteso che arruola, forma e disciplina i propri dipendenti); non solo l’attività svolta viene “disintermediata” e difficilmente può essere ricostruita entro dimensioni spazio/temporali , ma qualche Autore parla, ora, di “economia circolare” , cioè della creazione di reti nelle quali chi eroga un servizio e chi lo riceve si scambiano continuamente di posizione e gli stessi servizi talvolta sono compensati con monete non ufficiali, senza corso legale. Non sembra un caso che proprio questo aspetto, che porta a dubitare che il termine “lavoro” (di cui si legge nelle Costituzioni occidentali) sia ancora aproblematicamente spendibile per riassumere ogni attività produttiva, ha portato ad una nuova effervescenza del movimento cooperativistico che vede in queste nuove forme “produttive” un’inedita modalità di accesso al mondo degli scambi sociali senza costrizioni, né contrattuali né “tecniche” etero-imposte, in una dimensione finalmente “tra pari”, resa possibile dal carattere aperto e flessibile della rete[14]. Questo nuovo cooperativismo chiede che il “pubblico” favorisca questi processi mettendo a disposizioni spazi (oggi più che altro piattaforme) virtuali nei quali i singoli imparino a condividere ed a scambiarsi progetti di interesse sociale, sui quali molti Comuni europei (ad esempio quello di Barcellona), e non solo, stanno sviluppando interessanti sperimentazioni. Il platform capitalism non sembra lasciare, nel suo innegabile dinamismo, grande spazio né per diritti né per aggregazioni collettive pur ritagliando qualche isola felice di “mansioni strategiche”. Tra riduzione della giornata lavorativa sociale per effetto dell’automazione e “disintermediazione” delle prestazioni rese su internet la cosiddetta classe lavoratrice viene a trovarsi sotto attacco sia a livello retributivo che pensionistico oltre ad avere perso da tempo quella dimensione della contrattazione collettiva molto difficile da replicare nel mondo virtuale, almeno sino ad oggi. Le politiche pubbliche, anche quelle più avanzate, rischiano di essere eccentriche rispetto a questi smottamenti, a cominciare dalle cosiddette politiche attive elaborate nell’Unione europea che non possono essere più concepite all’insegna del workfare visto la progressiva carenza di opportunità disponibili[15] o, in ogni caso, il carattere multiforme, poco formalizzabile, iperflessibile che vantano, in genere, le attività possibili nella digital economy.

È questo lo sfondo obiettivo nel quale viene nuovamente discussa anche in Europa l’ipotesi di un reddito erogato senza condizioni, in particolare non finalizzato ad una “rieducazione al lavoro” come rideclinato negli ultimi anni attraverso l’ideologia correzionalista e neo-luterana del “workfare”: negli ultimi decenni il fenomeno della precarietà (connesso alla delocalizzazione ed al decentramento della produzione) ha messo in crisi la certezza di una “disponibilità” di un lavoro dignitoso per tutti mostrando la concreta possibilità di una “segmentazione“ lacerante del mercato del lavoro, tra garantiti e non garantiti: per rispondere a tali rischi si sono elaborati (soprattutto in Europa) nuovi diritti sociali fondamentali per favorire una piena inclusione di tutti e cercare di contrastare una divaricazione eccessiva nelle protezioni come il diritto alla formazione permanente e continua, l’accesso gratuito ai servizi pubblici per l’impiego e, soprattutto, il Rmg. Per cercare di offrire ad ognuno la possibilità di valorizzare le proprie capabilities (secondo la felice formula del premio Nobel per l’Economia Amatya Sen), l’Unione europea ha elaborato da tempo le cosiddette politiche attive che aiutano il soggetto, soprattutto se in difficoltà, a mettere in atto concretamente il proprio “piano di vita”, sfuggendo ai ricatti occupazionali. Si tratterebbe invece, oggi, di radicalizzare questa impostazione nel momento in cui il “lavoro” (subordinato o autonomo che sia) perde il ruolo di collante della società, assumendo contorni più indefiniti, avvicinandosi alla nozione di attività in senso ampio, diventando quantitativamente e qualitativamente sempre più difficile da valutare (per il lavoratore digitale è altamente problematico definire quando si sta formando o sta comunicando da quando effettivamente offre ad altri servizi o prestazioni). Per contro l’aggiramento delle protezioni tradizionali dei “lavoratori” (legislative e/o contrattuali) diventa anche un pericolo per la società creando masse sempre più grandi di esclusi, di soggetti costretti ad accettare forme di prestazione sempre meno retribuita (ai limiti del lavoro servile) con la distruzione di opportunità produttive inedite ed innovative. L’istituzione del Rmg è stata pensata e realizzata per fronteggiare situazioni di bisogno o di disoccupazione; oggi invece la sfida è quella di completare questa grandiosa esperienza in un nuovo diritto universale ad un’esistenza libera e dignitosa (ius existentiae) che consenta ad ognuno di poter disporre di quella libertà di autodeterminazione produttiva ed esistenziale, nella libertà dal bisogno, che le nuove tecnologie già rendono in parte obiettivamente possibile[16].

2. Le proposte in campo. Un antidoto al pericolo di disintegrazione europea?

Tuttavia permane il dubbio che ben più del fantasma dello sfaccendato di Malibù a generare oggi un perdurante scetticismo sia la costosità eccessiva di un reddito di base contro la fattibilità del Rmg che solo in Italia solleva resistenze, unico Paese tra i 27 dell’Ue a non godere di questa misura. Qui le proposte di Van Parjis e del suo collega belga diventano innovative e coraggiose: a questo tema si dedica una trattazione molto ampia esaminando le proposte avanzate nel tempo tra le quali l’unica di una qualche realismo è il finanziamento attraverso una tassa ad hoc sui consumi (come l’Iva) che determinerebbe una caduta dei consumi che – sembra di capire – gli stessi Autori non disprezzino per ragioni di ordine ecologico. Sono effetti, però, che difficilmente verrebbero accettati dall’opinione pubblica e dagli elettori, almeno sino a che gli effetti della furia distruttiva dei robot non siano più evidenti nella loro irreversibilità. Occorre, insomma, identificare qualche obiettivo intermedio che recepisca i principi di un reddito per tutti ma nella mediazione con il sistema di protezione sociale esistente di cui fa ormai parte integrante il Rmg.

L’ipotesi che viene, quindi, caldeggiata ci pare, alla fine, sia quella dell’attribuzione, almeno nell’Unione europea che si rivela il contesto istituzionale più promettente, di una quota modesta (150-200 euro, quindi insufficiente in quasi tutti i Paesi per condurre una vita decente) di un reddito minimo a tutti i cittadini Ue che si accompagni ai sistemi più selettivi (oggi nazionali) di Rmg che invece erogano una copertura dei bisogni vitali ai soggetti a rischio di esclusione sociale attraverso una loro razionalizzazione verso una o maggiore inclusività e promozionalità individuale rendendoli indipendenti dalle forme di induzione più o meno forzata al lavoro. È una proposta che richiama quella avanzata dallo stesso Van Parijs nelle sedi dei progressisti del vecchio continente di erogazione circa 180 euro direttamente da parte di un’Unione passata ad un bilancio del 5% (anche attraverso risorse proprie come un’eco-tassa, una Tobin tax etc.). Certamente si tratta di un’opzione di difficile ma non impossibile realizzazione che ha l’attrattiva di introdurre una componente di un welfare sovranazionale (gestito ed erogato dall’Unione) come simbolo di una solidarietà paneuropea che attualizza la vecchia prospettiva di un european dividend cui hanno guardato i federalisti europei sin dai primi spunti del Manifesto di Ventotene. In alcune zone dell’Unione europea ma anche a livello internazionale (dall’Ontario all’Aquitania, da Barcellona alla Finlandia) si è tentato nella stessa direzione “realistica” di sperimentare forme di reddito minimo garantito ma non finalizzate all’induzione più o meno forzata al reinserimento lavorativo in modo da verificare se davvero i soggetti beneficiari della misura siano disincentivati all’attività produttiva. Un rilancio dell’idea di un european dividend (un reddito minimo erogato dall’Unione), sia pure in chiave realistica e necessariamente gradualistica, ci sembra possa essere l’architrave di una politica antipopulista nel vecchio continente.

In primo luogo mostrerebbe come l’Unione prenda sul serio la Dichiarazione di Göteborg del novembre del 2017 sull’european social pillar (e del suo punto n. 14 sulla necessità di assicurare un adeguate minimum income), come un proprio imprescindibile “compito” per lo meno riguardo le garanzie di base del “cittadino laborioso”, proposta da collegare ad altri temi di straordinaria urgenza connessi alla “situazione sociale europea”, fonte di allarme e paura sulle quali prospera la mala pianta populista. Come un sistema unico di assicurazione contro la disoccupazione, la predisposizione di tutele per i nuovi lavori della digital economy (evitando una sorta di concorrenza sleale tra Stati membri che stanno regolando ciascuno per proprio conto la materia, nonostante il mercato comune), un salario minimo legale unitario e ragguagliato al tenore di vita dei singoli Stati, l’accesso ad una carta previdenziale europea che consenta il cumulo dei contributi lavorativi al di là della loro forma contrattuale etc.[17]. Si è parlato di “Unione sociale europea”[18] che, per lo meno su aspetti fondamentali, assicuri nel territorio Ue protezioni simili e garantite dal diritto Ue. Se per lo meno sul reddito minimo l’Unione potesse finanziare una piccola quota per tutti i cittadini attraverso risorse proprie, verrebbe compiuto anche il primo passo verso il superamento del carattere solo regolativo del capitolo sociale dell’Unione per cui questa si limita a disciplinare una materia ed a punire gli Stati disobbedienti ma senza che questo intervento sia visibile e diretto: l’arrivo di un assegno, per quanto di modesta entità, firmato da un organo sovranazionale (la Bce?) dimostrerebbe che l’Unione può proteggere le persone anche direttamente e, anzi, potrebbe costituire quel plus di forza ed autorità che in tempi di turbolenza planetaria e di riassestamenti dei poteri mondiali appare imprescindibile per uscire dall’ansia e dalla paura collettiva. Peraltro solo l’Ue possiede quella dimensione istituzionale minima che consentirebbe di imporre alle superpotenze societarie digitali di restituire (attraverso una web tax) qualcosa dell’espropriazione del nuovo “petrolio” contemporaneo e cioè dei big data[19] o di implementare una tobin tax efficace, operando così – attraverso l’erogazione in termini di reddito minimo dei relativi incassi – non solo una forma di redistribuzione equitativa ma anche – come sostiene l’economista Andrea Fumagalli e molti altri – una remunerazione di quell’attività di produzione quotidiana di ricchezza che tutti svolgiamo nel metterci in rete e comunicare in una rete universale[20].

Questa attribuzione minima monetaria a tutti i cittadini Ue dovrebbe accompagnarsi con una razionalizzazione dei sistemi di Rmg. Va sul punto segnalato che il 20.2.2019 il Comitato economico sociale dell’Unione europea ha finalmente richiesto con un cosiddetto “parere d’iniziativa” con una certa energia l’adozione di una direttiva sul reddito minimo garantito. Secondo il parere ormai schemi di reddito minimo garantito sono presenti in pratica in tutti i Paesi (effettivamente in tutti dopo che anche la Grecia e l’Italia li hanno adottati) ma in moltissimi Paesi gli schemi non sono “degni”, non riescono davvero a contrastare il rischio di esclusione sociale ed a ridurre i tassi di povertà che invece in molte zone sono in aumento. La promessa della Strategia 20-20 che voleva eliminare almeno il 20% dei poveri non sarà, sembra, mantenuta e il cosiddetto metodo aperto di coordinamento non riesce ad orientare davvero gli Stati ed ad imporre politiche più efficiente e rigorose; da ciò la necessità di una regolazione vincolante dell’Unione che stabilisca con la forza del diritto europeo dei criteri inderogabili per tutti gli Stati. A questa netta conclusione non erano arrivate neppure le tre Risoluzioni sul tema del Parlamento europeo certamente molto avanzate sul piano dei contenuti del 2009, del 2010 e del 2017 che non avevano mai osato infrangere il tabù per cui i “signori” della solidarietà dovevano rimanere gli Stati membri. Secondo il parere la base giuridica della ventilata “svolta” può essere individuato nell’articolo 153 Tfue; anche se si parla di “reinserimento dei lavoratori nel mercato del lavoro” secondo il Comitato la nozione di “ lavoratore” sarebbe quella per l’accesso ai sistemi di sicurezza sociale, quindi meramente “potenziale”, in modo da salvaguardare la vocazione universalistica ed inclusiva del reddito minimo garantito[21].

Importanti anche le indicazioni in ordine ai contenuti della futura direttiva – quadro: «l’introduzione di un reddito minimo deve aver luogo nel quadro di un approccio globale alle diverse necessità umane, che non si limiti a considerare il livello di mera sussistenza o semplicemente il tasso di povertà calcolato a partire dal reddito mediano, che in realtà in alcuni Paesi non corrisponde ai bisogni essenziali. Occorre pertanto integrare tutte le necessità in termini di tenore di vita, alloggio, istruzione, salute e cultura, al fine di offrire alle persone escluse dal mercato del lavoro e intrappolate nella povertà le migliori condizioni di integrazione o reinserimento. Le condizioni di accesso formano attualmente oggetto di dibattito, ma è necessario che vengano chiarite». Si allude agli studi di Amartya Sen ed alla sua teoria delle “capabilities”, le quali, ricorda il Comitato, si compongono di tre elementi: «Salute/aspettativa di vita ₋ Recenti studi hanno dimostrato che le persone che vivono in condizioni di povertà risparmiano sulle cure sanitarie, in particolare quelle dentistiche. Hanno uno stile di vita e un’alimentazione meno sani, ragion per cui soffrono maggiormente di problemi legati all’obesità. Tra i ricchi e i poveri esistono inoltre differenze notevoli anche in termini di aspettativa di vita. E un altro elemento di cui occorre tenere conto è costituito dalla gravosità del lavoro. Conoscenze/livello di istruzione ₋ Le statistiche indicano chiaramente che il livello di disoccupazione varia in base ai livelli di istruzione. Secondo i dati Eurostat del 2015, l’11 % degli europei di età compresa tra i 18 e i 24 anni ha abbandonato precocemente la scuola. Tenore di vita ₋ Nel potere d’acquisto vanno integrati tutti gli elementi della qualità della vita, non solo quelli relativi alla sopravvivenza alimentare. La mobilità e l’accesso alla cultura sono elementi importanti di integrazione/inclusione nel rapporto con gli altri e nella socialità, vale a dire i mezzi che permettono di non rinchiudere le persone povere in un isolamento che diventa un circolo vizioso di desocializzazione». Quindi si va ben oltre la richiesta di un reddito “adeguato” secondo i noti criteri sovranazionali (60% del reddito mediano con forme di tariffazione agevolata e copertura delle spese impreviste), per alludere ad una dimensione di accompagnamento della “fioritura umana” ben più ampia ed inclusiva. È vero che nel parere si ripropone, sia pure molto genericamente, la connessione con le politiche attive (senza avviare quella doverosa riflessione una loro plausibile riconfigurazione alla luce delle potenti trasformazioni tecnologiche in atto) ma ci sembra che questa apertura anche solo di tipo culturale (in una dimensione non strettamente “lavoristica” in senso tradizionale) sia molto apprezzabile.

Infine va ricordato come in ambito europeo in molti Stati si stanno moltiplicando forme ibride di Rmg che non sono vincolate al reinserimento lavorativo e che quindi sperimentano l’incondizionalità della prestazione sul capo: un modo non ideologico e pragramatico di verificare la sensatezza delle obiezioni che si muovono al reddito di base per il suo preteso carattere passivizzante, che non a caso è stato escluso alla luce delle sperimentazioni sin qui studiate.

Conclusioni

Insomma un deciso rilancio delle protezioni sociali, con al centro la garanzia di uno ius existentiae, ci sembra il modo in cui l’Unione potrebbe falsificare gli assunti irrazionali su cui si basa spessissimo la propaganda populista: che solo gli Stati riescono a proteggere le persone; che l’Unione riesce a regolare ed a punire chi trasgredisce ma non è in grado di intervenire direttamente sul campo essendo troppo lontana dalle situazioni di sofferenza e priva di apparati operativi propri; che il mercato comune sia per natura squilibrato a favore delle imprese rispetto agli Stati nazionali posto che il capitolo sociale dell’Unione è troppo ristretto e troppo differenti i sistemi di sicurezza sociale nazionali e via dicendo. L’Unione offrirebbe così il suo contributo fattivo anche per una razionale gestione della transizione tecnologica offrendo alle persone quella copertura di base che solo può salvaguardare oggi non solo la sicurezza ma anche l’autodeterminazione delle persone nelle scelte lavorative, favorendo la ricerca di quelle più creative ed appaganti. Un modo quindi per svelenire la transizione in atto ed evitare che il senso di paura dilagante porti al blocco dei processi innovativi. In conclusione ci sembra che il reddito di cittadinanza italiano, di recente istituzione, sia coerente su un punto importante con l’aspirazione, di cui si è detto, verso sistemi di garanzia dei bisogni vitali efficienti ed inclusivi: l’entità della misura introdotta è infatti abbastanza alta, tenuto conto delle medie continentali e sembra offrire una protezione significativa, non banale, alle famiglie in difficoltà, dopo anni di ostentato cinismo verso i più deboli. Tuttavia ci sembra che su alcuni aspetti ci sia una contraddizione con la prospettiva prima indicata. In primo luogo per la discriminazione indiretta plateale dei migranti ed anche degli stessi cittadini Ue sul punto del requisito dei dieci anni di residenza, già dichiarato violativo del diritto dell’Unione per prestazioni consimili dalla Corte di giustizia, che restituisce un’immagine di chiusura etnocentrica per una prestazione che è il correlato necessario (così la pensava anche Jaques Delors che voleva introdurre una direttiva già nel 1992) del mercato comune cui partecipiamo con l’insieme dei lavoratori che operano stabilmente nel nostro Paese. In secondo luogo il cosiddetto reddito di cittadinanza italiano appare troppo condizionato al lavoro[22], per lo meno nella narrazione tossica che alcuni esperti del Governo propongono della legislazione che, comunque, ha fornito qualche precisazione in ordine al carattere congruo delle occasioni offerte (che comunque saranno ben poche in questo contesto storico, da cui il carattere pletorico dell’apparato burocratico predisposto). La prestazione, inoltre, non è una misura a carattere individuale (come dovrebbe alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti) ed anzi configura delle odiose forme di responsabilità collettiva dell’intera famiglia per comportamenti non collaborativi dei singoli membri di questa. Infine prevede persino forme di lavoro servile obbligando i beneficiari a svolgere otto ore settimanali di “attività comunitaria” per conto dei Comuni. Si tratta certamente di una misura che abbiamo aspettato per ben 21 anni preceduta dal Reddito di inclusione del Governo Renzi che non poteva, per la sua esiguità scandalosa, essere in alcun modo ricondotto ad una misura di Rmg “all’europea” e che le recenti elezioni hanno giustamente consegnato alla damnatio memoriae. Il nuovo reddito di cittadinanza certamente apre una stagione nuova, realizza una discontinuità notevole con il passato di sprezzo e ignavia istituzionale per i poveri, ma mantiene un’ambiguità pericolosa sul punto dell’effettivo enforcement delle persone, le vincola inutilmente, non scommette sino in fondo sulla loro libertà ed autodeterminazione (anche lavorativa) e sulla loro eguaglianza perché a carattere marcatamente discriminatorio, non contribuisce (paradossalmente costituendo una forma di adeguamento alle indicazioni da decenni degli organi di Bruxelles), a creare (ed anzi osteggia) quella solidarietà paneuropea che oggi ci pare la vera posta in gioco e senza la quale tutti, vincenti e perdenti nel vecchio continente, verranno trascinati – volenti o meno – nel gorgo di una globalizzazione sregolata[23].

[1] Ma notoriamente anche per la direttiva 2003/109/Ce che, a certi fini previdenziali ed assistenziali (soprattutto per quest’ultimi in ordine alle prestazioni di carattere essenziale), equipara il trattamento dei cittadini Ue a quelli dei Paesi terzi legalmente residenti nei territori dell’Unione; cfr. la sentenza della Corte di giustizia del 2012, C-571/2010, Kamberay nella quale viene anche richiamato l’articolo 34 della Carta dei diritti a proposito di un contributo per l’alloggio della Provincia di Bolzano.

[2] Come ormai è chiaro a tutti il Reddito di cittadinanza del Governo italiano è in realtà un reddito minimo garantito che protegge coloro che sono a rischio sociale; da questo punto di vista si tratta di un abuso terminologico che tuttavia chi scrive non ritiene particolarmente grave in quanto anche questa misura rafforza in sé la cittadinanza impedendo che si determini una popolazione di “serie b” che concretamente non riesce a dare il proprio contributo alla società in cui vive, anche dal punto di vista della partecipazione democratica. Alla fine si tratta di una distinzione nata in ambito accademico che già nel 2004 era stata ignorata allorché il reddito minimo della Regione Campania (che comportava una minima copertura per soggetti davvero in situazioni di estrema difficoltà) fu chiamata enfaticamente “Reddito di cittadinanza”.   

[3] Sulla distinzione cfr. E. Granaglia, M. Bulzoni, M., Il reddito di base, Ediesse, Roma, 2016; S. Toso S., Reddito di cittadinanza o reddito minimo?, Il Mulino, Bologna, 2016.

[4] Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere dei diritti, Laterza, Roma- Bari, 2014; G. Bronzini, Il diritto a un reddito di base. Il welfare nell’età dell’innovazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2017; Giuseppe Allegri, Il reddito di base nell’era digitale. Libertà, solidarietà, condivisione, Fefè Editore, Roma, 2018.

[5] P. Van Parijs - Y. Vanderborght Y., Il reddito di base. Una proposta radicale, Bologna, Il Mulino, 2017; su tale Volume cfr. G. Bronzini, Verso una maggiore inclusività e promozionalità individuale, in Rassegna sindacale n. 3/2018.

[6] Cfr. la proposta di reddito di partecipazione (reddito condizionato allo svolgimento di un’attività socialmente utile ivi comprese quella di cura, di formazione, il lavoro volontario) avanzata dal notissimo economista neo-keynesiano Tony Atkinson nel recente, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Raffaello Cortina, Milano, 2017.

[7] Per un panorama del dibattito internazionale cfr. a cura del BIN (Basic income network) Italia, Reddito per tutti. Un’utopia possibile, Manifestolibri, Roma, 2009.

[8] M. Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino, 2019; cfr. anche M. Revelli, Populismo 2.0, Einaudi, Torino, 2017.

[9] E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2019, C. Mouffe, For a left populism, Verso, London, 2018. Nel volume del primo però il termine “populismo” è reso in una maniera così originale da rivelarsi piuttosto inservibile per le rozze e riduzioniste battaglie che si compiono nel suo nome perché si parte della negazione che esista un collante ontologico del “popolo”, una sua connotazione primaria e determinante, ma piuttosto si afferma che il “ popolo” si forma nella rivendicazione di significati e contenuti che trascendono il piano del discorso dominante e consolidato, il cosiddetto “linguaggio del padre” per dirla con Jacques Lacan o con il femminismo differenzialista («il popolo è in altre parole il profilo che la società assume nella sua rappresentazione politica, che è sempre distorta. Nevrotizzata, sintomatizzata dall’inaccessibilità della Cosa sociale ... È un popolo nella misura in cui si contrappone ad un sistema (differenziale ) antagonistico» – Introduzione di D. Tarizzo al Volume di Laclau, p. XVII); nel rendersi produttivo di questa apertura “comunicativa” democratica si costituisce il popolo (che non avendo presupposti sociali è più il contrario che il sostituto della vecchia “classe”) e questo stesso processo non può essere predefinito come di destra come di sinistra. Questa vuotezza della definizione del filosofo argentino è già stata individuata da S. Žižek, In difesa della cause perse, Ponte alle grazie, Milano, 2009, che ne ha mostrato l’astrattezza irriducibile che la distanzia dalle battaglie oggi imprescindibili come quelle in difesa dei migranti o per la salvaguardia dello Stato sociale. Il confronto è ricostruito anche nei primi capitoli del libro già citato di M. Revelli; cfr. anche P. Baker, Cos’è davvero il populismo, in Internazionale, 15.2.2019.

[10] Per una critica di stampo libertario e neo- anarchico alla politica folkish cfr. Srnicek N., Williams A., Inventare il futuro. Nero Edizioni, Roma, 2018.

[11] Cfr. F. Fukujama, Il populismo? È tutta colpa dell’autostima, in Ilsole24 ore, 24.2.2019.

[12] J. Rawls; Una teoria della giustizia. Feltrinelli, Milano, 1982.

[13]Si devono segnalare altri importanti volumi che hanno rilanciato il tema del reddito di base tra cui G. Standing, Basic income and how we can make it happen. Pelican Books, London, 2017; R. Bregman, Utopia per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale, Feltrinelli, Milano, 2017 e Z. Bauman, Retrotopia, Laterza, Roma-Bari, 2017.

[14] Cfr. il W.P. della Fondazione Rosa Luxembourg Stiftung di T. Scholz, Platform cooperativism. Challenging the corporate sharing economy, 2016.

[15] Cfr. il Report dell’Economist del gennaio 2017 leggibile a: www.economist.com/news/leaders/21714341-it-easy-say-people-need-keep-learning-throughout-their-careers-practicalities.

[16] Cfr. a cura del BIN (Basic income network) Italia, Reddito garantito e innovazione tecnologica. Tra algoritmi e robotica, Asterios, Trieste, 2017.

[17] Cfr. M. Ferrera, Prove di Unione sociale europea, in Il Corriere della sera, 25.2.2019  

[18] Cfr. a cura di G. Bronzini, Verso un pilastro sociale europeo?, Fondazione Basso, leggibile nel sito della Fondazione, 2019.

[19] Cfr. Quaderno reddito n. 9, a cura del Bin Italia , Big data, Webfare e reddito per tutti, Marzo 2019.

[20] A. Fumagalli, Economia politica del comune, Deriveapprodi, Roma, 2017.

[21] Per capire il valore “politico” del parere occorre leggerlo nel contesto del confronto che si è aperto in Europa sulla dimensione sociale dopo la Dichiarazione (con valore anche di Raccomandazione) del giugno del 2017 sull’european social pillar. Quest’ultimo documento che pure offre una ricognizione molto avanzata di 20 principi e diritti che devono essere salvaguardati nel vecchio continente, con un’attenzione particolare al tema delle garanzie welfaristiche (a cominciare dal reddito minimo di cui si predica con insistenza l’adeguatezza) è molto ambiguo sul problema delle competenze, se siano degli Stati, dell’Unione o condivise. Per il reddito minimo il Comitato vuole invece uscire dall’ambiguità: deve entrare in campo l’Unione con norme vincolanti sulla base di criteri condivisi nelle modalità di erogazione ed anche con un contributo per le risorse da impiegare attraverso la creazione di un Fondo ad hoc per il contrasto dell’esclusione sociale. La Commissione non può trincerarsi dietro il principio di sussidiarietà perché la situazione è troppo grave e perché il tema è l’architrave della costruzione di una autentica Europa sociale: «Il Cese, che condivide senza riserve i principi enunciati nel pilastro sociale, ritiene che l’adozione di un quadro europeo vincolante per l’introduzione di un reddito minimo dignitoso su scala europea darà concretezza alle dichiarazioni solenni che, a partire dalla Carta dei diritti sociali fondamentali, invocano tutte l’imprescindibile lotta contro l’esclusione sociale, e al tempo stesso veicolerà il messaggio che nel XXI secolo la costruzione europea non può essere realizzata senza preoccuparsi della vita dei cittadini europei» ( punto 3.1.10).

[22] Anche se in realtà chi è in formazione, chi svolge attività di cura per figli sino a tre anni, chi già lavora e chi non può lavorare non dovrà stipulare alcun patto per il lavoro, anche se questo aspetto viene rimosso dagli stessi esponenti del Governo che sottolineano solo le cosiddette norme “antidivano”.

[23] Sul cosiddetto Reddito di cittadinanza italiano cfr. G. Bronzini, Il reddito di cittadinanza: una tappa per un nuovo welfare e l’autodeterminazione delle persone, in www.volerelaluna.it, febbraio 2019.