Magistratura democratica

Corte costituzionale, sovranità popolare e “tirannia della maggioranza”

di Gaetano Silvestri
Il populismo è la versione estrema della “democrazia totalitaria”, contrapposta al principio della separazione dei poteri e basata sul presupposto che la volontà generale del popolo fa coincidere sempre l’essere con il dover essere. Esso è in irrimediabile contrasto con il concetto stesso di controllo di legittimità costituzionale delle leggi, il quale è sempre potenzialmente in conflitto con la volontà delle maggioranze politiche, passate e presenti.

1. Popolo, populismo e stravolgimento della democrazia

Uno dei temi periodicamente ricorrenti – e sempre centrale nelle discussioni sul complesso rapporto tra politica e giustizia – è quello della compatibilità tra principio della sovranità popolare (sancito dall’articolo 1, secondo comma, della Costituzione italiana e da tutte le Costituzioni democratiche contemporanee), principio di legalità (sancito dagli articoli 97, secondo comma, 101, secondo comma, e 113 della Costituzione italiana) posto a base, sin dalla Rivoluzione francese, dello Stato liberale, e rigidità della Costituzione (sancita dagli articoli 134 e seguenti della Costituzione italiana e propria ormai, dalla seconda metà del XX secolo, di tutti gli Stati costituzionali).

La successione delle forme di Stato non deve essere intesa come un superamento-azzeramento, nel senso che l’avvento di un nuovo assetto dei rapporti tra libertà ed autorità, tra popolo e Stato e tra Stato centrale e autonomie territoriali cancelli tutti i princìpi fondamentali pre-vigenti, ripartendo da una totale tabula rasa. È vero invece che alcuni elementi essenziali di una forma trasmigrano in quella nuova, anche se trasfigurati e ri-finalizzati. Così gli ordinamenti liberali, che hanno rimpiazzato l’assolutismo ancien régime, hanno mantenuto la struttura dello Stato nazionale ereditata da Vestfalia; gli Stati costituzionali, venuti in essere dopo la fine della seconda guerra mondiale, hanno mantenuto il principio di legalità e la separazione dei poteri ed infine gli ordinamenti sovranazionali, che tendono a sostituirsi agli Stati nazionali, tendono a mantenere, con varie Carte dei diritti, le garanzie giuridiche, democratiche e sociali conquistate dai cittadini negli ambiti nazionali.

Sulla base di questo progressivo superamento dialettico (nel senso della Aufhebung hegeliana) delle forme di Stato, possiamo dire oggi che lo Stato di diritto, figlio dei valori del liberalismo borghese del XIX secolo, è il “cuore antico” sia dello Stato costituzionale che degli ordinamenti sovra-nazionali ancora in fieri.

Il movimento dialettico di cui sopra – brevemente delineato, facendo astrazione delle specificità delle realtà storiche dei singoli Paesi – è passato, dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale, attraverso un radicale capovolgimento delle idee stesse di sovranità e di legittimazione del potere. Era chiaro a tutti, dopo l’orrore assoluto di Auschwitz, quale era stato l’approdo del fondamento di autorità dello Stato, poggiante sulla vuota forza, rispetto alla quale tutte le proclamazioni dei diritti erano meri orpelli retorici o, al massimo, concessioni, sempre revocabili, dei detentori del potere.

La persistenza del principio di autorità spiega la cattiva fama degli ideali dei diritti umani presso i rivoluzionari dei secoli passati, che avvertivano con immediatezza la discrepanza tra princìpi solennemente affermati e prassi, amministrative e giudiziarie, in netto contrasto.

L’avvento del suffragio universale – frutto di aspre lotte popolari – fece sperare nella caduta dello “Stato monoclasse” e nella trasformazione in senso pienamente democratico dei pubblici poteri. Ma le cose non furono così semplici. Al vecchio monarca assoluto, alla “dittatura della borghesia” e alla onnipotente sovranità dello Stato-autorità si sostituì il “popolo”, figura mistica destinata a formare una mescolanza micidiale con l’idea di nazione.

Nel mondo occidentale, dopo la Rivoluzione francese, a nessun capo politico venne più in mente di affermare la derivazione divina del proprio potere[1]; tutti, in un modo o nell’altro, si riferirono al “popolo”. Si posero in tal modo le basi per diverse forme di stravolgimento della democrazia, che vanno sotto la definizione comprensiva di “populismo”, l’unico vero antagonista dei princìpi dello Stato costituzionale nell’epoca contemporanea.

2. I Padri costituenti americani ed il timore della tirannia della maggioranza

I Founding Fathers americani, nel costruire la Carta fondamentale della prima democrazia moderna, si posero, com’è noto, il problema della tutela dei diritti dei singoli e delle minoranze in un sistema in cui le massime cariche dello Stato avrebbero avuto una origine elettiva. A cosa sarebbe servito aver lottato contro il tiranno inglese, se il popolo americano fosse stato soggiogato dalla tirannia di una maggioranza politica trasformata in maggioranza parlamentare? Tutto il sistema dei checks and balances della Costituzione statunitense è finalizzato ad evitare questo pericolo. E tuttavia ci si accorse ben presto che istituzioni non elettive, come la Corte suprema, andavano incontro a quella che venne definita counter-majoritarian difficulty, derivante dall’apparente contraddizione tra la sovranità popolare e il potere di un organo non elettivo di contrapporsi ad essa. Ciò divenne particolarmente chiaro quando, all’inizio dell’Ottocento, con la famosa pronuncia Marbury vs. Madison, ebbe inizio l’epoca del controllo diffuso di costituzionalità delle leggi, che consentiva ai giudici di annullare una legge – statale o federale – votata, anche a larga maggioranza, da un organo legislativo, i cui componenti erano eletti dal popolo.

Lo spirito pragmatico americano fu di aiuto per superare questa difficoltà, con la conseguenza che molti dei princìpi fondamentali della Costituzione Usa trovarono attuazione nella giurisprudenza della Corte suprema. Per riferirsi a vicende più vicine nel tempo, l’eliminazione delle leggi che sancivano la segregazione razziale fu opera di questa giurisprudenza, che tolse di mezzo atti legislativi approvati da forti maggioranze parlamentari.

La domanda che i seguaci di una democrazia “monista” si posero, fin da quei tempi, fu: chi ha dato a nove old lawyers l’autorità di annullare le decisioni di politici democraticamente eletti?

3. Persistente attualità della polemica tra Kelsen e Schmitt

Il quesito polemico era destinato a risuonare nei secoli: dalle preoccupate previsioni – europee e soprattutto francesi – dell’avvento di un “governo dei giudici”, all’avversione, di origine giacobina, verso ogni freno alla supremazia dei rappresentati del popolo, alla diffidenza, nei confronti degli stessi giudici, delle sinistre di ispirazione marxista, che in essi vedevano ostacoli conservatori alle riforme sociali, influenzate dal ricordo dello scontro, negli anni ’30 del XX secolo, tra la Corte suprema americana e il Presidente Roosevelt.

Come è noto, sul piano teorico la controversia si polarizzò in Europa attorno alle posizioni di Hans Kelsen e Carl Schmitt. Il primo sostenne la necessità di introdurre il controllo di costituzionalità delle leggi, per affermare al livello più alto il principio di legalità e affermare la rigidità della Costituzione. Il secondo difese la supremazia del politico e l’unità della decisione statale.

Non ripercorro questa polemica, oggetto ormai di innumerevoli studi. Mi limito a porre in evidenza un aspetto del pensiero di Schmitt, non sempre adeguatamente ricordato, che illumina meglio la sua radicale incompatibilità con la dottrina democratica di Kelsen, imperniata sulle istituzioni della rappresentanza parlamentare. Schmitt sosteneva la netta superiorità dell’acclamazione del capo sulle procedure elettorali di scelta dei governanti. Nell’acclamazione, il popolo si esprimerebbe in quanto comunità organica ed integrata da un comune sentire; nelle procedure elettive, il popolo sarebbe frantumato in una miriade di individui, isolati nelle cabine elettorali. Nell’acclamazione emergerebbe il vero “spirito” (Geist) collettivo popolare, nelle elezioni vi sarebbe soltanto una somma di solitudini.

In tutto il Novecento furono questi i termini dello scontro. L’entusiasmo delle grandi adunate popolari, che acclamavano il capo, si chiamasse Mussolini, Hitler o Stalin – cariche di entusiasmo, aizzate contro i sovversivi, gli ebrei, i nemici del popolo e quanti altri i capi volessero – eccitava l’immaginazione popolare molto di più delle farraginose procedure elettorali, che culminavano nell’elezione di grigi parlamentari in giacchetta, rissosi, divisi da divergenti interessi, inclini al compromesso, talvolta corrotti La teoria kelseniana del compromesso, come architrave della democrazia parlamentare, ripugnava in sommo grado al bellicismo delle piazze ed all’intransigenza di posizioni ideologiche estreme.

Dopo la tempesta della seconda guerra mondiale, vi fu quella che alcuni chiamarono la rinascita del giusnaturalismo, altri la tutela costituzionale dei valori, altri ancora la democrazia pluralista. In ognuna di queste definizioni si ritrovano gli elementi costitutivi della “resurrezione dopo Auschwitz” (Erziehung nach Auschwitz), titolo di un famoso saggio di Th. W. Adorno. Non a caso, le prime Costituzioni europee che recepirono questi indirizzi culturali furono quelle italiana e tedesca (1948 e 1949). In entrambe fece il suo ingresso il controllo di legittimità costituzionale delle leggi, affidato alla Corte costituzionale ed al Bundesverfassungsgericht.

4. Princìpi costituzionali e loro tutela giurisdizionale

Torniamo indietro, per un momento. alle risalenti, ma ancora vive, discussioni americane sul ruolo dei giudici nel sistema costituzionale.

La risposta alle perplessità “democratiche” sul controllo di legittimità costituzionale delle leggi si basava, e si basa, su una concezione “dualista” della democrazia, che integra sovranità popolare e tutela dei diritti fondamentali. Studiosi come Bruce Ackerman hanno tratto dalla storia costituzionale americana la conclusione che occorre distinguere tra “popolo” e “governanti”, tra princìpi intergenerazionali e politica contingente. Si può dire di più. La sostituzione del fondamento di valore al fondamento di autorità impone di ripensare alla ratio del patto originario di convivenza civile, che, come il contratto sociale di Locke e di Rousseau, giustifica il potere. Quest’ultimo non poggia più su se stesso, né, tanto meno, su valori religiosi o ideologici, ma sull’interesse fondamentale alla tutela dei diritti, in una prospettiva laica e mediante le istituzioni di una democrazia egualitaria.

Se questo è il Grundwert degli ordinamenti giuridici contemporanei, allora il dualismo della democrazia è l’unica soluzione possibile al dilemma della scelta tra potere popolare e garanzia stabile dei princìpi fondamentali. La tutela dei diritti fondamentali è, quindi, la pre-condizione dell’autorità democratica. Se vogliamo chiamare questa conclusione con il nome di “giusnaturalismo”, facciamolo pure, a patto di ricordare le parole di Norberto Bobbio sul giusnaturalismo storicizzato, ben diverso dall’antico giusnaturalismo di origine religiosa e dall’idea che esistano valori eterni scolpiti nel cuore degli uomini.

Alle Corti costituzionali è affidato il compito di preservare i princìpi intergenerazionali, sottraendoli alla fluttuazione delle maggioranze politiche. Se così non fosse, la rigidità delle Costituzioni sarebbe apparente ed illusoria, giacché ogni variazione illegittima rimarrebbe priva di conseguenze giuridiche, nel senso che non potrebbe essere sanzionata.

La tutela giurisdizionale delle norme costituzionali passa naturalmente per la strada dell’interpretazione, che non sfugge – sol perché ha ad oggetto atti legislativi – alle comuni tecniche ermeneutiche. D’altra parte, le norme costituzionali di principio devono abbondare di espressioni indeterminate, se la Costituzione deve essere realmente e storicamente rigida. La concretizzazione dei princìpi costituzionali è opera del legislatore, ma anche del giudice delle leggi. In caso contrario, la Costituzione perderebbe gran parte della sua rigidità, rimanendo un prodotto datato nel tempo e sempre più “imbalsamato” con il passare degli anni. Difatti sarebbe molto difficile – per non dire impossibile – ad una Corte che non potesse operare sui princìpi svolgere un pieno controllo di legittimità. Si dovrebbe limitare alle poche e rare violazioni di precise regole contenute nel testo della Carta. Avrebbe un ruolo marginale e pressoché inutile. Proprio ciò che gran parte della politica desidera.

5. Composizione della Corte costituzionale e “separazione temporale dei poteri”

Da quanto detto sinora si deduce che il risorgente “populismo” dell’epoca moderna – legato ad ondeggiamenti di opinione e indirizzi congiunturali, frutto più di fattori emozionali che di pacata riflessione – è in irrimediabile contrasto con il concetto stesso di controllo di legittimità costituzionale delle leggi.

Tutte le leggi, che non siano frutto dell’imposizione violenta di un dittatore, sono approvate da una maggioranza parlamentare composta di eletti dal popolo. Il giudizio di una Corte costituzionale – se vuole essere effettivo e non di mera ratifica burocratica – è sempre potenzialmente in conflitto con la volontà delle maggioranze politiche, passate e presenti. La Costituzione non è infatti una legge che spiega effetti solo in un arco di tempo delimitato da un dies a quo ed un dies ad quem. Essa opera una legittimazione originaria e continua dell’intero sistema normativo vigente, quale che sia il tempo in cui le singole leggi sono state approvate. Lo ha chiarito la Corte costituzionale italiana sin dalla sua prima sentenza.

A maggior ragione vi sarebbe necessità di un controllo “a mente fredda”, se le leggi fossero il risultato di semplificate consultazioni referendarie o, ancor peggio, di incontrollate procedure informatiche. Questo tipo di deliberazioni sono, più di quelle parlamentari, legate a situazioni congiunturali o a stati d’animo momentanei.

Perché i princìpi costituzionali possano essere sottratti ad opinioni ed emozioni transeunti, la composizione della Corte non può che essere pluralista e diacronica. Pluralista, perché la provenienza dei suoi membri dalla stessa fonte attribuirebbe di fatto a quest’ultima un potere di indirizzo incompatibile con il suo ruolo di controllore indipendente. Diacronica, perché i giudici che la compongono devono entrarne a far parte in contesti politici differenti, in considerazione che pure le istituzioni dotate del potere di nomina o elezione mutano nel tempo. Occorrerebbe assimilare sino in fondo la logica sottostante alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, che si può riassumere nella formula della «separazione anche temporale dei poteri», in base alla quale si tende ad evitare, nei limiti del possibile, che una maggioranza politica, coagulatasi in un dato momento, eserciti un potere concentrato e intangibile in danno del resto del popolo[2].

Il “populismo” è la versione estrema – resa grossolana dalle facili semplificazioni dei social network – della “democrazia totalitaria”, contrapposta, nell’epoca moderna, al principio della separazione dei poteri e basata sul presupposto che la volontà generale del popolo fa coincidere sempre l’essere con il dover essere. Le odierne manipolazioni informatiche sono la versione evoluta del demagogo che finge di essere ispirato da Dio mediante un uccello che gli parla all’orecchio, su cui ironizzava Jean-Jaques Rousseau (Contratto sociale, L. II, Cap. VII), del cui nome troppo spesso si abusa. Una volta divinizzata un’astratta volontà popolare, si possono escogitare gli equivalenti informatici del volatile roussoiano.

La vecchia, noiosa democrazia rappresentativa richiede procedure precise e garantite di manifestazione della volontà popolare. D’altra parte, ad esempio, se la pressione della criminalità organizzata riesce a farsi sentire anche dentro le cabine elettorali, quale controllo è possibile sulle situazioni ambientali in cui viene espresso il voto on line, oggi tanto di moda?

Occorre riflettere su ogni deroga, aperta o indiretta, al principio sancito dall’articolo 48, in base al quale il voto deve essere «libero e segreto». Deve essere segreto perché sia effettivamente libero. Per tale motivo si usano le schede di Stato per le votazioni e vengono apprestati speciali accorgimenti per assicurarsi che gli elettori non subiscano pressioni o suggestioni nel momento in cui esprimono le proprie scelte. Chi è presente insieme all’elettore mentre vota da una postazione informatica? Non è dato saperlo. Non si tratta soltanto di questioni tecniche, ma di elementari condizioni pratiche perché la volontà popolare sia espressa in condizioni da garantirne – al massimo del possibile – la genuinità. Tutto ciò a parte delle possibili manipolazioni di chi gestisce il sistema informatico. Oggi il voto in rete appare la versione modernizzata dell’antica acclamazione, di cui parlava Schmitt.

Da qualche tempo la Corte costituzionale ha mostrato un controllo maggiore che nel passato sui meccanismi di trasformazione dei voti in seggi, allo scopo di evitare che la (spesso immaginaria) governabilità comprima in maniera eccessiva la necessaria rappresentatività delle assemblee elettive. Sono certo che il giudice delle leggi non consentirebbe che procedure, già discutibili in ambiti privati, fossero, anche minimamente, trasferite nella sfera pubblica. Occorrerebbe anche valutare quanto oggi sia rispettato il divieto di mandato imperativo, di cui all’articolo 67 della Costituzione, estremo baluardo della libertà contro la dittatura dei partiti ieri e dei capipopolo oggi.

6. Odio “popolare” e protezione delle minoranze e dei soggetti deboli

Si possono indicare – solo come esempi – due campi in cui l’azione della Corte costituzionale si è già rivolta a tutelare i diritti di soggetti deboli e di minoranze: i detenuti e gli immigrati. In entrambi i casi, le ventate irrazionali di odio di massa possono dare supporto ad una legislazione “populista”, attenta ad assecondare gli umori del momento, trascurando i princìpi costituzionali.

 

6.1. Tra i leit-motiv della percezione emozionale immediata dei rapporti tra Stato e cittadini primeggia l’idea che l’espiazione della pena – specie per gravi delitti – debba essere ispirata a criteri afflittivi tanto forti, da spingere in secondo piano la tutela dei diritti fondamentali di persone, che, per aver commesso rilevanti violazioni della legge penale, avrebbero perduto la loro dignità di esseri umani.

Ondate di “indignazione” per la concessione di benefici penitenziari a soggetti reclusi percorrono periodicamente parte dell’opinione pubblica, influenzata da campagne di stampa, o sui social, tendenti a diffondere la rabbia per le condizioni non sufficientemente dure dei detenuti o per le concessioni di misure di vario genere, che portano alla scarcerazione, temporanea o definitiva, dei condannati. Poco si fa nella scuola, nei mass-media ed in tutte le sedi di formazione della cultura diffusa per dare sostanza effettiva al principio, emergente dalla Costituzione, in base al quale la massima afflizione che può essere stabilita per un essere umano è la privazione della libertà personale. Talvolta il “senso comune” – storica stratificazione dei pregiudizi – accetta come conseguenza naturale che la condanna alla detenzione implichi sofferenze ulteriori, oltre quelle, inevitabili, derivanti dalla mancanza di libertà.

La Corte costituzionale e la Corte europea dei diritti dell’uomo hanno ripetutamente contraddetto questa crudele convinzione “popolare”, in diretto contrasto con il principio della funzione rieducativa della pena (articolo 27, terzo comma, della Costituzione), vanificato da condizioni e trattamenti carcerari offensivi della dignità della persona umana e quindi possibili cause di aumentata ostilità del detenuto verso la società e le leggi che la governano.

La prevalenza delle esigenze securitarie e di difesa sociale su ogni altro principio costituzionale ha introdotto, e continua ad introdurre, nel “senso comune” la convinzione che l’asprezza delle condizioni in cui si sconta la pena abbia un’efficacia dissuasiva supplementare rispetto alla misura detentiva, in sé e per sé considerata. Chi non ha sentito, nei bar, sui treni ed in tanti altri luoghi di temporaneo ritrovo, deplorare a gran voce le “comodità” dei carcerati, il “lassismo” (detto anche, con orribile neologismo, “buonismo”) che porta ad anticipate liberazioni, offendendo così il senso di giustizia dei cittadini e il dolore delle vittime dei reati. Tanti pregiudizi e piccole ferocie messi insieme formano talvolta maggioranze elettorali e parlamentari. Se poi venisse fortemente attenuata la mediazione del confronto nelle assemblee rappresentative, la strada della facile trasformazione del pregiudizio in legge dello Stato sarebbe spianata.

Sul tema del divieto di trattamenti disumani e degradanti, si è verificata una significativa convergenza tra Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale italiana (sentenza Torregiani e sentenza n. 279 del 2013). Dopo il monito della Corte, seguirono i provvedimenti urgenti sulla liberazione anticipata, che determinarono l’attenuazione del sovraffollamento delle carceri, ma oggi la situazione tende ad essere di nuovo critica e pertanto si renderebbero necessarie misure legislative di sistema per avviare a soluzione il problema.

È facile prevedere che le suggestioni e gli allarmismi politicamente guidati e utilizzati degli ultimi anni renderanno improbabile una riforma penitenziaria ispirata ai princìpi costituzionali ed europei. Se così dovesse essere, ridiventerebbe attuale il monito del giudice delle leggi e si aprirebbe nuovamente la prospettiva di una pronuncia di accoglimento atta a trovare un rimedio effettivo e duraturo ad una situazione giudicata intollerabile alla luce dei più elementari princìpi di civiltà giuridica nell’era dello Stato costituzionale. Lo ha ribadito recentemente il presidente Lattanzi in un’intervista a Radio radicale del 14 febbraio 2019[3].

Una simile determinazione della Corte costituzionale sarebbe in palese controtendenza con il clima di vendetta sociale che si vorrebbe far prevalere da alcune rilevanti forze politiche, ma sarebbe ugualmente necessaria. Il giudice costituzionale – come qualsiasi altro giudice – non cerca il consenso immediato di folle incattivite e rumorose, ma mantiene saldo il proprio ancoraggio ai princìpi, almeno sinché non venga messo a tacere con la forza o con leggi autoritarie, come è accaduto recentemente in Turchia, in Ungheria o in Polonia.   

Ciò che contraddistingue la Corte costituzionale è l’oggetto della sua giurisdizione, le leggi, che sono il precipitato normativo dell’indirizzo politico delle maggioranze del momento. Ritenendo incostituzionale una legge, la Corte dichiara incostituzionale l’indirizzo politico che l’ha prodotta, diceva anni addietro Temistocle Martines. L’osservazione vale anche per le omissioni legislative, che hanno dato luogo ad una nutrita serie di sentenze “additive”, introdotte proprio perché si può ferire la Costituzione anche omettendo di legiferare. Chi non ricorda le dure parole di Piero Calamandrei sul cd. “ostruzionismo di maggioranza”, quell’inerzia voluta e programmata che, per molti anni, “congelò” la Costituzione, a cominciare, appunto, dalla Corte costituzionale, le cui potenzialità eversive per gli assetti politico-sociali dominanti erano state percepite dalle maggioranze politiche dell’epoca?

La giurisprudenza costituzionale ha sviluppato – in coerenza con l’orientamento culturale e giuridico cui si accennava prima – il grande tema dei diritti dei detenuti, vere e proprie pretese assistite dalla tutela giurisdizionale. A titolo di esempio, si possono vedere le sentenze n. 341 del 2006, sui diritti del detenuto lavoratore e n. 135 del 2013 sull’effettività delle decisioni dal giudice di sorveglianza sui ricorsi dei detenuti. In entrambi i casi – come in molti altri – la Corte, nel ribadire l’esigenza di un ragionevole bilanciamento tra esigenze di difesa sociale e diritti fondamentali, ha escluso che questi ultimi possano essere intaccati nel loro nucleo essenziale. Tale possibilità si aprirebbe in concreto se, nell’operazione di bilanciamento si desse in partenza un peso eccessivo alle prime, con l’esito di una apparente proporzionalità, ispirata più al “senso comune” del momento che ai valori sottostanti al costituzionalismo moderno.

 

6.2. Un altro argomento che infiamma masse crescenti di persone è l’afflusso massiccio di immigrati in Europa ed in particolar modo in Italia. L’immigrato, regolare o irregolare che sia, per definizione è causa di disordine, pericolo per la sicurezza e violazione della legge. La fobia giunge sino a mettere in luce il fondo razzista che si maschera dietro l’enfatizzazione delle preoccupazioni securitarie. Difatti si bolla come “ingiustizia” l’erogazione anche agli stranieri di misure di tutela sociale previste dalle leggi per i cittadini italiani. Di qui la richiesta di escludere i non-italiani da ogni prestazione sociale o, almeno, la previsione di requisiti più stringenti rispetto agli italiani.

La Corte costituzionale ha sempre giudicato in contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione tutte le condizioni aggiuntive previste per gli stranieri, che non trovassero adeguata giustificazione in esigenze obiettive legate alla natura stessa della prestazione.

La giurisprudenza in materia è abbondante. Sembra sufficiente un rapido florilegio, per avere un’idea della costante opposizione del giudice delle leggi alla pretesa di escludere gli stranieri dal godimento di prestazioni necessarie alla soddisfazione di diritti fondamentali.

Lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha diritto di fruire di tutte le prestazioni sanitarie che risultino indifferibili ed urgenti, trattandosi di un diritto fondamentale della persona (sentenza n. 252 del 2001).

È costituzionalmente illegittimo non includere gli stranieri residenti nella Regione Lombardia fra gli aventi diritto alla circolazione gratuita  sui servizi di trasporto pubblico di linea riconosciuto alle persone totalmente invalide per cause civili (sentenza n. 432 del 2005).

Ai fini dell’attribuzione di provvidenze, i cui presupposti sono la totale disabilità al lavoro e l’incapacità di deambulazione autonoma o al compimento degli atti quotidiani della vita, è irragionevole discriminare gli stranieri, quando non sia in discussione il diritto a soggiornare, stabilendo nei loro confronti particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondamentali della persona, riconosciuti invece ai cittadini (sentenza n. 306 del 2008).

Esiste un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, riconosciuto anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso (sentenza n. 269 del 2010).

Provvidenze volte al sostegno delle persone in stato di bisogno e di disagio non tollerano distinzioni basate sulla cittadinanza o su particolari tipologie di residenza (sentenza n. 40 del 2011).

È costituzionalmente illegittimo subordinare la concessione di una provvidenza regionale di assistenza sociale avente natura economica al possesso del requisito della residenza protratta per un predeterminato e significativo periodo, non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona, cui la provvidenza stessa intende sopperire (sentenza n. 2 del 2013).

È costituzionalmente illegittimo subordinare al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio della Stato della pensione spettante alle persone non vedenti e della speciale indennità (sentenza n. 22 del 2015).

La previsione di un lungo periodo di residenza (dieci anni consecutivi) per l’accesso alla procedura per l’ottenimento di un alloggio è viziata di irragionevolezza e mancanza di proporzionalità (risolventesi in una forma dissimulata di discriminazione nei confronti degli extracomunitari) poiché il diritto all’abitazione attiene alla dignità e alla vita di ogni persona e, quindi, anche dello straniero presente nel territorio dello Stato (sentenza n. 106 del 2018).

La discriminazione anti-straniero può essere diretta, mediante limitazioni o divieti espliciti, o indiretta, mediante imposizione di pre-condizioni impossibili o molto gravose. Dal puto di vista della legittimità costituzionale, il risultato è equivalente.

È impressionante il numero di tentativi di discriminazione degli stranieri messi in atto mediante leggi, per lo più regionali, e neutralizzati da sentenze costituzionali. Purtroppo dobbiamo aspettarci che la Corte sia messa di nuovo ed in modo più drammatico, nel prossimo futuro, nella necessità di subire l’impopolarità e il discredito organizzato, se continuerà a mantenere ferma la barriera giurisdizionale in difesa di una corretta applicazione degli articoli 2 e 3 della Costituzione. Sarebbe importante far sentire al giudice delle leggi l’appoggio e la solidarietà dei “chierici”, i giuristi, che rappresentano quella informed opinion di cui parlavano i costituzionalisti inglesi del XIX secolo e che, ancora oggi, conserva un’importante funzione di stimolo, orientamento e resistenza culturale e civile.

7. Autoritarismo di massa e sistema delle garanzie

Partendo dalla considerazione che il potere è la somma algebrica della forza e della resistenza alla stessa, dobbiamo precisare che la capacità della Corte costituzionale di arginare la spinta costrittiva di quello che potremmo oggi definire “autoritarismo di massa” dipende, in buona parte, dalla tenuta dell’intelaiatura garantista dell’intero sistema costituzionale.

Una Corte costituzionale senza giudici comuni indipendenti sarebbe così debole da rasentare l’irrilevanza. Giudici indipendenti senza una Corte costituzionale forte e incurante delle pressioni politiche tornerebbero ad essere “schiavi” delle leggi approvate da transeunti maggioranze parlamentari o da atti normativi del Governo, solo formalmente passati al vaglio dei rappresentanti del popolo. Un Presidente della Repubblica privo di rapporti di mutuo appoggio con altri organi di garanzia rimarrebbe isolato ed esposto al logoramento. L’arroccamento di una maggioranza parlamentare autosufficiente, chiusa al dialogo con deboli opposizioni, farebbe venir meno le opportunità per formare quei “compromessi”, che Hans Kelsen riteneva il sale della democrazia rappresentativa. Diverrebbe anche più difficile controllare la violazione delle norme costituzionali sul procedimento legislativo, come dimostrano fatti recenti.

La somma di queste situazioni anomale, accompagnata da tripudi di piazza, sarebbe l’inizio della fine della democrazia pluralista, quale ci è stata consegnata dai nostri Padri costituenti, dopo la caduta del regime fascista.

Sarebbe, in tale sciagurata ipotesi, magra consolazione il mea culpa di alcuni degli apprendisti stregoni che hanno contribuito – con miopia, ingenuità e presunzione – ad arrivare a tal punto.

[1] Al massimo rimanevano riferimenti ad una tradizionale legittimazione trascendente in alcune Carte statutarie di monarchie costituzionali, come lo Statuto albertino, ove la dignità regia era fatta risalire, con formula di compromesso, alla “grazia di Dio”, ma anche alla “volontà della Nazione”. Se il re, in questo tipo di Stato, regnava, ma non governava, i politici, che governavano effettivamente, non si appellavano certamente ad una investitura divina. 

[2] A questo fine rispondono il rinnovo parziale delle Camere e la nomina a vita dei giudici della Corte suprema, giacché il mandato del presidente – titolare del potere di nomina – può durare, al massimo, otto anni, inclusa una eventuale rielezione. Ciascun presidente si trova pertanto di fronte una Corte composta, per lo più, da giudici nominati dai suoi predecessori, i quali, per la prevedibile “oscillazione del pendolo”, erano, almeno in parte, esponenti del partito avverso.

[3] Consulta e Carcere: intervista al Presidente Giorgio Lattanzi, www.radioradicale.it/scheda/565973/consulta-e-carcere-intervista-al-presidente-giorgio-lattanzi.