Magistratura democratica

Un esempio virtuoso di comunicazione, l’etica della relazione

di Elvio Fassone

Lo scritto affronta il tema da un'angolatura diversa da quella convenzionale, secondo la quale la “comunicazione” è il portare alla conoscenza di terzi notizie o informazioni che per loro natura debbono restare più o meno riservate: l'A. prende invece in esame quella comunicazione che consiste nel modo tacito di porsi e di proporsi del magistrato nei confronti del cittadino suo interlocutore, attraverso il comportamento, gli atteggiamenti, lo stile, il linguaggio e tutto ciò che, anche non intenzionalmente, contribuisce a costituire la relazione.

In questo modo comportamentale di comunicare non viene manifestata un'informazione o una notizia, ma il modo intimo e per lo più inconsapevole di interpretare il rapporto tra il magistrato ed il cittadino: a quest'ultimo non interessa sapere se il magistrato ha determinate qualità caratteriali, ma attraverso quellaforma di comunicazione il cittadino individua il livello di rispetto che il magistrato esprime verso la dignità del suo interlocutore. Più ancora, quel modo di porsi del magistrato, moltiplicato per la pluralità delle relazioni quotidiane, determina la sua immagine diffusa nel sentire comune, e quindi il consenso più o meno ampio del quale la magistratura gode nell'opinione pubblica, prezioso sostegno nelle frequenti tensioni con il potere politico.

Attraverso una sintetica rassegna di condotte, abitudini e linguaggi l'A. finisce con l'individuare un'interpretazione del ruolo (non universale, ma largamente diffusa) connotata da rigidità, formalismo, ostentato distacco e indifferenza agli aspetti umani della relazione, quasi che l'essere il magistrato definito come organo super partes lo connotasse come “al di sopra” anche psicologicamente e socialmente. Auspica, quindi, che si diffonda una maggior sensibilità verso questo aspetto della funzione, a tutto vantaggio del consenso del quale la giurisdizione ha necessità.

1. Penso di dovere il titolo, anche troppo lusinghiero, di questo scritto al fatto di avere pubblicato un libro[1] che la vita ha scritto per mia interposta persona. Narra la storia vera di una corrispondenza durata ventisei anni (ma oggi sono diventati più di trenta, ed è probabile che lo scambio continuerà fino a che i due corrispondenti saranno in vita) tra un ergastolano ed un giudice. Già la durata è straordinaria, se si pensa che il celebratissimo scambio epistolare tra Eloisa e Abelardo si estese per un numero di anni assai minore; ma ancora più inconsueto è il fatto che quel giudice fu il presidente della Corte d'assise che irrogò l'ergastolo al detenuto. Carnefice e vittima, se vogliamo dirlo in modo truculento.

Bene. Ma che c'entra – è lecito domandarsi – una situazione del genere con il tema della comunicazione? Si può serenamente escludere che, ricordando quella vicenda, si vogliano invitare i magistrati ad intrattenere uno scambio epistolare con gli imputati o le parti, sia pure dopo che il giudizio si è concluso. Sarebbe folle. Così pure è poco probabile (anche se uno sforzo in tal senso andrebbe fatto) che si voglia ricordare come il processo, in particolare il processo penale, non si esaurisce con la sentenza, ma prosegue anche dopo che le luci si sono spente, le televisioni e i giornali hanno ritirato l'attenzione, e il condannato rimane solo con la sterminata distesa di giorni e di anni da attraversare. Sì, certo, c'è ancora il magistrato di sorveglianza sulla scena, ma non è quella, o non è solo quella l'attenzione comunicativa della quale si avverte il bisogno.

Allora perché si parla di comunicazione virtuosa? vogliamo forse ammodernare il libro «Cuore» in versione anni 2000, con l'ergastolano nei panni di Franti e il giudice ad imitare il buon parroco in versione togata? Anche questo è improbabile, dunque conviene chiederci a quale tipo di virtù ci si riferisce.

 

2. «Il giurista – ha scritto Donatella Stasio[2] – non può chiamarsi fuori dalla responsabilità di comunicare, e di farlo in modo inclusivo, per testimoniare la coscienza del nostro stare insieme ed essere protagonista della nostra storia comune». Prendo le mosse di qui, in particolare dall'accenno alla «coscienza del nostro stare insieme», combinato con l'importanza straripante che la comunicazione ha assunto e con il ruolo sociale che il giurista esercita.

L'assunto si scompone subito in varie domande ulteriori: vale esso anche per quel giurista particolare che è il magistrato? vale allo stesso modo per il pubblico ministero e per il giudice? e soprattutto: che cosa s'intende per «comunicare in modo inclusivo»?

La risposta alle prime due domande sembra ovvia. Ma qualche messa a punto è necessaria, e tanto più lo è se si ha riguardo alla terza.

Uno dei primi insegnamenti che veniva impartito dai colleghi anziani ai giovani magistrati era perentorio: ricordati che un giudice si esprime solo attraverso i suoi provvedimenti. Altri precetti spiccioli certamente vi erano, per lo più intuitivi e non codificati. Ma questo era un cardine della pedagogia togata, solennizzava il riserbo e lo cuciva sulla persona come un modello capace di condensare un intero decalogo.

Questo invito a sottomettere la parola al silenzio non era percepito – se intendo bene anche il sentire altrui – come una limitazione faticosa, tanto meno come l'esproprio di un diritto fondamentale; né ci si affrettava a distinguere tra giudici e pubblici ministeri, o tra capi degli uffici e sostituti o subalterni. Esso era accettato come uno scudo contro i fraintendimenti e le possibili distorsioni del proprio pensiero, tanto più facili quanto più delicato il caso trattato: era addirittura sentito come un blasone del quale andare orgogliosi. Il contegno riservato era il cardine della nostra deontologia, il tipico modo di porsi e di proporsi, l'abito elegante ma non ricercato, adatto ad ogni cerimonia.

Le tre domande in questione avevano una risposta obbligata e lineare: non c'è alcun problema di comunicazione, né alcuna distinzione di funzioni, per la semplice ragione che il magistrato non ha nulla da comunicare.

 

3. È superfluo ricordare quanto il costume sia mutato e quanto il protagonismo stimolato dai media abbia coinvolto anche la magistratura. Altrettanto risaputo è il dovere di trasparenza (parola abusata, sebbene l'aspettativa sia in sé legittima) che involge tutte le istituzioni, inclusa quindi la magistratura. Se anche la giurisdizione soggiace al principio della “casa di vetro”, è evidente che il comunicare, cioè il mettere in comune una o più informazioni, riguarda essenzialmente le informazioni che di per sé sono riservate. E poiché il giudice agisce in una dimensione che è intrinsecamente pubblica (sia nel dibattimento, sia nei provvedimenti che emana prima di detta fase, i quali per loro natura sono destinati ad essere conosciuti); ne consegue che la responsabilità del comunicare, ed i contenuti del relativo concetto, si atteggiano diversamente a seconda che si parli del pubblico ministero o del giudice.

Che le due figure siano diverse lo sappiamo da sempre: ma anche nelle tematiche qui in discussione dobbiamo rilevare un'ulteriore differenza tra le due funzioni, e quindi tornare a proporci le domande la cui risposta pareva scontata: se al pubblico ministero compete la funzione di comunicare (quanto meno ciò che è ostensibile) nel senso convenzionale della parola, quanto vale per lui il dovere di riserbo che eravamo avvezzi a considerare valido per tutti i magistrati? e se il giudice non ha, tipicamente, un agire che non sia già di per sé pubblico, quale significato può avere la sua responsabilità di comunicare?

Del difficile rapporto tra aspettativa di conoscenza (in capo al cittadino) e dovere di riservatezza (in capo al magistrato) si occupano altri. Mi ritaglio unicamente una considerazione, non sempre condivisa: la comunicazione (il mettere in comune) è diventato un dovere ipertrofico grazie ad una sua lettura “super-democratica”, combinata con la pressione dei media, interessati ad assecondarla. In conseguenza si è generato un discutibile diritto di sapere, di sapere tutto e di sapere subito: anche solo il silenzio temporaneo per tutelare l'efficacia delle indagini evoca suggestioni di arcana imperii e sospetti di oscuri obiettivi.

Nei confronti di questa pressione allo svelamento è assai ben disposto il difensore (felice di avere una telecamera dalla quale ricevere qualche particolare in più dall'antagonista, ed alla quale comunicare la sicura innocenza dell'indagato); e di rimbalzo a questa pressione finisce con il sottomettersi anche il pubblico ministero in nome della par condicio e, sia detto senza malizia, dell'umana attrazione che esercita la notorietà.Lo conferma una facile verifica: se chiediamo ad alcuni cittadini, non addetti ai lavori, di fare il nome di magistrati di cui abbiano conoscenza, tutti saranno in grado di elencare almeno una mezza dozzina di pubblici ministeri, quasi nessuno ricorderà il nome di un solo giudice.

È inutile lamentarsi, né credo che i giudici si dolgano di una scarsa visibilità. Se mai è l'autorevolezza del processo che ne soffre. Ma una giustizia troppo lenta inevitabilmente viene supplita da un processo anticipato celebrato fuori dalle aule: e quando si nobilita una prassi discutibile con il richiamo ai valori costituzionali (la “trasparenza dell'amministrazione” è stata espressamente uno degli obiettivi che i pubblici uffici devono assicurare ai cittadini, secondo la modifica all'articolo 97 proposta nella riforma della Costituzione bocciata con il referendum del 2016) sbiadiscono le antiche esortazioni al riserbo e le virtù d'antan sono sostituite da quelle moderne.

 

4. È lecito, dunque, affermare che la comunicazione, intesa come relazione con l'esterno, trova per intanto una risposta diversa a seconda delle funzioni di giudice o di pubblico ministero. Ulteriore conseguenza parrebbe quella per cui, se il giudice agisce in una dimensione costantemente pubblica, per lui non esiste il problema della comunicazione, nell'accezione che ci è familiare.

Ma questa seconda proposizione non appaga. Ognuno avverte che non si comunica solamente attraverso le conferenze stampa, o comunque nel rendere noto ciò che l'ufficio ha fatto o sta facendo o intende fare. In una parola, non si comunica solo con il fornire informazioni: tutta la pedagogia del riserbo, tutta la casistica e la guerriglia tra quel che si può e ciò che non si deve comunicare, sono lontane dall'esaurire il modo di porsi del magistrato nella quotidianità del suo lavoro, e quindi in sostanza il suo comunicare con il cittadino. La comunicazione – così suggerisce lo spirito che anima i contributi qui raccolti – non è solo svelamentodi notizie, ma anche manifestazione del proprio essere attraverso i modi del proprio agire.  

È questa, verosimilmente, la nuova frontiera e la nuova responsabilità del comunicare, di cui si parlava all'inizio. Dicendo questo, non si sminuisce affatto tutta la deontologia formatasi intorno alla prima accezione, non si getta al macero né il riserbo né la trasparenza: si percepisce che sta crescendo un'altra modalità del comunicare e la relativa sensibilità al riguardo.

 

5. Che si comunichi anche con il proprio comportamento può sembrare un banale psicologismo da salotto. Resta però vero che c'è un agire comunicativo che sta venendo sempre più in luce, e che sta affiancandosi a quella virtù (il riserbo) che alla fin fine era una virtù di mero contenimento. Il “comunicare” dal quale abbiamo preso le mosse è allora una diversa espressività fatta non di trasmissione di informazioni, ma del modo di proporsi dell'individuo.  

Non si comunica un fatto od un'opinione o un messaggio, ma una moralità di fondo, un'interpretazione del ruolo ispirata alla consapevolezza che il rapporto tra il magistrato e il cittadino è inteso come un rapporto tra persone di pari dignità. Questa diversa espressività non fa ancora parte di nessun codice deontologico, ma segnala l'aspirazione a che anche il modo di rappresentare l'istituzione sia orientato da una qualche etica della relazione.  

Se questo è vero, l'acquisizione cessa di appartenere solo al campo della psicologia o del comportamento, per affacciarsi su quello della politica giudiziaria. Quanto vale, a che serve questa comunicazione? che se ne fa il cittadino, suo destinatario, del sapere che quel magistrato è timido o arrogante, impulsivo o pacato, rispettoso o scostante? e, soprattutto, che se ne fa il magistrato?

Nell'immediato il cittadino-utente (brutta parola, ma è ormai nell'uso) non ne ricava nulla, se non la constatazione che quel magistrato è un individuo dotato di quelle qualità, positive o negative. Ma è il magistrato che deve ricavare un insegnamento dalla presenza di questo nuovo modello di comunicazione, di questa nuova “coscienza del nostro stare insieme”.

Pausa.Si avverte il borbottio infastidito che suscitano le affermazioni moraleggianti: dietro la tesi che si comunica anche con la voce, con la postura, il tono, l'arroganza di taluni atteggiamenti e tutto il resto, si nasconderebbe l'ennesimo codice delle buone maniere, che va ad aggiungersi al codice penale, a quello disciplinare ed a quello deontologico, in un marasma di pseudo-norme il cui risultato è solo il far dimenticare che il vero compito del magistrato è quello di richiedere e di emanare dei provvedimenti giusti e legalmente corretti.

Può darsi, però il fastidio come risposta non è un buon argomento. Migliore spunto potrebbe essere una diversa considerazione.

Abbiamo mai provato a domandarci come mai è così negativa l'immagine del giudice offerta dalla letteratura di ieri e di oggi? siamo consapevoli che la gran parte delle persone comuni ha del magistrato una pessima percezione, fatto salvo il caso in cui taluni eccezionali momenti della storia fanno di lui un vendicatore di torti e di soprusi? e ci rendiamo conto che questa immagine negativa può avere un peso notevole quando si verifica una forte tensione tra la magistratura ed un altro potere, ed in questo scontro è determinante il sostegno dell'opinione pubblica?

Poiché, a torto o a ragione, abbiamo aperto questo spiraglio, proviamo ad allargarlo.

Tutti i lavori hanno una loro intrinseca nobiltà, ma alcuni la possiedono in modo più marcato, quasi rispondessero ad un'esigenza fondamentale dell'essere umano: penso al medico, all'insegnante, al sacerdote e, appunto, al giudice. Non si risentano gli avvocati, gli scrittori, i giornalisti, gli scienziati, i politici o altri. L'elenco è opinabile, ma credo di poterlo difendere, perché corrisponde a momenti nodali del vivere: la cura dei corpi e il risanamento della loro fisicità compromessa, la trasmissione del sapere tra le generazioni, l'orientamento morale e la relazione con il sacro, la soluzione dei conflitti attraverso l'applicazione delle regole condivise.

Ebbene, l'individuo che ricorre al titolare di una di quelle funzioni, lo fa di regola con un atteggiamento di fiducia e quasi di abbandono, sorretto dall'attesa di un'accoglienza salvifica. Con tutti eccetto uno: il giudice, appunto. Del magistrato ha timore, ne percepisce il potere assai più che la solidarietà umana, ne coglie il carattere algido trasmessogli dalla regola, più che la funzione di individuo chiamato a sciogliere nodi sociali. Sa che dietro il medico ed il prete ci sono giuramenti solenni di agire per il bene della persona che loro si affida, e che dietro l'insegnante c'è il senso della missione. Per il magistrato non è così: anch'egli presta un giuramento, ma il beneficiario della formula non è l'uomo, bensì la legge, e solo recentemente la Costituzione, che è pur sempre una legge. Per questo il cittadino dietro la figura del giudice non sente calore, ma solo l'inflessibilità della regola. Uomo o donna incorruttibile, secondo lo stereotipo, ma umanamente asessuato quanto a sentimenti.

Anche il medico, il docente, il prete possono essere persone mediocri e inadeguate al loro ruolo, ma sono deviazioni rispetto al normo-tipo. Il giudice è “distante” per definizione, quasi che il suo dovere di essere super partes venisse inteso fisicamente, come un collocarsi, appunto, al di sopra degli altri soggetti, in una voluta insensibilità che induce nell'utente una soggezione e un disamore, oltre che un intenso desiderio di sottrarsi al più presto da quella esperienza.

 

6. Non sto ammodernando il galateo in versione giudiziaria; né allargando la portata dell'illecito disciplinare per includervi lo sgarbo o l'arroganza del tono. Sto constatando che esisteva già un primo cerchio dell'etica della relazione, tratteggiato nella giurisprudenza disciplinare del Csm e abbastanza noto; e che se ne sta disegnando un secondo al quale invece è destinata poca attenzione, sebbene la meriti.

Il magistrato sa già, o dovrebbe sapere, che non deve mostrarsi compiacente con chicchessia; sa che non deve farsi prestare denaro o accettare favori compromettenti; non ignora che non deve intrecciare relazioni sentimentali con avvocatesse o funzionarie dell'ufficio, non deve ostentare orientamenti politici in modo vistoso, né prendere parte ad iniziative che ne mettano in dubbio l'imparzialità; sa tante altre cose che costituiscono il suo codice di comportamento a raggio più ampio dei codici. Si tratta di accordare la stessa importanza a un nuovo cerchio di doveri etici, che costituiscono la vera modernità del suo essere secondo la Costituzione (potremmo dire la sua interpretazione della pari dignità sociale, ex articolo 3).

È stato scritto – e condivido – che alla fine della nostra carriera la parte o il teste o l'imputato con il quale ci siamo intrattenuti ogni giorno sarà per noi solamente una delle mille figurine che ci sono sfilate davanti, inespressive e dimenticate; ma noi per lui o lei rappresenteremo l'immagine indelebile, quasi sempre ostile, in base alla quale quel cittadino disegnerà l'intera istituzione di cui facciamo parte, e questa immagine, insieme a mille altre simili, costruirà il disamore diffuso verso il nostro ruolo, che tanto ci indebolisce.

Il fatto è che il magistrato non è solo un dispensatore di provvedimenti o di richieste, ma è anche l'attore di una funzione fondamentale alla quale si continua a guardare con rispetto e speranza, sino a che non se ne fa esperienza personale. Questo rispetto si è molto attenuato, e noi (la magistratura tutta) non possiamo alzare le spalle come se fosse solo un discorso moraleggiante e non avesse anche una forte implicazione politica, nel concorrere a privarci di un sostegno indispensabile.

 

7. Che vuol dire tutto questo in concreto? Evitiamo pure il tono deamicisiano del giudice buono e umano, «che ascolta e che consola», che non alza la voce e fa abbassare quella altrui. Ma pur volendo tenermi alla larga dalla retorica, non posso fare a meno di rievocare alcune figure e momenti che punteggiano i miei ricordi, nel bene e nel male, e che, con la semplicità della casistica, parlano meglio di esortazioni scontate.

Ricordo, ad esempio, lo spettacolo mortificante dei vecchi presidenti di tribunale che, stremati dalle migliaia di volte che avevano dovuto deferire il giuramento ad un teste, rovesciavano sul malcapitato di turno la formula di rito, barocca nella costruzione (quel «consapevole della responsabilità che assumete ...», posto all'inizio e pencolante sulle orecchie dell'ignaro), terrorizzante nella minaccia, oscuro nella raffica di parole accatastate in fretta per noia; e il teste, che non aveva capito nulla, si trovava di colpo esposto all'unica cosa chiara, l'intimazione perentoria del «Dica: lo giuro», e si guardava intorno smarrito e muto, desideroso di un chiarimento che non arrivava . Per questo trovavo tanto più umano quell'altro giudice che si prendeva la responsabilità di deviare dalla sacra formula, e con pacata bonarietà la traduceva in un italiano alla portata di tutti («Le ricordo l'importanza del giuramento ...»), sostituendo Dio e gli uomini con la coscienza e la legge, e ottenendo un assenso convinto del deponente, e forse persino qualche menzogna in meno.

Nella casistica della memoria si staglia anche un giudice che leggeva la sentenza con in una mano il foglio del dispositivo e nell'altra una sigaretta incominciata e non spenta. E si muovono magistrati in abbigliamento poco meno che balneare, forse inteso come dimostrazione del sentirsi “uno di voi”. Sfilano colleghi che spiegano la situazione giuridica a chi chiede qualche chiarimento con l'astrusità di linguaggio del primario luminare quando si mette ad illustrare le caratteristiche dell'insufficienza tiroidea.

Un intero capitolo della memoria è riempito dalla vistosa insofferenza di tanti giudici quando parlano le parti (di regola il fastidio è più acuto verso i difensori), in un rimpallo di reciproche ritorsioni, questi indotti ad insistere nella verbosità sino ai limiti del richiamo, quelli stimolati a mostrare indifferenza a quanto viene esposto, con il risultato di far intendere al cittadino imputato o spettatore che tutto è ormai deciso a prescindere, e il processo è un inutile balletto sulla testa del protagonista reale.

È scontato, ed appartiene ormai alle figure stilizzate del cinematografo e della letteratura, l'atteggiamento oracolare del magistrato in ogni suo esprimersi, la bruschezza nel contrastare anche le più innocenti richieste di ascolto di certi malcapitati, e la perentorietà del comando a pronunciarsi con un sì o con no, quando è noto che possono correre intere praterie tra l'uno e l'altro.

Né posso dimenticare qualche intemperanza del tipo «la sbatto in galera», forse spiegabile con la spudoratezza delle menzogne ascoltate, ma certamente meno decorosa della reazione di un altro collega che soavemente ammoniva: «badi che lei ha il diritto di mentirmi, ma io non ho il dovere di crederle». E non sto a ricordare – per non ripetere luoghi comuni (i quali tuttavia «sono i più frequentati», Flaiano dixit) – il giudice donna in udienza con minigonne temerarie, o il pubblico ministero macho assai portato a rappresentare la parte del poliziotto cattivo: chi vuole parli pure di moralismo spicciolo, ma il cittadino osserva e ricorda.

E poi non solo io ma tutti ricordiamo la sequenza di testimoni in attesa di una chiamata che arriverà (quando non si tratterà addirittura del solo annuncio di un rinvio) dopo ore ed ore di attesa su panche inospitali: e per converso sappiamo, a nostro piccolo conforto, quanto apprezzata sia la sensibilità dei rari giudici che scaglionano le chiamate lungo l'arco della mattinata, o quanto meno annunciano la probabile successione delle future, o comunque si sforzano di alleggerire la sofferenza di chi sta rendendo un servizio civile.

 

8. A suggello di tutto si staglia, poi, l'incredibile linguaggio curiale, che viene propinato ai novizi attraverso quel veicolo conformativo che sono le sentenze dei “migliori”, le decisioni riportate nei repertori e assimilate con lo zelo che giustamente si deve a chi funge da modello. Il linguaggio delle sentenze ha già avuto le sue analisi approfondite; ma anche in quelle analisi molta attenzione viene dedicata alle strutture del pensiero – il “come ragiona un giudice” – e poca alla impressionante vetustà del linguaggio, quasi una corazza dentro la quale rinserrarsi come scudo, una impettita liturgia ad intimidire le inevitabili critiche. Ma in quale altro documento moderno accade ancora di leggere espressioni incartapecorite come la «siffatta decisione»; o la «fattispecie», o «il prefato decreto», che si sposa con la «più volte menzionata norma», o, peggio, con «la sullodata disposizione»?per non parlare del malcapitato «prevenuto»,che sarebbe l'imputato, e che si guarda bene dall'avere preconcetti come la parola suggerirebbe, essendo unicamente preoccupato dalla sua condizione di imputato: formule tutte che talora persino il nostro blando correttore automatico rifiuta di digerire.

Forse non ce ne rendiamo conto, ma i nostri provvedimenti – l'unico strumento con il quale, secondo il vecchio precetto, ci sarebbe consentito di “comunicare” con il mondo – offrono di noi un'immagine pesantemente fuori del tempo, che ritorna in quelle malaccorte interviste televisive, nelle quali il gergo iniziatico viene talvolta reso ancor più rugginoso dalla perentorietà priva di cautele.

In tanto paludato linguaggio (che, a onor del vero, si riverbera sul, e si nutre del, linguaggio legislativo) si staglia un piccolo gioiello normativo che ci ricorda come deve essere il nostro comunicare professionale. Mi riferisco al primo comma dell'articolo 192 del codice di procedura penale, molto meno analizzato dei tormentati commi successivi, là dove chiede al giudice, nella sentenza, di dare conto dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. Quel “dare conto” è un prezioso compendio di procedura democratica, una consapevolezza che il decidere appartiene alle funzioni superiori, ma al tempo stesso è sottomesso alla responsabilità di presentarsi ad un ideale uditorio della ragione, che è chiamato a consentire con il percorso mentale seguito.

Quel “dare conto” è presente anche in ogni altro “comunicare”, in particolare in quella accezione dalla quale abbiamo preso le mosse. Se nell'articolo 192 esso rivela i percorsi mentali dell'estensore, nella nuova accezione esso manifesta la considerazione che il magistrato ha della dignità del suo interlocutore. All'uditorio della ragione si sostituisce l'uditorio dell'umanità. Un collega raccontava che il complimento più gradito ricevuto da un cittadino, destinatario del suo operato, era la frase «mi ha dato torto, ma mi ha trattato con rispetto».

[1] E. Fassone, Fine pena: ora, Sellerio, Palermo, 2015.

[2] D. Stasio, Il “ruolo sociale” del giurista impone una comunicazione più inclusiva, intervento svolto nel Seminario del 5 marzo 2018, nell'ambito delle attività formative del dottorato in Scienze giuridiche dell'Università di Firenze; in questa Rivista on line, Rubrica Controcanto, 23 marzo 2018, www.questionegiustizia.it/articolo/il-ruolo-sociale-del-giurista-impone-una-comunicazione-piu-inclusiva_21-03-2018.php.