Magistratura democratica

La partecipazione del disabile alla vita sociale

di Giuseppe Tucci

L’articolo mette in evidenza il grande ritardo, con cui è stata eliminata la discriminazione contro il disabile nella nostra esperienza giuridica rispetto alle altre ipotesi di discriminazione. Attualmente i diritti inviolabili formalmente riconosciuti allo stesso sono numerosi e mirano alla sua partecipazione alla vita sociale ed all’integrazione nella stessa. Tuttavia, nell’attuazione concreta di tali diritti, il disabile incontra notevoli difficoltà, poiché è costretto a ricorrere per lo più al Giudice, dando luogo ad un fitto contenzioso, non operando nei suoi confronti la cultura dell’incontro e del dialogo, che, in nome della solidarietà sociale, prescinde dalla forza coattiva del diritto, per sua natura strumento eccezionale di controllo sociale.

1. Il divieto della discriminazione contro il disabile ed i ritardi del nostro ordinamento giuridico: il ruolo del diritto sovranazionale

Le diverse forme di discriminazione, come rileva un grande esperto del problema, obbediscono al principio dei vasi comunicanti, nel senso che, da quelle sindacali a quelle politiche, da quelle di genere a quelle per disabilità, sono sempre “contro” qualcuno[1]. Ciò vale, in particolar modo, per la discriminazione contro il disabile, rispetto alla quale molte norme di diritto sostanziale, con i relativi rimedi giuridici, sono state progressivamente estese a sanzionare quest’ultima, quando già da tempo le altre discriminazioni, egualmente odiose nella loro ottusità, erano state combattute e completamente eliminate dal mondo del diritto. Come ricorda Thurgood Marshall, il primo Giudice di colore nominato da Lindon Johnson, dopo essere stato l’avvocato di punta nella lotta contro la segregazione razziale, la logica delle diverse discriminazioni, da quella sindacale, a quella politica, a quella derivante da disabilità è sempre la stessa ed obbedisce, in negativo ed in positivo, alla teoria dei vasi comunicanti[2].

Nella nostra esperienza giuridica nazionale, la tutela del disabile diventa effettivamente efficace solo a partire dagli anni novanta del secolo scorso, grazie all’intervento di ordinamenti sovranazionali. La discriminazione contro il disabile non viene messa in discussione neppure dalla ventata di modernizzazione che la società italiana conosce sin dagli inizi degli anni sessanta, con anticipazioni già negli anni cinquanta, che contesta la discriminazione praticata nei luoghi di lavoro per ragioni di repressione sindacale e politica, e la discriminazione basata sulla diversità di sesso, ma non quella basata sull’handicap e sulle ragioni di salute[3]. Oggi, al contrario, gli interventi legislativi, che tutelano i disabili, sono numerosissimi, ma le loro violazioni sono assai frequenti ed occorre il più delle volte ricorrere a diversi gradi di giudizio per ottenere il rispetto dei diritti ormai formalmente riconosciuti[4].

2. La discriminazione contro la donna alle cariche, professioni e impieghi pubblici e la legge 9 febbraio 1963, n. 66

Per ciò che riguarda la discriminazione di genere, l’articolo 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, nel clima dell’immediato primo dopoguerra del secolo scorso, prima che si affermasse l’ondata reazionaria del fascismo, ammetteva le donne all’esercizio di quasi tutte le professioni e pubblici impieghi- eliminando ogni ostacolo di accesso alla professione di avvocato spesso ribadito dalla giurisprudenza, ma le escludeva, tra l’altro, dall’esercizio della giurisdizione[5]. Il successivo articolo 8 dell’Ordinamento giudiziario del 1941, il cd. Ordinamento Grandi, dopo le leggi fascistissime e quelle razziali, consentiva l’accesso alle funzioni giudiziarie soltanto al cittadino italiano di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al Partito nazionale fascista[6].

L’Assemblea costituente eliminò la discriminazione politica, cancellò quella razziale, ma non abolì espressamente la discriminazione basata sulla diversità di sesso. Infatti, l’articolo 51 della Costituzione riconosce la possibilità dei cittadini dell’uno e dell’altro sesso di accedere agli uffici pubblici in condizione di eguaglianza, facendo però salvi i requisiti stabiliti dalla legge ordinaria, tra i quali era considerato legittimo il requisito del sesso maschile[7]. E ciò in quanto la donna, come sostenne autorevolmente il democristiano Giovanni Leone, era assolutamente incapace di raggiungere le “rarefatte vette del tecnicismo giuridico”, necessarie per esercitare la funzione giurisdizionale, o, in ogni caso, come sostenne un noto Indipendente di sinistra, Enrico Molè, essendo non idonea ad operare con il necessario equilibrio fisiopsichico durante il periodo mestruale; seguiti in ciò da una singolare pubblicazione di un deputato comunista ancora negli anni cinquanta[8]. Solo nel 1960, superando in parte una sua precedente decisione di appena due anni prima, la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità dell’articolo 7 dell’antica legge del 1919, nella parte, in cui escludeva le donne dagli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di particolari potestà[9]. Si apriva così la strada per l’approvazione della legge 9 febbraio 1963, n. 66, che finalmente consentì l’accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura, sicché, con successivo Dm del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso in magistratura aperto alla partecipazione delle donne, e con il Dm del 5 aprile 1963, le otto vincitrici entrarono nel relativo ruolo[10].

3. Le modalità di discriminazione contro il disabile: l’uso abnorme della sana e robusta costituzione fisica come requisito generale di accesso al pubblico impiego. L’accertamento dell’idoneità concreta a svolgere un determinato lavoro e la legge 12 marzo 1999, n.68

Contrariamente a ciò che è avvenuto per la donna, un disabile (o una disabile), che si fosse presentato/a allo stesso concorso, bandito in quell’anno 1963 e nei successivi, non sarebbe stato ammesso; e ciò a prescindere dal suo grado di disabilità e, naturalmente, anche se avesse dimostrato di possedere con grande competenza quel “rarefatto tecnicismo giuridico”, che, in sede di Assemblea costituente, si riteneva assolutamente estraneo alle donne.

Il meccanismo discriminatorio si è basato per decenni sull’interpretazione di leggi ordinarie succedutesi nel tempo, che nessuno, nemmeno i protagonisti dell’Assemblea costituente, si è mai sognato di valutare in termini di incostituzionalità; e ciò sia nel settore del pubblico impiego che in quello del lavoro privato[11]. Quanto al primo settore, per lunghi anni, anche dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, senza mai dare luogo ad alcun dubbio di incostituzionalità, è rimasto operante l’articolo 221 del Tu sul Pubblico impiego (Rd 3 marzo 1934, n. 383), che prevedeva la «sana e robusta costituzione fisica» come assoluto, generale e generico requisito-catenaccio di accesso per il pubblico impiego; prospettiva questa, che dettata chiaramente da pregiudizi anche di natura cd. estetica e/o di decoro (il pubblico ufficiale, che, magari, zoppica), non è assolutamente cambiata, allorché il successivo Testo unico sul pubblico impiego (dPR 10 gennaio 1957, n. 3), con l’articolo 2, ha sostituito la «sana e robusta costituzione fisica» con la «idoneità al pubblico impiego», considerando però anche questa come generico e generale requisito di accesso al pubblico impiego in modo da escludere il disabile da quest’ultimo in maniera radicale[12].

Solo l’articolo 22 della legge n. 104/1992 ha stabilito, in nome del buon senso e contro ogni pregiudizio, che, ai fini dell’assunzione al pubblico impiego, e quindi come requisito generale e generico per l’accesso allo stesso, non è richiesta in astratto la famigerata sana e robusta costituzione fisica, ma l’idoneità concreta a svolgere un determinato lavoro, dovendosi quindi ritenere tacitamente abrogata la disciplina generale, prevista nel Testo unico del 1957, per incompatibilità con la nuova disciplina. Per opporsi al tentativo dell’allora Ministro della funzione pubblica di escludere, con apposita circolare, i portatori di handicap dalla nuova disciplina[13] fu, pertanto, necessario l’ulteriore intervento del legislatore con l’articolo 16, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, che ha sradicato finalmente dal nostro Ordinamento l’assurdo principio, stabilendo che, salvi i requisiti di idoneità specifica per funzioni singole, sono abrogate espressamente tutte le norme che richiedono il requisito della sana e robusta costituzione fisica nei bandi di concorso per il pubblico impiego. Ad ulteriore specificazione del principio è intervenuta una giurisprudenza ormai consolidata del Consiglio di Stato, ulteriormente potenziata in funzione di garanzia per il disabile dall’articolo 42 del decreto legge n. 69/213, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 98 stabilendo che l’idoneità fisica deve essere accertata caso per caso, con riferimento alle mansioni afferenti il posto da coprire, a meno che non sia richiesta una specifica idoneità fisica e psichica per alcune funzioni ( ad esempio, per i corpi deputati all’ordine e/o al soccorso pubblico)[14] .

Lo stesso articolo 16 della legge n. 68/1999 ha ulteriormente tutelato le categorie protette, stabilendo che i bandi di concorso debbano prevedere speciali modalità di svolgimento delle prove di esami proprio per consentire ai disabili di partecipare ai concorsi in effettive parità di condizioni con gli altri. E ciò al fine di rendere possibile alla Pubblica amministrazione interessata, debitamente resa edotta delle minorazioni del candidato, di attrezzare le sedi, dove si svolgono le prove dell’esame nella logica dell’articolo 3, comma 2, della Cosituzione.

4. (segue) La discriminazione contro il disabile nel rapporto di lavoro privato e la sua abolizione con l’articolo 15 dello Statuto dei lavoratori come modificato con l’articolo 4, comma 1, del dl 9 luglio 2003, n. 216, in attuazione della Direttiva 2000/78/Ce

La tutela del disabile, nell’ambito del rapporto di lavoro privato, si realizza anch’essa, in maniera del tutto simile a ciò che è accaduto per il rapporto di pubblico impiego, attraverso un processo di integrazione legislativa del regolamento contrattuale, iniziato nei primi anni sessanta[15].

L’originario testo dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), posto a disciplina degli atti discriminatori, sancisce soltanto la nullità di qualsiasi patto diretto a subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad un’associazione sindacale ovvero cessi di farne parte, ovvero di qualsiasi patto diretto a licenziare o comunque a pregiudicare un lavoratore a causa della sua posizione sindacale oppure della sua partecipazione ad uno sciopero[16] .

Con l’articolo 15 dello Statuto, pur nella sua originaria versione, la tutela del lavoratore compie un notevole passo avanti rispetto all’articolo 4 della famosa legge 15 luglio 1966, n. 604, in tema di licenziamenti individuali, che sancì per la prima volta, nel nostro ordinamento, la fine del potere indiscriminato di licenziamento del datore di lavoro, configurando come inefficace il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo[17]. Tale ultima norma colmò almeno in parte la mancata costituzionalizzazione del diritto del lavoro, come fu rilevato da Ugo Natoli: il giurista che, già nei primissimi anni cinquanta del secolo scorso, sostenne, in occasione di un celebre caso verificatosi all’interno della Fiat proprio in quegli anni (il caso Santhià), la nullità dei licenziamenti per ragioni politiche o sindacali sulla base dell’applicazione diretta dell’articolo 41 Cost., considerando il precetto costituzionale come norma imperativa posta a disciplina  della fattispecie negoziale del recesso del datore di lavoro[18]. Successivamente, con l’articolo 13 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, viene estesa finalmente la tutela di cui all’articolo 15 dello Statuto alla discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso. Ma solo dopo circa ventisei anni, con l’articolo 4, comma 1, del dl 9 luglio 2003, n. 216, in attuazione della Direttiva 2000/78/Ce per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, quella tutela viene estesa alle discriminazioni basate sull’handicap, sull’età oppure sull’orientamento sessuale o sulle condizioni personali[19].

In definitiva, anche per il rapporto di lavoro privato, soltanto all’inizio del XXI secolo, il lungo silenzio sulla discriminazione del disabile è venuto meno non per una dinamica interna al nostro ordinamento, ma grazie a sopraggiunte disposizioni di diritto comunitario.

5. La Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006: la partecipazione del disabile alla vita sociale come strumento di effettiva salvaguardia dell’equilibrio fisico e psichico dello stesso

La tutela internazionale e, più genericamente, sovranazionale del disabile registra negli ultimi tempi una notevole accelerazione che conferma, nel settore specifico, l’imperatività globale dei diritti umani, rilevata da un grande studioso dei problemi attuali della giustizia, anche se oggi, proprio nello stesso settore, si manifestano, in termini simmetrici, pericolose tendenze di regressione della coscienza sociale[20].

In tale prospettiva, fondamentale risulta la Convenzione delle Nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, firmata dall’Italia il 30 marzo 2007 e ratificata con legge 3 marzo 2009, n. 18[21]. Essa rappresenta la prima grande iniziativa del XXI secolo in materia di diritti umani e si ispira non più alla sola idea della protezione del disabile dalle discriminazioni, di cui è stato vittima nei secoli, ma a quella della partecipazione del disabile alla vita sociale e dell’inclusione dello stesso in tutti i rapporti interindividuali come strumento di effettiva salvaguardia dell’equilibrio fisico e psichico dello stesso.

Per comprendere la portata innovativa della Convenzione, estremamente significativo è il riconoscimento della disabilità, contenuto nel punto e) del Preambolo e richiamato nell’articolo 1, come concetto evolutivo, di contenuto sociale, risultante dall’iterazione tra persone con impedimenti e barriere attitudinali ed ambientali, che impediscono la loro effettiva partecipazione nella società su basi di eguaglianza con gli altri. Secondo l’ottica della Convenzione, pertanto, non è il disabile, che, per un suo presunto stato naturale si trova di fatto ostacolato nell’esercizio dei suoi diritti, ma è la società, che, con le sue strutture e sovrastrutture, impedisce la piena partecipazione del disabile alla vita di relazione e crea, di conseguenza, la disabilità. In definitiva, scaturendo lo svantaggio non tanto da caratteristiche medico-sanitarie dell’individuo, ma dall’incapacità delle strutture sociali di adeguarsi alle diverse esigenze della persona affetta da handicap, la disabilità è una condizione sociale di minorità, che lo Stato ha l’obbligo di rimuovere con azioni positive[22].

6. L’impegno degli Stati firmatari a prendere tutte le misure appropriate per assicurare ai disabili gli accessi ai luoghi sociali idonei allo scopo dell’integrazione

Attuano in concreto la riscontrata portata innovativa della Convenzione l’articolo 9, in tema di accessibilità, che realizza il principio di cui all’articolo 3, lett. c), secondo il quale, per consentire alle persone disabili di partecipare effettivamente a tutti gli aspetti della vita sociale, gli Stati si impegnano a prendere tutte le misure appropriate per assicurare gli accessi ai luoghi sociali idonei allo scopo dell’integrazione. Malgrado i dubbi sollevati, la norma riconosce espressamente all’accessibilità la natura di diritto soggettivo azionabile nel diritto interno[23]. Nella stessa prospettiva sono da considerare altre norme della Convenzione, come la garanzia del pieno riconoscimento della capacità giuridica alle persone disabili senza limitazione alcuna, contenuta nell’articolo 12, con rilevante influenza sugli istituti di protezione, l’articolo 23, in tema di discriminazione relativa al domicilio ed alla famiglia, l’articolo 24, in tema di educazione, e l’articolo 27, in tema di sanità[24].

Come ha rilevato un grande giurista, Presidente emerito della nostra Corte costituzionale, il tempo dell’intangibilità della sovranità dello Stato, almeno sul piano dei principi giuridici, è irrimediabilmente scaduto e solo un’eredità dell’originaria concezione chiusa della sovranità dello Stato e dell’onnipotenza della legge può ancora fare ritenere che la legge di esecuzione di un trattato internazionale introduca norme giuridiche esterne nell’ordinamento del singolo Stato per dare allo stesso il rango gerarchico della legge ordinaria. Nei moderni Stati costituzionali, al contrario, la legge è subordinata alla Costituzione e, di conseguenza, nel nostro Ordinamento, con riferimento all’articolo 2 della Costituzione tipica norma a fattispecie aperta[25].

7. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 4 novembre 1950 ed i diritti dei disabili alla loro integrazione sociale

Nel contesto sopra richiamato della crisi di sovranità dello Stato nazionale, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, ha acquistato un peso sempre più rilevante nel nostro ordinamento, specie dopo le famose sentenze nn. 348 e 349 del 2007, sicché spesso la Corte di Strasburgo, specifico organo giurisdizionale legittimato alla sua interpretazione, è stata chiamata a pronunciarsi sulla violazione dei diritti garantiti dalla Convenzione medesima con riferimento espresso alle persone disabili[26].

Nel 1998, la Corte di Strasburgo ha rigettato un ricorso, presentato da un disabile contro lo Stato italiano per violazione dell’articolo 8 della Convenzione medesima, in tema di rispetto della vita privata e familiare[27]. Nel caso di specie, il disabile ricorrente lamentava di non potersi recare in spiaggia a causa dell’inaccessibilità delle strutture dello stabilimento balneare, in cui aveva prenotato le sue vacanze. La Corte si attenne, in quell’occasione, ad un’interpretazione restrittiva della norma della Convenzione, non ritenendo che il diritto dell’istante fosse riconducibile alla tutela della vita privata e familiare e riconoscendo, nello stesso tempo, allo Stato nazionale, un ampio margine di valutazione, con la conseguenza che non è entrata nella valutazione della scelta sociale dello Stato medesimo[28].

Forse la soluzione sarebbe stata diversa qualora, all’epoca, fosse già entrata in vigore il più volte esaminato articolo 9 della Convenzione delle Nazioni unite sui disabili, ratificata dall’Italia solo con legge 3 marzo 2009, n. 18. Non a caso, in una successiva decisione del 2007, nell’ambito di un procedimento avviato contro la Francia da un disabile per violazione degli articoli 3 e 4 della Convenzione dei diritti dell’uomo, in tema, rispettivamente, di divieto di tortura e di divieto di discriminazione, la stessa Corte di Strasburgo ha ritenuto che, quando sconti la pena in un carcere, dove non gli è consentito di muoversi e circolare liberamente, il disabile subisca un trattamento disumano e degradante a norma dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo, questa volta interpretato in termini non restrittivi[29]. Una riprova ulteriore di questo sempre più frequente intervento della Corte di Strasburgo a tutela dei disabili, si è avuta con alcune decisioni, tutte tra la fine del 2011 e il 2012, in tema di sottoposizione del disabile ad un trattamento psichico contro la sua volontà. In tali occasioni la Corte ha stabilito che, in ogni caso, le misure prese nei confronti del paziente devono essere giustificate dalla finalità di prevenire danni irrimediabili per il paziente e devono comunque essere proporzionate a tale scopo[30].

8. Il ruolo del diritto europeo e la sanzione della partecipazione dei disabili alla vita sociale nel nostro diritto interno

Nell’ambito dell’integrazione tra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, che si configura in termini diversi rispetto ai rapporti tra ordinamento interno e Convenzione di Strasburgo, la tutela del disabile a livello comunitario risulta fondamentale per comprendere l’effettiva protezione di cui egli gode nel nostro ordinamento[31].

Innanzi tutto, il principio di non discriminazione è formulato ampiamente nell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 12 dicembre 2007, dove, in correlazione con l’articolo 13 del Trattato di Amsterdam, la disabilità è espressamente menzionata nell’ambito di qualsiasi forma di discriminazione. Deve poi tenersi presente, come già si è accennato, che risalgono al diritto comunitario alcuni principi, che, contenuti in Direttive di settore sempre come espressione del generale principio di non discriminazione, sono stati applicati in termini generali nel nostro diritto interno proprio in materia di tutela del disabile. Valga per tutte la disciplina della discriminazione in termini di discriminazione diretta o indiretta, che, a partire dalla Direttiva 76/2007/Cee e grazie all’opera interpretativa della Corte di giustizia, è stata poi precisata dalla Direttiva 2000/78/ Ce, successivamente recepita nel nostro diritto interno con il d.lgs 9 luglio 2003, n. 216, configurando in quest’ultimo la tutela del disabile, che, come si è già detto, risultava estremamente carente[32].

A tale riguardo estremamente significativo è il caso Coleman, deciso dalla Corte di giustizia (Grande Sezione) nel 2008[33].

Nella sopra richiamata sentenza, la Corte di giustizia è stata chiamata a decidere se il principio della parità di trattamento, sancito nell’articolo 2, n. 1, della Direttiva 2000/78/Ce, e il divieto di discriminazione diretta, previsto dall’articolo 2, lett. a), del medesimo articolo, possano essere applicati ad una situazione, quale quella oggetto della controversia specifica, in cui il trattamento sfavorevole che il lavoratore afferma di aver subito sia fondato non sulla propria disabilità, ma su quella del figlio al quale egli presta la parte essenziale delle cure, richiesta dalle particolari condizioni di disabilità. La Corte ritiene che il principio della parità di trattamento, sancito dalla Direttiva, non possa essere interpretato in senso restrittivo, in quanto esso non riguarda solo le persone che siano esse stesse disabili. Inoltre, precisa la Corte con un argomento di portata generale, il sesto “considerando” della medesima Direttiva, richiamando la Carta fondamentale dei diritti, fa riferimento sia alla lotta generale contro qualsiasi forma di discriminazione sia alla necessità di intraprendere azioni appropriate per l’integrazione sociale ed economica dei disabili; e ciò secondo strategie che vanno al di là dei diritti del solo disabile.

Nella stessa prospettiva di quella sopra esaminata si muove la tutela del disabile, prevista dall’articolo 3 della legge 1 marzo 2006, n.67. La norma in esame sancisce che la tutela giurisdizionale, sancita dal provvedimento legislativo in esame, si attui nelle forme previste dall’articolo 44, commi 1-6 e 8, del Testo unico sulle disposizioni, concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. In pratica, una normativa speciale, nata per determinati soggetti come gli immigrati, si applica ad altri soggetti, come i disabili, partendo dalla nozione di discriminazione. E ciò in piena sintonia anche con l’articolo 4, comma 2, del d.lgs 9 luglio 2003, n. 216, in attuazione della Direttiva 2000/78/Ce, per la parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, in cui è contenuto un analogo rinvio allo stesso citato articolo 44 del Testo unico sull’immigrazione. Tale normativa ha del resto il suo prototipo nel famoso articolo 28 dello Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300), in tema di repressione della condotta antisindacale, ad ulteriore conferma che, anche sul piano dei rimedi, la logica delle diverse forme di discriminazione risulta essere sempre unitaria.  

9. I principi di integrazione del disabile nella giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale

Nel combattere la discriminazione contro il disabile, al fine di favorire il suo inserimento nella vita sociale, hanno svolto un ruolo importante sia la giurisprudenza della nostra Corte di cassazione, nella sua specifica funzione nomofilattica, che svolge nel nostro ordinamento, sia la nostra Corte costituzionale, nell’adempiere al suo particolare ruolo di garanzia; con ciò, da un lato, adeguando il nostro diritto comune alle esigenze di tutela di una categoria ampiamente trascurata nel passato, dall’altro, impedendo che l’innegabile xenofobia, ormai presente nel nostro Paese, possa colpire soggetti particolarmente deboli, in quanto, nello stesso tempo, disabili ed extracomunitari.

Quanto all’intervento della nostra Corte di legittimità, significativa, tra le tante, è una decisione dell’ottobre 2012, in cui si sancisce che sia la legislazione speciale, diretta a favorire l’integrazione sociale delle persone disabili ed a tutelare i loro diritti, sia la più volte richiamata Convenzione delle Nazioni unite del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con legge 3 marzo 2009, n. 18 – soprattutto nelle parti, in cui attribuisce alle singole persone diritti soggettivi perfetti- sanciscono che la socializzazione dei disabili deve essere considerata elemento essenziale per la loro salute, sì da assumere una funzione terapeutica, assimilabile alle pratiche di cura e riabilitazione. Di conseguenza, rileva la nostra Corte, il giudice è tenuto a valutare la sussistenza del divieto delle innovazioni, di cui all’articolo 1120, comma 2, cc, dando importanza preminente, a tutela dei diritti inviolabili dei disabili, in senso contrario alla Corte di merito, all’abbattimento delle barriere architettoniche rispetto alla presunta tutela del decoro estetico della portineria, che era stato richiamato da un condomino per impedire che il condominio potesse instaurare il necessario servo-scala[34].

Quanto all’intervento della nostra Corte costituzionale, un primo esempio significativo dell’adeguamento del diritto comune – nel caso specifico del diritto delle servitù prediali – alle esigenze di tutela del disabile è rappresentata da una sentenza della fine degli anni novanta, non a caso fatta oggetto di numerosi commenti da parte della dottrina[35].

In tale pronuncia la Corte costituzionale è stata chiamata a sindacare la legittimità dell’articolo 1052 cc nella parte, in cui non prevede la costituzione di una servitù di passaggio a favore di un fondo non completamente intercluso, quando non ricorrono esigenze, che non riguardano l’agricoltura o l’industria, come previsto espressamente dalla norma, bensì esigenze di natura non produttiva, ma personale, come , nel caso di specie, le esigenze di accessibilità all’immobile da parte dei disabili[36].

La nostra Corte, con una suggestiva innovazione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1052 cc nella parte, in cui esso non preveda che il passaggio coattivo possa essere concesso, quando la domanda risponde alle esigenze di accessibilità degli edifici destinati ad uso abitativo, così come sancite dalla legislazione relativa ai portatori di handicap. Tale legislazione, secondo la Corte, realizza un interesse, che va al di là di quello dei singoli e si configura come un interesse generale all’accessibilità degli immobili da parte dei soggetti disabili[37].

L’adeguamento del diritto comune alla tutela del disabile conosce significative esperienze nel diritto successorio, dove il riconoscimento del ruolo dell’autonomia privata, attraverso il ricorso al trust e, successivamente, ai contratti di affidamento fiduciario oltre che alla prassi contrattuale del cd “Dopo di Noi”, consente di superare tale esigenza, superando le rigidità del diritto successorio, proprie dei codici, che, come il nostro, si ispirano al modello classico del codice napoleonico[38].

Più complesso discorso merita l’evoluzione del diritto comune dei contratti alla luce del progressivo affermarsi della tutela del disabile e degli altri soggetti a vario titolo discriminati. In tale settore, destinato a svilupparsi nell’immediato futuro, si registrano da tempo interessanti decisioni dei giudice di merito in tema di discriminazione razziale e di discriminazione legata all’orientamento sessuale, secondo una logica chiaramente riproducibile in tema di discriminazione contro il disabile[39].

10. L’integrazione dei disabili extracomunitari nella giurisprudenza della nostra Corte costituzionale

Nella tutela dei disabili extracomunitari, la Corte costituzionale ha svolto in maniera egregia il suo compito di garanzia nel ribadire i principi fondamentali della nostra civiltà giuridica, anche di fronte alle iniziative della maggioranza del momento, dirette a conseguire consensi con tecniche paranoiche, puntando sulla demonizzazione del diverso.

In questa prospettiva, nel 1998 la Corte è intervenuta con una sua decisione in seguito ad una questione di illegittimità costituzionale, sollevata da un rifugiato politico somalo, riconosciuto disabile con una perdita della capacità lavorativa del 79%, che rivendicava il suo diritto ad essere iscritto nell’elenco dei lavoratori invalidi civili da avviare obbligatoriamente al lavoro ai sensi della legge 2 aprile 1968, n. 482. Secondo la Corte, una volta che i lavoratori extracomunitari sono autorizzati al lavoro subordinato stabile in Italia, fruendo del relativo permesso di soggiorno, essi godono di tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori italiani né perdono tali diritti per il fatto di rimanere disoccupati. Tra i sopra indicati diritti, rientra necessariamente, pur in assenza di diversa interpretazione di legge, quello di iscriversi, avendone i requisiti, negli elenchi per il collocamento obbligatorio degli invalidi, di cui alla legge del 1968 sopra richiamata. Con tale motivazione, come è stato rilevato, la nostra Corte costituzionale ha aperto la prospettiva di una nuova cittadinanza sociale[40].

Nella stessa prospettiva si muove una decisione della Corte del 2009, riguardante il riconoscimento dell’indennità di accompagnamento ad una cittadina albanese[41].

Altrettanto e certamente ancor più significativa per la palese assurdità della disposizione di legge contestata, risulta essere una decisione della Corte costituzionale del 2005, con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo di una legge della Regione Lombardia del 2003, in quanto esso non includeva gli extracomunitari fra gli aventi diritto alla circolazione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea, generalmente riconosciuto alle persone invalide per cause civili[42].

La motivazione della sentenza, nel dimostrare il contrasto con l’articolo 3 della Costituzione della legge regionale lombarda, sanzionata di incostituzionalità, mette giustamente in rilievo che, dall’insussistenza dei presunti oneri finanziari, assolutamente irrilevante per il numero ridotto dei beneficiari, la distinzione tra cittadini italiani, stranieri e apolidi, ai fini dell’applicabilità del beneficio in questione, introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione del tutto arbitrari, non sussistendo alcuna ragionevole possibilità di correlazione tra la condizione positiva di ammissibilità al beneficio (cioè la cittadinanza italiana) e gli altri peculiari requisiti (invalidità al 10% e residenza), che ne condizionano il riconoscimento e la funzione.

Tutte le sentenze richiamate dimostrano la lunga marcia attraverso la quale la Corte costituzionale è pervenuta, come dimostra anche una successiva sentenza del 2010, ad universalizzare l’applicazione del principio di eguaglianza, superando la lettera dell’articolo3 Cost., che limita l’operatività dello stesso ai soli cittadini; e ciò proprio ricorrendo all’uso del criterio di irragionevolezza, anche sulla scia della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in tema di interpretazione dell’articolo 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo[43].

11. Conclusioni: principio di eguaglianza, diritti inviolabili dei disabili e crisi della solidarietà sociale nel mondo postmoderno. Il pericolo dell’erosione del sistema dei diritti per l’affermarsi della “cultura dell’esclusione”

Il progressivo ampliamento e il continuo adeguamento dei rimedi proposti nella tutela dei disabili hanno rappresentato il settore, in cui, con chiarezza paradigmatica, il principio di eguaglianza, operando sempre come principio cardine della nostra civiltà, si è trasformato da principio di eguaglianza “di fronte” alla legge in principio di eguaglianza “della” legge, svolgendo il ruolo di limite all’arbitrio del legislatore, tenuto ad osservare il criterio della ragionevolezza nel momento, in cui introduce trattamenti diseguali tra tutte le Persone e non soltanto tra i Cittadini[44]. In quella che, tradizionalmente, si identifica nella cd “realtà effettuale”, oggi, il principio di eguaglianza, per come lo ha elaborato il XX secolo, viene contestato in nome di una divaricazione tra “diritto” e “opportunità economica”, che è diventata senso comune, soprattutto nei Paesi ricchi del pianeta. Nel nostro tempo, il sistema istituzionale dei diritti inviolabili, in cui si è inserita stabilmente la condanna delle discriminazioni contro il disabile, non è stato, per fortuna e almeno fino ad oggi, rimosso da eclatanti sconfitte politiche, come l’avvento del fascismo con le leggi fascistissime del 1926/1928 oppure l’avvento del nazismo con le leggi di Norimberga, ma conosce una pericolosa erosione dal suo interno, che non va sottovalutata, perché è legata all’incapacità di contestare le grandi diseguaglianze del mondo postmoderno in nome di una solidarietà sociale e di un’etica collettiva, che operi spontaneamente a prescindere dall’intervento coattivo dello strumento giuridico[45]. Se questa spontanea solidarietà sociale si perde, le conquiste giuridiche a tutela dei disabili, che si basano sempre su un difficile equilibrio tra coattività del diritto e spontanea adesione alla più elementare etica collettiva, a prescindere dalla coattività del primo, possono anche implodere e l’intervento dei giudici nel sanzionare sempre nuove ed imprevedibili violazioni dei nuovi diritti diventa un’inutile fatica di Sisifo. Volendo richiamare un messaggio del Sommo Pontefice ai ciechi ed ai sordomuti del marzo 2014, il problema dei disabili si risolve solo se la società riesce a praticare la cultura dell’incontro e non dell’esclusione, vedendo nel disabile un fattore positivo per l’intera vita sociale[46].

[1] La preziosa riflessione è di T. Ramm, Introduction, in F. Schmidt (a cura di), Discrimination in Employment, Almqvis t &Wiksell International, Stockholm, 1978, p. 17. T. Ramm, giurista ebreo, costretto ad emigrare in Inghilterra, è stato uno dei padri del diritto del lavoro del secondo dopoguerra insieme al nostro Gino Giugni, con il quale ha condiviso la ricerca sopra richiamata, ed è stato determinante, unitamente a moltissimi suoi colleghi egualmente perseguitati dal nazismo, nella costruzione della scienza giuridica sovranazionale, quale quella a noi contemporanea. Su ciò v. G. Tucci, Ricordo di Stefan Albrecht Riesenfeld (1908- 1999), in Riv. dir. priv., 1999, pp. 683 ss.

[2] Sulla significativa personalità di Thurgood Marshall, v. M. V. Tushnet (a cura di), Thurgood Marshall: His Speeches, Writings, Arguments, Opinion and Reminiscenses, Lawrence Hill Books, Chicago, 2001, X; Id., Making Constitutional Law. Thurgood Marshall and the Supreme Court (1961- 1991), Oxford University Press, New York Oxford, 1997, pp. 20 ss.

[3] Per tale importante vicenda G. Tucci, La giustizia e i diritti degli esclusi, E.S., Napoli, 2013, p. 37, con Prefazione di P. Rescigno. Sulla progressiva realizzazione del principio di eguaglianza nel nostro diritto privato, v. P. Rescigno, Il principio di eguaglianza nel diritto privato a proposito di un libro tedesco), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1959, pp. 1515 ss.; Id., Ancora sul principio di uguaglianza nel diritto privato, in Foro it., 1960, I, p. 660, successivamente raccolti in Persona e comunità. Saggi di diritto privato, Il Mulino, Bologna, 1966, pp. 338 ss.

[4] Il rilievo è contenuto in Superabile Inail, 21 giugno 2015,che denuncia ben 530 denunce di discriminazioni per la sola Lombardia, pervenute all’apposito Centro integrato per la disabilità.

[5] Appartiene anche alla storia del costume la motivazione di Appello Torino, 11 novembre 1883, in Giur. it., 1884, II, pp. 10 ss., ma v. anche Cass. Torino, 21 luglio 1880, in Foro it., 1881, II, pp. 69 e 19.

[6] Per la storia delle discriminazioni in Italia, v. S. Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’Unità ai nostri giorni, Donzelli, Roma, 1997, pp. 42 ss., successivamente Donzelli, Roma, 2011. La riforma dell’Ordinamento giudiziario del 1941 è ampiamente spiegata da S. Cassese, Lo Stato fascista, Il Mulino, Bologna, 2010, pp. 43 ss.

[7] Per la funzione svolta dall’articolo 51 Cost. , v. M. Midiri, Rapporti politici, in R. Bifulco - A. Celotti - M. Olivetti, a cura di, Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, p. 1020. Per ampie informazioni sull’uso della norma anche in funzione di conservazione del divieto v. C. Latini, Quaeta non movere. L’ingresso delle donne in magistratura e l’articolo 51 della Costituzione. Un’occasione di riflessione sull’accesso delle donne ai pubblici uffici nell’Italia repubblicana, in Giornale di storia costituzionale, 2014, pp. 143 ss.

[8] Il dibattito in sede di Assemblea costituente è riassunto, con brillante ironia, da G. Luccioli, La presenza delle donne nella magistratura italiana, sito www.donnemagistrato.it. Nel testo si fa riferimento a E. Ranelletti, La “donna-giudice” ovverosia la “grazia” contro la “giustizia”, Giuffrè, Milano, 1957, in diretta polemica con l’allora Ministro di grazia e giustizia Aldo Moro, ma non isolato nel suo gruppo parlamentare, peraltro tiepido nella difesa dei diritti. Su ciò v. I. Li Vigni, a cura di, Avvocate. Sviluppo e affermazione di una professione, Franco Angeli, Milano, 2013, pp. 167 ss.

[9] Per tali storiche decisioni v. Corte cost., 13 maggio 1960, n. 33, in Foro it., 1960, I, 705, e in Giur. Cost., 1960, p. 563, con note di di V. Crisafulli e C. Esposito. In precedenza v. Corte cost., 3 ottobre 1958, n. 56, in Foro it., 1958, I, p. 1393, e in Giur. Cost., 1959, III, pp. 12 ss.

[10] Precise indicazioni sul tema si trovano sempre in G. Luccioli, La presenza delle donne nella magistratura italiana, cit., loc. cit.

[11] Per tale singolare vicenda v. P. Chieco, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, in Riv.dir. lav., 2002, pp. 76 ss.

[12] Per una panoramica in tal senso v. A. M. Perrino, Il rapporto di lavoro pubblico, Cedam, Padova, 2004, pp. 1333 ss.

[13] Si tratta della circolare 28 giugno 1992, n. 90543/7/488.

[14] In questo senso v. Cons. Stato, sez. VI, 20 gennaio 2009, n. 248, in Cons. Stato, 2009, 256; Cons. Stato, sez. V, 3 novembre 2003, n. 6845, in Dir. e giur., 2003, p. 83, con nota di G. Tinelli. L’articolo 42 del decreto legge n. 69/213, convertito con legge 9 agosto 2013, n. 98, ha disposto che è formalmente soppresso il certificato di idoneità fisica all’impiego, stabilendo che alcune specifiche certificazioni a riguardo non possono essere assolutamente richieste.

[15] Sul punto v. E. Di Berardino, Note sulla integrazione della disciplina del lavoro e della regolamentazione contrattuale nei rapporti individuali di lavoro, in Riv. giur. lav., 1968, p. 3. Sul diritto al lavoro dei disabili, in particolare dopo la legge 68/1999, v. A. Tursi, La nuova disciplina del diritto al lavoro dei disabili, in Riv. giur. lav., 1999, pp. 727 ss.; M. Cinelli - P. Sandulli (a cura di), Diritto del lavoro dei disabili, Commentario alla legge 68/1999, Giappichelli, Torino, 2000; G. Pera, Disabili (diritto al lavoro dei), in Enc. Giur. Treccani, Roma, 2001; G. G. Balandi (a cura di), I lavoratori svantaggiati tra eguaglianza e diritto diseguale, Il Mulino, Bologna, 2005, pp. 28 ss.

[16] A riguardo v. G. Giugni, Political, Religious and Privat-Life Dscrimination, in F. Schmidt, Discrimination in Employment, cit., p. 217.

[17] Per tale evoluzione v. il significativo commento di G. Giugni, Atti discriminatori, in A. Freni - G. Giugni, Lo statuto dei lavoratori, Giuffrè, Milano, 1971, pp. 58 ss., nonché il successivo commento di G. Ghezzi, Atti discriminatori, in U. Romagoli - L. Montuschi - G. Ghezzi, F. Mancini, Statuto dei lavoratori, Zanichelli, Bologna-Roma, Il Foro italiano, 1972, pp. 204 ss.

[18] Degno di grande attenzione è sempre U. Natoli, Evoluzione e involuzione del diritto del lavoro, in Riv. giu. lav., 1967, I, p. 214; Id., Diritto al lavoro, inserzione del lavoratore nell’azienda e recesso ad nutum, in Ivi, 1951, I, pp. 105 ss.

[19] Sul ruolo dell’attuazione della Direttiva in esame nella tutela del disabile v. V. Piccone, Parità di trattamento e principio di non discriminazione nell’ordinamento integrato, in questa Rivista on line, 15 febbraio 2017, www.questionegiustizia.it/articolo/parita-di-trattamento-e-principio-di-non-discriminazione-nell-ordinamento-integrato_15-02-2017.php.

[20] Si fa riferimento ad A. Sen, The Idea of Justice, Harvard University Press, Harvard, 2009, p. 355; Id., L’idea di giustizia, trad. it., Mondadori, Milano, 2010, p. 361.

[21] V. Gazz. Uff., 14 marzo 2009, n. 61. Il testo della Convenzione è riprodotto in A.D. Marra, Diritto e Disability Studies. Materiale per una nuova ricerca multidisciplinare, Ed. Falzea, Reggio Calabria, 2009.  

[22] Ampiamente sul tema v. N. Foggetti, Diritti umani e tutela delle persone con disabilità. La Convenzione delle Nazioni Unite del 13 febbraio 2006, in Riv. coop. giur. int., 2009, pp. 104 ss.; Id., La tutela delle persone con disabilità nel diritto internazionale, Key  Editore, Vicalvi, 2017; F. Seatzu, La Convenzione sui diritti delle persone disabili: i principi fondamentali, in Dir. umani e dir. int., 2008, pp. 25 ss. Secondo G. de Burca, The EU in the Negotiation of he UN Disability Convention, www.jeanmonnetprogram.org, 2009, pp. 20 ss., la Convenzione, al fine di non irrigidire l’ambito della disabilità, ha preferito adottare un modello sociale e non un modello medico della stessa.

[23] In tal senso v. N. Foggetti, Diritti umani e tutela delle persone con disabilità. La Convenzione delle Nazioni Unite del 13 febbraio 2006, cit., pp. 107 ss. Per il problema generale v. A. Cassese, Diritto internazionale. I lineamenti, I, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 158 ss., nonché rilevanti approfondimenti in P. Picone, Comunità internazionale e obblighi “erga omnes”, Jovene, Napoli, 2013, ripresi da A. Ligustro, Il dibattito sul costituzionalismo globale e quello sulla costituzionalizzazione del diritto internazionale: prospettive a confronto, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2013, pp. XVII ss.

[24] A riguardo v. ancora N. Foggetti, Diritti umani e tutela delle persone con disabilità. La Convenzione delle Nazioni Unite del 13 febbraio 2006, cit., p. 105, nonché A.S. Kanter, The Globalization of Disability Rights Laws, in Syr Journ.Int. Law Comm., 2003, p. 241; Id., The Promise and Challenge of the United Nations Convention on the Rigts of Persons with Disabilities, Ivi, 2007, p. 287.

[25] Il rilievo è di F. Casavola, Dallo stato-città antico al moderno Stato-Nazione, in Il nuovo pluralismo delle fonti e il dialogo tra le Corti, Atti del Convegno di Bari del 20 novembre 2009, in Riv. dir. priv., numero speciale, 2010, p. 63. V. anche a riguardo E. Rossi, Principi fondamentali, in R. Bifulco - A. Celotti - M. Olivetti, a cura di, Commentario alla Costituzione, Utet, Torino, 2006, I, pp. 45 ss. Ampi riferimenti sul dibattito, esistente a riguardo nella dottrina internazionalistica sono in L. Garofalo, Obblighi internazionali e funzione legislativa, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 20 ss., specie nota n. 13. Rilevanti a riguardo le considerazioni di A. Baldassarre, voce Diritti inviolabili, in Enciclopedia Giuridica Treccani, Roma, 1989, pp. 10 ss.

[26] V. Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 348, in Riv. giur. ed., 2008, 184, e Corte cost., 24 ottobre 2007, n. 349, in Giur. cost., 2007, 3475. Sulla diversità parziale tra le due decisioni v. G. Tucci, Nuovo pluralismo delle fonti, ruolo delle Corti e diritto privato, in Il nuovo pluralismo delle fonti e il dialogo tra le Corti, cit., p. 113.

[27] V. Corte europea dei diritti dell’uomo, 24 febbraio 1998, Botta c. Italiawww.echr.coe.int

[28] Per tali considerazioni v. N. Foggetti, Diritti umani e tutela delle persone con disabilità. La Convenzione delle Nazioni Unite del 13 febbraio 2006, cit., p. 103.

[29] Si tratta del caso Vincent c.  Francia, Corte europea dei diritti dell’uomo, ricorso n. 6253/2003, in   www.echr.coe.int.

[30] In tal senso v. Pleso c. Ungheria, 2 ottobre 2011, ricorso n. 41242/2008, in  www.echr.coe.int; Luca Bures c. Repubblica Ceca, 9 ottobre 2012,  ricorso n. 5081/11, in www.echr.coe.int.

[31] Per tali problematiche di ordine generale si rinvia a U. Draetta, Elementi di diritto dell’Unione europea, Giuffrè, Milano, 2009, p. 30, nonché a E. Scoditti, Il dialogo tra le Corti e i diritti fondamentali di fonte sovranazionale, in Il nuovo pluralismo delle fonti e il dialogo tra le Corti, cit., p. 137.

[32] A riguardo v. M. L. Vallauri, Rapporti di lavoro e appartenenza di genere: la discriminazione e i congedi parentali, in S. Sciarra - B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, come parte di G. Ajani - G.A. Bennacchio, Trattato di diritto privato dell’Unione europea, Giappichelli, Torino, 2009, pp. 221 ss.; P. Chieco, Frantumazione e ricomposizione delle nozioni di discriminazione, cit., p. 567.

[33] V. Corte giust. com. eur. (Grande Istanza), 17 luglio 2008, Coleman c. Attridge Law e Steve Law, causa C- 303/06, sulla quale v. L. Calafà, Disabilità, discriminazione e molestia “associata. Il caso Coleman e l’estensione elastica del campo di applicazione soggettiva della direttiva CE, in Dir. e lav.,2008, p. 1169. Per una prima applicazione italiana della sentenza v. S. Russi, Divieto di discriminazione del parente disabile: una prima applicazione della sentenza Coleman, in Ivi, 2009, p. 737.

[34] Per tale importante decisione, v. Cass., 25 ottobre 2012, n. 18334, in Giur. it., 2013, 294, con nota di G. Tucci.

[35] Si tratta di Corte cost. 10 maggio 1999, n. 167, in Corr. giur., 2000, p. 177, con nota di A. Palmieri; in Giur.it., 2000, p. 683, con nota di G. Serges, in Riv. not., 1999, p. 978, con nota di F. Gazzoni; in Giur. cost. 1999, p. 1615, con nota di P. Vitucci; in Rass. dir. civ., 1999, p. 688, con nota di P. Perlingieri.

[36] In tal senso, v. gli opportuni rilievi di P. Perlingieri, cit., p. 690.

[37] Sul punto, v. i rilievi di P. Vitucci, cit., p. 1619.

[38] A riguardo v. G. Tucci, La tutela del figlio disabile tra nuove “ fiducie” e/o “ affidamenti fiduciari”, trust  e clausole testamentarie tradizionali, in Aa.Vv., Studi in memoria di Giuseppe Panza, E.S.I., Napoli, 2010, pp. 45 ss.

[39] Le decisioni alle quali si fa riferimento nel testo sono Trib. Padova, 19 maggio 2005, in Giur. it., 2006, p. 44, con nota di D. Maffeis, e Trib. Milano, 15 dicembre 2009, in Resp. Civ. e Prev., 2010, con nota di E. Falletti.

[40] V. Corte cost., 30 dicembre 1998, n. 454, in Foro it., 199, I, 751. Sul tema v. A. Guariso, Cittadinanza e lavoro pubblico, in Lav. e dir., 2009, pp. 563 ss.Il riferimento alla cittadinanza sociale è in U. Bascherini, Verso una cittadinanza sociale?, in Giur. cost., 1999, p. 381.

[41] V. Corte cost., 23 gennaio 2009, n. 11, in Giur. cost., 2009, p. 70. Sul tema v. W. Chiaromonte, Le prestazioni di assistenza sociale per i cittadini non comunitari ed il principio di non discriminazione. Una rassegna della giurisprudenza nazionale ed europea, in Giorn. dir. lav. e rel. ind., 2008, pp. 101 ss.

[42] V. Corte cost., 2 dicembre 2005, n. 432, in Giur. it., 2006, p. 2252.

[43] V. Corte cost. 28 maggio 2010, n. 187, su cui v. W. Chiaromonte, Stranieri e prestazioni assistenziali destinate al sostentamento della persona: sono illegittime le differenziazioni fondate sulla durata del soggiorno in Italia, in Riv. it. dir. lav., 2010, pp. 25 ss.

[44] A riguardo v. F. Casavola, Tra eguaglianza e giustizia (Il principio di eguaglianza nella giurisprudenza costituzionale italiana: riflessioni tra storia e diritto), in Foro it., 1988, V, pp. 91 ss.

[45] Per tali aspetti si rinvia a G. Tucci, Nuove schiavitù e fede religiosa (Un confronto con Bartolomé de Las Casas e le schiavitù della prima modernità), E.S.I., Napoli, 2018, pp. 267 ss.

[46] Discorso del Sommo Pontefice agli aderenti al movimento apostolico ciechi e alla piccola missione per i sordomuti, 29 marzo 2014, Libreria Editrice Vaticana.  Per fare degli esempi, tratti anche dalla casistica giurisprudenziale sopra richiamata, non deve essere necessario, per il disabile che chiede l’impianto di un servo scala nell’immobile, in cui abita, ricorrere in cassazione, dopo aver perso in appello, per ottenere uno strumento, che gli consente di uscire da casa ed avere un minimo di vita sociale (v. Cass., 25 ottobre 2012 n. 18334); così come non dovrebbe essere necessario per non sottostare al vincolo della coda davanti ai diversi Uffici, organizzare un percorso particolare per i disabili, per consentire agli stessi di pagare le bollette di casa, perché dovrebbe far parte della comune sensibilità sociale sapere che il rispetto della coda crea spesso per il disabile problemi esplosivi. Lo stesso dicasi per il rispetto dei parcheggi garantiti, che ha richiesto interventi importanti al giudice penale, al fine di garantire un diritto, che per il disabile è vitale (v. Cass. Pen., 7 aprile 2017, Milano ricorrente).