Magistratura democratica

L’inidoneità sopravvenuta al lavoro e l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli in una innovativa decisione della Cassazione

di Olivia Bonardi

Una recente sentenza della Sezione lavoro della Cassazione (n. 6798/2018) mette a fuoco gli obblighi del datore di lavoro relativi alla necessità di assumere quegli adattamenti organizzativi ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini di consentire la prosecuzione del rapporto con il dipendente diventato disabile.

1. Il caso

Il caso riguarda il licenziamento di un operaio di un’impresa appaltatrice dei servizi di manutenzione di un cementificio per inidoneità sopravvenuta, accertata dal medico competente e poi confermata dalla consulenza tecnica, principalmente dovuta a una broncopneumopatia respiratoria che non consentiva l’esposizione del lavoratore alle polveri, presenti in larga misura nella sede di lavoro. La consulenza tecnica aveva individuato però mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore, che avrebbe potuto svolgere la propria prestazione nei locali di un’officina sufficientemente distante dal cementificio e nella quale avrebbe potuto essere addetto a più compiti, essendo la sua professionalità polivalente. Lo spostamento del dipendente avrebbe tuttavia comportato sia il mutamento delle sue mansioni, sia lo spostamento di altri lavoratori dall’officina di destinazione ad altri reparti, sia, infine, l’adozione di ulteriori misure di prevenzione, peraltro destinate alla tutela della salute della generalità dei lavoratori, come lo spolveramento dei locali. Quest’ultima misura avrebbe potuto, secondo la consulenza tecnica, essere effettuata senza la necessità di assumere nuovo personale. Sulla base di tali circostanze, il Tribunale di Cagliari in primo grado e la Corte d’appello di Cagliari confermavano l’illegittimità del licenziamento. Avverso tali decisioni l’impresa datrice di lavoro ricorreva per Cassazione, con diversi motivi di ricorso; in gran parte dichiarati inammissibili in quanto volti a contestare gli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito. È però importante soffermarsi sul secondo motivo di ricorso, che la Corte di cassazione dichiara in parte inammissibile e in parte infondato, confermando l’illegittimità del licenziamento. L’impresa datrice di lavoro aveva fatto ricorso per violazione e falsa applicazione degli articoli 1453, 1455, 1464 cc, dell’articolo 3, legge n. 604/66 in combinato disposto con l’articolo 41 della Costituzione. In sostanza la ricorrente lamentava la violazione della libertà di iniziativa economica in quanto le misure di prevenzione individuate dai giudici di merito per garantire la prosecuzione del rapporto di lavoro avrebbero comportato uno “stravolgimento irragionevole” della struttura produttiva e dell’organizzazione del lavoro. Ciò perché sarebbe stato necessario assumere una persona al fine di garantire la pulizia dalle polveri dell’officina, perché l’adibizione del lavoratore alle sole mansioni di officina avrebbe comportato lo spostamento dei dipendenti ivi addetti ad altre mansioni e perché nei periodi di fermo dell’officina il lavoratore addetto esclusivamente ad essa sarebbe rimasto inattivo. La Corte di cassazione anzitutto ritiene inammissibile il motivo inerente alla necessità di assumere un altro lavoratore, in quanto il giudice di merito aveva accertato, senza incorrere in vizi di motivazione, che l’attività di spolveramento in questione richiedeva un tempo limitato e non l’acquisizione di nuovo personale. Essa si sofferma invece sul cuore della questione della compatibilità delle misure necessarie per garantire la continuità dell’impiego del lavoratore con la libertà di iniziativa economica. La Corte interviene dunque sul tema dell’esatta estensione degli obblighi del datore di lavoro e dell’individuazione delle misure concrete che questi è tenuto ad adottare per salvaguardare l’occupazione del lavoratore divenuto inidoneo allo svolgimento delle mansioni e, per converso, dei margini di libertà di iniziativa economica di cui questi dispone nell’organizzare la propria attività. Due profili della decisione, peraltro tra loro strettamente connessi, risultano particolarmente innovativi: l’approccio al tema dell’inidoneità in collegamento con la tutela dei disabili alla luce del divieto di discriminazioni  fondate su questo fattore, e la riconduzione all’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli a favore dei disabili della misura consistente nella ridistribuzione delle mansioni tra i lavoratori al fine di reperire per il disabile attività compatibili con le sue menomazioni. La sentenza contribuisce a fare chiarezza circa i rapporti tra disabilità e inidoneità al lavoro, rapporti che, come è noto, risultano alquanto complicati a seguito delle modifiche alla disciplina dei licenziamenti apportate con la legge n. 92/2012 e con il d. lgs n. 23/2015. Al contempo, trattandosi di un licenziamento risalente al 2007, essa definisce alcune delicate questioni circa l’applicabilità dei nuovi principi in materia di discriminazioni per disabilità ai casi antecedenti all’introduzione, da parte dello Stato italiano, dell’obbligo di adottare le soluzioni ragionevoli previste dalla direttiva 2000/78/Ce a favore dei disabili e recepite nel nostro ordinamento solo nel 2013[1].

2. L’inidoneità sopravvenuta al lavoro nel puzzle normativo

Come è noto, a partire dalla decisione delle Sezioni unite della Cassazione del 7 agosto 1998, n. 7755[2], la sussistenza di un giustificato motivo di licenziamento è esclusa dalla possibilità di adibire il lavoratore ad «altra attività riconducibile – alla stregua di un'interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti (art. 2103 cod. civ.) o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell'impresa, secondo l'assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall'imprenditore».

La legge n. 68/1999 in materia di collocamento mirato dei disabili recepisce poco dopo il suddetto orientamento giurisprudenziale, ma non senza ambiguità, sia perché essa si limita a regolare due situazioni particolari – quella dell’aggravamento delle condizioni del disabile avviato al lavoro secondo la disciplina della medesima legge e quella del lavoratore divenuto inidoneo a causa di infortunio o malattia professionale – sia perché regola la materia con più disposizioni tra loro non ben coordinate. Non risulta affatto chiaro di conseguenza quali siano i limiti entro i quali il datore di lavoro è tenuto alla conservazione del posto di lavoro. Il comma 7 dell’articolo 1 stabilisce infatti che «i datori di lavoro, pubblici e privati, sono tenuti a garantire la conservazione del posto di lavoro a quei soggetti che, non essendo disabili al momento dell'assunzione, abbiano acquisito per infortunio sul lavoro o malattia professionale eventuali disabilità»[3]. Il comma 4 dell’articolo 4 stabilisce inoltre che per «i lavoratori che divengono inabili allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia (…) l'infortunio o la malattia non costituiscono giustificato motivo di licenziamento nel caso in cui essi possano essere adibiti a mansioni equivalenti ovvero, in mancanza, a mansioni inferiori. Nel caso di destinazione a mansioni inferiori essi hanno diritto alla conservazione del più favorevole trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza». Il comma 3 dell’articolo 10, infine, limitatamente alla categoria dei disabili assunti obbligatoriamente, dopo aver disposto una specifica procedura per il caso di aggravamento delle condizioni di salute o di modifiche dell’organizzazione del lavoro, sancisce che il rapporto di lavoro può essere risolto nel caso in cui, «anche attuando i possibili adattamenti dell'organizzazione del lavoro», si accerti «la definitiva impossibilità di reinserire il disabile all'interno dell'azienda».

La legge n. 68/1999, ad ogni modo sostanzialmente distingue l’impossibilità parziale, che giustifica l’adozione di misure compensative e l’attivazione dell’obbligo di repêchage, da quella totale, che invece giustifica la cessazione del rapporto di lavoro[4]. Al contempo essa modifica il bilanciamento operato dalle Sezioni unite della Cassazione nel 1998, prevedendo che si debbano altresì attuare degli adattamenti dell’organizzazione del lavoro (ma solo a favore dei disabili avviati obbligatoriamente) sancendo il diritto alla conservazione del precedente trattamento retributivo.

L’obbligo di adibizione del lavoratore ad altre mansioni è stato poi riconosciuto e ampliato a tutti i casi di inidoneità sopravvenuta al lavoro ad opera dell’articolo 42, d. lgs n. 81/2008[5]. Quest’ultimo infatti ha generalizzato la previsione in tal senso contenuta nell’art. 8 d.lgs n. 277/1991 che riguardava esclusivamente i casi di inidoneità temporanea dovuta all’esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici. È stato esteso così a tutti i casi di inidoneità alla mansione specifica, indipendentemente dalle cause – pregresse, dovute alle condizioni di lavoro o derivanti da fatti estranei al rapporto di lavoro – l’obbligo di adibire il lavoratore ad altre mansioni equivalenti o inferiori, anche in questa disposizione con conservazione della retribuzione e del livello di inquadramento precedentemente acquisiti. Per inciso deve a mio avviso escludersi che tale disposizione sia stata implicitamente abrogata a seguito delle modifiche all’art. 2103 cc apportate dall’articolo 3, d.lgs n. 81/2015, trattandosi di norma speciale riguardante una situazione specifica non regolata dalla norma generale codicistica.

È su questo complesso di disposizioni tra loro mal coordinate e formatesi in modo alluvionale[6] che si inseriscono da ultimo le recenti modifiche alla disciplina in materia di licenziamenti che prendono in considerazione i casi di inidoneità al lavoro, ma, è bene rilevarlo sin da ora, senza tenere in alcun modo conto dell’evoluzione normativa che nel frattempo ha subito il concetto di disabilità e ignorando quindi la sussistenza di rilevanti margini di sovrapposizione e, secondo alcune interpretazioni di pressoché totale equiparazione, tra inabilità al lavoro e disabilità. Il comma 7 dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come risultante dalle modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 prevede l’applicazione della tutela consistente nella reintegrazione e nel pagamento di un’indennità non superiore a 12 mensilità per il caso in cui si «accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell'inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile». L’utilizzo della congiunzione “anche” fa sì che la disposizione abbia carattere generale e non sia destinata solo alle ipotesi di licenziamento di lavoratori avviati obbligatoriamente secondo la legge n. 68/1999[7]. Si ritiene che con questa formulazione il legislatore abbia inteso considerare la sopravvenuta inidoneità come «una fattispecie sui generis di giustificato motivo oggettivo»[8]. Diversamente, nel d.lgs n. 23/2015, all’articolo 2 dedicato al «licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» si inserisce quello illegittimo «per difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68», con applicazione della tutela reintegratoria piena. Si è rimarcata subito la differenza lessicale, oltre che sul piano delle tutele, tra le due disposizioni: quella dell’art. 18 riferita all’inidoneità e quella del 2015 alla disabilità, pur mantenendosi inalterato il rinvio alle disposizioni di cui alla legge n. 68/1999. Secondo alcuni le due fattispecie, l’inidoneità e la disabilità rimarrebbero distinte[9], altri sostengono la loro sostanziale sovrapposizione[10]. Per procedere oltre nell’analisi della questione occorre prima soffermarsi sulla nozione di disabilità rilevante ai fini del diritto antidiscriminatorio.

3. La nuova nozione di disabilità...

Menzionato prima nel Trattato di Amsterdam del 1997 e nella Carta di Nizza, il divieto di discriminazioni per disabilità in ambito europeo acquisisce piena forza giuridica con la direttiva 2000/78/Ce. Caratteristica specifica di questo divieto è la previsione contenuta nell’articolo 5, che attribuisce al datore di lavoro l’obbligo di adottare gli accomodamenti/soluzioni ragionevoli «per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione». La direttiva come è noto viene recepita maldestramente dall’ordinamento nazionale, che nella fase di attuazione, nel d.lgs n. 216/2003 omette la previsione del suddetto obbligo. Il decreto, come è noto, verrà corretto solo a seguito di una condanna della Corte di giustizia dell’Ue[11]. Né la direttiva, né il decreto attuativo peraltro forniscono una nozione di disabilità, lasciando così imprecisati i limiti di applicazione sia del divieto di discriminazioni, sia del correlato obbligo di adottare soluzioni ragionevoli. Il vuoto normativo ha dato inizialmente luogo ad alcune incertezze interpretative, in particolare emerse nel caso Chacon Navas[12], nel quale la Corte ha escluso l’equiparazione e l’applicabilità del divieto in questione ai casi di malattia, senza tuttavia riuscire a fornire, ad avviso di chi scrive, una nozione chiara di disabilità. Solo successivamente alla ratifica della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006[13] la Corte di giustizia affina la sua giurisprudenza e fornisce una definizione, che allo stato attuale potremmo definire ben consolidata, di disabilità rilevante ai fini dell’applicazione del divieto di discriminazioni e con esso dell’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli. Secondo la Convenzione sono disabili «coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri». La definizione è particolarmente rilevante in quanto innova sia dal punto di vista qualitativo il concetto di disabilità, rimarcandone la sua dimensione sociale, che di per sé è in grado di alleviare o aggravare considerevolmente le difficoltà di accesso al lavoro e più in generale di integrazione sociale del disabile[14], sia sotto il profilo della sua ampiezza in quanto prescinde del tutto dalle specifiche definizioni nazionali e si caratterizza per l’assenza di una soglia specifica di incapacità al lavoro, che è invece tipica delle legislazioni statali[15]. La Corte ha inoltre precisato che è irrilevante se la disabilità della persona sia stata o meno certificata secondo le disposizioni del diritto nazionale e che è parimenti irrilevante il fatto che il datore di lavoro fosse o meno preventivamente a conoscenza della menomazione del lavoratore[16]. Nel primo senso, nella sentenza Mo.da la Corte ha affermato, con riferimento a una situazione di infortunio sul lavoro soggetta, secondo il diritto spagnolo applicabile al caso di specie, alla tutela previdenziale per invalidità temporanea, che tale circostanza «non implica, di per sé, che la limitazione della capacità di tale persona possa essere qualificata come “duratura” ai sensi della definizione di “handicap” contemplata da tale direttiva, letta alla luce della convenzione dell’Onu»[17]. Nella sentenza Ruiz Conejero la Corte ha poi affermato che il fatto che una persona sia riconosciuta «disabile secondo il diritto nazionale, non comporta a priori che egli sia affetto da una disabilità ai sensi la direttiva 2000/78», precisando altresì che spetta al giudice nazionale verificare se la situazione di cui è affetto il lavoratore possa essere qualificata disabilità a norma del diritto europeo[18].

Si deve inoltre sottolineare come la definizione di disabilità accolta dalla Convenzione sia più ampia anche sotto un altro importante profilo qualitativo: essa non si limita a fare riferimento, come è tipico della legislazione nazionale e come previsto anche dall’articolo 5 della direttiva Ue per l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli, al solo rapporto tra menomazione della persona e accesso al mondo lavoro. La sussistenza o meno di una disabilità non dipende esclusivamente dalla capacità di lavoro della persona o, meglio, dall’incidenza che la menomazione ha sulla possibilità di accedere e di svolgere un lavoro, potendosi la stessa manifestare anche ed esclusivamente in altri campi della vita della persona e ciò nondimeno portare a un processo di esclusione e di emarginazione rilevante[19]. È questo, come si vedrà un profilo rilevante, che assume particolare rilievo nel momento in cui si dovrà passare a definire le interazioni e sovrapposizioni tra la nozione di disabilità e quella di inidoneità al lavoro. L’adozione della suddetta definizione di disabilità consente alla Corte di giustizia di ridefinire anche l’ambito di applicazione del divieto di discriminazioni con riferimento a situazioni della persona che secondo il diritto nazionale e secondo le definizioni di volta in volta da questi richiamate non sarebbero qualificabili come tali. Così la Corte ha anzitutto precisato che pur non potendosi estendere il divieto in questione ad ogni caso di malattia, esso è tale da comprendere anche ogni «condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata»[20]. La tutela viene conseguentemente ampliata sino a ricomprendere situazioni particolari della persona quali l’obesità che di per sé non costituiscono né malattia né disabilità possono divenire tali ove «in ragione di una mobilità ridotta o dell’insorgenza (…) di patologie che le impediscono di svolgere il suo lavoro o che determinano una difficoltà nell’esercizio della sua attività professionale»[21].

La Corte ha altresì avuto modo di precisare cosa si debba intendere per menomazione duratura. In assenza di limiti temporali predefiniti dal diritto europeo e dalla Convenzione Onu (alla stregua della quale si interpreta la direttiva Ue), e nell’impossibilità di fare riferimento alle disposizioni nazionali, è considerata duratura una situazione che «non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo» o che «possa protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona»[22].

Per espressa previsione della Convenzione Onu, la discriminazione per disabilità comprende anche il rifiuto di adottare soluzioni ragionevoli. Si può ritenere che si tratti di una ulteriore ipotesi di superamento della nozione comparativa di discriminazione o che il vincolo positivo di attivarsi con soluzioni ragionevoli per consentire al disabile di accedere o mantenere un lavoro debba essere adempiuto prima di procedere alla valutazione comparativa[23]. Ciò significa in ogni caso che la valutazione della capacità lavorativa del disabile può essere legittimamente valutata solo dopo l’assolvimento di tale obbligo[24].

4. ...e la sua incidenza sul licenziamento per inidoneità sopravvenuta

Nella sentenza che si commenta la Cassazione, dopo un’attenta ricostruzione della nozione europea di disabilità, conferma la decisione dei giudici di merito che avevano dichiarato il licenziamento illegittimo in quanto sussisteva per il datore di lavoro la possibilità di adottare soluzioni ragionevoli atte a consentire al lavoratore di continuare a lavorare. La conclusione si allinea perfettamente all’interpretazione data dalla Corte di giustizia Ue della nozione di disabilità e alle conclusioni cui è giunta parte della dottrina e della giurisprudenza di merito nazionali[25]. Il nuovo approdo giurisprudenziale richiede tuttavia alcuni approfondimenti e specificazioni. Se si può ormai ritenere sufficientemente condivisa la conclusione per cui il datore di lavoro, in caso di inidoneità sopravvenuta sarà legittimato a risolvere il rapporto di lavoro solo a condizione che, nonostante l’adozione di tutti gli adattamenti ragionevoli, non sia più impossibile impiegare il lavoratore, si deve ancora chiarire esattamente in che modo e su quali profili del licenziamento incida la nuova nozione di disabilità e il relativo divieto di discriminazioni. Esso potrebbe agire su un duplice piano: in primo luogo esso sembrerebbe incidere sulla qualificazione stessa del licenziamento per inidoneità sopravvenuta: ove si acceda alla tesi che quest’ultima, traducendosi in una menomazione che impedisce lo svolgimento dell’attività lavorativa in condizioni di eguaglianza, coincide con la disabilità, ne conseguirebbe che, ove l’atto di recesso sia fondato proprio sull’impossibilità di proseguire il lavoro a  causa di una duratura menomazione, a prescindere dalla terminologia impiegata nella motivazione, si realizza la condizione della diretta connessione tra l’atto meno favorevole per il lavoratore e il fattore protetto che integra gli estremi della discriminazione. In secondo luogo, poiché l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli è preliminare rispetto alla verifica della possibilità di continuare a impiegare il lavoratore, esso assume una valenza di clausola generale che rafforza e integra gli obblighi di repêchage validi per ogni caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo[26]. Imponendo al datore degli obblighi positivi di fare che comprendono tutti i profili più rilevanti dell’organizzazione del lavoro (v. infra §5), la cui individuazione ed effettiva realizzazione sono sindacabili in sede giudiziale, risulta scalfito il dogma dell’insindacabilità delle scelte inerenti all’assetto imprenditoriale considerato sinora il limite dell’obbligo di repêchage del lavoratore[27]

Sul primo dei suddetti piani non si è ancora giunti a soluzioni interpretative sufficientemente chiare e condivise, discutendosi se il licenziamento per inidoneità sopravvenuta debba in ogni caso essere riqualificato come un licenziamento discriminatorio per disabilità, come qui si ritiene[28] o se le due fattispecie restino distinte, in tutto o in parte. La decisione della Cassazione che qui si commenta non si esprime sul punto, ma la questione va approfondita, in quanto la differenza non è di poco conto: da essa dipendono anzitutto l’applicazione della tutela reintegratoria forte anche nelle imprese al di sotto dei 15 dipendenti e la quantificazione dell’indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo nell’ambito di applicazione della tutela di cui all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge n. 92/12. Inoltre la diversa qualificazione può esplicare importanti riflessi in ordine al regime dell’onere della prova[29].

Secondo un primo orientamento, residua un ambito nel quale il licenziamento per inidoneità non dà luogo a una discriminazione, poiché sussisterebbero situazioni di inidoneità alla mansione specifica che non danno luogo a disabilità[30]. Si fa in proposito l’esempio dell’acrobata che diventa inidoneo alle proprie mansioni e quello del lavoratore che contrae un’allergia a una sostanza impiegata nella propria specifica mansione ma che rimanga abile in qualunque altra attività. Peraltro proprio con riferimento agli esempi riportati si può osservare come le malattie da sovraccarico biomeccanico e le allergie da contatto rientrino nella tutela delle malattie professionali, e siano tali quindi non solo da giustificare la tutela previdenziale ma anche da far presumere la loro incidenza sulla capacità di lavoro. Sono però il carattere ampio della definizione di disabilità, che comprende qualsiasi patologia duratura, e la necessità di tenere nella giusta considerazione anche la dimensione sociale a far ritenere che la nozione europea di disabilità sia specifica, che si possa fondare cioè sulla valutazione relativa alla possibilità per la persona di svolgere il proprio attuale lavoro, e non generica, ciò che esigerebbe, come suggerito dalla dottrina che qui si discute, che la menomazione fosse apprezzata con riferimento a qualunque tipo di attività possibile. Una indiretta conferma in questo senso si può ricavare dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di obesità, che non viene considerata tout court una forma di disabilità ma che assume tale valenza allorquando per la ridotta capacità del lavoratore questa determini difficoltà nell’esercizio dell’attività lavorativa. Il fatto poi che la definizione comprenda non solo le menomazioni che impediscono di accedere a un lavoro ma anche quelle che impediscono alla persona di mantenerlo e continuare a svolgerlo fa sì che l’apprezzamento dell’inidoneità specifica al lavoro debba essere effettuato tenendo conto del contesto in cui la persona è inserita e dunque dell’attualità e del concreto verificarsi per la persona dell’impossibilità di continuare a svolgere il proprio lavoro. In assenza di soglie percentuali di disabilità rilevanti ai fini della definizione della nozione di disabilità è quindi l’elemento teleologico dell’accesso e del mantenimento del posto di lavoro a fungere da criterio scriminante, elemento che non avrebbe senso valutare in via generale e astratta bensì nella sua effettiva e concreta capacità potenziale di produrre un impatto discriminatorio. Anche a non voler accedere a tale interpretazione è comunque il caso di ricordare come in ogni caso di inidoneità alla specifica mansione cui è adibito il lavoratore si applicano le disposizioni di cui al d.lgs n. 81/2008 con conseguente diritto del lavoratore di essere spostato a mansioni compatibili con il proprio stato di salute.

Non si comprende invece la posizione di chi, pur affermando espressamente che l’inidoneità sopravvenuta al lavoro determina in ogni caso l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli, ritiene che ciò non comporti “di per se e in generale” la riqualificazione del licenziamento come discriminatorio. Si precisa in tal senso che nel caso in cui sarebbe violato l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli il licenziamento sarebbe discriminatorio, mentre qualora sia acclarata l’insussistenza dell’inidoneità il licenziamento sarebbe ingiustificato[31]. Questa seconda conclusione non convince, in quanto l’applicazione del divieto di discriminazioni non presuppone necessariamente che il soggetto discriminato sia effettivamente portatore del fattore protetto. Ciò che conta non è l’appartenenza in sé al gruppo discriminato, quanto il collegamento sussistente tra l’atto meno favorevole subito dalla persona e il fattore discriminatorio. Tale affermazione è stata effettuata per la prima volta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia proprio con riferimento a un caso di discriminazione per disabilità, in cui una lavoratrice era stata licenziata a motivo della disabilità del figlio[32] e ribadita in un caso di discriminazioni per motivi razziali[33].

Per converso si deve a mio avviso ritenere che se da un lato ogni inidoneità permanente al lavoro configura una disabilità ai sensi della normativa europea, non ogni atto discriminatorio a motivo della disabilità presuppone l’inidoneità al lavoro: poiché la nozione è ampia e comprende anche gli effetti negativi che una menomazione può avere sulla vita di relazione della persona, possono configurarsi comportamenti discriminatori a danno di disabili sul lavoro anche in casi in cui la disabilità non sia tale da incidere sulla prestazione lavorativa. È il caso ad esempio del lavoratore che venga discriminato perché portatore o sospetto portatore di patologie che non impediscono la prestazione di lavoro ma che sono comunque fonte di emarginazione ed esclusione in quanto derivanti da presunti o reali comportamenti pregressi socialmente non accettati o tali da ingenerare pregiudizi e timori infondati. Si pensi al caso del lavoratore la cui sieropositività sia tenuta sotto controllo e non sia degenerata in malattia o che abbia subito danni estetici che rendono la vista persona sgradevole in contesti che non implicano relazioni con il pubblico o ancora al portatore di patologie psichiatriche curate con successo. Peraltro, in senso contrario si è espressa la Corte di giustizia nel caso Z.[34], escludendo che una patologia che impedisce definitivamente la possibilità di procreare possa essere considerata disabilità ai sensi della direttiva 2000/78/Ce, in quanto questa comprende solo le menomazioni che siano in grado di ostacolare la partecipazione alla vita professionale. Si tratta tuttavia di una conclusione discutibile, perché adotta una nozione più ristretta rispetto a quella della Convenzione Onu, in contraddizione con la giurisprudenza prevalente che esige invece che si verifichi di fatto se la menomazione della persona incida o no sul mantenimento del lavoro da parte della persona. Nella stessa sentenza del resto la stessa Corte non ha mancato di considerare che la patologia di cui soffriva la lavoratrice presentava carattere durevole ed era in grado di causare grave sofferenza. Anche accedendo all’interpretazione restrittiva fornita dalla Corte di giustizia e ritenendo quindi che menomazioni che non incidono sulla capacità di lavoro non rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva europea, resta da considerare che esse rientrano comunque nell’ambito di applicazione della Convenzione Onu e, altresì, nella nozione ampia di disabilità delineata dall’art. 3, comma 1, legge n. 104/92 e tale da giustificare, sul piano nazionale, l’interpretazione estensiva.

È da osservare peraltro che seguendo l’orientamento che qui si propone le disposizioni normative che stabiliscono una disciplina particolare per il licenziamento per inidoneità sopravvenuta avrebbero ben pochi, se non nulli margini di applicazione, essendo le previsioni in esse contenute destinate a cedere rispetto alla più pregnante tutela antidiscriminatoria. Residua tuttavia un limitato campo di applicazione delle disposizioni in questione, che riguarda i casi di licenziamento per inidoneità temporanee al lavoro che non siano riconducibili a patologie e menomazioni durature e che pertanto non rientrano nell’ambito di applicazione della nozione di disabilità[35], nonché casi specifici di perdita di requisiti fisici particolari che non dà luogo a menomazioni, come potrebbe essere ad esempio l’aumento di peso dell’indossatrice che non è più in grado di portare la taglia d’abito richiesta.

5. L’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli e la sua incidenza sulla libertà di iniziativa economica

Come si è già accennato, uno dei profili più innovativi della sentenza che si commenta attiene al bilanciamento che deve essere effettuato tra tutela della persona disabile e libertà di iniziativa economica. Nel caso di specie la Corte ha ritenuto legittimo richiedere al datore di lavoro non solo un aggravio organizzativo mediante l’adozione di ulteriori misure di prevenzione e tutela della salute come lo spolveramento dei locali, ma anche il mutamento di mansioni dei colleghi di lavoro e il loro spostamento da un reparto all’altro.

La sentenza delle Sezioni unite n. 7755/1998, nel bilanciare gli interessi costituzionalmente rilevanti al lavoro e alla salute del lavoratore da un lato e la libertà di iniziativa economica dall’altro, aveva individuato il nucleo essenziale di quest’ultima «nell’autodeterminazione circa il dimensionamento e la scelta del personale da impiegare nell'azienda ed il conseguente profilo dell’organizzazione interna della medesima» nonché nella conservazione dei suoi equilibri finanziari. Al fine poi di non «pregiudicare il diritto al lavoro degli altri» e di evitare «prestazioni assistenziali» vietate dall'articolo 23 della Costituzione, la Corte stabiliva che l'assegnazione del lavoratore ad altre mansioni potesse essere rifiutata legittimamente dall'imprenditore ove comportante aggravi organizzativi e in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell'invalido.

Il punto di equilibrio delineato dalle Sezioni unite nel 1998, secondo il quale il datore di lavoro non è tenuto a modificare l’organizzazione del lavoro per salvaguardare l’occupazione di un lavoratore messa a rischio dalle condizioni di salute di quest’ultimo non subisce sostanziali stravolgimenti negli anni successivi né si arricchisce di contenuti e specificazioni adeguate[36]. L’orientamento nettamente prevalente verifica l’esistenza e la disponibilità di altre mansioni cui adibire il lavoratore senza che il datore di lavoro debba modificare la sua struttura organizzativa o alterare l’organizzazione aziendale. Si esclude che il datore di lavoro sia tenuto ad adottare tecnologie più avanzate e tali da ridurre la faticosità del lavoro[37]; si esclude che il datore di lavoro debba concentrare in una sola posizione lavorativa le mansioni meno difficoltose attribuite, insieme ad altre più complesse, ai colleghi di lavoro[38], si esclude la possibilità di trasferire colleghi di lavoro[39]. Le nuove mansioni cui il lavoratore deve essere adibito devono essere inoltre già disponibili in azienda e non create ex novo[40].

Non sono peraltro mancate posizioni meno rigide e decisioni che si sono spinte ad ammettere alcuni mutamenti organizzativi. Del resto, come si è osservato in dottrina, qualunque mutamento di mansioni determina, in ogni caso, «una qualche variazione organizzativa»[41]. Si tratta peraltro di una giurisprudenza che fa prevalentemente leva sulle disposizioni specifiche relative ai lavoratori avviati obbligatoriamente o ai lavoratori divenuti inidonei a seguito di infortuni sul lavoro o malattie professionali. Tali decisioni dunque danno applicazione concreta a quanto già stabilito precedentemente dalla normativa antecedente alla generalizzazione dell’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli introdotto nel 2013[42].

Quest’ultimo ora richiede una revisione degli orientamenti giurisprudenziali vigenti. A tale fine occorre anzitutto comprendere meglio quali siano le soluzioni ragionevoli. Né la direttiva 2000/78/Ce, né la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità ne forniscono un elenco. Il 20° Considerando della Direttiva indica diverse categorie di possibili provvedimenti, come la sistemazione dei locali e delle attrezzature, l’adattamento dei ritmi di lavoro, la fornitura di mezzi di lavoro idonei, la ripartizione dei compiti e l’inquadramento dei lavoratori.

L’indicazione non è tassativa poiché si tratta di misure che devono essere valutate caso per caso in relazione alla situazione specifica di ciascun lavoratore e in relazione al contesto organizzativo. Peraltro, non ogni misura che consenta al lavoratore di mantenere l’occupazione è dovuta dal datore di lavoro: un primo limite è costituito proprio dalla ragionevolezza delle misure stesse, individuata per espressa disposizione della direttiva e analoga previsione della Convenzione Onu, nella sproporzione tra i benefici attesi e l’onere sostenuto dal datore di lavoro. L’articolo 5 precisa inoltre che non si può ravvisare sproporzione laddove l’onere sia compensato da misure poste in essere dagli Stati nell’ambito delle loro politiche a favore dei disabili. La proporzionalità, chiarisce inoltre il 21° Considerando della Direttiva, deve essere valutata tenendo conto, oltre che dei costi finanziari, altresì delle dimensioni e delle risorse dell’impresa e delle possibilità di questa di ottenere appositi finanziamenti[43]. Una valutazione di questo tipo è stata effettuata ad esempio dal Tribunale di Ivrea[44] che ha ritenuto non sproporzionato il costo di una pedana elevatrice che avrebbe consentito di ridurre lo sforzo fisico della persona licenziata in quanto inferiore all’offerta conciliativa fatta dal datore di lavoro.

Un ulteriore limite è costituito dalla distinzione netta che la Corte di giustizia introduce tra le limitazioni delle possibilità di lavorare dovute alla disabilità da altre condizioni della persona, come il fatto che questa non sia «competente, capace o disponibile a svolgere le mansioni essenziali del suo posto di lavoro»[45]. Si tratta, a mio modo di vedere, di un limite che può essere interpretato in connessione con il principio già stabilito in precedenza nell’ordinamento nazionale per cui è consentita la risoluzione del rapporto quando sia accertata la definitiva impossibilità di inserire il disabile all’interno dell’azienda. Un accertamento che tuttavia ora presuppone che si sia preventivamente verificata non solo la possibilità di reperire altre mansioni per il lavoratore, ma anche che siano state vagliate tutte le altre soluzioni ragionevoli adottabili nel caso concreto. Il limite in questo modo pare parimenti strettamente connesso al divieto di oneri assistenziali in capo alle imprese, che giustifica il rifiuto del mantenimento in servizio di una persona che non è in grado di lavorare. È da osservare sul punto, come si debba tenere logicamente distinta la soluzione ragionevole dall’onere assistenziale: la prima, anche laddove abbia un costo, peraltro come si è visto proporzionato, mira infatti a prevenire il secondo, rendendo la prestazione di lavoro possibile ed escludendo così proprio che la conservazione del posto di lavoro si traduca in costo passivo per l’impresa.

Uno stretto collegamento sussiste in particolare con la normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro, che annovera tra i suoi principi generali quello di adattare il lavoro all’uomo, disposizione che se non vuole essere intesa come mera affermazione di principio esige che sia interpretata in senso specifico, riferita cioè alle condizioni dei singoli lavoratori[46]. In questo senso dispone del resto anche la previsione dell’obbligo del datore di lavoro di tenere conto nell’affidamento dei compiti ai lavoratori «delle capacità e delle condizioni degli stessi». Tra le soluzioni ragionevoli si possono quindi annoverare, oltre alle misure di prevenzione che vengano individuate sulla base di una valutazione dettagliata dei rischi, anche tutte le prescrizioni che abbia fornito il medico competente in sede di visita medica, soprattutto laddove il giudizio espresso (e salva ovviamente la sua sindacabilità) sia proprio quello di «idoneo con prescrizioni». Per i lavoratori assunti a norma della legge n. 68/1999, stante la speciale procedura relativa al caso di aggravamento delle loro condizioni di salute, si potrà invece fare riferimento alle indicazioni fornite dalla Commissione medica competente.

Ulteriori indicazioni potranno essere tratte dalle linee guida previste dall’art. 1, comma 1, lett. d), d.lgs n.  151/2015, al momento in cui si scrive non ancora predisposte, che dovranno definire gli adattamenti da attuare nell’ambito del collocamento obbligatorio dei disabili, ma che paiono poter costituire un punto di riferimento più generale per tutte le situazioni di riduzione della capacità di lavoro.

Tra le misure di sistemazione dei luoghi di lavoro e di adattamento delle attrezzature sono stati ad esempio individuati, oltre allo spolveramento dei locali indicato dai giudici di merito nel caso che qui si commenta, la fornitura di una pedana elevatrice necessaria per ridurre i movimenti della colonna vertebrale di una lavoratrice o di altri mezzi che riducano l’intensità degli sforzi fisici richiesti [47].

Non pare dubbio, alla luce del 20° Considerando della Direttiva, che la riorganizzazione dei compiti tra i lavoratori e il loro eventuale spostamento ad altre mansioni o reparti, come affermato nella sentenza che si commenta, rientrino tra le soluzioni ragionevoli[48]. Già in precedenza del resto la Cassazione aveva ritenuto non censurabile la decisione del giudice di merito che aveva riconosciuto l’obbligo per il datore di lavoro di effettuare la verifica dell’impiegabilità del lavoratore, «qualifica per qualifica», individuando i livelli di fabbisogno per ciascuna di esse e di procedere agli interventi di riqualificazione che fossero necessari per consentire ai lavoratori inidonei di lavorare[49].

Un discorso particolare merita però la quesitone dell’eventuale necessità di trasferire altri lavoratori, che non era in questione nel caso che si commenta ma che richiede comunque qualche riflessione. Qui il tema è più delicato perché il bilanciamento che deve essere realizzato non avviene più solo tra il diritto al lavoro del disabile e la libertà di autodeterminare dimensioni e organizzazione dell’impresa del datore di lavoro entrando in gioco anche il diritto al lavoro e le legittime aspettative dei compagni di lavoro. È questa la ragione per cui, pur ammettendosi alcune forme di ridistribuzione dei compiti tra i lavoratori, la giurisprudenza era ferma nell’escludere che il datore di lavoro per preservare l’occupazione del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione dovesse o potesse adottare provvedimenti di trasferimento dei colleghi. Nessuna indicazione sovviene in proposito dal testo della direttiva 2000/78/Ce e dalla giurisprudenza europea; tuttavia poiché la Convenzione Onu considera gli accomodamenti ragionevoli un obbligo generale, e poiché la legge è recentemente intervenuta riconoscendo, con una misura per altri versi discutibile, che i lavoratori possano cedere i propri diritti alle ferie a favore di colleghi che debbano assistere figli minori che per le particolari condizioni di salute necessitino di cure costanti (art. 24, d.lgs n. 151/15) si deve a mio avviso ritenere che anche il trasferimento dei colleghi di lavoro sia ora annoverabile tra le soluzioni ragionevoli, ove, chiaramente, esso non si traduca in un sacrificio sproporzionato per il lavoratore che lo subisce, situazione che andrebbe verificata caso per caso.

Un ruolo fondamentale sembra assumere inoltre l’adattamento dei ritmi e dei tempi di lavoro[50]. La Corte di giustizia ha considerato ad esempio una soluzione ragionevole la concessione del part-time, ma pare evidente che anche una diversa distribuzione della collocazione temporale della prestazione potrebbe essere importante, soprattutto ove ci si trovi a fronte della necessità di conciliare il lavoro con la sottoposizione del lavoratore a terapie mediche. Peraltro la Corte di cassazione si è recentemente pronunciata nel senso dell’illegittimità del licenziamento del lavoratore non più idoneo per motivi di salute a tutte le mansioni cui era precedentemente addetto che aveva rifiutato il passaggio al tempo ridotto. Nel caso di specie però il datore di lavoro non aveva provato l’impossibilità di reperire per il lavoratore altre mansioni che avrebbero consentito la continuazione del rapporto a tempo pieno[51]. La questione evoca il tema della eventuale scelta tra più possibili soluzioni ragionevoli che, in assenza di criteri predefinibili, non può che essere basata sul criterio del migliore contemperamento e bilanciamento degli interessi di entrambe le parti, dovendosi invece escludere che la stessa sia rimessa alla mera scelta di una soltanto di esse.

L’obbligo sotto questo profilo risulta considerevolmente più ampio rispetto alle previsioni legislative relative alle possibilità di riduzione d’orario dei lavoratori con patologie oncologiche o cronico-degenerative ingravescenti[52]. Ci si chiede se l’adozione degli adattamenti implichi anche lo spostamento di turni e orari degli altri lavoratori. Come per il caso del trasferimento di questi ultimi ad altra unità produttiva la risposta deve a mio avviso essere positiva, anche in forza di una interpretazione ampia del riferimento contenuto nel 20° Considerando della Direttiva alla ripartizione dei compiti, quanto meno tutti i casi in cui ciò non si traduca in un aggravio sproporzionato per i colleghi di lavoro coinvolti.

Un profilo particolare attiene all’adattamento del periodo di comporto, sul quale si è espressa sia la Corte di giustizia, sia la giurisprudenza di merito nazionale sia. La Corte di giustizia ha osservato in proposito che poiché il lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di assenze dal lavoro dovute a malattie collegate alla sua disabilità, egli ha più probabilità rispetto agli altri lavoratori di superare il periodo di comporto. Tale condizione costituisce per il disabile una situazione meno favorevole fondata su un criterio apparentemente neutro che potrebbe essere considerata una discriminazione indiretta, ciò però soltanto a meno che il periodo di comporto risponda a una finalità legittima e sia adeguato e proporzionato rispetto a tale finalità. Tra le finalità legittime la Corte di giustizia ha espressamente incluso la lotta all’assenteismo, ma si potrebbe fare riferimento anche al divieto di imporre oneri assistenziali alle imprese. La valutazione dell’adeguatezza e proporzionalità del requisito è stata rimessa al giudice nazionale. Poiché, come osservato sopra, le soluzioni ragionevoli sono misure che vanno individualizzate, si deve a mio avviso ritenere che una siffatta valutazione debba essere effettuata caso per caso. Per comprendere meglio in che modo possa operare il bilanciamento tra i diversi interessi contrapposti, occorre preliminarmente affrontare un ulteriore questione: ci si deve chiedere infatti se, a prescindere da ogni accertamento circa la condizione pregressa del lavoratore, il superamento del periodo di comporto non sia già di per se sintomo rivelatore della sussistenza di una patologia duratura (con tutte le incertezze che connotano detta caratteristica) tale da giustificare l’imposizione di soluzioni ragionevoli. È pur vero che la Corte di giustizia nel caso Chacon Navas aveva escluso l’assimilazione tra le fattispecie disabilità e malattia, affermando chiaramente che sia da escludere che i lavoratori siano tutelati dal divieto di discriminazione per handicap non appena si manifesti una qualsiasi malattia[53], ma tale affermazione risale al periodo antecedente alla ratifica della Convenzione Onu, che come si è osservato sopra ha fornito una nozione più ampia di disabilità ed è del resto almeno parzialmente smentita dalla giurisprudenza successiva, che ha appunto ritenuto le persone affette da malattie durature protette dal divieto di discriminazioni per disabilità. Ciò non significa beninteso considerare automaticamente il periodo di comporto illegittimo perché discriminatorio, quanto accertare se si sia in presenza di una patologia qualificabile come disabilità secondo la nozione ampia derivante dalla Convenzione Onu e, in caso affermativo, verificare in primo luogo se le eccessive assenze per malattia non siano imputabili al precedente rifiuto del datore di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli[54] e, in secondo luogo se al momento del superamento del periodo di comporto possano ancora essere adottate soluzioni ragionevoli, che potrebbero essere sia un allungamento del periodo di conservazione del posto, sia altre misure come ad es. una riduzione del tempo di lavoro o particolari adattamenti dell’ambiente di lavoro, che consentano al lavoratore di riprendere la propria attività[55].

L’adattamento del periodo di comporto è stato riconosciuto anche dalla giurisprudenza di merito nazionale a favore dei lavoratori assunti ex legge n. 68/99. Tale giurisprudenza ha ricavato tale regola da dall’articolo 3 della Costituzione, ritenendo in contrasto con il principio generale di eguaglianza l’applicazione ai disabili del medesimo trattamento riservato ai lavoratori normodotati[56].

6. Il problema dell’applicabilità dell’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli a situazioni antecedenti alla sua trasposizione nell’ordinamento interno

Come si è già accennato il caso deciso dalla Cassazione riguarda un licenziamento risalente al 2007, antecedente, quindi, al recepimento da parte dell’ordinamento italiano dell’obbligo di adottare le soluzioni ragionevoli. Ciò nondimeno la Corte ritiene di attribuire comunque rilevanza al disposto di cui all’articolo 5 della direttiva 2000/78/Ce, sulla base dell’obbligo, più volte statuito dalla Corte di giustizia di interpretare l’ordinamento nazionale in modo conforme agli obiettivi di una Direttiva anche nella fase antecedente al suo concreto recepimento e attuazione nazionali. I precedenti in questo senso sono ormai numerosi. Da ultimo, la Corte ha ribadito che spetta ai giudici nazionali, tenendo conto delle norme di diritto interno e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, decidere se e in quale misura una disposizione nazionale possa essere interpretata conformemente alla Direttiva 2000/78, senza procedere ad un’interpretazione contra legem, precisando altresì che «l’esigenza di un’interpretazione conforme include l’obbligo, per i giudici nazionali, di modificare, se del caso, una giurisprudenza consolidata se questa si basa su un’interpretazione del diritto nazionale incompatibile con gli scopi di una Direttiva»[57].

Vale la pena sottolineare come la Corte di giustizia sia tornata di recente a ribadire l’efficacia diretta del principio generale di parità di trattamento quale sancito dall’art. 21 della Carta dei diritti Ue affermando che esso «è di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione» e che il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva esige che il giudice assicuri «la tutela giuridica spettante ai singoli in forza degli articoli 21 e 47 della Carta e a garantire la piena efficacia di tali articoli»[58]. Certo il caso che qui si discute è antecedente anche all’attribuzione con il Trattato di Lisbona della piena efficacia giuridica propria del diritto primario Ue alla Carta, e purtuttavia, il principio fondamentale risultava all’epoca dei fatti già ampiamente riconosciuto dall’ordinamento europeo. Senza dover rievocare la risalente polemica relativa all’applicabilità di tale principio al di fuori delle condizioni stabilite dalle Direttive, è sufficiente qui rilevare che l’efficacia diretta orizzontale è stata da tempo riconosciuta dall’ordinamento sicuramente a partire quanto meno dalla data di scadenza del termine di attuazione della Direttiva[59] nel nostro caso comunque antecedente al licenziamento del lavoratore. La Corte di cassazione dunque non fa che dare attuazione sotto questo profilo a quanto affermato dai giudici europei, garantendo un’interpretazione del diritto interno conforme a quello sovranazionale. I giudici precisano sul punto che la decisione si basa sulla mera interpretazione conforme delle norme di diritto interno, facendo in particolare riferimento al bilanciamento tra i valori dell’ordinamento di cui all’articolo 41 della Costituzione da un lato e agli articoli 4, 35 e 36 della Costituzione dall’altro. Non erano mancati in precedenza casi che avevano ricostruito l’obbligo di adattamenti ragionevoli sulla base dell’articolo 3 della Costituzione declinato come vincolo di trattare in modo differenziato situazioni che eguali non sono[60].

La ricognizione del quadro normativo effettuata al §2 peraltro consente di aggiungere qui che alla medesima conclusione della necessità di adottare quei ragionevoli mutamenti organizzativi necessari a preservare il posto di lavoro anche precedentemente alle modifiche legislative di cui al d.lgs n. 216/2003 si poteva giungere anche per altre vie e sulla base di diverse argomentazioni. Nel caso di specie in particolare, considerata la stretta relazione sussistente tra la patologia del lavoratore e la sua esposizione alle polveri di cemento presenti sul luogo di lavoro, si sarebbe potuta riconoscere la connessione dell’inidoneità alle condizioni dell’ambiente di lavoro e applicare direttamente il principio di cui alla legge n. 68/1999, che prescrive per questa situazione la conservazione del posto salvo il caso di totale inidoneità al lavoro. Si è altresì osservato in proposito come anche le disposizioni di cui all’articolo 42, d.lgs n. 81/2008 «sarebbero dovute essere interpretate e applicate alla luce dell’articolo 5 della Direttiva», si aggiunge qui che, anche a prescindere da tale vincolo di interpretazione conforme, l’obbligo generale di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del lavoratore letto alla luce del principio di adeguamento del lavoro all’uomo, unito al principio che esige di preservare l’interesse della controparte all’esecuzione del contratto sarebbe di per sé sufficiente a ritenere che il contenuto del contratto di lavoro sia integrato dell’obbligo di  adottare soluzioni ragionevoli.

[1] Obbligo previsto dall’art. 9, comma 4-ter del dl n. 76/13, inserito dalla legge di conversione n. 99/13, a seguito della condanna per inadempimento all’art. 5 della direttiva subita dall’Italia. Cfr. Cgue 4 luglio 2013, Commissione c. Repubblica italiana, C-312/11.

[2] In Riv. It. Dir. Lav., 1999, II, p. 170. Per l’analisi degli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali precedenti si rinvia a R. Voza, Sopravvenuta inidoneità psicofisica  e licenziamento del lavoratore nel puzzle normativo delle ultime riforme, Arg. Dir. Lav., 2015, p. 771.

[3] Attribuisce alla norma il significato di un diritto incondizionato E. Pasqualetto, La nuova legge sul collocamento obbligatorio dei disabili, Quad. Dir. Lav. Rel. Ind., 1999, p. 102; R. Voza, op. cit., p. 771, ritiene invece che la norma contenga una mera enunciazione di principio, da leggersi in combinato disposto con il comma 4 dell’art. 4, da leggersi quindi, se ben intendo come garanzia del posto di lavoro salvo il caso di totale inidoneità al lavoro. In termini analoghi S. Giubboni, Disabilità, sopravvenuta inidoneità, licenziamento, Riv. Giur. Lav.,  2016, II, p. 621.

[4] Sul punto v. anche R. Voza, op. loc. cit.

[5] Fermo restando il carattere speciale della normativa relativa alle modalità di accertamento dell’aggravamento delle condizioni di salute del disabile assunto ai sensi della l. n. 68/99. Cfr. Cass. 28 aprile 2017, n. 10576, che peraltro sembrerebbe ritenere tuttora sussistente anche una differenza sostanziale in ordine al diritto al mantenimento dell’occupazione, ma contra v. infra diffusamente nel testo.

[6] In termini analoghi v. D. Casale, Malattia, inidoneità psicofisica e handicap nella novella del 2012 sui licenziamenti, Arg. Dir. Lav., 2014, 2, p. 401.

[7] R. Voza, op. cit., 771.

[8] R. Voza, op. cit., 771.

[9] C. Cester, I licenziamenti nel Jobs Act, W.P. Csdle “Massimo D’Antona”, n. 248/15, p. 42; P. Bellocchi, Interventi. La nullità del licenziamento nel d.lgs n. 23/2015, Dir. Rel. Ind., 2018, 1, p. 145.

[10] S. Giubboni, op. cit., p. 621.

[11] Cgue 4 luglio 2013, Commissione c. Repubblica italiana, C-312/11, cit.

[12] Cgue 11 luglio 2006, C-13/05, Chacon Navas.

[13] Ratificata dall’Italia con l. n. 18/2009 e dall’Ue con decisione n. 2010/48/Ce.

[14] V. per tutti M. Barbera, Le discriminazioni basate sulla disabilità, inM. Barbera (a cura di), Il nuovo diritto antidiscriminatorio. Il quadro comunitario e nazionale, Milano Giuffrè, 2007, p. 81; A. Venchiarutti, Sistemi multilivello delle fonti e divieto di discriminazione per disabilità in ambito europeo, Nuova giur. Civ., 2014,4, p. 20409.

[15] La legge italiana infatti, oltre a una definizione generale di disabilità contenuta nella l. n 104/92, annovera diverse disposizioni, ciascuna delle quali rilevante ai fini dell’accesso a specifiche prestazioni. Basti qui ricordare la diversità di soglie previste per l’accesso ai trattamenti assistenziali a favore degli invalidi civili e quelle previste per l’assegno di invalidità a favore dei lavoratori dipendenti dalla l. n. 222/1984 o, ancora, quelle di cui alla l. n. 68/99 per l’accesso al collocamento mirato.

[16] Cgue 18 gennaio 2018, C-270/16, Ruiz Conejero. Sulla questione della non necessaria appartenenza della vittima al gruppo portatore del fattore protetto v. E. Tarquini, Il principio di non discriminazione in giudizio: la giurisprudenza nazionale tra tutele di diritto comune e fonti sovranazionali, in O. Bonardi (a cura di), Eguaglianza e divieti di discriminazioni nell’era del diritto del lavoro derogabile, Ediesse, Roma, 2017, p. 49.

[17] Cgue 1° dicembre 2016, C-395/15, Mo.Da.

[18] Cgue 18 gennaio 2018, C-270/16, Ruiz Conejero.

[19] Ma si veda in questo senso già la l. n. 104/92, la quale fa riferimento a una menomazione che sia tale da «causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione».

[20] Cgue 11 aprile 2013, HK Danmark, C‑335/11 e C‑337/11. La Corte definirà in seguito disabilità qualsiasi «limitazione di capacità, risultante in particolare da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su un piano di uguaglianza con gli altri lavoratori». Cfr. Cgue 18 gennaio 2018, C-270/16, Ruiz Conejero, e nello stesso senso in precedenza 9 marzo 2017, C‑406/15, Milkova. Per l’accoglimento di tale definizione da parte della giurisprudenza nazionale v. Cass. 9 luglio 2015, n. 4348.

[21] Cgue 18 gennaio 2018, C-270/16, Ruiz Conejero; Cgue, 18 dicembre 2014, FOA, C‑354/13.

[22] Cgue 1° dicembre 2016, C-395/15, Mo.Da.

[23] In quest’ultimo senso v. M. Barbera, op. cit.,1 pp. 82 ss.

[24] P. Lambertucci, Il lavoratore disabile tra disciplina dell’avviamento al lavoro e tutela contro i licenziamenti: brevi note a margine dei provvedimenti attuativi del cd Jobs Act alla “prova” della disciplina antidiscriminatoria, Arg. Dir. Lav., 2016,6, p. 1147.

[25] V.T. Ivrea, 24 febbraio 2016, cit., S. Giubboni, op. cit., p. 621.

[26] P. Lambertucci, op. cit., p. 1147; S. Giubboni, op. cit., p. 621; in termini solo parzialmente coincidenti R. Voza, op. cit., 771.

[27] D. Izzi, Il licenziamento discriminatorio secondo la più virtuosa giurisprudenza nazionale, Lav. Giur., 2016, 8-9, p. 748; S. Giubboni, op. cit., p.  621.

[28] Nello stesso senso D. Izzi , op. cit., 748; T. Pisa, 16 aprile 2015, Arg. Dir. Lav., 2016, II, p. 64. Non procede invece alla riqualificazione del licenziamenti pur ritenendo illegittimo il licenziamento intimato senza che siano state preventivamente adottate le soluzioni ragionevoli T. Ivrea, 24 febbraio 2016, cit.

[29] In questo senso v. anche P. Digennaro, Il licenziamento del lavoratore disabile tra modifiche normative e riscontri giurisprudenziali, Lav. Giur., 2015, 8-9, p. 859. Si v. anche P. Lambertucci, op. loc. cit., che prospetta altresì una questione di illegittimità costituzionale dovuta al diverso regime di tutela di cui alla l. n. 92/2012 e al d.lgs 23/2015.

[30] R. Voza, op. cit., p. 771, M. Silvestri, Il licenziamento del lavoratore disabile: una procedura speciale per una soluzione estrema, Lav. Giur., 2017,11, p. 978; sembra aderire a questo orientamento anche P. Bellocchi, op. loc. cit.

[31] S. Giubboni, op. cit., 641, n. 42.

[32] Cgue 17 luglio 2008, C- 303/06, Coleman. Nel senso dell’illegittimità del licenziamento del caregiver v. anche Cass. 3 novembre 2015, n. 22421, Riv. Giur. Lav., 2016, II, p. 366. Sulla questione v. anche E. Tarquini, op. loc. cit.

[33] Cgue 16 luglio 2015, C83/14, Chez.

[34] Cgue 18 marzo 2014, C-363/12, Z.

[35] Ma v. sul punto A. Venchiarutti, op. cit., secondo il quale la convenzione Onu comprende anche situazioni causate da menomazioni reversibili e di modesta entità.

[36] Nello stesso senso v. R. Voza, op. cit., p. 771. Ammette la ridistribuzione dei compiti affidati ai lavoratori ma non la creazione di posti di telelavoro T. Ferrara, 22 ottobre 2008, Riv. It. Dir. Lav., 2009, II, p. 652.

[37] Cass. 5 agosto 2000, n. 10339, GCMass, 2000, p. 1730, relativa al caso di un lavoratore addetto al carico e scarico dei bagagli per i servizi aeroportuali; in termini analoghi relativi a casi di inidoneità agli sforzi fisici v. Cass. / marzo 2005, n. 4287, GCMass, 2005, 3; Cass. 19 agosto 2009 n. 18387, Guida Dir., n. 38, 35.

[38] Cass. 26 settembre 2002, n. 13960, GCMass, 2002, 1724, relativa a un caso di lavoratore avviato obbligatoriamente al lavoro perché disabile.

[39] Cass. 13 ottobre 2009, n. 21710 che aveva peraltro confermato l’illegittimità del licenziamento perché il datore di lavoro aveva omesso di accertare se sussistessero mansioni compatibili con lo stato di salute del lavoratore.

[40] Cass. 24 maggio 2005, n. 10194.

[41] R. Voza, op. cit., 771.

[42] V. Cass. 24 maggio 2005, n. 10194, che ritiene giustificati, soltanto a favore delle categorie protette, microinterventi consistenti nella ricomposizione delle funzioni sottratte ad altri lavoratori, ma sempre nell’ambito di mansioni già esistenti.

[43] Fa riferimento altresì allo “stato di salute” dell’impresa, ovvero alla necessità di tenere conto di eventuali situazioni di crisi economica, M. Silvestri, op. loc. cit.

[44] T. Ivrea, 24 febbraio 2016, Riv. Giur. Lav., 2016, II, 366.

[45] Cgue 11 luglio 2006, C-13/05, Chacon Navas.

[46] Nel senso che la valutazione dei rischi deve essere individualizzata, cioè tenere conto delle specifiche condizioni del singolo Cgue 19 ottobre 2017, Ramos, C-531/15, riferita peraltro a un caso di lavoratrice in stato di gravidanza. Sull’applicazione individualizzata del principio di adattamento del lavoro all’uomo, relativamente ai casi di malattie croniche v. S. Varva, Malattie croniche e lavoro tra normativa e prassi, Riv. It. Dir. Lav. ,2018, I, p. 109.

[47] T. Ivrea, 24 febbraio 2016 cit.

[48] T. Pisa, 16 aprile 2015, cit. Ammette inoltre la sussistenza di un obbligo di ricomposizione delle mansioni, ma solo a favore delle categorie protette ex l. n. 68/99, Cass. 24 maggio 2005, n. 10914, Dir. Rel. Ind., 2007, 1, p. 199.

[49] Cass. 9 luglio 2015, n. 14348.

[50] Sulla riduzione dei ritmi di lavoro v. già T. Milano, 26 ottobre 1999, Riv. Crit. Dir. Lav., 2000, p. 219, che ha ritenuto un onere non eccessivo e proporzionato il sopraggiunto minore rendimento per riduzione delle capacità fisiche di una lavoratrice impiegata da oltre 20 anni.

[51] Cass. 12 gennaio 2017, n. 618.

[52] Su cu v. S.Varva, op. loc. cit.

[53] Cgue 11 luglio 2006, C-13/05, Chacon Navas.

[54] In questo senso v. Cgue, 11 aprile 2013, HK Danmark, C‑335/11 e C‑337/11.

[55] Cgue 18 gennaio 2018, C-270/16, Ruiz Conejero.

[56] T. Milano, 28 ottobre 2016, Riv. Giur. Lav., 2017, II, 475.

[57] Cgue, 17 aprile 2018, C-414716, Egenberger.

[58] Cgue, 17 aprile 2018, C-414716, Egenberger.

[59] Cgue, 10 maggio 2011, C.147/08, Romer; Cgue 19 gennaio 2010, C-555/07, Kücükdeveci.

[60] V. in questo senso Cass. 9 luglio 2015, n. 14348 e T. Milano 28 ottobre 2016, cit.