Magistratura democratica

La protezione umanitaria nel sistema dei diritti umani

di Maria Acierno

Il permesso umanitario costituisce una delle forme di attuazione del diritto di asilo costituzionale. Questa caratteristica ne conferma l’inclusione nell’alveo dei diritti umani e la vocazione ad essere uno strumento aperto e flessibile che tende ad adeguarsi ai mutamenti storici politici del fenomeno migratorio all’interno del quale si assiste ad un aumento progressivo delle criticità dei Paesi di provenienza e ad un incremento delle cause di fuga.

1. Cosa significa la collocazione, nel nostro ordinamento, delle misure di protezione umanitaria nell’ambito dei diritti umani

L’attrazione del diritto del cittadino straniero al rilascio di un permesso per motivi umanitari nell’alveo dei diritti umani, definitivamente stabilito dall’ordinanza della Corte di cassazione n. 13393 del 2009, impone di comprendere se questa categoria di diritti della persona sia sovrapponibile a quella dei diritti fondamentali o se si possa ad essa attribuire un contenuto ed una vis espansiva più estesa, in relazione alla riconosciuta inclusione, da parte delle stesse Sezioni unite, di tali diritti nel più ampio panorama costituzionale integrato dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, oltre che dalle Convenzioni che direttamente si occupano della tutela dei diritti delle persone e dei diritti dei richiedenti asilo.

In primo luogo, si può affermare che i diritti umani non possono subire limitazioni legate alla nazionalità, ove ne sussistano i presupposti, ed inoltre che essi godono di un grado d’impermeabilità dalle ingerenze statuali più esteso ed un Statuto di tutele più incisivo di quello riconducibile alla generale categoria dei diritti fondamentali della persona. L’intervento giudiziale può conseguire alla lesione impeditiva o limitativa del loro esercizio ove si tratti di diritti umani connaturati all’esistenza della persona, oppure può essere proprio il riconoscimento giurisdizionale a sancirne la titolarità e l’esercizio, quando sia necessario il positivo accertamento di condizioni e requisiti previsti dalla legge. In questa seconda ipotesi, la verifica giudiziale può conseguire ad una fase amministrativa, caratterizzata da un potere vincolato e da una discrezionalità meramente tecnica. L’ultima ipotesi riguarda i diritti che vengono ad emersione in relazione alla modificazione e all’evoluzione della società, i quali prendono forma e ricevono tutela proprio mediante l’accesso alla giurisdizione ed attraverso il riconoscimento giudiziale.

Le diversità riscontrate non incidono tuttavia sul carattere incomprimibile dei diritti umani, sulla loro potenzialità espansiva, sulla rigida predeterminazione dei loro limiti rispetto ad interessi anche pubblicistici di natura contrapposta e sulla conseguente necessità che il giudizio di bilanciamento si fondi sulla loro ontologica appartenenza alla persona umana[1].

L’illustrazione dei caratteri, senz’altro nota, dei diritti umani, può apparire superflua rispetto al tema da trattare ma non è così. Il minore grado di definizione delle ragioni o dei motivi umanitari rispetto al contenuto della protezione internazionale così come declinata nelle forme tipiche del rifugio politico e della protezione sussidiaria, rende necessario, ai fini della selezione delle condizioni di riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso per motivi umanitari, assumere come punto di partenza e guida nell’accertamento dell’esistenza del diritto, l’inclusione delle ragioni umanitarie nell’ambito dei diritti umani.

Tale premessa è indispensabile sotto diversi profili. Il primo riguarda la peculiarità delle condizioni di riconoscimento del diritto al rilascio di un permesso per ragioni umanitarie rispetto ai requisiti relativi al rifugio politico e alla protezione sussidiaria ed alla conseguente necessità di enuclearne il contenuto diverso, ancorché contiguo ai primi, al fine di verificare se residui, anche in caso di rigetto delle misure tipiche, un quadro di violazione dei diritti umani nel Paese di origine che possa avere giustificato la necessità di allontanamento, alla luce del catalogo aperto di questi diritti e della loro riscontrata incomprimibilità. Il secondo, riguarda l’obbligo di procedere col medesimo rigore e con i medesimi poteri doveri (anche istruttori) d’indagine e d’accertamento previsti normativamente per il rifugio politico e la protezione sussidiaria, partendo dal preminente rilievo dell’audizione diretta del richiedente tanto più necessaria per la protezione umanitaria, proprio in relazione al carattere non preventivamente tipizzato dei requisiti posti a base di essa. Il terzo riguarda la correlazione tra il riconoscimento del diritto ad un titolo di soggiorno per ragioni umanitarie e l’attuazione del diritto d’asilo costituzionale[2]. La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto, con orientamento costante, che si tratti proprio di una delle modalità di attuazione dell’asilo costituzionale (Cass. n. 10686 del 2012; n. 16362 del 2016) ed anzi che, unitamente al rifugio politico ed alla protezione sussidiaria chiuda il cerchio delle forme di tutela del diritto d’asilo costituzionale, escludendo che vi siano margini ulteriori di applicazione diretta dell’art. 10, terzo comma, Cost. (Cass. n. 16362 del 2016). Questa affermazione può condurre ad attribuire al permesso umanitario, per il suo carattere aperto e residuale, una funzione propulsiva nell’attuazione del diritto di asilo costituzionale. Con minore approssimazione si può rilevare come la condicio iuris posta dall’art. 10, terzo comma, Cost., per il riconoscimento del diritto d’asilo abbia carattere aperto, dal momento che l’impedimento all’esercizio delle libertà democratiche, disancorata dall’eredità dei totalitarismi storicamente determinati che hanno influito sulla sua formulazione, ha il carattere di una clausola generale, in sintonia con la peculiarità dei diritti della persona, costantemente letti ed interpretati dalla Corte costituzionale «nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione sempre più attenta ai valori di libertà e dignità delle persone»[3].

2.La correlazione tra asilo costituzionale e permesso umanitario

La collocazione legislativa del permesso umanitario appare piuttosto frammentaria sia sotto il profilo della disciplina normativa sostanziale che processuale. L’inclusione tra le misure attuative del diritto costituzionale d’asilo fornisce uno strumento interpretativo delle norme di diritto positivo interno di primario rilievo, e ne sottolinea il carattere aperto e flessibile, oltre che la idoneità a costituire uno strumento proiettato nel futuro, capace di adeguarsi al ritmo crescente e alla variegazione delle ragioni umanitarie che caratterizzano le ultime fasi del fenomeno della migrazione. Sotto questo specifico versante tali ragioni sono intrinsecamente non cristallizzabili perché direttamente influenzate dai mutamenti sociopolitici ed economico finanziari che governano i flussi migratori oltre che alla spinta diffusa di categorie di persone (i cd. “particolari gruppi sociali” di cui all’art. 8, c.1., lettera d, del d.lgs n. 251 del 2007 verso i quali può dirigersi la vis persecutoria posta a base del diritto al riconoscimento dello status di rifugiato politico) che non intendono più sentirsi vittime di limitazioni discriminatorie nell’esercizio di diritti umani quali quello alla propria identità personale o di genere. Le libertà democratiche che già ad una lettura originalista del testo costituzionale si manifestano come un catalogo non predeterminato, sono esposte ad un grado di vulnerabilità ben superiore a quello relativo al periodo nel quale la nostra Costituzione è stata composta, all’interno della vastità del fenomeno migratorio più recente, specie quello riguardante ampie aree dell’Africa e del Medio Oriente. Le realtà territoriali dalle quali ci si allontana sono caratterizzate sempre più di frequente da condizioni personali che non raggiungono il grado minimo della scala della dignità personale e che, conseguentemente sono intrinsecamente illiberali. Gli stessi viaggi cui vengono sottoposti i cittadini stranieri espongono al rischio non soltanto dell’incolumità fisica e della vita ma anche di trattamenti disumani e degradanti, come può riscontrarsi dai tanti racconti raccolti anche in sede giurisdizionale e dalle descrizioni relative a taluni centri di detenzione[4] che costituiscono tappe obbligate dei viaggi dei migranti. È, in conclusione, all’interno di questo nuovo allarmante quadro globale che deve essere misurata la solidità, sotto il profilo dell’incomprimibilità, e l’elasticità dei diritti umani da tutelare attraverso il riconoscimento, ove ne sussistano le condizioni, del diritto al rilascio di permessi di natura umanitaria, tenuto conto della radice semantica dell’attributo che richiama la persona umana e la salvaguardia del minimo comune denominatore solidaristico del rispetto dell’esistenza umana.

Questa cornice interpretativa non deve distogliere dall’accertamento rigoroso, sotto il profilo probatorio, delle condizioni di riconoscimento del diritto. Essa, tuttavia, deve orientare nell’individuazione delle situazioni in cui la lesione dei diritti umani nel Paese di ritorno, assunta come unico criterio (nel caso in cui il richiedente sia da poco in Italia, o sia trattenuto) o posta in comparazione con il grado d’integrazione socio-familiare raggiunto nel Paese di accoglienza, non sia intollerabile rispetto al nucleo ineludibile di dignità e libertà che il nostro sistema costituzionale integrato è tenuto a garantire ad ogni essere umano.

3. Il sistema normativo interno

L’inclusione nei diritti umani è del tutto coerente con la norma che ha introdotto nel nostro diritto positivo il permesso di soggiorno per motivi umanitari, ovvero l’art. 5, comma 6, del d.lgs n. 286/1998 che stabilisce: «il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, salvo che ricorrano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano. Il permesso di soggiorno per motivi umanitari è rilasciato dal questore secondo le modalità previste nel regolamento di attuazione». La norma regolamentare è l’art.11, lett. c-ter), dPR n. 394/1999, che disciplina il rilascio da parte della Questura di tale titolo di soggiorno su richiesta diretta dello straniero, previo parere delle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale o previa acquisizione di documentazione riguardanti i motivi della richiesta stessa, «relativi ad oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale». L’esame testuale della norma richiama testualmente il quadro costituzionale integrato di tutela dei diritti umani, già illustrato, imponendo di valutare il catalogo dei diritti fondamentali derivanti dalla Cedu (così come interpretati dalla Corte di Strasburgo) e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

La norma sopra illustrata s’integra con la causa d’inespellibilità contenuta nell’art. 19, c.1, lettera a), del d.lgs n. 286 del 1998[5], attuata dall’art. 28, lett. d), dPR n. 394 sopra citato[6]. Le norme disciplinano l’ipotesi del rilascio del permesso umanitario nei casi in cui non possa disporsi l’allontanamento verso un altro Stato per il rischio di persecuzioni o torture, in attuazione del principio del non-refoulement sancito espressamente anche dall’art. 19, comma secondo, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Questa specifica ipotesi ha un campo di attuazione più limitato alla luce dell’introduzione nel nostro ordinamento del sistema di protezione internazionale derivante dal diritto dell’Unione europea ed attuato con i d.lgs n. 251 del 2007 e 25 del 2008, costituendo, invece, anteriormente all’entrata in vigore delle Direttive europee (2004/83/Ce e 2005/85/Ce) e delle norme interne di attuazione, il principale strumento di attuazione del diritto d’asilo[7]. Permane tuttavia uno spazio applicativo alla norma da ravvisarsi quando nell’ipotesi in cui l’espellendo non abbia fatto ricorso, per svariate ragioni, alla protezione internazionale o sia stato oggetto di provvedimento di revoca del rifugio politico o della protezione sussidiaria, per ragioni diverse dall’insussistenza sopravvenuta delle ragioni di persecuzione o di rischio di danno grave alla vita o all’incolumità personale[8], che, tuttavia, non integrino la condizione di cui all’art. 12, c.1, lettera c), del d.lgs n. 251 del 2007 (pericolo per la sicurezza dello Stato). Questa residuale funzione del permesso umanitario ex art. 19, c.1, lettera a), d.lgs n. 286 del 1998, può desumersi, con riferimento alla protezione sussidiaria, dall’art. 15, c.2, del d.lgs n. 251 del 2007, nel quale è stabilito che la cessazione delle cause di riconoscimento della protezione sussidiaria può non condurre al rimpatrio ove permangano “gravi motivi umanitari” diversi, dunque, da quelle che avevano determinato il riconoscimento del titolo tipizzato di soggiorno. La norma è coerente con la natura giuridica aperta del permesso umanitario in quanto pone in luce la necessità di verificare in concreto se sussistano ragioni umanitarie oltre il mancato riconoscimento delle condizioni per il riconoscimento del rifugio o della protezione sussidiaria, sia in considerazione della peculiarità soggettiva della situazione di vulnerabilità alla luce dei parametri delineati nel par. 1[9] o oggettiva quando la situazione generale del Paese di origine non integra i requisiti di cui all’art. 14, comma 1, lettera c), d.gs n. 251 del 2007 ma presenta profili di conflittualità o violenza diffusa idonei ad integrare ragioni umanitarie.

Si tratta di una tutela di carattere residuale posta a chiusura del sistema complessivo che disciplina la protezione internazionale degli stranieri in Italia, come risulta evidente dalla lettura testuale dell’art. 32, comma 3, del d.lgs n. 25/2008 (decreto “procedure”), in base alla quale «nei casi in cui non accolga la domanda di protezione internazionale» (nella forma del rifugio o della protezione sussidiaria) e «ritenga che possano sussistere gravi motivi di carattere umanitario, la Commissione territoriale trasmette gli atti al Questore per l'eventuale rilascio del permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286». Ne discende che la protezione umanitaria è collocata in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, potendo l’autorità amministrativa e giurisdizionale procedere alla valutazione della ricorrenza dei presupposti della prima soltanto subordinatamente all’accertamento negativo della sussistenza dei presupposti delle seconde (cfr. Cass. n. 15466 del 07.07.2014).

4. L’audizione del richiedente

Da questa indicazione interpretativa, tratta dalla giurisprudenza di legittimità, conseguono effetti rilevanti. In primo luogo l’equiparazione del regime giuridico relativo all’istruzione e alla ricerca della prova relativa al riconoscimento delle ragioni umanitarie a quello riguardante il rifugio politico e la protezione sussidiaria. Anche per il permesso umanitario lo strumento di accertamento di primaria importanza risulta essere l’audizione del richiedente che – in primo luogo davanti le Commissioni territoriali – deve estendersi officiosamente alla verifica di situazioni di vulnerabilità anche non immediatamente riscontrabili direttamente dal colloquio con il cittadino straniero, ove questo sia condotto secondo modalità dirette a concentrare l’indagine soltanto sulle cause di rifugio politico o di protezione sussidiaria. L’autorità amministrativa e quella giudiziaria (oltre che il giudice di pace in sede di opposizione all’espulsione) hanno il medesimo potere dovere di cooperazione istruttoria e sono tenuti a valutare la credibilità delle dichiarazioni secondo i parametri indicati nell’art. 3, d.lgs n. 251 del 2007, così come interpretati dalla giurisprudenza di legittimità[10]. In caso di accertamento negativo esplicito o implicito relativo al riconoscimento di ragioni umanitarie da parte della Commissione territoriale, ove il cittadino straniero formuli la domanda davanti al Tribunale, enucleando dalla propria condizione personale autonomi profili di vulnerabilità o allegandone di diversi non emersi nella fase precedente, il giudice è tenuto all’audizione del ricorrente in tutte le ipotesi in cui, tali nuove allegazioni non risultano dagli atti già acquisiti e dal fascicolo della fase svoltasi davanti le Commissioni territoriali. L’accertamento di fatto svolto davanti la Commissione territoriale non è preclusivo dell’inclusione di temi d’indagine nuovi davanti al Tribunale. Su di essi il punto di partenza per la verifica istruttoria della loro fondatezza non può che essere l’audizione, per la rilevata complessità dell’indagine istruttoria in ordine ad un titolo di soggiorno di carattere intrinsecamente aperto e fondato prevalentemente su una puntuale valutazione comparativa della condizione di partenza rispetto a quella del paese di origine.

5. Fattispecie tipizzate di permesso umanitario

Sempre al fine di sottolineare la derivazione del titolo di soggiorno oggetto d’indagine, dal quadro costituzionale integrato dei diritti umani, all’interno del quale nel nostro ordinamento deve essere collocato il diritto d’asilo costituzionale per la proiezione dinamica dei requisiti in esso indicati, devono menzionarsi alcune recenti innovazioni legislative di derivazione eurounitaria, che hanno introdotto figure tipizzate di permessi umanitari. La scelta dello strumento del permesso umanitario ne sottolinea l’adattabilità a situazioni emergenti, avvertita anche dal legislatore europeo, che non ignora l’esistenza dell’istituto, come confermato dal fatto che tale forma di protezione è richiamata dalla Direttiva comunitaria n. 115/2008, che, all'art. 6, par. 4, prevede che gli Stati possano rilasciare in qualsiasi momento, «per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura», un permesso di soggiorno autonomo o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno è irregolare. La Corte di giustizia dell'Unione europea ha, al riguardo, chiarito che gli Stati membri possono concedere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa europea, purché non modifichino i presupposti e l'ambito di applicazione della disciplina derivata dell'Unione (sent. 09.11.2010, caso Germania c. B. e D., C-57/09, C-101/09). Il principio è confermato dall'art. 3 della Direttiva n. 95/2011, che consente l'introduzione o il mantenimento in vigore di disposizioni più favorevoli in ordine ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, purché non incompatibili con la direttiva medesima.

Le figure tipizzate di protezione umanitaria riguardano le vittime di violenza domestica che decidano di sottrarsi ad essa e denuncino la condizione in cui versano o collaborino alle indagini penali (art. 18 bis d.lgs n. 286 del 1998 introdotto dal dl n. 93 del 2013 convertito nella l. n. 119 del 2013) ove sussista un pericolo attuale e concreto per la loro incolumità[11], e quella analoga dei lavoratori che subiscono un “particolare sfruttamento lavorativo” e che denuncino e collaborino alle indagini penali[12] (art. 22, comma 12 quater, d.lgs n. 286 del 1998, introdotto con l’art. 1, comma 1, lettera c), del d.lgs n. 109 del 2012). La tecnica legislativa adottata per entrambe le norme non è impeccabile e il procedimento amministrativo che dovrebbe condurre al rilascio del permesso umanitario, coinvolgendo l’Autorità giudiziaria inquirente (o in funzione propositiva o come autorità della quale deve ottenersi il parere), risulta complesso, anche perché verosimilmente la partecipazione dell’Autorità giudiziaria è in funzione della qualità della denuncia e della collaborazione alle indagini penali, mentre i requisiti per il rilascio del permesso devono fondarsi sulle specifiche ragioni umanitarie sottese nelle norme. In ordine a tali strumenti deve ribadirsi la pienezza del potere dovere di accertamento del giudice ordinario davanti al quale venga impugnato il diniego del questore e l’illegittimità di soluzione che postulino il condizionamento sul sindacato giurisdizionale del parere espresso dalla magistratura inquirente nella fase amministrativa[13]. Anche con riferimento a queste situazioni tipizzate, tuttavia, residua uno spazio applicativo della misura del permesso umanitario che possa includere condizioni personali analoghe od omogenee, nelle quali si ravvisi il pericolo per l’incolumità in caso di ritorno nel Paese di origine, o comunque una condizione di grave deprivazione dei diritti umani all’esito del giudizio comparativo, anche in mancanza di tutti i requisiti previsti per le ipotesi specificamente previste dal legislatore, così come delineato nella sentenza della Corte di cassazione n. 4455 del 2018.

6. I recenti sviluppi della giurisprudenza di legittimità in materia di protezione umanitaria[14]

Il sistema legislativo interno, del tutto carente, dei titoli di soggiorno per i cittadini stranieri, diversi da quelli giustificati da ragioni riconducibili alle ipotesi tipiche di protezione internazionale o al diritto all’unità familiare, ha determinato un notevole incremento delle domande relative al riconoscimento di permessi fondati su ragioni umanitarie. L’opzione ermeneutica della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale il permesso umanitario è una delle modalità attuative del diritto d’asilo e il suo saldo ancoraggio nell’alveo dei diritti umani, come illustrato nel par. 1, ha determinato l’esigenza di riempire di contenuti, pur senza esaurirne la potenzialità espansiva, delle condizioni (ragioni umanitarie, condizioni di vulnerabilità) sottese al riconoscimento del diritto. I versanti sui quali la giurisprudenza di legittimità si è maggiormente soffermata, sono quelli relativi al diritto alla salute, alle condizioni oggettive del Paese di origine, alle nuove sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza di merito, specie in relazione all’integrazione familiare, sociale e lavorativa. Premesso che il permesso umanitario è una misura residuale ed atipica, rispondente all’esigenza di proteggere situazioni di vulnerabilità in presenza di un’esigenza qualificabile come “umanitaria”, le pronunce della Corte di cassazione appaiono sostanzialmente concordi quanto alla necessità che vengano allegati, come «gravi motivi», elementi derivanti dalla situazione sociale, politica, o ambientale del Paese d’origine del richiedente eziologicamente riconducibili alle condizioni personali del richiedente, pur non essendo richiesto un pericolo persecutorio o di danno grave (Cass. n. 420/2012, n. 15756/2013, n. 28336/2017). La protezione umanitaria, pertanto, è volta a tutelare situazioni di gravi violazioni dei diritti umani dalle quali il richiedente sia stato necessitato ad allontanarsi e che sulla base di un giudizio prognostico da svolgersi in relazione alla situazione attuale (coerentemente con tutto il sistema della protezione internazionale) perduri nel Paese di origine, con la conseguenza che, in linea di principio, non rilevano situazioni di vulnerabilità che non derivino da una condizione latu sensu personale vissuta o subita in quel contesto geografico, politico o sociale. Al riguardo sono, tuttavia, necessarie due precisazioni.

In primo luogo, all’accertamento delle condizioni per il riconoscimento di un titolo di soggiorno fondato su ragioni umanitarie non è estranea la valutazione della situazione vissuta nel Paese di accoglienza da parte del richiedente. Se non può condividersi la considerazione esclusiva di tale condizione se ne deve, tuttavia, riconoscere la rilevanza come elemento di comparazione cui dare rilievo nella valutazione della effettività della privazione dei diritti umani cui il richiedente si troverebbe esposto ove rimpatriato. L’allegazione di un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita personale, relazionale e lavorativa non è sufficiente, in via esclusiva, a sostenere la condizione di vulnerabilità del richiedente, in relazione al mero peggioramento cui lo stesso sarebbe esposto nel Paese di origine. Ma la correlazione tra i due contesti è indispensabile, al fine di verificare se sia configurabile (o non lo sia) una regressione delle condizioni personali e sociali in caso di rientro tale da determinare un’incolmabile sproporzione nella titolarità e nell’esercizio dei diritti fondamentali al di sotto del parametro della dignità personale, (Cass. n. 4455 del 2018). Ne consegue che il potere dovere d’integrazione istruttoria del giudice deve rivolgersi, in via peculiare, nell’accertamento delle condizioni del Paese di origine, alla verifica dell’esistenza delle condizioni essenziali di godimento dei diritti fondamentali, conquistati nel Paese di accoglienza. Tale accertamento può richiedere, quanto meno nella maggior parte dei casi, una più incisiva conoscenza delle condizioni personali del richiedente mediante l’audizione, proprio in relazione alla relativa alterità del quadro fattuale rilevante rispetto al rifugio politico e alla protezione sussidiaria.

In secondo luogo assume rilievo probatorio centrale il puntuale accertamento delle condizioni oggettive del Paese di rientro in relazione alle situazioni di cd. conflitto a bassa intensità sociale. Non è sufficiente ad escludere il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria, l’esclusione delle condizioni richieste dall’art. 14, lettera c), d.lgs n. 251 del 2007 per la protezione sussidiaria, sia in relazione ai requisiti oggetti di gravità ed intensità del conflitto interno o generato da una situazione di guerra con altri Stati, sia in relazione al legame eziologico tra la situazione personale del richiedente e il contesto oggettivo. L’accertamento da svolgere, in relazione alla protezione umanitaria, riguarda il riscontro di una condizione di privazione o forte limitazione dei diritti umani dovuta ad una situazione caratterizzata dal predominio di fazioni o milizie private (ancorché riferibili a sigle religiose ed a autorità statuali esterne o interne finanziatrici) tali da ingenerare violenza diffusa ancorché non generalizzata oppure da una condizione di generale o quanto meno prevalente sopraffazione verso un particolare gruppo sociale. In questa situazione, non priva di riscontri, nella situazione attuale di alcuni Stati di origine dei migranti, la riferibilità causale diretta delle ragioni umanitarie alla condizione personale posta a base della domanda, non è richiesta e la valutazione oggettiva assume netta prevalenza.

All’interno di questo contesto deve essere illustrata la giurisprudenza di legittimità relativa alle condizioni di riconoscimento del diritto ad un permesso fondato su ragioni umanitarie, in relazione al diritto alla salute. Incluso saldamente il diritto alla salute nell’alveo dei diritti umani della persona, si è ritenuto che ove nel Paese di origine tale diritto, in relazione alla patologia allegata e dimostrata, non possa essere garantito, il rientro possa integrare la grave violazione dei diritti umani posta a base delle condizioni di vulnerabilità richieste dalla legge. Al riguardo è stato affermato che «il diritto alla protezione umanitaria non può essere riconosciuto per il semplice fatto che lo straniero versi in non buone condizioni di salute», essendo necessario che a tale allegazione, da prospettarsi in modo specifico sia correlata l’altra relativa (cui deve seguire l’approfondimento istruttorio officioso del giudice) all’assenza di condizioni di protezione dell’integrità psico fisica nel Paese di origine, correlate alla situazione dedotta. La condizione di vulnerabilità riconducibile alla salute può essere non coincidente con quella formante oggetto delle ragioni dell’allontanamento dal Paese di origine, non potendo escludersi un aggravamento o una manifestazione patologica in precedenza latente, essendo il giudizio ancorato all’attualità (Cass. n. 26566 del 2013; n. 15466 del 2014) ma è ineludibile il riscontro oggettivo relativo alla situazione del Paese di provenienza e la derivazione causale da quanto vissuto o subito nel Paese di provenienza (Cass. n. 3933 del 2018). Ne consegue che il rischio futuro derivante dall’allontanamento dello straniero dal territorio nazionale non è il presupposto imprescindibile del rilascio del permesso umanitario, e in ciò si coglie la diversità rispetto alle misure tipiche di protezione internazionale, ove le violazioni sofferte in passato possono tutt’al più rilevare come indizi di un pericolo futuro di danno grave o di persecuzione (art. 3, comma 4, d.lgs n. 251/2007), ma non giustificano di per se stesse il riconoscimento dello status. Tuttavia, la sussistenza di fattori impeditivi del rimpatrio (Cass. n. 23604 del 2017) è insita nella protezione umanitaria, in quanto essa «copre tutta una serie di situazioni, da individuare caso per caso, in cui, pur non sussistendo i presupposti per il riconoscimento della tutela tipica (status di rifugiato o protezione sussidiaria), tuttavia non possa disporsi l'espulsione e debba perciò provvedersi all'accoglienza del richiedente che si trovi in una condizione di “vulnerabilità”»(Cass. n. 23604 del 2017, in fattispecie relativa alle conseguenze dell’accusa di blasfemia in Paese a religione islamica) ma, allo stesso tempo è necessaria la deduzione della violazione dei diritti umani in caso di rimpatrio (Cass. n. 9203 del 2018). Tale adempimento allegativo si può desumere anche dall’art. 11, lett. c-ter), dPR n. 394 del 1999, che – regolando la procedura di rilascio del permesso umanitario da parte delle Questure – fa riferimento a «oggettive e gravi situazioni personali che non consentono l'allontanamento dello straniero dal territorio nazionale».

In ultima analisi, alla luce delle pronunce sopra richiamate, può ritenersi che l’esigenza qualificabile come “umanitaria” che giustifica il rilascio del permesso di soggiorno ex art. 5, comma 6, cit., si riscontri ove il richiedente abbia subìto nel proprio Paese, o corra in rischio di subire in caso di espulsione, gravi violazioni dei propri diritti fondamentali. I “seri motivi” (non tipizzati né predeterminati dal legislatore) sono accomunati dal fine di tutelare «situazioni di vulnerabilità attuali» oppure «accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero», «in presenza di un'esigenza qualificabile come umanitaria, cioè concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale» (Cass. n. 4455 del 2018).

Il contesto socio-politico di generale e non specifica violazione dei diritti umani nel Paese d’origine non giustifica, di per sé, il rilascio del titolo di soggiorno in questione (Cass. n. 420 del 2012; n. 15756 del 2013; n. 4455 del 2018), essendo quindi richiesto un grado di individualizzazione che consenta una correlazione tra il contesto generale e la vicenda personale del richiedente. Il principio è stato già espresso da Cass. n. 7492/2012, secondo cui tra i presupposti della protezione umanitaria «non rientra la situazione di instabilità di un Paese o la generica limitazione delle libertà civili».

Emerge, in conclusione, l’esigenza di un’indagine istruttoria approfondita e rigorosa di tutti gli elementi che, alla luce della breve disamina della giurisprudenza di legittimità sono da porre in luce, e quando necessario, in comparazione.

7. Il regime processuale del permesso umanitario dopo il dl n. 13 del 2007: alcune criticità

Il dl 13/2017, convertito in l. 46/2017, ha istituito presso i Tribunali ordinari del luogo nel quale hanno sede le Corti d’appello le Sezioni specializzate in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea, attribuendo ad esse anche la competenza nelle controversie in materia di riconoscimento della protezione umanitaria «nei casi di cui all’art. 32, comma 3, d.lgs n. 25/2008» (art. 3, comma 1, lett. d), che sono i casi in cui la Commissione territoriale, non accogliendo la domanda di protezione internazionale (status di rifugiato o di protezione sussidiaria), trasmette gli atti al Questore per il rilascio del permesso ex art. 5, comma 6, d.lgs n. 286/98, perché ravvisa la sussistenza di gravi motivi di carattere umanitario. È previsto che in tal caso il Tribunale giudichi in composizione monocratica ai sensi del comma 4 dell’art. 3, dl n. 13/2017 secondo il rito sommario (art. 702 bis cpc). Al contrario, giudica in composizione collegiale, ai sensi del successivo comma 4bis, per le controversie in materia di riconoscimento della protezione internazionale ex art. 35, d.lgs n. 25/2008. Queste ultime controversie (sui provvedimenti della Commissione territoriale relativi al rifugio politico o alla protezione sussidiaria) sono assoggettate, ai sensi dell’art. 35bis, d.lgs n. 25/2008, al rito camerale (artt. 737 ss. cpc), con previsione di un termine di trenta giorni (sessanta se il richiedente risiede all’estero) per la proposizione del ricorso, eliminazione del grado d’appello, effetto sospensivo automatico dell’efficacia del provvedimento di rigetto e la nuova articolazione della trattazione e dell’istruzione probatoria in primo grado.

La nuova disciplina ha posto taluni problemi applicativi derivanti dall’ancoraggio legislativo della protezione umanitaria alla decisione della Commissione territoriale (art. 3, comma 1, lett. d), d.lgs n. 25/08) e dalla mancata ricomprensione, nell’art. 35bis cit., delle controversie in materia di protezione umanitaria. L’esame testuale di quest’ultima norma conduce infatti a ritenere che solo il giudizio sulle forme tipiche di protezione internazionale sia assoggettato al rito camerale, non avendo il legislatore richiamato espressamente anche il giudizio sulla protezione umanitaria.

Quando la domanda di riconoscimento del permesso umanitario sia connessa o subordinata a quella relativa alla protezione internazionale (qualora, ad esempio, il richiedente impugni il provvedimento negativo della Commissione territoriale chiedendo il riconoscimento dello status di protezione internazionale e, in via subordinata, la protezione umanitaria), ai sensi dell’art. 4bis cit. la competenza del giudice collegiale e l’assoggettamento al rito camerale sembrano la soluzione preferibile.

Al contrario, non c’è una soluzione univoca in ordine al giudice competente e al modello di impugnazione per il caso in cui, a fronte del rigetto tout court delle Commissioni territoriali, il richiedente intenda impugnare il provvedimento amministrativo soltanto sotto il profilo del diniego (esplicito o implicito) del riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria. Problematica analoga si pone nel caso in cui il richiedente proponga autonoma domanda giudiziale di riconoscimento della protezione umanitaria[15] senza prima formulare istanza alla competente Commissione territoriale ed attendere la relativa decisione, oppure nel caso in venga impugnato il diniego del questore. A questo proposito si possono indicare due soluzioni interpretative. Se si ritiene che il permesso umanitario possa dar vita ad una categoria autonoma anche disancorata dal sistema giudiziale di tutela proprio della protezione internazionale, si dovrà applicare il rito sommario con conseguente impugnabilità ex art. 702quater cpc in appello. Ove invece venga valorizzata la contiguità sostanziale tra la protezione umanitaria e la protezione internazionale, dovrebbe ritenersi applicabile il rito camerale, con esclusione dell’appello anche quando il permesso umanitario non venga richiesto in via subordinata rispetto al riconoscimento del rifugio politico o della protezione sussidiaria.

In ogni caso, qualsiasi opzione applicativa i Tribunali assumano, di fronte a un quadro normativo nuovo e incerto non possono essere adottati provvedimenti impedienti in rito l’accesso alla tutela giurisdizionale solo perché fondati su un’interpretazione delle norme processuali che, in quanto derivante da una forte ambiguità legislativa non ha carattere univoco.

«Non chiamateci profughi ma nuovi arrivati». Le considerazioni conclusive con le parole di Annah Harendt

Quanto sarebbe diversa anche simbolicamente la distanza tra noi e i “profughi” se ne vivessimo la presenza come “nuovi arrivati”? E quanto è lontana dal dibattito politico attuale questa forte indicazione di Annah Harendt che, tuttavia non ha perso la sua drammatica attualità. Il pensiero di Annah Harendt espresso nella citazione che segue, con la quale si conclude questa sintetica indagine sul riconoscimento del diritto al soggiorno per ragioni umanitarie, offrono un paradigma illuminante di tali ragioni ed, in particolare, indicano la gravità e la complessità dell’indagine rimessa al giudice: «Abbiamo perso la casa, che rappresenta l’intimità della vita quotidiana. Abbiamo perso il lavoro, che rappresenta la fiducia di essere di qualche utilità in questo mondo. Abbiamo perso la nostra lingua, che rappresenta la spontaneità delle relazioni, la semplicità dei gesti, l’espressione sincera e naturale dei sentimenti. Abbiamo lasciato i nostri parenti nei ghetti polacchi e i nostri migliori amici sono stati uccisi nei campi di concentramento, e questo significa che le nostre vite sono state spezzate.[16]».

[1] Può essere d’aiuto la definizione di diritti umani contenuta in un intenso saggio del prof. A. Ruggeri, Cos’è un diritto fondamentale (Relazione al convegno tenutosi a Cassino, del Gruppo di Pisa, 10/11 giugno 2016) così tratteggiata: «… i diritti umani sono “bisogni elementari di ciascun essere umano senza il cui riconoscimento e l’effettiva tutela non potrebbe aversi un’esistenza libera e dignitosa”». Si richiama anche la felicissima espressione del prof. Rodotà, «l’omeostasi dei diritti» particolarmente efficace come criterio guida per il riconoscimento giuridico dei diritti dei cittadini stranieri. Il grado di una civiltà giuridica si misura sul livello omeostatico dei diritti umani che si riesce a raggiungere senza distinzioni discriminatorie artificiali tra gli esseri umani.

[2] Dissente da questa impostazione N. Zorzella in: La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Diritto Immigrazione Cittadinanza, fasc.1/2018, Rivista on line. Condivide la tesi secondo la quale il permesso umanitario costituisce una delle forme di attuazione dell’asilo costituzionale P. Bonetti, Il diritto di asilo nella Costituzione italiana, in Procedure e Garanzie del Diritto di Asilo, a cura di C. Favilli, Cedam, Padova, 2011, pag. 55 e ss.

[3] Corte Cost. n. 161 del 1985; sull’estensione ai cittadini stranieri di diritti della persona umana secondo il canone solidaristico desumibile dall’art. 2 Cost., si richiama Corte Cost. n. 39 del 2011 e 40 del 2013.

[4] In proposito l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI) ha proposto un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo contro l’Italia in relazione all’episodio del novembre 2017 in cui la Guardia costiera italiana coordinò la Guardia costiera libica nei respingimenti in mare di alcuni migranti, poi rinchiusi in condizioni disumane in un campo di detenzione in Libia.

[5] Ar. 19, c.1, «1. In nessun caso può disporsi l'espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione. 1.1 Non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani».

[6] Art. 28 lettera d) dPR n. 394 del 1999 «Quando la legge dispone il divieto di espulsione, il questore rilascia il permesso di soggiorno: (…) d) per motivi umanitari, negli altri casi, salvo che possa disporsi l'allontanamento verso uno Stato che provvede ad accordare una protezione analoga contro le persecuzioni di cui all'articolo 19, comma 1, del testo unico».

[7] Il primo organismo in Italia che si è occupato della procedura di eleggibilità e del riconoscimento dello status di rifugiato è stata la Commissione paritetica di eleggibilità (Cpe), organismo istituito con uno scambio di note tra il Governo italiano e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati il 22 luglio 1952 ed ufficialmente sancito con un decreto interministeriale del 24 novembre 1953. La legge n. 39/1990 ha regolato il diritto di asilo politico sotto il profilo procedimentale attraverso l’attribuzione della competenza all’esame della domanda di asilo alla Commissione centrale per l’asilo, la cui decisione veniva sottoposta al sindacato del giudice amministrativo. Con la L. 286/1998 la giurisdizione è passata al giudice ordinario, sempre all’esito della fase amministrativa. Infine, la L. 189/2002 ha istituito le Commissioni territoriali, assegnando funzioni non decidenti alla Commissione nazionali (eccettuati i casi di revoca o cessazione dello status precedente riconosciuto). A livello sostanziale il diritto d’asilo costituzionale non ha avuto la possibilità di svilupparsi in forma diversa dal riconoscimento dello status di rifugiato, dal momento che il procedimento regolato dalla legge si riferiva soltanto a quest’ultimo.

[8] Gli artt. 12 e 16, d.lgs n. 251/2007, prevedono come causa di “diniego” (per lo status di rifugiato) e di “esclusione” (per lo status di protezione sussidiaria) il fatto che sussistano fondati motivi per ritenere che il richiedente costituisca un pericolo per la sicurezza dello Stato, per l’ordine o la sicurezza pubblica.

[9] I motivi umanitari, non tipizzati o predeterminati dal legislatore, sono tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità attuali o accertate, con giudizio prognostico, come conseguenza discendente dal rimpatrio dello straniero, in presenza di un'esigenza qualificabile come umanitaria, cioè concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale (Cass. 4455/2018).

[10] In particolare Cass. 26921/2017.

[11] Art. 18bis, comma 1, d.lgs n. 286/98: «Quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti previsti dagli articoli 572, 582, 583, 583-bis, 605, 609-bis e 612-bis del codice penale o per uno dei delitti previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, commessi sul territorio nazionale in ambito di violenza domestica, siano accertate situazioni di violenza o abuso nei confronti di uno straniero ed emerga un concreto ed attuale pericolo per la sua incolumità, come conseguenza della scelta di sottrarsi alla medesima violenza o per effetto delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o del giudizio, il Questore, con il parere favorevole dell'Autorità giudiziaria procedente ovvero su proposta di quest'ultima, rilascia un permesso di soggiorno ai sensi dell’articolo 5, comma 6, per consentire alla vittima di sottrarsi alla violenza. Ai fini del presente articolo, si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima».

[12] Art. 22, comma 12 quater, d.lgs n. 286/1998: 12-quarter, «Nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo di cui al comma 12-bis, è rilasciato dal Questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, un permesso di soggiorno ai sensi dell'articolo 5, comma 6».

[13] Il principio è stato di recente espresso dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza n. 10291 del 2018. Se ne riporta il principio di diritto: «L'opposizione avverso il diniego del Questore di rilascio del permesso di soggiorno previsto dall'art. 22, comma/2quater, del d.lgs n. 286/1998 in favore del cittadino straniero vittima di sfruttamento lavorativo, devolve al giudice ordinario la piena cognizione sulla sussistenza dei relativi presupposti, atteso che il parere espresso dal procuratore della Repubblica ha carattere vincolante per il Questore ma non per l'Autorità giurisdizionale».

[14] Questo paragrafo  è stato redatto con la collaborazione del dr. Marco Romani, tirocinante presso la Corte di cassazione.

[15] Sia consentito il rinvio a M. Acierno, Il diritto dello straniero alla protezione internazionale: condizione attuale e prospettive future, in Immigrazione, asilo e cittadinanza, a cura di P. Morozzo della Rocca, Maggioli, Sant’Arcangelo di Romagna, 2017, p. 79, per una più analitica illustrazione delle ipotesi di domanda direttamente rivolta ad ottenere il riconoscimento del diritto al permesso umanitario.

[16] Annah Harendt in Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 2001, pp. 35-36.