Magistratura democratica

Gli obblighi di soccorso in mare nel diritto sovranazionale e nell’ordinamento interno

di Fulvio Vassallo Paleologo

L’obbligo di salvare la vita in mare costituisce un preciso obbligo degli Stati e prevale su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione irregolare. La ricostruzione dei fatti e la qualificazione delle responsabilità dei diversi attori coinvolti nelle attività di ricerca e salvataggio (Sar) nelle acque internazionali del Mediterraneo Centrale deve tenere conto dei rilevanti profili di diritto dell’Unione europea e di diritto internazionale che, in base all’art. 117 della Costituzione italiana, assumono rilievo nell’ordinamento giuridico interno. Le scelte politiche insite nell’imposizione di Codici di condotta, o i mutevoli indirizzi impartiti a livello ministeriale o dalle autorità di coordinamento dei soccorsi, non possono ridurre la portata degli obblighi degli Stati che devono garantire nel modo più sollecito il soccorso e lo sbarco in un luogo sicuro (place of safety). Eventuali intese operative tra le autorità di Stati diversi, o la paventata “chiusura” dei porti italiani, non possono consentire deroghe al principio di non respingimento in Paesi non sicuri affermato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra.

1. Diritto sovranazionale ed ordinamento interno

Le Convenzioni internazionali, al pari dei Regolamenti europei, costituiscono un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli art.10, 11 e 117 della Costituzione, il diritto internazionale e le Convenzioni internazionali sottoscritte dal nostro Paese non possono essere derogati da scelte discrezionali dell’autorità politica[1]. Un recente documento redatto da 29 giuristi di diversi Paesi ha criticato il sequestro preventivo della nave Open Arms disposto dalla Procura di Catania il 18 marzo 2018, per il mancato riconoscimento di regole vincolanti in base al diritto internazionale[2].

La speditezza e le modalità probatorie dei procedimenti di sequestro conservativo non sempre consentono una piena cognizione del complesso quadro normativo, dei fatti e delle relative responsabilità individuali. Si devono ricordare al riguardo la sentenza della Corte di cassazione che nel 2005[3] confermava la misura cautelare del sequestro preventivo adottata dal Tribunale di Agrigento, e la successiva sentenza di assoluzione emessa nel 2009 dallo stesso Tribunale, sul caso della azione di soccorso in mare operato nell’estate del 2004, dalla nave umanitaria tedesca Cap Anamur. Come rilevato dallo stesso Collegio giudicante nella sentenza di assoluzione, tra le norme del diritto generalmente riconosciute rientrano anche quelle poste dagli accordi internazionali in vigore per l’Italia che assumono, in base al principio “pacta sunt servanda”, un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna, anche ai sensi dell’art. 117 Cost., a norma del quale la potestà legislativa è esercitata nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali[4]. A conclusioni non diverse è giunto il gip del Tribunale di Ragusa che ha ordinato il dissequestro della nave Open Arms[5] .

Il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni unite, firmata a Palermo nel 2000, contro la Criminalità organizzata transnazionale, per combattere il traffico illecito di migranti per via terrestre, aerea e marittima, frequentemente invocato per fornire una base legale agli accordi intercorsi con la Libia, prevede la superiorità gerarchica delle norme di diritto internazionale relative ai diritti dell’Uomo e della Convenzione di Ginevra. In base all’articolo 19 § 1 del Protocollo, «Nessuna disposizione del presente Protocollo pregiudica gli altri diritti, obblighi e responsabilità degli Stati e degli individui derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e il diritto internazionale relativo ai diritti dell'uomo e, in particolare, laddove applicabili, la Convenzione del 1951 e il Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati e il principio di non respingimento ivi enunciato.»

Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, titolato «Trattati in contrasto con una norma imperativa del diritto internazionale generale (jus cogens)», è nullo qualsiasi Trattato che, al momento della sua conclusione, sia in contrasto con una norma imperativa di diritto internazionale generale. Ai fini della stessa Convenzione, per norma imperativa di diritto internazionale generale si intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla Comunità internazionale degli Stati nel suo insieme in quanto norma alla quale non è permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso carattere. È bene ricordare che per Trattato internazionale si intende qualunque «accordo internazionale concluso per iscritto tra Stati e regolato dal diritto internazionale, che sia costituito da un solo strumento o da due o più strumenti connessi, qualunque ne sia la particolare denominazione».

2. Le nuove prassi operative seguite al Memorandum d’intesa tra Italia e Governo di Tripoli (Gna) del 2 febbraio 2017

Dopo gli attacchi concentrici rivolti nei confronti delle Ong sul piano politico e mediatico, e dopo l’avvio di una cooperazione tra la Marina militare italiana, la centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc) e i comandi ai quali rispondono le motovedette (in parte donate e assistite dall’Italia) che sono di stanza nei porti della Libia occidentale, in particolare ad Abu Sittah (Tripoli), sotto il controllo del governo Serraj o di milizie che lo sostengono, si è fortemente ridotta la presenza delle navi umanitarie delle Ong. Navi che, fino al mese di luglio 2017 garantivano una buona parte delle attività Sar, coordinate da Imrcc di Roma, nelle acque internazionali confinanti con le acque territoriali libiche (come confermato dal Rapporto 2017 della Guardia costiera italiana[6]).

Molte Ong hanno ritirato le loro navi anche per l’incerto quadro giuridico nel quale si svolgevano le attività di ricerca e salvataggio, a seguito dell’adozione di un Codice di condotta, elaborato dalla Direzione generale frontiere del Ministero dell’interno, che le diverse Ong hanno dovuto accettare nel tempo. Da undici assetti navali riferibili alle Ong nel 2016 si è scesi alle attuali quattro imbarcazioni ancora impegnate in attività Sar nelle acque del Mediterraneo centrale. La nave Juventa della Ong Jugend Rettet è sotto sequestro a Trapani dal mese di agosto dello scorso anno[7], e la Open Arms ha ritirato il suo mezzo più grande di soccorso, dopo il sequestro preventivo avvenuto il 17 marzo a Pozzallo. Da allora la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Mrcc) ha variato continuamente le modalità di coordinamento delle attività Sar in acque internazionali, cercando di favorire in tutti i modi l’intervento delle motovedette libiche.

Le chiamate di soccorso non provengono più dai gommoni o da parenti dei migranti già presenti in Europa, come avveniva in passato, a partire dai tempi dell’Operazione Mare Nostrum. Oggi gli interventi di salvataggio avvengono dopo avvistamenti effettuati da mezzi aerei della Marina militare o dell’Operazione Sophia di Eunavfor Med, quindi viene allertata la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc), che immediatamente individua i mezzi che sono nelle condizioni di fornire i soccorsi più immediati, spesso le poche navi residue delle Ong. Nelle prime ore delle attività di soccorso le navi delle Ong vengono utilizzate per mettere in sicurezza le imbarcazioni cariche di migranti, magari con la consegna dei salvagente, di cui sono sprovviste le unità libiche. Si tenta quindi di trasferire la responsabilità delle attività Sar alla cd. Guardia costiera libica, contattata sia dalla Centrale Imrcc che da una nave militare della missione italiana Nauras (nell’ambito dell’Operazione Mare Sicuro) presente nel porto di Tripoli. Ma si può legittimamente dubitare che in questo modo le autorità italiane possano liberarsi dagli obblighi di salvataggio imposti dal diritto internazionale.

Il decreto del gip di Catania, che ha convalidato il sequestro preventivo disposto dalla Procura di Catania, evidenzia che l’ordine di “stand by” alla nave Open Arms, il 15 marzo 2017, è stato impartito dalle autorità italiane. Secondo il magistrato «il coordinamento (delle motovedette di Tripoli, n.d.a.) è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici». In questo modo si stabilisce una duplice catena di comando a gerarchia variabile, affidando sostanzialmente ai libici la scelta di come e quando intervenire. Si arriva così ad interrompere una attività Sar, che dovrebbe essere proseguita con la massima sollecitudine possibile, con l’ingiunzione dello “stand by” imposto alle navi umanitarie dalla Centrale operativa Mrcc di Roma, in attesa che giunga sulla scena dell’evento Sar una motovedetta libica, magari anche dopo molte ore dal primo allarme. In occasione dell’evento Sar verificatosi domenica 6 maggio di quest’anno[8], malgrado il trasferimento della responsabilità Sar ad autorità libiche, nessun mezzo partito da Tripoli o dagli altri porti controllati dalle milizie fedeli al Governo di riconciliazione nazionale (Gna), prendeva il largo e raggiungeva con la dovuta tempestività il gommone stracarico di migranti, ormai in procinto di affondare, che poi veniva soccorso da un mezzo di una Ong. Una ennesima conferma della mancanza di una qualsiasi autonoma capacità di coordinamento da parte delle autorità di Tripoli, chiamate sempre più spesso ad intervenire nella ipotetica “zona Sar libica”, che si tende a dare per scontata anche se non se ne trova traccia nei manuali Imo ad uso dei naviganti. In questi casi il ritardo nei soccorsi viene giustificato da una valutazione a vista, compiuta da personale militare a bordo di assetti aerei, che nei rapporti di servizio accerta che i mezzi sovraccarichi di migranti sarebbero «in buono stato di navigabilità», e per questa ragione non necessiterebbero di un immediato intervento di soccorso da parte delle Ong, o di altre unità navali private o militari che si trovano più vicine. Un criterio di valutazione che contrasta con i criteri internazionali di accertamento delle situazioni di “distress” stabiliti a livello convenzionale e consuetudinario.

Dal mese di marzo di quest’anno è stata adottata la prassi di richiedere allo stato di bandiera la indicazione del Pos (Place of safety) dove sbarcare i migranti dopo il soccorso in mare, con una ulteriore dilatazione dei tempi di sbarco di persone già duramente provate prima della partenza e poi dalla navigazione su gommoni o imbarcazioni fatiscenti privi di qualunque protezione e dotazione igienica o di sicurezza. Una situazione che qualifica come “distress” immediato la condizione di qualunque barcone carico di migranti che si trovi in acque internazionali. La risposta delle autorità inglesi, in una recente occasione che ha visto il coinvolgimento della nave Aquarius della Ong Sos Mediterraneè, seguita da un duro comunicato della Commissione europea, ha chiarito che in queste operazioni di soccorso non ci possono essere tempi morti per ricercare la responsabilità di concludere le operazioni di sbarco nei paesi di bandiera o in altri da loro indicati.

Dopo questa ennesima battuta di arresto, derivante dalla smentita a livello internazionale del Codice di condotta imposto alle Ong, la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc), in coordinamento con il Ministero dell’interno, ha ordinato alle navi delle Ong, non appena completate le prime attività di soccorso, anche con un numero esiguo di naufraghi a bordo, di fare rotta verso un porto italiano, senza restare in zona per altri salvataggi, ottenendo così il risultato di lasciare campo libero alle motovedette partite dalle coste libiche. Nella sola giornata di domenica 13 maggio scorso oltre 260 migranti ripresi dalle motovedette libiche in acque internazionali, venivano sbarcati nei porti della Tripolitania[9] ed internati nei centri di detenzione. Si sono intanto intensificati gli attacchi calunniosi contro le Ong e le pastoie burocratiche preparate al momento dello sbarco nei porti italiani. Intanto i libici spadroneggiano in acque internazionali, come se si trattasse delle loro acque territoriali, anche in funzione preventiva, su segnalazione di autorità europee o italiane, tracciando a loro volta le navi delle Ong per allontanarle dalle acque internazionali nelle quali si possono trovare gommoni da soccorrere, con una indebita attività di dissuasione che viola il principio della libera navigazione in acque internazionali. Anche le autorità italiane hanno più volte imposto alle Ong di allontanarsi dai gommoni in difficoltà e di non tenersi “a vista” delle imbarcazioni da soccorrere nelle more dell’arrivo delle motovedette libiche.

Nella giornata del 7 maggio 2018 la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc) ha emesso un comunicato rivolto apparentemente soltanto alle Ong, avvertendole di tenersi ad almeno 8 miglia di distanza dall’evento Sar in caso di intervento dei libici. Un intervento che, secondo quanto emerso anche nell’ordinanza del gip di Catania dopo il sequestro della Open Arms[10], è “sostanzialmente” coordinato dalla Marina militare e dalla Guardia costiera italiana. Ma non mancano neppure casi, riferiti ancora di recente da diverse Ong, nei quali le autorità libiche, indicate come autorità responsabili per gli interventi Sar, non hanno eppure risposto alle chiamate da parte delle unità di soccorso delle organizzazioni umanitarie.

3. Diritto internazionale dei rifugiati: il principio di non respingimento

In base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra, «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche». Tale obbligo è stato ribadito nel rapporto «Rescue at Sea: A Guide to Principles and Practice as Applied to Migrants and Refugees», elaborato nel 2006 dall’Imo e dall’Unhcr e sottoposto ad aggiornamento nel 2015. In tale documento viene evidenziato l’obbligo che incombe al comandante della nave che compie l’intervento di soccorso di tutelare adeguatamente i richiedenti asilo, verificando la loro presenza a bordo, comunicandola all’Unchr ed effettuando lo sbarco unicamente laddove sia possibile garantire loro adeguata protezione[11].

Va ricordato anche l’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Protezione in caso di allontanamento, di espulsione e di estradizione), secondo cui «Le espulsioni collettive sono vietate» e «Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti». In base all’articolo 4 del Quarto Protocollo allegato alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, le espulsioni collettive, e secondo la giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, anche i respingimenti collettivi in acque internazionali (caso Hirsi), sono vietati[12].

Come ha affermato la Corte europea dei diritti dell’Uomo nella sentenza Hirsi[13], «secondo il diritto internazionale in materia di tutela dei rifugiati, il criterio decisivo di cui tenere conto per stabilire la responsabilità di uno Stato non sarebbe se la persona interessata dal respingimento si trovi nel territorio dello Stato, o a bordo di una nave battente bandiera dello stesso, bensì se essa sia sottoposta al controllo effettivo e all’autorità di esso». Per la Corte, «dotato di questo contenuto e di questa estensione, il divieto di respingimento costituisce un principio di diritto internazionale consuetudinario che vincola tutti gli Stati, compresi quelli che non sono parti alla Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati o a qualsiasi altro trattato diprotezione dei rifugiati. È inoltre unanorma di jus cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa, in quanto non può essere oggetto di alcuna riserva» (articolo 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati, articolo 42 § 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati e articolo VII§1 del Protocollo del 1967).

Lo stretto coordinamento che emerge tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (Imrcc), la Marina militare con una nave presente nel porto di Tripoli, e la cd. Guardia costiera “libica” potrebbe quindi configurare un vero e proprio respingimento collettivo, attuato anche direttamente dall’Italia, vietato dall’art.4 del Quarto Protocollo allegato alla Cedu e dall’art. 19 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea. Se infatti, per la configurazione di un respingimento collettivo, in base a quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre che i migranti siano soggetti alla potestà esclusiva del Paese che respinge, in questo caso l’Italia, la circostanza che le persone siano a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività Sar inizialmente coordinate da autorità italiane, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia, che in questa qualità deve anche garantire un luogo di sbarco nel place of safety più vicino, e non nel porto più vicino. Sono queste le ragioni che potrebbero portare ad una ulteriore condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo, sempre che vengano superate le questioni procedurali sulle quali si riducono sempre più gli interventi dei giudici di Strasburgo[14].

Quando le autorità italiane cedono alle autorità libiche la responsabilità Sar, inizialmente assunta dopo il primo avvistamento dei natanti da soccorrere, anche con riferimento alle persone che, trovandosi a bordo di gommoni in acque internazionali, ricadono già sotto la sua giurisdizione esclusiva, indipendentemente dallo stato di bandiera dei mezzi civili o militari che vengono soccorsi, si realizzano tutti gli estremi di un trasferimento di giurisdizione che equivale ad una consegna (rendition) di quelle stesse persone alle autorità di un Paese che non garantisce un luogo di sbarco sicuro, che non aderisce alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati, nel quale sono note le collusioni tra autorità statali e trafficanti, e che da ultimo si trova in una fase di conflitto armato e di gravi violazione dei diritti umani anche ai danni della popolazione libica, al punto che a tale riguardo sono in corso indagini da parte della Corte Penale internazionale [15].

4. Obblighi di ricerca e soccorso (Sar) riferibili alle autorità di Governo ed ai Centri di coordinamento (Mrcc)

In base all’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, titolato «Obbligo di prestare soccorso», ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:1.presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; 2.proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa. In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali. Tale obbligo di collaborazione ai fini del soccorso in mare è ulteriormente specificato in altri Trattati internazionali di diritto marittimo, i più importanti dei quali sono la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas)[16] e la Convenzione di Amburgo sulla ricerca e il soccorso in mare (Sar).

La Convenzione Sar di Amburgo del 1979 si fonda sul principio della cooperazione internazionale. Le zone di ricerca e salvataggio sono ripartite d’intesa con gli altri Stati interessati. Tali zone non corrispondono necessariamente alle frontiere marittime esistenti. Esiste l’obbligo di approntare piani operativi che prevedono le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti[17]. In base al punto 3.1.9 della Convenzione di Amburgo del 1979, oggetto di un emendamento introdotto nel 2004, «la Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».[18]. Tale obbligo ricorre anche nel caso in cui le attività di ricerca e soccorso debbano essere svolte al di fuori della zona Sar di competenza, laddove l’autorità dello stato che sarebbe, invece, competente in base alla delimitazione convenzionale delle zone Sar non intervenga, o non risponda entro un tempo ragionevole. Sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare a coordinare le operazioni di salvataggio.[19]

Nessuno stato, avvertito di un evento di soccorso di persone in situazione di pericolo in alto mare, può rifiutare il coordinamento delle prime fasi delle attività Sar,o attendere l’esito di trattative con altri stati, ad esempio con lo stato di bandiera della nave soccorritrice, Appare infatti fuorviante ritenere che lo stato di “primo contatto” possa essere lo “stato di bandiera” della nave soccorritrice sulla quale sono saliti i naufraghi, e non invece la prima autorità statale informata dell’evento di soccorso e chiamata a predisporre gli interventi necessari nel tempo più rapido possibile,attivando tutte le forme di coordinamento e di intervento previste dalla Convenzione di Amburgo.

5. La controversa esistenza di una zona Sar “libica”

Nel corso della Conferenza Imo di Valencia del 1997 è stato adottato un “General Agreement on a Provisional Sar Plan” in cui sono stati stabiliti i limiti delle zone Sar, quale punto di partenza per favorire la conclusione di specifici accordi bilaterali e regionali. Gli accordi conclusi e le eventuali modifiche devono essere comunicate al Segretario generale dell’Imo, depositario della Convenzione (Art. 7, par. 1 Convenzione Sar). 

Nonostante la Libia sia parte alla Convenzione Sar dal 2005 e nel 2008 abbia ha sottoscritto un Memorandum of understanding con Malta in materia di cooperazione, coordinamento e supporto nella zona Sar, non risulta ad oggi che abbia provveduto a istituire formalmente una zona Sar: nemmeno le “Circulars on Global Sar Plan Containing Information on the Current Availability of Sar Services” adottate in seno all’Imo e reperibili nel sito di questa organizzazione riportano, infatti, a differenza degli altri paesi, alcuna informazione al riguardo. Il Governo di riconciliazione nazionale (Gna) riconosciuto a livello internazionale non ha peraltro la piena giurisdizione sulle coste libiche e sul mare prospiciente, al punto che le diverse milizie locali sono in diretto rapporto con le unità della cd. Guardia costiera “libica”.

Come osservano Leanza e Caffio[20], «L’istituzione di una zona Sar è intrinsecamente subordinata alla circostanza che lo Stato parte della Convenzione sia in grado di garantire l’operatività continua ed efficace dei servizi Sar nell’area di propria competenza. In particolare, lo Stato si impegna a istituire un Centro e dei Sotto-centri di coordinamento, a designare delle unità costiere di soccorso, a disporre di strutture, mezzi navali e aerei, centri di telecomunicazione di soccorso e personale adeguato (da un punto di vista quantitativo e qualitativo). La Convenzione di Amburgo chiarisce che un servizio Sar, per essere efficace, deve essere gestito e sostenuto adeguatamente oltre a essere integrato in uno specifico contesto normativo. Il nostro Paese ha adempiuto a quest’obbligo in sede di attuazione della Convenzione di Amburgo con il già citato dPR n. 662/1994». Le considerazioni che sono svolte con riferimento al nostro Paese, basate sul diritto internazionale, non possono essere diversamente applicate nel caso di Paesi come la Libia, che non hanno una unica autorità di Governo e sono evidentemente prive di una unica Centrale di coordinamento (Mrcc) dei soccorsi in acque internazionali ricadenti in una pretesa zona Sar “libica”.

L’11 agosto 2017, le autorità di Tripoli hanno dichiarato pubblicamente di aver comunicato all’Organizzazione marittima internazionale la volontà di istituire una zona di ricerca e soccorso (zona Sar) estesa a 70 miglia dalla costa, allo scopo di impedire l’accesso delle navi appartenenti a organizzazioni non governative nelle acque internazionali al largo delle proprie coste. La Guardia costiera “libica” ha eseguito successivamente una serie di interventi tesi ad allontanare le navi dalle Ong anche dal luogo di soccorsi già in corso e coordinati dalla Centrale operativa della Guardia costiera italiana, come nel caso eclatante del 6 novembre 2017 (incidente con nave della Ong Sea Watch). Le autorità libiche, e taluni mezzi di informazione italiani, hanno scambiato la pretesa zona Sar come una zona nella quale sarebbe stato possibile il passaggio, come se si trattasse di acque territoriali. Ma le acque ricadenti in una zona Sar non consentono ad alcun Paese di esercitare i medesimi poteri che si possono esercitare nelle acque territoriali. Le attività di salvataggio possono peraltro dispiegarsi, nei casi di urgenza e necessità anche all’interno delle acque territoriali, quando il Paese costiero non è in grado di provvedervi con la tempestività necessaria per garantire la salvaguardia della vita umana in mare.

Nel mese di dicembre dello scorso anno, tuttavia, appariva evidente la rinuncia delle autorità libiche alla richiesta di una zona Sar avanzata all’Imo[21], perché queste stesse autorità riconoscevano di non essere in grado di soddisfare i requisiti richiesti dall’Imo per il riconoscimento internazionale di una zona Sar. Riconoscimento che implica una precisa responsabilità nell’assunzione di obblighi di soccorso, di salvataggio e di sbarco in un luogo sicuro che evidentemente il governo di Tripoli non era (e non è ancora oggi) in grado di rispettare.

Secondo quanto dichiarato dalla parlamentare europea Barbara Spinelli, che il 31 marzo scorso ha emesso un comunicato dopo un recente incontro, in seguito alla convalida del sequestro della nave Open Arms, anche il direttore di Frontex Fabrice Legeri dubita dell’esistenza di una vera e propria zona Sar libica. Secondo Barbara Spinelli, «La zona libica di ricerca e soccorsi in mare (zona Sar) è un’invenzione di comodo: dal dicembre scorso non esiste più. Lo ha confermato l’Organizzazione Marittima Internazionale, e lo ha ammesso tra le righe il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri, rispondendo il 26 marzo a una mia domanda nella Commissione libertà pubbliche del Parlamento europeo»: «Non considero come acquisita la zona Sar della Libia. Ci fu una dichiarazione unilaterale nell’estate 2017 che creò una certa situazione che non riesco per la verità a qualificare»[22].

La attuale inesistenza di una zona Sar libica viene confermata anche da un recente rapporto di attività della Guardia costiera italiana[23], che non può essere smentito da intese o comunicazioni riservate non portate alla conoscenza degli operatori e dunque prive della capacità di imporre regole di comportamento, comunque inidonee a modificare gli obblighi di soccorso e non respingimento previsti dalle Convenzioni internazionali.

6. Il Codice di condotta adottato dal Governo italiano nel 2017

Il Codice di condotta sottoscritto anche da diverse Ong nel mese di agosto dello scorso anno, prevede che «conformemente al diritto internazionale pertinente, l’impegno a non entrare nelle acque territoriali libiche, salvo in situazioni di grave e imminente pericolo che richiedano assistenza immediata, e di non ostacolare l’attività di Search and Rescue (Sar) da parte della Guardia costiera libica: al fine di non ostacolare la possibilità di intervento da parte delle Autorità nazionali competenti nelle proprie acque territoriali, nel rispetto degli obblighi internazionali»[24].

Il Codice di condotta non impone quindi alcun obbligo di adempiere agli ordini di autorità libiche in acque internazionali, a maggior ragione se gli eventi Sar sono stati dichiarati e coordinati inizialmente da comandi italiani come Imrcc di Roma, e riconosce la superiore valenza normativa degli obblighi di ricerca e soccorso, e degli altri doveri, come il principio di non respingimento, o il divieto di respingimenti collettivi, derivanti da Convenzioni internazionali. Purtroppo, dopo l’adozione di questo Codice di condotta si sono diffuse le interpretazioni più distorcenti sulle attività di ricerca e soccorso delle Ong nelle acque del Mediterraneo centrale, con un irreversibile danno di immagine per queste organizzazioni e per i loro operatori, a vantaggio di gruppi politici interessati a carpire il consenso popolare cavalcando l’onda del populismo. Le prassi di collaborazione tra le Ong, incluse le attività di trasbordo e la collaborazione già instaurata con la Guardia costiera italiana sono state oggetto di una violenta criminalizzazione, come se le norme penali potessero essere integrate o interpretate in base ad atti di indirizzo dell’esecutivo, se non per le pulsioni dell’opinione pubblica prevalente.

Si osserva al contrario che, «il Codice di condotta Ong si posiziona a metà strada tra un documento che intende codificare le norme applicabili alle Ong e un documento interno che regola le loro operazioni. In esso non si trovano accenni (salvo una nota) a norme di diritto del mare e di diritto marittimo che pure regolano la navigazione e il soccorso in mare. Non essendo esso il prodotto dei processi di creazione delle norme di diritto internazionale, il suo contenuto non è vincolante di per sé, ma solo nella misura in cui esso riprende norme giuridicamente vincolanti del diritto internazionale»[25].

Si rileva ancora come il Codice preveda un impegno delle Ong «a cooperare con l’Mrcc [Maritime rescue coordination centre], eseguendo le sue istruzioni ed informandolo preventivamente di eventuali iniziative intraprese autonomamente perché ritenute necessarie ed urgenti». Il Codice «non precisa di quale Mrcc si tratti, ma questo potrebbe essere sia quello italiano con sede a Roma, sia quello libico. Per quanto riguarda la cooperazione con il Mrcc italiano, la disposizione appare ridondante, in quanto questa è di fatto la prassi seguita dalle Ong, che spesso agivano proprio dietro invito del Mrcc di Roma. La collaborazione con il Mrcc libico, invece, potrebbe porre problemi di rispetto delle norme internazionali in materia di diritti umani e diritto dei rifugiati poiché è verosimile che il Mrcc libico richieda alle Ong di sbarcare le persone soccorse nei porti libici»[26].

Nessun Codice di condotta può permettere di violare impunemente il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti affermato dall’art. 3 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, o il divieto di respingimenti collettivo, affermato oltre che dalla Cedu, anche dall’art. 18 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea. Una votazione di una istituzione politica, adottata non in sede legislativa, sul Codice di condotta Minniti, come quella richiamata dal gip di Catania, in ordine al documento conclusivo dell’indagine conoscitiva elaborata dalla Commissione Difesa del Senato nel maggio del 2017, presieduta dal senatore La Torre, non può dotare di valenza normativa un codice di condotta che rimane vincolante come Codice di comportamento soltanto le parti che lo hanno sottoscritto, e che neppure prevede le violazioni contestate oggi alle Ong, non configurando alcuna zona Sar libica e non conferendo particolari poteri alle autorità di Tripoli in acque internazionali. Di certo non si può ricavare dal Codice di condotta alcun obbligo di coordinamento o di indicazione del porto sicuro di sbarco a carico dello stato di bandiera della nave soccorritrice, come pure si è tentato di sostenere. La comunicazione, giunta dalla Centrale operativa (Mrcc) della Guardia costiera inglese nella giornata del 6 maggio scorso, spazza il campo da questa tesi, riaffermando, in senso conforme al diritto internazionale del mare, gli obblighi di coordinamento a carico delle Autorità italiane[27]. Nello stesso senso le dichiarazioni più recenti delle autorità maltesi che hanno smentito in diverse occasioni di essere vincolate ad offrire un luogo di sbarco (Pos) per effetto dello stesso Codice di condotta adottato dalle autorità italiane[28].

7. La individuazione del luogo di sbarco (Pos) come “Place of safety”

Al fine di fornire una guida alle autorità di Governo ed ai comandanti delle navi private e pubbliche coinvolte in attività Sar, sono state elaborate dal’Unhcr[29]delle Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare. Esse contengono le seguenti disposizioni: il Governo responsabile per la regione Sar in cui sono stati recuperati i sopravvissuti è responsabile di fornire un luogo sicuro di sbarco (place of safety) o di assicurare che tale luogo venga fornito.

La Convenzione Sar del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety): a tal fine gli Stati membri dell’Imo (International maritime organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni Solas e Sar, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il Governo responsabile per la regione Sar in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito. Secondo le Linee guida «un luogo sicuro è una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse, e dove: la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non è più minacciata; le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte; e può essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale» (par. 6.12).

La circostanza che unità libiche partecipino ai soccorsi «il cui coordinamento è sostanzialmente affidato alle forze della Marina militare italiana, con i propri mezzi navali e con quelli forniti ai libici», circostanza accertata dal Giudice delle indagini preliminari di Catania, non esime le autorità italiane dalla individuazione di un luogo sicuro di sbarco (place of safety), che secondo quanto riconosciuto anche in documenti ufficiali della Guardia costiera italiana, come la Relazione annuale per il 2017 della Guardia costiera italiana, richiamata in precedenza, non può essere un porto libico.

Sono note, e documentate in diversi rapporti internazionali, le condizioni disumane nelle quali si trovano i migranti riportati nei centri di detenzione in Libia[30]. Occorre ricordare che nessun porto libico può essere qualificato quale luogo di sbarco sicuro, non essendo il Governo di Tripoli parte alla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, ed essendo la situazione dello Stato “libico” caratterizzata da sistematiche violazioni dei diritti umani. Le gravi violazioni dei diritti umani subite dai migranti in Libia non sono soltanto anteriori alla stipula del Memorandum d’intesa del 2 febbraio 2017 e del successivo Codice di condotta imposto dal Ministero dell’intero alle Ong operanti attività Sar in acque internazionali nel Mediterraneo centrale, ma sono proseguite anche fino ai mesi scorsi, come dimostrato dai rapporti delle Nazioni unite del febbraio 2018 e dalle Comunicazioni dell’Oim e dell’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati del mese di maggio di quest’anno[31]

Il 21 febbraio di quest’anno veniva pubblicato un Rapporto delle Nazioni unite che documentava le gravi violazioni dei diritti umani subite in Libia dai migranti e anche da alcune popolazioni libiche, malgrado i tentativi della comunità internazionale e del Governo di Tripoli di giungere ad una riunificazione del Paese e ad un controllo effettivo delle numerose milizie armate che se ne contendono il controllo[32]. Il Rapporto metteva bene in evidenza come gli abusi ai danni dei migranti fossero perpetrati non solo nei cd. centri “informali” gestiti direttamente dalle milizie, ma anche nei cd. centri governativi [33], in alcuni dei quali peraltro si effettuano visite periodiche da parte dell’Ungcre dell’Oim. In tre di questi centri, in questi mesi dovrebbero essere anche presenti alcune Organizzazioni non governative convenzionate con il Ministero degli esteri italiano.

Quest’ultimo rapporto delle Nazioni unite, che si aggiunge a numerose testimonianze e ad altri rapporti che hanno portato alla condanna dell’Italia e dell’Unione europea per crimini contro l’umanità da parte del Tribunale Permanente dei Popoli, nella sessione di Palermo del 20 dicembre 2017[34], conferma la forte torsione tra il rispetto dei diritti umani e le politiche, e le prassi di esternalizzazione dei controlli di frontiera, affidati alle forze di polizia di paesi terzi, vere e proprie milizie al di fuori dell’effettivo controllo, anche giurisdizionale, di autorità statali centrali, come nel caso della Libia.

8. La possibilità di individuare un luogo di sbarco sicuro a Malta o in altri Stati

È notorio come Malta non accetti lo sbarco di persone nel suo territorio, se si tratta di soccorsi al di fuori delle sue acque territoriali, salvo casi di estrema urgenza, al punto che nell’intero 2017 gli sbarchi nell’isola dei Cavalieri sono stati appena un centinaio, e persino le imbarcazioni della Ong maltese Moas, come quelle di Frontex, evitavano di sbarcare a La Valletta le persone che soccorrevano in quella vastissima area che, sulla carta, è rappresentata come la zona Sar maltese[35]. Si ricorda il caso “di scuola” della nave greca Salamis che nel 2013 si vide rifiutato l’ingresso per lo sbarco dei naufraghi nel porto di Malta. Una vicenda di poco anteriore alle stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013, quest’ultima dovuta proprio ad un conflitto di competenza tra autorità maltesi ed italiane[36]. Nel caso della nave greca Salamis le autorità italiane, dopo una lunga trattativa con le autorità maltesi e greche, offrivano in Italia un “place of safety” (Pos) di sbarco ai 102 migranti salvati da un gommone in avaria al largo delle coste libiche e che il governo di Malta, nonostante le pressioni europee, aveva respinto, asserendo che si sarebbero dovuti consegnare alle autorità libiche nel porto “più vicino” di Khoms. In aperta violazione del diritto internazionale del mare.

Da un recente rapporto della Guardia Costiera italiana si rileva che[37], «In alcune occasioni particolarmente complesse, caratterizzate cioè da elevato numero di migranti, dalla scarsità di vettori idonei a trasferire i migranti verso i Pos, da avverse condizioni meteorologiche, è stata richiesta la collaborazione e cooperazione ai Maritime rescue coordination centre viciniori (Malta e Tunisi) che tuttavia non hanno accolto la richiesta di sbarcare i migranti soccorsi presso i propri porti. In particolare:

- Mrcc Tunisi ha declinato la richiesta di accogliere i migranti in quanto gli stessi non erano di nazionalità tunisina né erano partiti dalle coste tunisine e l’assetto intervenuto nelle operazioni Sar non batteva bandiera tunisina; in aggiunta, ha dichiarato di non essere in grado di accogliere l’ingente numero di migranti (578 in totale) a causa dello scarso preavviso ed in considerazione della mancanza di strutture e risorse logistiche per l’accoglienza.

- Mrcc Malta, invece, ha declinato la medesima richiesta per non aver coordinato le operazioni Sar essendo le stesse avvenute al di fuori della propria Search and rescue region».

Ancora una volta dovrebbe ricordarsi l’obbligo fondamentale di salvaguardia della vita umana in mare. I gommoni o le imbarcazioni più piccole usate dai trafficanti possono soltanto uscire dalle acque territoriali libiche (12 miglia dalla costa) ma non sono in grado di resistere ad una navigazione più lunga, potendo al massimo raggiungere 30-40 miglia dalla costa, anche per la carenza di rifornimenti, per il sovraccarico e per la particolare esposizione delle persone che trasportano agli eventi atmosferici. L’obiettivo principale dovrebbe essere costituito dalla messa in sicurezza delle persone salvate in mare, non dal rimpallo delle responsabilità di soccorso o dal loro allontanamento dai confini europei.

[1] N. Parisi, I limiti posti dal diritto internazionale alle scelte di penalizzazione del legislatore interno in materia di immigrazione irregolare, in R. Sicurella (a cura di), Il controllo penale dell’immigrazione irregolare: esigenze di tutela, tentazioni simboliche, imperativi garantistici, Torino, 2012, pp. 55 ss.

[2] Si veda il testo del documento in www.asgi.it/primo-piano/libia-respingimenti-mediterraneo-2.

[3] Cassazione Sez. III Pen. 27 Aprile 2005, N. 15689, in www.diritto.it/archivio/1/20280.pdf con nota di L. Salamone e V. Caiola.

[4] Vassallo Paleologo, Il caso Cap Anamur. Assolto l’intervento umanitario, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2010, p. 87 ss.; Trevisanut, Le Cap Anamur: Profils de droit international et de droit de la mer, in Annuaire du droit de la mer, 2004, p. 49.

[5] M. Patarnello, Dissequestrata la nave Open Arms: soccorrere i migranti non è reato, in www.questionegiustizia.it/articolo/dissequestrata-la-nave-open-arms-soccorrere-i-migranti-non-e-reato_19-04-2018.php. Nello stesso senso S. Perelli, Il sequestro della nave Open Arms: è reato soccorrere migranti in pericolo di vita?, in www.questionegiustizia.it/articolo/il-sequestro-della-nave-open-arms-e-reato-soccorrere-migranti-in-pericolo-di-vita-_31-03-2018.php.

[6] Si veda il rapporto in www.guardiacostiera.gov.it/attivita/ricerca.

[7] Si rinvia al recente rapporto di L. Pezzani e C. Heller, The Juventa Case, in https://blamingtherescuers.org/iuventa.

[8] Vedi www.nev.it/nev/2018/05/06/astral-105-persone-recuperate-un-gommone-sgonfio-alla-deriva.

[9] Sulle più recenti attività di intercettazione in mare da parte delle unità della cd. Guardia costiera “libica”, si rinvia a www.xinhuanet.com/english/2018-05/14/c_137176388.htm.

[10] Si rinvia a S. Perelli, Il sequestro della nave Open Arms: è reato soccorrere migranti in pericolo di vita?, in questa Rivista on line, www.questionegiustizia.it/articolo/il-sequestro-della-nave-open-arms-e-reato-soccorrere-migranti-in-pericolo-di-vita-_31-03-2018.php.

[11] S. Trevisanut, Immigrazione irregolare via mare, diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, Jovene, 2012; P. De Sena, La “minaccia” italiana di “bloccare” gli sbarchi di migranti ed il diritto internazionale www.sidiblog.org/2017/07/01/la-minaccia-italiana-di-bloccare-gli-sbarchi-di-migranti-e-il-diritto-internazionale.

[12] Marchesi, ”No Area Outside the Law”: Non Refoulement e divieto di  espulsioni collettive nella sentenza Hirsi Jamaa c. Italia, in Rivista del diritto  della navigazione, 2012, pp. 282 ss.

[13] Si veda la sentenza in http://unipd-centrodirittiumani.it/it/schede/Hirsi-Jamaa-e-altri-c-Italia-illegali-i-respingimenti-verso-la-Libia-del-2009/249.

[14] Si veda il documento in www.ejiltalk.org/high-risk-high-reward-taking-the-question-of-italys-involvement-in-libyan-pullback-policies-to-the-european-court-of-human-rights.

[15] Si rinvia al rapporto Oxfam- Borderline Sicilia, Libia,l’inferno senza fine, in  www.oxfamitalia.org/wp-content/uploads/2018/01/MediaBrief_FINAL_OK.pdf.

[16] In merito alla Convenzione Solas da interpretare in collegamento con le altre Convenzioni di diritto del mare,si rinvia a A. Rizzo, Sicurezza della vita umana in mare, consultabile in Rivista di Diritto dell’Economia, dei Trasporti e dell’ Ambiente, 2011, consultabile in www.giureta.unipa.it/phpfusion/images/articles/13alessandrarizzo_Dir_Nav_Sicurezzainmare_25102011.pdf.

[17] U. Leanza, F. Caffio, L’applicazione della convenzione di Amburgo del 1979 sul SAR, in Rivista del diritto della navigazione, 2015, p. 420 ss.

[18] In base al punto 3.1.9 della Convenzione Sar (Search and rescue) di Amburgo del 1979 dispone: «Le Parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare. La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione marittima internazionale (Imo). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile.»

[19] Lo svolgimento del servizio di ricerca e soccorso è disciplinato in Italia dal dPR n. 662/1994 con cui è stata recepita la Convenzione di Amburgo e rientra nella competenza primaria del Ministero delle infrastrutture e trasporti che si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia costiera che comunque risulta anche alle dipendenze della Marina militare.

[20] U. Leanza, F.Caffio, Il SAR Mediterraneo, in Rivista Marittima, giugno 2015, consultabile in http://www.fondazionemichelagnoli.it/files/Leanza-Caffio_RM.pdf.

[21] Si veda http://www.vita.it/it/article/2017/12/14/la-libia-fa-marcia-indietro-e-abbandona-i-soccorsi-nel-mediterraneo/145448/.

[22] Si veda http://barbara-spinelli.it/2018/03/31/sui-migranti-decide-litalia-la-libia-non-esiste/.

[23] Si veda il rapporto in www.guardiacostiera.gov.it/attivita/ricerca.

[24] Consultabile in www.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/codice_condotta_ong.pdf.

[25] Vedi I. Papanicolopulu, Immigrazione irregolare via mare, tutela della vita umana e organizzazioni non governative, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, 2017, p. 19; adesso vedi anche D.Mancini, L’intervento umanitario di ONG nel Mediterraneo. Il caso ProAvtiva Open Arms, consultabile in www.altalex.com/documents/news/2018/05/03/l-intervento-umanitario-di-ong-nel-mediterraneo-il-caso-proactiva-open-arms.

[26] Vedi I. Papanicolopulu, cit.; si rinvia anche a F.Mussi, Sulla controversa natura giuridica  del codice di condotta del Governo italiano relativo alle  operazioni di salvataggio dei migranti in mare svolte da organizzazioni non governative, in Osservatorio sulle fonti, n. 3/2017, disponibile in: www.osservatoriosullefonti.it.

[27]Si veda la comunicazione giunta dal MRCC inglese in https://apnews.com/d2cf4d6b2195422e8faf0e10fd9e286f.

[28] Si veda M. Petrillo e L. Bagnoli, The Open Arms case continued: new documents and Malta in https://openmigration.org/en/analyses/the-open-arms-case-continued-new-documents-and-malta/.

[29] Si veda il documento in www.unhcr.it/wp-content/uploads/2015/12/Soccorso_in_Mare.pdf.

[30] Si veda il rapporto in www.amnesty.it/libia-governi-europei-complici-torture-violenze/ si veda anche www.unhcr.it/news/comunicati-stampa/un-studio-sottolinea-insicurezza-crisi-economica-abusi-sfruttamenti-libia-spingano-rifugiati-migranti-europa.html.

[31] Si rinvia alle dichiarazioni di Filippo Grandi, Alto Commissario dell’Unhcr, rese il 12 maggio 2018, in www.rainews.it/dl/rainews/media/Filippo-Grandi-UNHCR-migranti-Libia-terribili-condizioni-migranti-libia-f8517866-bd9e-4d41-b69e-0530b4fdce39.html.

[32] Nel Rapporto si sottolineava come «Unsmil/Ohchr found that migrants in Libya facegross human rights violationsand abuses, both in and outside detention.Perpetrators include State officials, armed groups,smugglers, traffickers and other criminal gangs. State institutions remain weak and, in some instances, the authorities were unable or unwilling to ensure effective protection for migrants».

[33] Secondo quanto riferito dal Rapporto, «In 2017, Unsmil/Ohchr visited nine detention centres managed by the Department for Combating Illegal Migration, in Tripoli, Gharyan, Misrata and Surman, and observed inhuman conditions. Detainees were often crammed into hangars with appalling sanitary conditions, little space to lie down, and no or extremely limited access to light, ventilation or appropriate hygiene facilities. Most were denied outdoor time and were not provided with any means to communicate with their families. Unsmil/Ohchr also received numerous and consistent reports of torture, including beatings, electric shocks and sexual violence, and of forced labour of detainees. At 31 October, nearly 20,000 migrants weredetained in facilities run by the Department f or Combating Illegal Migration in western Libya».

[34] M. Ventrone, Il Tribunale permanente dei popoli condanna l’Italia e l’Unione europea per concorso in crimini contro l’umanità a causa delle politiche sull’immigrazione, in www.questionegiustizia.it/articolo/il-tribunale-permanente-dei-popoli-condanna-l-ital_11-04-2018.php.

[35] S. Klepp, A Double Bind: Malta and the Rescue of Unwanted Migrants at Sea: A Legal Anthropological Perspective on the Humanitarian Law of the Sea, in IJRL, 2011, pp. 538 ss.

[36] Su quella che è stata definite come “la strage dei bambini”, una vicenda sulla quale è ancora aperto un procedimento penale presso il Tribunale di Roma, si rinvia a http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/09/13/news/indagine-negli-abissi-1.309437.

[37] Si veda il rapporto in www.guardiacostiera.gov.it/attivita/ricerca.