Magistratura democratica

Quale pubblico ministero vogliamo nella crisi d’impresa?

di Fabio Regolo

Il settore delle procedure concorsuali costituisce un campo significativo di intervento del pubblico ministero.

Il suo ruolo attivo può dare un decisivo contributo per far sì che le procedure concorsuali non soltanto producano utilità per i creditori ma colpiscano condotte fraudolente che causano danno all’intera economia. Il pubblico ministero opera istituzionalmente a vantaggio di tutti gli interessati in un contesto nel quale l’insolvenza produce esternalità negative che si riverberano ben oltre la cerchia dei creditori. L’attenzione degli uffici giudiziari a questa materia è dunque decisiva.

1. Un pubblico ministero attivo

Parlando del ruolo “civile” del pubblico ministero, non si possono certamente trascurare quelli che sono i compiti previsti dall’ordinamento nel settore delle procedure concorsuali.

Fatti sintetici cenni alle norme di riferimento, tanto per ricordare che è già tutto scritto, basterebbe solo applicare gli strumenti previsti dal legislatore, farò una panoramica delle fasi in cui si potrebbe agire per “performare” le azioni del pubblico ministero che, dati alla mano, non sempre si sono rivelati all’altezza degli interessi in gioco, fondamentali per la tenuta del “sistema Paese”.

Solo un pubblico ministero attivo potrà, infatti, dare un decisivo contributo per evitare che le procedure concorsuali si riducano a vuoti simulacri, privi di utilità per i creditori e contemporaneamente avviare una seria azione di repressione delle condotte fraudolente finalizzate a svuotare i patrimoni delle imprese in crisi con ingente danno per la finanza pubblica[1]. Va ribadita l’importanza degli interessi collettivi che vengono necessariamente coinvolti nella gestione delle insolvenze e delle crisi di impresa (in primis pagamento delle imposte evase, accertamento di reati fallimentari ed eliminazione dal mercato di imprese ormai decotte che quotidianamente aggravano il proprio dissesto).

2. Il quadro normativo di riferimento

Spesso capita di avere la percezione che molti pubblici ministeri si sentano fuori luogo nel momento in cui si approcciano alla materia fallimentare, così come capita di percepire sguardi sbalorditi lungo i corridoi delle sezioni fallimentari nel vedere aggirarsi un intruso con il codice bianco e verde in mano.

In realtà, se proviamo a fare un ragionamento di sistema, il pubblico ministero è parte a tutti gli effetti nel procedimento fallimentare ed ora proveremo a vedere quali sono le norme che gli danno una chiara legittimazione.

Il sistema prevede che si ricorra ad un terzo imparziale che operi istituzionalmente a vantaggio di tutti gli interessati e sia officiato del compito di massimizzare nell’interesse comune i valori in campo.

Questa riflessione intercetta un profilo molto importante circa il fatto per cui l’insolvenza produce esternalità negative che si riverberano ben oltre la cerchia dei creditori e che devono essere adeguatamente gestite dal pubblico ministero che voglia essere costituzionalmente orientato. 

Il pubblico ministero richiedente il fallimento è nell’ordinamento italiano quell’autorità pubblica investita di questa potestà ai sensi dell’art. 29 del Regolamento comunitario n. 1346 del 2000 e dagli artt. 6 e 7 della legge fallimentare.

Dagli stessi lavori preparatori alla riforma fallimentare del 2006, ai quali va riconosciuto valore sussidiario nell’interpretazione della legge si legge espressamente «… la soppressione della dichiarazione di fallimento d’ufficio … risulta bilanciata dall’affidamento al pubblico ministero del potere di dare corso all’istanza di fallimento su segnalazione proveniente dal giudice al quale, nel corso di qualsiasi procedimento civile, risulti l’insolvenza di un imprenditore; quindi anche nei casi di rinuncia (cd. desistenza) al ricorso per dichiarazione di fallimento da parte dei creditori istanti ...».

Il legislatore storico, pur avendo cancellato il potere del Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, non ha quindi optato minimamente per la privatizzazione dell’accesso alla procedura, scegliendo piuttosto di affidare la tutela delle istanze pubblicistiche connesse all’insolvenza (ed in particolare alla sua tempestiva eliminazione) al pubblico ministero in coerenza con il ruolo ad esso attribuito dall’art. 70 cpc.

Prendiamo le mosse dall’art. 7 del Rd 267 del 1942 (di seguito Lf), ora rubricato «iniziativa del pubblico ministero», in base al quale il pubblico ministero presenta la richiesta di fallimento quando:

  1. l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale, ovvero dalla fuga, dalla irreperibilità o dalla latitanza dell’imprenditore, dalla chiusura dei locali dell’impresa, dal trafugamento, dalla sostituzione o dalla diminuzione fraudolenta dell’attivo;
  2. quando l’insolvenza risulta dalla segnalazione proveniente dal giudice che l’abbia rilevata nel corso di un procedimento civile.

Il pubblico ministero si conferma autorità pubblica dotata di legittimazione attiva alla richiesta di fallimento nei casi in cui ha percezione diretta dello stato di insolvenza (ipotesi sub a) o nei casi in cui riceve la segnalazione di insolvenza dal giudice che l’ha rilevata nel corso di un procedimento civile (ipotesi sub b).

L’abrogazione dell’inciso “oppure d’ufficio” di cui all’art. 6 Lf, operata dalla riforma fallimentare del 2005, ha modificato in parte il ruolo del giudice fallimentare e contemporaneamente ha esaltato e reso ancora più centrale il ruolo del pubblico ministero ed il riconosciuto potere di iniziativa in capo a tale parte pubblica. L’intervento normativo ha fatto del pubblico ministero il titolare unico di strumenti finalizzati a far emergere in modo tempestivo l’insolvenza, proprio per limitare l’impatto di quelle esternalità negative prima citate sulla collettività.

Tale potere di azione va letto anche in combinato disposto con l’art. 238 Lf che sembra disciplinare una generale azione del pubblico ministero ai fini della declaratoria di fallimento che prescinde dai casi previsti dall’art. 6 Lf.

L’art. 238 Lf rende possibile l’iniziativa del pubblico ministero quando vi sono gravi motivi collegati a fatti illeciti penalmente rilevanti tali da giustificare l’esercizio dell’azione penale prima del verificarsi di quell’elemento essenziale atipico del reato costituito dalla sentenza di fallimento. Laddove, quindi, l’iniziativa del pubblico ministero sia legata alla sussistenza di un procedimento penale a carico dell’imprenditore o degli organi di controllo della società non vi è il limite descritto dall’art. 7 Lf, ma come sancito dal comma 2 dell’art. 238, l’azione penale in sede fallimentare può essere iniziata anche prima nel caso previsto dall’art. 7 Lf e in ogni altro caso in cui concorrano gravi motivi e già esiste o sia presentata domanda dal pubblico ministero per ottenere la dichiarazione suddetta.  

La previsione secondo la quale il pubblico ministero può presentare la richiesta di fallimento quando l’insolvenza risulta nel corso di un procedimento penale ha una portata tale da consentire un intervento sostanzialmente illimitato.

Il procedimento penale per bancarotta (fraudolenta o semplice) può pertanto essere iniziato prima della dichiarazione di fallimento ed in tale procedimento possono essere svolte indagini. Se la comunicazione dell’insolvenza viene portata alla Procura da terzi interessati e non emerge da un procedimento penale, non sarà difficile iscrivere un procedimento per bancarotta o per altra fattispecie (reato societario, appropriazione indebita, etc.) e nell’ambito di quello chiedere il fallimento dell’impresa.

Le riflessioni sino ad ora compiute assumono ancora maggiore rilevanza se si prende atto che potremmo trovarci alla vigilia di una riforma epocale. La rilevanza del ruolo della parte pubblica assumerà, infatti, ancora più centralità nel momento in cui verranno attuati i principi della legge numero 155 del 2017 con il quale il Parlamento ha delegato il Governo ad adottare decreti legislativi in tema di crisi d’impresa ed insolvenza.

Per la prima volta saranno previste le cosiddette “misure d’allerta”, mutuate dal sistema francese, ossia un meccanismo di rilevamento tempestivo e di segnalazione delle imprese in crisi o insolventi, finalizzato a sollecitare l’imprenditore a prendere le misure adeguate per fare fronte alla crisi in atto. Il sistema delineato dalla legge delega prevede, in particolare e per quanto di interesse ai nostri fini, che, in caso di esito negativo del procedimento di composizione assistita della crisi avanti all’apposito organismo che dovrà essere costituito presso le Camere di commercio, vi sia un obbligo di segnalazione al pubblico ministero, che quindi avrà un’altra fonte di acquisizione della notizia di insolvenza che lo legittimi a dare corso all’apertura della procedura di liquidazione giudiziale. Il sistema di rilevazione dell’insolvenza o della crisi parte dal presupposto che sarà previsto un obbligo per i sindaci ed i revisori contabili, nonché per i creditori pubblici, quindi Agenzia delle entrate ed enti previdenziali, di segnalazione all’organismo di composizione della crisi di tutte le situazioni di crisi percepite. Qualora poi il successivo procedimento davanti all’organismo di composizione della crisi non si chiuda in modo favorevole per l’imprenditore e quindi nel caso in cui non si individui una soluzione per fare fronte alla crisi o all’insolvenza, lo stesso organismo avrà l’obbligo di effettuare immediatamente la segnalazione al pubblico ministero.

È evidente pertanto come il ruolo del pubblico ministero già centrale, potrebbe diventare perno essenziale di un meccanismo operante per far emergere in modo tempestivo le situazioni di crisi.

Dopo la riforma del 2005 il Tribunale fallimentare non può decidere autonomamente se far fallire un’impresa, ma ha bisogno di una domanda di parte. Il pubblico ministero è parte, ma è anche parte pubblica, portatrice di interessi pubblici e depositaria di un generale dovere di “vigilanza sull’osservanza della legge” ai sensi dell’art. 73 della legge sull’ordinamento giudiziario, dovere che legittima un’interpretazione più ampia del ruolo del pubblico ministero rispetto a quello esclusivamente repressivo a cui si è abituati.

La richiesta ex art. 7 Lf continua ad avere il valore di domanda giudiziale, essendo il pubblico ministero titolare di uno speciale diritto di azione in linea con le norme di diritto comune che gli riconoscono l’iniziativa nel processo civile (artt. 2709 cc, 69 cpc).

Il pubblico ministero, nel momento in cui avanza istanza di fallimento attraverso la richiesta ex art. 6 Lf (ormai, per giurisprudenza consolidata e prassi diffuse, la richiesta del pubblico ministero potrebbe assumere anche la forma di una istanza orale verbalizzata nel corso di una udienza davanti al Tribunale fallimentare), diventa parte processuale a tutti gli effetti e quindi deposita presso la cancelleria del Tribunale fallimentare territorialmente competente ai sensi dell’art. 9 Lf un ricorso con il fascicolo di parte, anche se comunque si continua a non parificare integralmente la figura del pubblico ministero a quella di una parte privata istante per il fallimento in quanto egli non tutela interessi economici privatistici ma agisce a tutela dell’interesse pubblico. Una volta divenuto parte processuale il pubblico ministero rispetta, però, tutte le norme che descrivono i presupposti soggettivi ed oggettivi dell’area della fallibilità quindi, ad esempio, le soglie indicate dall’art. 1 Lf ed il limite di procedibilità fissato dall’art. 15 Lf in 30.000,00 euro di debiti scaduti.

3. Questioni operative

I protocolli, le linee guida sono importanti, ma a patto che le indagini poi si facciano e a patto che poi il pubblico ministero si adoperi in una materia spesso non attenzionata nei vari uffici giudiziari[2].

La segnalazione proveniente dal giudice civile è la situazione legittimante l’esercizio dell’azione per la dichiarazione di fallimento prevista al numero 2 dell’art. 7 Lf e in seguito a tale segnalazione – dopo l’abrogazione dell’art. 8 Lf il quale prevedeva la trasmissione di tali segnalazioni al Tribunale – il pubblico ministero è il vero collettore di una serie di dati. L’esplicito riferimento al “procedimento” in luogo di “giudizio”, come avveniva nel vecchio art. 8 Lf, consente di ritenere che a segnalare l’insolvenza può essere qualsiasi giudice che gestisca un procedimento civile, quindi, ad esempio, anche il giudice del rito monitorio, il giudice del procedimento cautelare, quello del rito societario, o della procedura esecutiva e di volontaria giurisdizione. Inoltre gli orientamenti consolidati[3] ritengono che la norma legittimi anche i giudici tributari o il giudice amministrativo in quanto il numero 2 dell’art. 7 Lf si potrebbe interpretare come la norma che fa affluire sul pubblico ministero tutte le segnalazioni che provengono da tutti i giudici ad eccezione di quelli penali per i quali opera la diversa ipotesi prevista sempre dall’art. 7.

Al di là del cenno interpretativo, credo che la norma debba essere fatta diventare diritto vivente nella pratica quotidiana degli uffici giudiziari.

Questo è un aspetto sul quale si deve e si può incidere a livello di organizzazione degli uffici. Ad esempio, nei vari uffici giudiziari si potrebbe prevedere (come già accade in uffici come Catania, Bergamo e Piacenza) un protocollo operativo siglato dal procuratore della Repubblica e dal presidente del Tribunale nel quale, proprio partendo dall’esistenza delle norme fino ad ora citate e sottolineando l’importanza che il ruolo del pubblico ministero ha assunto dopo l’eliminazione della possibilità per il Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento – e che potrebbe essere ancora più centrale se dovesse essere attuata la legge delega sopra citata – si ricordi ai vari presidenti di sezione che nelle riunioni obbligatorie previste dall’ordinamento giudiziario si potranno dare indicazioni ai giudici dell’esecuzione di procedere con le segnalazioni ex art. 7 Lf nei casi di pignoramento o di interventi in procedure esecutive (immobiliari, mobiliari o presso terzi) coltivate a carico di soggetti titolari di attività commerciali o di società di persone e/o capitali per importi rilevanti (i numeri potranno certamente essere parametrati sui vari contesti economico-industriali di riferimento). Così come sarebbe auspicabile prevedere che i giudici della cognizione diano corso alle segnalazioni quando sono stati emessi decreti ingiuntivi per rilevanti importi o magari più decreti ingiuntivi nel breve periodo a carico dello stesso soggetto fallibile. D’altra parte non vi è dubbio che l’esistenza di procedure esecutive o la pluralità di inadempimenti provati dai numerosi decreti ingiuntivi emessi mettono in luce chiare spia di allerta circa l’esistenza di evidenti sintomi di insolvenza, perché le carte contenute negli interventi o nei decreti ingiuntivi ci dicono che c’è un imprenditore che non riesce a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni e con mezzi ordinari. Nei protocolli citati potrebbe anche prevedersi il coinvolgimento dei giudici del lavoro o della locazione in quanto nelle cause di lavoro o nelle procedure di sfratto per morosità spesso vi sono indici di insolvenza.

Le segnalazioni non sono dichiarazioni di fallimento che necessitano quindi di chissà quali approfondimenti alle spalle: sono atti neutri che però legittimano il pubblico ministero ad acquisire in modo tecnicamente inattaccabile la notitia decoctionis e dare quindi corso a tutti gli accertamenti necessari per “vestire” la notizia e vagliare quindi se vi è una situazione di illiquidità e insolvenza tali da meritare l’impulso dell’azione del pubblico ministero oppure se si tratta di fisiologici inadempimenti o brevi crisi di liquidità dovute a motivi contingenti.

Non lasciare lettera morta l’art. 7 Lf significa far emergere le insolvenze prima che siano definitivamente conclamate e quindi irrimediabili, così come significa tentare di scongiurare che nei vari tribunali fallimentari vi siano stati passivi con numeri impressionanti. Tali numeri, come sempre, se letti in maniera asettica possono dire poco, se invece ci si cala nella realtà dei fatti, ossia si va oltre il mero dato, si vede che nella stragrande maggioranza dei territori (ne ho visti molti nella mia carriera e ne ho sentiti descrivere molti altri girando per creare i protocolli) il protagonista di questi stati passivi a tanti zero è soprattutto la collettività. Provo a spiegarmi.

La realtà fenomenica descrive un percorso economico criminale nel quale la dichiarazione di fallimento costituisce solo un anello, un momento di un più complesso ed articolato disegno caratterizzato dalla prosecuzione dell’attività economica in altre forme, lasciando ai creditori che si insinueranno al passivo solo le briciole. Questo fenomeno, di per sé grave in quanto descrive una serie di “prenditori” che fanno impresa astenendosi sistematicamente dal versare il dovuto all’erario e quindi falsando il mercato a danno degli imprenditori che fanno il proprio dovere, diventa allarmante se solo si considera che al passivo non troverete grandi fornitori (perché se vuoi operare con la new.co. bisogna pagare il pregresso), non troverete grosse scoperture bancarie (perché il sistema bancario ha spie di allerta che individuano molto prima situazioni di imminente insolvenza tali da meritare la chiusura dei rubinetti), non troverete i lavoratori (perché quelli formati bisogna portarli nella new.co., gli altri è meglio pagarli, per quanto possibile, al fine di evitare che accendano i riflettori a un disegno criminoso non ancora compiuto), troverete invece sistematicamente e per percentuali che si aggirano intono al 50% del passivo, l’Erario quindi Equitalia (Riscossione Sicilia spa per chi opera a queste latitudini), Agenzia delle entrate, Inps, Inail quindi la collettività dei contribuenti. Per dare una idea della gravità del fenomeno basterebbe solo ricordare che alcune ricerche (citate da Roberto Fontana nell’articolo citato) hanno dimostrato che in Italia vi sono crediti dell’Erario insinuati ai passivi dei vari fallimenti per importi pari ad 80 miliardi di euro il cui soddisfacimento medio risulta del 1,64%.

L’art. 7 Lf sopra analizzato consente anche di acquisire la notizia di insolvenza nel corso di un procedimento penale. Anche su questo versante, se si vuole un sistema efficace pronto a rispondere alla sfida della criminalità economica, come non pensare all’interno di ciascuna Procura della Repubblica a progetti organizzativi, protocolli operativi, riunioni - chiamateli con l’etichetta che preferite - in cui si invitino i vari sostituti a trattare i fascicoli loro assegnati avendo una visione d’insieme.

Alzando un po’ lo sguardo, infatti, si potrebbe vedere che, ad esempio, dietro un fascicolo iscritto per il reato previsto dall’art. 646 cp (vedi i casi dell’imprenditore che non paga i canoni di leasing dell’attrezzattura utilizzata nella propria impresa) si cela una notizia di insolvenza, così come dietro le denunce depositate dall’Agenzia delle entrate per i reati previsti dagli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs n. 74 del 2000 si potrebbero celare realtà imprenditoriali che non stanno attraversando fisiologiche e momentanee crisi di liquidità, ma “prenditori” che attraverso un sistematico omesso versamento dei tributi dovuti si autofinanziano spalmando i costi della propria impresa sulla collettività.

L’inerzia del pubblico ministero in questo settore inevitabilmente contribuirebbe a rafforzare il fenomeno della sistematica tardiva emersione dell’insolvenza, vanificando ogni possibilità di soddisfacimento dei crediti con conseguente sistematica alterazione della concorrenza.

È evidente infatti che quando le imprese, pur essendo in uno stato consapevole di insolvenza, proseguono la propria attività nell’ottica della continuità aziendale, hanno già pianificato di non pagare i propri debiti, cominciando ovviamente da quelli erariali, potendo così inevitabilmente dare corso a politiche dei prezzi devastanti per le imprese concorrenti. Il pubblico ministero che ha alzato lo sguardo e si sia attivato, oltre che per avviare l’indagine, anche per acquisire tramite le banche dati ormai diffuse qualche dato (visura camerale, cassetto fiscale, dati Inps, procedure esecutive, centrale rischi Banca d’Italia, etc), avrà avuto la possibilità di intercettare una insolvenza celata e quindi attivarsi prima che il dissesto si conclami in modo definitivo.

Altro anello sul quale si deve agire per sfruttare a pieno le potenzialità dell’art. 7 Lf è quello della gestione delle segnalazioni di insolvenza provenienti da un procedimento prefallimentare. Ove il creditore privato ricorrente per il fallimento desista dal ricorso per i più svariati motivi (perché il credito nelle more si è estinto, per carenza di interesse sopravvenuta dovuta a pagamento, etc.), venuta meno con la riforma l’iniziativa officiosa del Tribunale fallimentare, il procedimento dovrebbe essere definito con una improcedibilità del ricorso per intervenuta desistenza. Un procedimento prefallimentare però, ad eccezione dei casi in cui si usa la mannaia del ricorso fallimentare per “convincere” l’imprenditore a pagare magari rinunciando doglianze sulla qualità della prestazione, il più delle volte nasconde insolvenze già gravi se non addirittura conclamate, che in assenza dell’iniziativa del pubblico ministero rimarrebbero celate consentendo ad imprese decotte di rimanere sul mercato creando le esternalità negative fino al successivo ricorso di fallimento, ricorso che potrebbe arrivare anche a distanza di anni dal primo.

Ora che la Suprema corte di cassazione ha definitivamente stabilito e chiarito con più pronunce, superando dei dubbi suscitati da una prima pronuncia del 2009, che anche il giudice delegato della prefallimentare è a tutti gli effetti un giudice civile e quindi ai sensi dell’art. 7 Lf può effettuare la segnalazione al pubblico ministero quando, a fronte di desistenza con l’occhio clinico del tecnico, sia stato in grado di individuare focali di insolvenza potenzialmente lesivi dell’interesse pubblico più volte citato.

Anche sotto questo aspetto quindi è auspicabile una costante interlocuzione tra pubblico ministero e giudice delegato per fare in modo che alla Procura arrivino non solo gli atti dovuti come le domande di concordato ex art. 161 Lf, le relazioni ex art. 33 Lf o le relazioni del Commissario giudiziale ex art. 172 Lf, ma anche le segnalazioni ex art. 7 Lf a fronte di desistenze del creditore privato.

Grazie a tutte queste segnalazioni, sviluppate attraverso la rapida acquisizione dei dati necessari attraverso le banche dati cui si è fatto cenno, il pubblico ministero potrà tutelare, non a parole ma con i fatti, le istanze pubblicistiche sottostanti ad ogni insolvenza, scongiurando che la gestione della crisi d’impresa venga lasciata ad un rapporto di “dare-avere” tra creditore e debitore. La tutela dell’interesse pubblicistico garantita da una azione tempestiva del pubblico ministero consente anche di evitare che il patrimonio eventualmente residuo di una impresa decotta sia oggetto di iniziative dei singoli creditori, in modo tale che tale patrimonio venga garantito nell’interesse dell’intera massa e quindi nel rispetto del principio della par condicio creditorum. L’iniziativa tempestiva del pubblico ministero consentirebbe anche di scongiurare disegni distrattivi che potrebbero essere bloccati sul nascere, con inevitabili positive ripercussioni dirette sull’ammontare dell’attivo da inventariare e poi liquidare dagli organi della procedura fallimentare nell’interesse della massa dei creditori che, come più volte sottolineato, troppo spesso è rappresentata da un unico creditore importante: l’Erario.

A questo punto credo sia dovuta una precisazione. Non deve mai essere perso di vista che nel momento in cui si avanza istanza di fallimento, sussistendo ovviamente tutti i requisiti previsti dalla legge ed avendo tutti gli elementi di fatto più volte descritti dalla Suprema corte di cassazione per configurare uno stato di insolvenza, non si commina una sentenza di condanna o la pena di morte per l’impresa. L’istanza determina l’inizio di un procedimento davanti ad un Tribunale qualificato e nell’ambito del quale potrà finalmente essere fatto un check up completo dell’impresa, magari avviando anche le misure cautelari a tutela dell’impresa stessa e dei suoi creditori per come disciplinate dall’art. 15 comma 8 Lf[4].

Convocare davanti al Tribunale fallimentare un’impresa in stato di grave crisi o di vera e propria insolvenza, magari già occultata da anni, significa offrire un’opportunità a tutti quegli imprenditori che identificando la propria vita con il loro progetto industriale e che quindi fanno fatica, in autonomia, ad accettare l’idea di essere inesorabilmente in crisi. Imprenditori che magari, convocati davanti al giudice delegato dal pubblico ministero, potrebbero accettare una volta per tutte di essere malati e quindi compiere il primo passo, per poi attivarsi utilizzando uno dei tanti strumenti che la legge mette a disposizione di tutti gli imprenditori che vogliono gestire l’insolvenza nella legalità. D’altro canto studi empirici e quotidiana esperienza danno conto di una sostanziale incapacità delle imprese italiane, le più con dimensioni medio-piccole, di promuovere in autonomia processi tempestivi di ristrutturazione[5].

Come ci ha insegnato con i suoi scritti Danilo Galletti, gli amministratori delle società e tutti gli organi gestori, in ottemperanza ai doveri imposti dalla legge e dallo statuto (art. 2392 cc, art. 2381 cc etc.) e comunque rispettando gli standards astratti del buon amministratore, o gli stessi sindaci (ai quali la legge impone in situazioni simili di fare ricorso ex art. 2409 cc o agire ex art. 2393 cc o effettuare la segnalazione al pubblico ministero ex art. 6 e 7 Lf affinché si attivi di conseguenza) dovrebbero prendere atto del generale andamento negativo della gestione ed assumere gli opportuni provvedimenti (redigere un nuovo business plan, al limite riposizionando l’azienda dal punto di vista commerciale e/o industriale, dovrebbero cercare iniezioni di equity da parte della proprietà anche per esigenze di bilanciamento della struttura finanziaria risultante dalla ristrutturazione – art. 2467 cc; inoltre dovrebbero attivarsi per predisporre sollecitamente un piano volto alla liquidazione disgregativa o aggregata in base alla convenienza per la società, oppure dovrebbero proporre una ristrutturazione economica e finanziaria) per tutelare gli interessi coinvolti, in specie quelli dei creditori sociali e dell’Erario.

Il management, che deve mantenere la barra di comando saldamente in mano in ogni momento della vita di un’impresa ed a maggior ragione nei momenti di difficoltà, dovrebbe formalizzare la causa di scioglimento con iscrizione della delibera nel Registro delle imprese e nominare i liquidatori, abbandonando la prospettiva del going concern della gestione ordinaria, arrivando anche ad instare per il fallimento in proprio della società qualora la liquidazione non consenta di fare fronte alle passività esistenti.

Non va sottaciuto infine che la tempestiva emersione dell’insolvenza ha anche un’altra finalità. L’art. 10 Lf sancisce la non fallibilità delle società che sono state cancellate da oltre un anno dal Registro delle imprese (per la ditta individuale il discorso potrebbe essere leggermente diverso potendo il pubblico ministero, con uno sforzo investigativo, dimostrare che in realtà la ditta opera benché cancellata), quindi spesso il bancarottiere di professione che matura debiti erariali con la sua società, inizia ad operare con la new.co. sulla quale avrà fatto confluire tutti gli asset positivi anche esistenti e si premura di cancellare la old company dal Registro delle imprese sperando che nessuno avanzi istanza di fallimento o magari pagando mano a mano ogni singolo creditore particolarmente attivo per farlo desistere dal suo ricorso, il tutto in attesa del decorso dell’anno.

La mancata dichiarazione di fallimento renderebbe non perseguibile il reato di bancarotta non sussistendo la sentenza di fallimento, relegando quindi nell’area dell’impunità condotte anche gravi e potenzialmente lesive di rilevanti interessi pubblici. 

Per rendere più veloce ed incisiva l’azione del pubblico ministero nel proporre le istanze di fallimento ed evitare che le varie segnalazioni di cui abbiamo discusso sino ad ora si perdano nei meandri degli Uffici che costituiscono una media o grande Procura, sarebbe auspicabile la creazione all’interno di ogni Procura della Repubblica di un gruppo di lavoro composto da sostituti che, designati a trattare la criminalità economica, oltre ad applicare le peculiari tecniche investigative che meglio si attagliano a questo tipo di condotte, si curino anche di trattare le segnalazioni effettuate dai vari interlocutori ai sensi dell’art. 7 Lf per poi avanzare l’istanza di fallimento in modo completo e professionale; magari anche avendo dei collaboratori di Polizia giudiziaria che sappiano cosa devono fare quando si vedono arrivare una delega “atipica”, ossia acquisire visura camerale aggiornata, acquisire ultimi tre bilanci e visure dell’anagrafe tributaria per consentire al pubblico ministero di “vestire” la notizia di insolvenza.

Per sottolineare ancora una volta come per il pubblico ministero che si occupi della crisi di impresa anche le istanze di fallimento rappresentano un momento fondamentale per una buona riuscita delle successive indagini, appare utile citare nuovamente una norma di cui sopra si è discusso.

L’art. 238 Lf legittima il pubblico ministero che ha avanzato istanza di fallimento ad avviare le indagini, tra esse quindi anche il peculiare mezzo di ricerca della prova costituito dalle intercettazioni telefoniche. Ciò significa che nei casi in cui le emergenze fattuali danno contezza di un imprenditore avvezzo a commettere reati di natura tributaria o fallimentare, che potrebbe detenere quote di partecipazione in molte società e ne amministra altrettante, che magari ha legami con contesti di spessore criminali, che potrebbe avere rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, o che ha avviato una distrazione di azienda, contestualmente all’istanza di fallimento potranno attivarsi le intercettazioni telefoniche e, nel periodo che va dalla notifica del ricorso da parte della cancelleria fallimentare alla data fissata per la convocazione davanti al giudice delegato alla trattazione della prefallimentare, magari potrebbero captarsi conversazioni fondamentali per il proseguo delle indagini.

Per rendere possibile che il pubblico ministero impegnato a fare fronte ad udienze dibattimentali, udienze preliminari, udienze monocratiche penali, possa trovare anche il modo di poter presenziare davanti al giudice delegato per coltivare i propri ricorsi, fondamentale sarebbe, ad esempio, un protocollo con la sezione fallimentare che individui un giorno e una fascia oraria predeterminati nella quale si tratteranno i procedimenti prefallimentari che vedono la Procura della Repubblica nella veste di ricorrente, in modo che, nell’organizzazione del lavoro e nella predisposizione dei calendari degli impegni, si possa inserire e considerare anche l’udienza prefallimentare.

Altro aspetto che un pubblico ministero costituzionalmente orientato dovrebbe curare è quello connesso alla costante interlocuzione con la sezione fallimentare per rendere operativo il compito che la legge fallimentare affida al ruolo della parte pubblica.

La disciplina creata dalla novella più volte citata del 2005, anche se prevede la caducazione del potere del Tribunale di dichiarare d’ufficio il fallimento, non ha affatto privatizzato la procedura (privatizzazione per altro definitivamente superata con le successive riforme del Dl 21 giugno 2013 convertito in legge 9 agosto 2013 n. 98 che ha nuovamente previsto un Tribunale fallimentare non più notaio nella procedure concorsuali ma protagonista) ed ha ritagliato intorno alla figura del pubblico ministero una funzione “nevralgica”[6].

È sufficiente scorrere i vari articoli della Legge fallimentare per rendersene conto. Gli artt. 161, 162 Lf danno per scontata la presenza del pubblico ministero nella procedura di concordato preventivo anche per esprimere un parere; l’art. 173 prevede che il Tribunale notizi il pubblico ministero dell’avvio del procedimento di revoca del concordato e che nel caso di istanza di fallimento del pubblico ministero può revocare il concordato e quindi dichiarare il fallimento; analoga situazione nel caso di omologa del concordato ex art. 180 Lf; l’art. 165 c. 5 Lf prevede che il commissario giudiziale che venga a conoscenza di circostanze che possono interessare le indagini preliminari le segnala subito alla Procura; l’art. 172 ultimo comma Lf prevede l’obbligo di trasmissione della relazione redatta dal commissario giudiziali in vista dell’adunanza dei creditori alla Procura.

Se questo è il quadro normativo di riferimento, cosa dovrebbe fare il gruppo di lavoro dei sostituti specializzati che all’interno della Procura si occupa di criminalità economica per far fronte a questi stimoli del legislatore?

Innanzitutto, sempre implementando i protocolli operativi con il Tribunale fallimentare, potrebbe fare in modo che sia previsto un giorno predeterminato nel quale il Tribunale fissa le udienze davanti al collegio per la trattazione dei ricorsi ex art. 173 Lf o per le udienze interlocutorie previste nella fase di ammissione del concordato ex art. 162 comma 1 Lf, in modo che, nella calendarizzazione degli impegni della Procura, sia prevista anche la presenza del pubblico ministero in queste udienze.

A tali udienze il pubblico ministero designato partecipa previo studio della domanda di concordato ed analisi analitica della relazione che il professionista nominato dal ricorrente ha redatto ex art. 161 comma 3 Lf, con eventuale deposito di un parere scritto. Nell’esprimere il parere il pubblico ministero esercita un ruolo prettamente civilistico, in quanto, a prescindere da eventuali indagini penali già in corso, fornisce al Tribunale un contributo per analizzare ad esempio la ragionevolezza dei criteri esposti dall’esperto nella relazione depositata ex art 161 Lf e comunque per vagliare il perdurare dei requisiti di ammissibilità del concordato per tutta la procedura.

Al cospetto della accentuata connotazione privatistica del concordato preventivo post riforma della legge fallimentare, al Tribunale resta, infatti, riservato un ruolo di garanzia del rispetto delle regole di correttezza e buona fede che devono presidiare l’esercizio dell’autonomia negoziale privata.

Il pubblico ministero, esprimendo il proprio parere, potrà verificare che il controllo effettuato da tale professionista sia effettivo e critico e non si limiti ad una attestazione apparente, generica o adesiva al ricorso del debitore; la relazione ex art 161 Lf deve, infatti, essere ancorata ad elementi di fatto di natura contabile, economica e finanziaria che non si rivelino fallaci, ma restino per tutto il corso della procedura idonei a fondare un giudizio di probabile realizzabilità del piano e dei risultati prospettati dalla società in concordato al ceto dei creditori.

Il pubblico ministero potrà ancora verificare se le valutazioni del professionista attestatore sulla fattibilità del piano concordatario o sulla veridicità dei dati aziendali sono ragionevoli, argomentate, fondate su dati di fatto verificati, oppure se sono mere affermazioni apodittiche, generiche o superficiali.

Anche in questo caso il lavoro svolto in questa fase procedimentale di chiara natura civilistica, non andrà mai perso per il pubblico ministero nel momento in cui tornerà a vestire i panni del penalista puro. Tutte le criticità rilevate nell’esame del piano di concordato o nella attestazione costituiranno inevitabilmente il core business delle successive indagini.

Non va infatti dimenticato che con la legge di conversione n. 134 del 2012 è stato introdotto l’art. 236 bis Lf che prevedere proprio il reato di falso in attestazioni o relazioni che punisce le falsità commesse dal professionista attestatore nel redigere una delle varie relazioni attestative previste nella procedura di concordato preventivo. Così come non va dimenticato che l’art. 236 Lf parifica ai fini del presupposto del reato di bancarotta il decreto di ammissione alla procedura di concordato alla sentenza di fallimento, quindi anche nel caso in cui il parere negativo del pubblico ministero non venga recepito dal Tribunale che ammetta il ricorrente alla procedura di concordato, le criticità che il pubblico ministero ha rilevato nell’esame della domanda di concordato potranno essere approfondite nell’indagine che dovrebbe essere avviata in relazione alla fattispecie di bancarotta concordataria.

Per chiudere il cerchio va infine fatto riferimento, a mio avviso, ad un altro compito che il pubblico ministero deve svolgere a queste latitudini.

Le relazioni del Curatore redatte ex art. 33 Lf o le relazioni del Commissario depositate ex art. 172 Lf sono atti fondamentali. Non a caso ne è prevista in entrambi i casi (anche per le relazioni ex art. 172 Lf dopo la riforma operata dalla legge 133 del 2015) la trasmissione di copia alla Procura della Repubblica. Nelle relazioni citate sono indicate le cause del dissesto e denunciati fatti di penale rilevanza. Solo per dare qualche spunto, si può dire che solo grazie ad una relazione ex art. 172 Lf redatta in modo coerente con il dettato normativo i creditori potranno votare in modo consapevole nel corso dell’adunanza dei creditori scegliendo tra la convenienza della proposta concordataria e l’alternativa fallimentare; solo da una approfondita verifica finalizzata a redigere una relazione ex art. 172 Lf il Commissario potrebbe rilevare in modo tempestivo condotte di frode ai creditori legittimanti un ricorso ex art. 173 Lf.

Ancora, solo una relazione ex art. 33 Lf completa segnalerà l’esistenza delle cosiddette spie di allerta (a mero titolo di esempio: operazioni straordinarie o con parti correlate poste in essere a poca distanza di tempo dalle dichiarazioni di fallimento; discrasie evidenti tra il dati del passivo reperibili dall’ultimo bilancio pubblicato ed i dati del progetto di stato passivo; valore incongruo dei corrispettivi degli atti dispositivi di significato valore e anomalie nelle relative movimentazioni finanziarie; informazioni di dipendenti e fornitori sull’individuazione del reale amministratore; congruità tra risultanze contabili e dati dell’inventario, individuazione del momento esatto di perdita del capitale sociale previa riclassificazione del bilancio con l’ottica della fraudolenza) che poi il pubblico ministero nel corso dell’indagine dovrà approfondire per verificare se si costituiscono operazioni societarie o nascondono condotte penalmente rilevanti. solo una relazione ex art. 33 Lf approfondita e completa potrà consentire al giudice delegato di avere contezza della tipologia di fallimento che si trova a gestire, così come potrà consentire allo stesso curatore di avere una visione davvero completa per poi potere redigere un adeguato programma di liquidazione ex art. 104-ter Lf.

Il lavoro del curatore e del commissario in moltissimi casi può influire sul successo delle indagini preliminari. È quindi fondamentale poter contare su professionisti capaci e preparati che sappiano utilizzare concetti di diritto fallimentare, civile, tributario, societario e penale fallimentare e che siano propensi a guardare al passato. Mentre con l’esame dello stato passivo si guarda al presente, con la redazione del programma di liquidazione si mira al futuro, con le relazioni ex art. 33 e 172 Lf si inizia un viaggio nel passato andando a scandagliare gli ultimi anni di vita della società per individuare esattamente le criticità che hanno determinato il fallimento.

Credo quindi che organizzare con l’ausilio del Tribunale fallimentare dei momenti di confronto, di studio congiunto, di approfondimento e scambio di riflessioni con i vari professionisti incaricati dal Tribunale sia necessario per poter investire sul loro lavoro per il futuro. Così come ritengo che creare dei protocolli che prevedono un tempestivo invio delle relazioni ex art. 33 Lf al pubblico ministero possa contribuire in modo rilevante sulla tempestività delle indagini; la relazione ex art. 33 Lf formalmente deve essere depositata dopo 60 giorni dalla redazione dell’inventario ma in realtà entro questo termine di natura non perentoria il curatore non ha a disposizione tutti i dati necessari per redigere una completa relazione e pertanto inevitabilmente rinvia di mesi la data del deposito. Se con protocolli siglati si prevedesse invece l’invio di pre-relazioni alla Procura, redatte con l’indicazione di quelle voci essenziali che consentono di fare capire al pubblico ministero di quale fallimento si dovrà occupare (ultimo fatturato, numero dipendenti impiegati nel corso degli anni, tipologia delle scritture contabili depositate, ammontare del passivo ricavabile dall’ultimo bilancio e ammontare delle domande di insinuazione già pervenute o evincibili da banche dati come il “cassetto fiscale”), si otterrebbe il risultato che in caso di fallimenti rilevanti, con gravi condotte distrattive poste in essere, mentre il curatore proseguirà il proprio lavoro in vista del deposito finale della completa relazione ex art. 33 Lf, il pubblico ministero potrebbe indirizzare le indagini in modo più incisivo e penetrante.

Per rimarcare ancora una volta come nel settore della criminalità economica e quindi anche grazie a quella parte del lavoro del pubblico ministero posta in essere nell’ambito del procedimento civile si giochi una partita che va ben oltre il singolo fascicolo, non posso non fare un breve cenno alla circolarità dei reati economici ed amministrativi[7]. Dati di esperienza danno conto di una criminalità economica ed amministrativa che si pone in sequenza criminale. Dall’accertamento di alcuni reati tra i quali le violazioni tributarie, il falso in bilancio ed appunto la bancarotta fraudolenta si arriva a scoprire fatti di corruzione, perché i reati finanziari o fallimentari possono il più delle volte costituire l’anello di quella sequenza criminale che prosegue con l’acquisizione di disponibilità economiche necessarie per le successive operazioni corruttive, per veicolare quelle utilità che vanno a ripagare l’atto illegittimo posto in essere dal pubblico ufficiale. Se queste sono le tecniche investigative che si possono sviluppare, credo che in un Paese in cui si cerca di fare fronte alla crisi economica tagliando costi della sanità, della scuola, del sociale in generale, mentre la corruzione costa oltre 60 miliardi annui e l’evasione oltre 120 con circa 180-200 miliardi di euro di patrimoni italiani esportati all’estero[8], un pubblico ministero che voglia fare il proprio dovere fino in fondo dovrebbe fare tutto il possibile per dare il proprio contributo di uomo di Stato per aiutare il Paese a tagliare i costi della corruzione e a ridimensionare i mancati introiti dovuti all’evasione fiscale, partendo proprio dallo spendersi per fare in modo che tutti gli articoli della legge fallimentare sopra citati non restino solo legalità legislativa ma diventino legalità materiale[9].

4. Per concludere: pubblico ministero, economia, futuro

Non esiste altro ambito del diritto civile nel quale il dinamismo del pubblico ministero determina l’ampiezza e la qualità dell’esercizio della giurisdizione penale.

Non penso, pertanto, che si possa mettere in dubbio che un pubblico ministero che coniughi un forte impegno nella fase delle indagini e dei dibattimenti con un altrettanto adeguato impegno nelle preliminari fasi dei procedimenti che si svolgono davanti al Tribunale fallimentare sia un pubblico ministero che tratta un “diritto minore” a disvalore penale zero. In questi settori, infatti, magari non si vede sangue, non si vedono armi, non si vedono condotte che creano allarme sociale di immediato impatto, ma se solo ci impegnassimo ad indossare le lenti giuste vedremmo qualcosa di altrettanto grave, vedremmo cioè all’opera i “ladri di futuro”. Tutte le risorse sottratte alla finanza pubblica potrebbero infatti essere utilizzate dallo Stato per finanziare progetti per giovani imprenditori, per facilitare la creazione di start-up, per creare reti sul territorio nazionale o internazionale, per aumentare i finanziamenti in progetti e ricerca, appunto per creare futuro.

Un pubblico ministero tempestivo ed attento ad operare nel settore della crisi d’impresa potrebbe fornire un contributo decisivo all’opera di ridimensionamento di quella parte del mondo imprenditoriale (che a me piace chiamare “prenditoriale”) che non vuole confrontarsi con il mercato, ma si limita a drenare risorse pubbliche, facendo impresa sulle spalle dei contribuenti e drogando il mercato a discapito di tutti quegli imprenditori veri, onesti che rispettano le regole ed hanno progetti industriali da sviluppare.

[1] Punto di riferimento nell’analisi saranno gli insegnamenti di R. Fontana, sintetizzati da ultimo nel suo intervento su Norme e Tributi – Focus, de Il Sole 24 Ore del 1° novembre 2017.

[2] Cito Donata Costa – relazione al corso della Scuola superiore della magistratura nel 2014 – Corso sui reati fallimentari.

[3] Vedi più diffusamente M. Fabiani, Commento sub artt. 6 e 7 l.f., Comm. Jorio - Fabiani; M. Ferro, L’istruttoria prefallimentare, Torino, 2001.

[4] I provvedimenti contemplati dall’art. 15 Lf, la natura cautelare o conservativa dei quali è affermata dalla stessa legge, devono essere ricompresi tra i provvedimenti di tipo cautelare e di natura atipica che il nostro ordinamento riconosce di regola ai sensi dell’art. 700 cpc. In merito al contenuto del provvedimento interinale, può avere il contenuto più vario proprio perché lo stesso, nella sua atipicità, potrà rispondere alle esigenze del caso specifico. Potrà quindi emettersi dal provvedimento di sequestro conservativo dei beni del debitore o dell’azienda, a provvedimenti più incisivi e meno invasivi nei confronti della vita imprenditoriale, come l’affiancamento o la sostituzione dell’imprenditore con un custode, o la semplice inibizione di compire attività di straordinaria amministrazione o singole attività specifiche, sino alla necessità per l’imprenditore di munirsi dell’autorizzazione del Tribunale stesso per compiere determinate attività.

[5] Giovanni Negri nel descrivere i fattori che potrebbero essere alla base di tale incapacità parla proprio di capitalismo familiare, personalismo autoreferenziale dell’imprenditore, debolezza degli assetti di corporate governance, sottodimensionamento – articolo sul focus de Il Sole 24 Ore del 1° novembre 2017.

[6] La felice affermazione è di L. Orsi – relazione all’incontro di studi organizzato il 14 maggio 2012 dal Csm sul tema «Crisi d’impresa, autonomia negoziale e accordi di ristrutturazione del debito».

[7] Sul punto illuminanti sono gli insegnamenti di N. Rossi (intervento dal titolo «L’emersione del fenomeno corruttivo: gli indicatori della corruzione» effettuato al corso organizzato dalla Scuola superiore della magistratura a Scandicci il 26.02.2016 in tema di reati contro la Pubblica amministrazione) e di P. Ielo, «Tecniche investigative nei reati di corruzione»,intervento al «Corso Livatino» organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, strutture territoriali di Caltanissetta e Palermo il 23.09.2016.

[8] Analisi di R. Scarpinato in Il Ritorno del Principe, Chiarelettere, Milano, 2008.

[9] C. Mortati. La Costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano, 1998.