Magistratura democratica

La funzione della Procura generale della Cassazione

di Carmelo Sgroi

Lo scritto si propone di individuare sinteticamente il mutamento di significato che l’intervento dell’Ufficio requirente di legittimità nel giudizio di parti ha assunto nel corso del tempo, in particolare per effetto delle più recenti riforme sul processo civile di cassazione. Il ruolo svolto dalla Procura generale nella materia civile, pur se inquadrato in una più larga e comprensiva classificazione della funzione di uniformazione del diritto e di garanzia della legalità, offre oggi diversi spunti critici circa la coerenza complessiva del sistema e ragioni di immediata riflessione sulle prospettive future.

1. Pubblico ministero e giudice di legittimità. Una storia complessa

Una descrizione e una analisi della “funzione” attuale della Procura generale della Corte di cassazione – nell’ambito del diritto e del processo civile, al quale soltanto questo scritto fa riferimento[1] – dovrebbe poter risultare, a prima vista, una operazione relativamente semplice. In quanto pubblico ministero “presso” un giudice, in questo caso il giudice di legittimità, si sarebbe tentati essenzialmente di dire che esso ripete, nella sua attività, i caratteri del giudice à cȏ del quale svolge il proprio compito, secondo lo schema di fondo della relazione di complementarietà che intercorre in genere tra il pubblico ministero e il giudice nel disegno processuale e di ordinamento, costituzionale e legislativo. I presupposti di inclusione di giudici e procuratori nel medesimo ordine (art. 107, terzo comma, Cost.) e altresì la premessa di ordinamento che (art. 2 del Rd n. 12/1941) stabilisce che «presso la Corte suprema di cassazione, le corti d’appello, i tribunali ordinari e i tribunali per i minorenni è costituito l’ufficio del pubblico ministero», norme che sanciscono il concetto di una comune appartenenza ed esprimono la base unitaria di garanzie per tutta la magistratura, requirente e giudicante, salva solo la distinzione per funzioni, condurrebbero pianamente alla affermazione di principio secondo cui gli uffici del pubblico ministero mutuano le loro funzioni da quelle del giudice “presso” il quale sono istituiti, secondo una regola di parallelismo.

Questa proposizione è, in certa misura, vera; ma è incompleta. Le cose sono, soprattutto oggi, più complesse.

Un rapido sguardo sull’evoluzione del sistema nel tempo attesta della esistenza di più di una cesura e di non poche zone critiche nella ricostruzione funzionale del pubblico ministero che si colloca presso il vertice[2] della giurisdizione che sia ricondotta ai soli termini del parallelismo pm - giudice.

2. Dal controllo alla cooperazione

L’origine storica della figura del pubblico ministero di cassazione svela in realtà una posizione iniziale tutt’altro che cooperativa, ma anzi di potenziale conflittualità con il giudice presso il quale è istituito. L’idea che anima la figura del pubblico ministero è, in origine, quella[3] di un «rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria», in funzione del controllo sull’operato dei giudici, quale si trova testualmente espressa nella prima legislazione di ordinamento giudiziario del Regno post-unitario (Rd 6 dicembre 1865, n. 2626, art. 129)[4]. All’interno di un ordine giudiziario impostato secondo modelli gerarchici, se al giudice è garantita almeno formalmente una indipendenza esterna, ciò non vale per i pubblici ministeri, di cui è stabilita la «diretta dipendenza» dal vertice governativo.

Questa struttura organizzativa precostituzionale riflette, nella separatezza tra giudici e pubblici ministeri, uno schema di diretta derivazione francese, funzionale all’idea dell’interpretazione della legge come appannaggio del potere che la adotta: il controllo dei secondi sui primi garantisce la separazione dei poteri e in particolare il rispetto del principio che assegna al solo legislatore[5] il potere di interpretare il comando, che il giudice deve semplicemente applicare, “osservare”. Persiste l’idea del giudice bouche de la loi, nel limitativo senso implicato da questa formula.

Il ventennio accentua l’attrazione del pm nell’area del potere e della direzione governativa, specialmente attraverso i modi di selezione professionale, le regole di verifica e avanzamento nella “carriera”[6]; i meccanismi di dipendenza interna si assommano a quelli esterni.

Ed ancora con la legge di ordinamento giudiziario del 1941 (Rd n. 12/1941), che rafforza nello spirito della riforma Grandi gli aspetti di dipendenza interna, quello schema del rapporto tra pm e giudice si ripete, nelle disposizioni che affidano al pubblico ministero il compito di «vegliare alla esatta osservanza delle leggi» (art. 73) – dove l’uso del termine ”osservare” svela la chiara continuità con l’assetto post-unitario – oltre che, in connessione, di fare eseguire i provvedimenti del giudice (art. 78) e più in generale di svolgere ogni altra funzione attribuitagli dall’ordinamento, «sotto la direzione» del Ministro della giustizia (art. 69).

Occorre attendere dapprima la legge sulle guarentigie della magistratura (Rd.Lgs n. 511/1946), che sottrae – con l’art. 16 – il pm alla “direzione” dell’esecutivo per sottoporlo alla “sorveglianza” del titolare dell’Ufficio[7], e poi ovviamente e soprattutto la Costituzione repubblicana, che disegna il nuovo statuto di indipendenza e di autonomia della magistratura, e in essa del magistrato del pubblico ministero, per delineare il rapporto tra quest’ultimo e il giudice in termini totalmente nuovi, dialetticamente cooperativi, nello svolgimento delle rispettive funzioni. Ma la vischiosità delle regole e delle prassi si propaga anche nel nuovo quadro costituzionale: ne è un indizio la disposizione processuale (art. 380, primo comma, cpc) che, in correlazione con il testo originario dell’art. 76 ord. giud. secondo cui il pm «assiste alle deliberazioni delle cause civili», consentendo in tal modo la presenza fisica del pubblico ministero all’interno della camera di consiglio civile, si colloca ancora plasticamente nella logica del controllo sul giudice e sulla sua deliberazione. Occorrerà così ulteriormente attendere gli anni ’70 per eliminare questa anomalia[8].

3. Il pubblico ministero (e il giudice) civile di legittimità nel quadro della funzione di nomofilachia. Il pm organo “promotore di giustizia”

Liberato dal vincolo con il potere esecutivo, il pubblico ministero cambia volto.

Soprattutto, cambiano radicalmente di significato le norme di ordinamento giudiziario, benché intatte nella loro formulazione pre-costituzionale, che ne definiscono compiti e funzioni. Queste ultime devono ora essere lette con la lente della Carta.

Vige (tuttora), per la Corte di cassazione, la disposizione che ne definisce le attribuzioni, contenuta nell’art. 65 dell’ordinamento giudiziario: essa, quale «organo supremo della giustizia, assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni».

E vige (tuttora), per il pubblico ministero, la disposizione che ne individua le attribuzioni nel «veglia[re] alla osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci» (art. 70).

Se la prima norma declina una caratteristica strutturale dello Stato costituzionale, esprimendo, con l’esigenza finalistica di garanzia di interpretazione uniforme del diritto, un carattere che si collega immediatamente con il rispetto del principio di uguaglianza[9], la seconda disposizione ne rappresenta il pendant sul piano dell’attività del pubblico ministero; una attività, innanzitutto, svolta sul piano processuale, come subito si vedrà, ma non solo in essa[10]. Collocate sotto la luce dei principi costituzionali, le norme sopra indicate manifestano, nell’immutata veste lessicale (il che conferma ancora una volta come il linguaggio del diritto sia inevitabilmente polisenso), il significato più proprio della giurisdizione di legittimità, la garanzia del rispetto dei diritti attraverso l’esercizio della funzione interpretativa, a valere per il singolo caso e, dinamicamente, per il futuro[11], quale affermazione destinata a valere per i casi assimilabili.

Vi è una Corte di cassazione, deputata per Costituzione a formare diritto vivente e a rendere principi uniformi e uniformanti di interpretazione giuridica, e vi è un ufficio del pubblico ministero presso di essa che coopera alla medesima funzione, in ambito processuale. Pur nella difficoltà di classificazione sistematica della figura, sovente etichettata con il contraddittorio sintagma di “parte imparziale”, la Procura generale presso la Corte di cassazione si colloca così come un soggetto necessario sempre nello svolgimento del processo civile di legittimità, perché esso svolge il proprio compito, nel processo di parti, senza avere riguardo né alla materia, né alla rilevanza del processo, né alle vicende pregresse del giudizio pervenuto sino all’ultima istanza. L’art. 76 dell’ordinamento giudiziario, nel testo aggiornato dalla legge n. 532/1977 (la medesima che sopprime l’ingresso del pm nella camera di consiglio), stabilisce che il pubblico ministero presso la Corte di cassazione «interviene e conclude in tutte le udienze civili e penali», oltre che redigere requisitorie scritte nei casi stabiliti dalla legge; e questa previsione generalizzata di intervento è rafforzata e assistita con la regola secondo cui, quando è richiesto dalla legge l’intervento del pm, la mancanza di quest’ultimo comporta che l’udienza «non può aver luogo» (art. 75 ord. giud.).

La simmetria cooperativa tra le attribuzioni della giurisdizione di legittimità e quelle del pubblico ministero ne rende così possibile, nonostante la riconosciuta difficoltà di inquadramento dogmatico[12], una prevalente e comune qualificazione in termini di organo “promotore di giustizia”, o di organo che svolge una “alta funzione di giustizia”, riprendendo così la definizione utilizzata dalla Corte costituzionale nella pronuncia n. 2/1974[13].

Quale organo di giustizia inserito, per Legge fondamentale, nell’ambito della giurisdizione, il pubblico ministero di cassazione – civile come penale – non mira tanto alla eliminazione della sentenza ingiusta, poiché questo è l’interesse della parte che ha ragione, quanto all’affermazione dell’interpretazione corretta e uniforme del diritto applicato e, prospetticamente, da applicare, in vista della regolazione della generalità dei casi simili e oltre l’esito del singolo, specifico procedimento rimesso di volta in volta alla decisione della Corte. La generalizzazione dell’intervento del pm dinanzi alla Corte, del resto, appare coerente proprio con una considerazione più strettamente “nomofilattica” della funzione del giudizio di cassazione, rispetto a una risposta sul singolo caso: in tanto si stabilisce che il requirente intervenga e offra al giudice di ultima istanza le proprie conclusioni motivate, in tutti i giudizi, in quanto si suppone che sempre il giudice di legittimità sia chiamato a rendere decisioni che abbiano la stessa connotazione regolatrice, e ciò è conforme all’idea di fondo della Corte quale giudice dello ius constitutionis,che, attraverso la decisione rescindente, rende possibile un nuovo giudizio somministrando però – quando non operi la definizione diretta nel merito, come consente l’art. 384 cpc – il principio di diritto[14], che governerà la decisione corretta e al quale il giudice del merito è vincolato.

Il pubblico ministero presso la Corte si fa portatore dell’interesse pubblico alla difesa del diritto e della sua unità, per usare le parole di Calamandrei in Costituente, nel proporre questa formula, poi non inserita nel testo finale, per il giudice di ultima istanza. Questa esigenza si esprime affidando a un magistrato il compito di rappresentare, pubblicamente, il punto di vista generale della corretta interpretazione e applicazione della norma al fatto, e ciò in via generale, non solo senza la necessità di una sollecitazione da parte del giudice[15] ma altresì prescindendo da una auto-valutazione di opportunità o di particolare rilevanza della vicenda processuale che possa essere svolta dallo stesso magistrato requirente (egli “deve” infatti intervenire nelle cause davanti alla Corte di cassazione: art. 70, secondo comma cpc), poiché è la legge a svolgere questo previo apprezzamento di inerenza pubblicistica del giudizio di legittimità.

Soggetto disinteressato, proprio perché vettore di un interesse pubblico e non delle pretese e delle posizioni proprie dei litiganti, il rappresentante del pubblico ministero è dunque in via di principio individuato come il portatore della soluzione del caso attraverso la lettura “esatta” della norma, in una logica di scopo, o di funzione, di marcato carattere pubblicistico, in cui l’agire della figura istituzionale rende manifesto che l’interesse privato – la cui tutela, ovviamente, è affidata alle parti in gioco – risulta subordinato a quello pubblico[16]; il risultato che entrambi i soggetti istituzionali, requirente e giudicante, hanno di mira, in questo schema, è quello della eliminazione della sentenza che – prima che essere “ingiusta” – risulti in contrasto con il diritto che in essa è applicato[17].

Nel giudizio di parti, a queste soltanto è dato di condurre le scansioni processuali e di immettere gli elementi, di fatto e argomentativi, che orientano per la soluzione della lite. Dunque, il pubblico ministero di legittimità non interferisce in questo dominio, ma ne prende atto, facendone la premessa della propria conclusione: egli non propone prove[18], non apporta elementi conoscitivi sul fondo del ricorso, se non nei limiti in cui possa ammettersi l’allegazione di elementi che la Corte sia abilitata a rilevare d’ufficio, come per es. l’esistenza di un giudicato esterno; deve interloquire con la Corte nei limiti segnati dal thema decidendum, non oltre (Cass., n. 11198/1990). 

Il modello processuale così definito è semplice, univoco, non distingue secondo materie o altri criteri, né impegna l’Ufficio requirente in alcun modo rispetto all’andamento del giudizio nei gradi anteriori[19], giacché affida al pm l’intero spazio possibile di argomentazione all’interno del controllo di legittimità; egli, se può dirsi così, parla per la Corte, cui propone una conclusione che potrà ovviamente anche essere disattesa ma della quale la Corte stessa dovrebbe comunque tenere conto nel rendere la propria pronuncia.

In questo scenario, sembra del tutto coerente che, nell’udienza, il pm di legittimità abbia la parola per ultimo: questa previsione, solo apparentemente secondaria, del rito[20] si inserisce invece come ulteriore tassello di una visione complessivamente omogenea. La logica dell’ordine dell’intervento nella fase della discussione nell’udienza che conduce alla decisione non è secondaria, in quanto affida alla “parte imparziale” il compito, per così dire, di tirare le fila del dibattito processuale, di soppesare gli argomenti che le “parti” (effettive) del processo hanno offerto al giudice, di proporne una sintesi rispetto alle necessariamente contrastanti opinioni e ragioni di ciascuna di esse[21].

Visto nella sua architettura, il disegno normativo che – regolando il pubblico ministero di legittimità – interseca e intreccia le proposizioni dell’ordinamento giudiziario e quelle della disciplina processuale, nella rinnovata direzione interpretativa del significato complessivo che la Costituzione ora impone di dare loro, appare complessivamente moderno, corrispondente a una esigenza che potrebbe dirsi di democrazia giudiziaria. Se il pm non è né rappresentante di un potere, né puro e semplice portatore di interessi della società o di una sua componente, e se dunque egli veicola un punto di vista autenticamente indipendente, in ciò assimilabile alla posizione del decidente, tutto ciò ne fa, nella rappresentazione del processo pubblico, un soggetto che coopera alla decisione del giudice, il quale di certo può e deve autonomamente farsi carico della quota di interesse pubblico che sempre può ravvisarsi in una decisione sul fondo del ricorso per cassazione, ma da questa presenza doverosa viene a essere sorretto, stimolato a considerazioni ulteriori, messo in condizione di fruire di un panorama conoscitivo e argomentativo più ampio, il tutto sempre in funzione della decisione conforme a diritto.

Nei tratti appena detti può scorgersi una figura riconducibile, certo per approssimazione e solo sotto il profilo funzionale, non istituzionale, all’istituto anglosassone dell’amicus curiae[22], che coopera con il giudice nella stessa direzione ossia verso la pronuncia corretta, quella che meglio lega la statuizione giudiziale non solo con il diritto vigente ma anche con il suo porsi quale precedente per la futura regolazione dei casi simili. E ciò tanto più in quanto, sebbene non operi la regola dello stare decisis, il vincolo del precedente della Corte viene a essere valorizzato nelle più recenti conformazioni del rapporto, esterno, tra giudizio di legittimità e giudizio di merito (art. 360-bis, n. 1, cpc) e, all’interno, tra decisione delle Sezioni Unite e indirizzi delle Sezioni semplici della Corte di cassazione (art. 374, terzo comma, cpc)[23]. Vi è in fondo un rapporto di correlazione tra la efficacia de futuro di una decisione di ultima istanza e la funzionalizzazione degli organi giudiziari che contribuiscono a renderla: quanto maggiore è il peso della pronuncia e il vincolo che da essa deriva, tanto più sarà avvertita la necessità che quella decisione sia – se non necessariamente condivisa nei contenuti – frutto di plurimi apporti, oltre che di reale collegialità.

Questa ricostruzione della funzione generale assunta nel sistema interno dal pubblico ministero civile di legittimità, che si è definita come cooperativa e promozionale, si colloca d’altra parte in sintonia con analoghe formulazioni che si trovano espresse, in particolare, in documenti del contesto sovranazionale.

In numerosi atti, al di là del loro valore persuasivo/paranormativo più che prescrittivo, si esprime la concordanza delle istituzioni continentali nell’assegnare ai pubblici ministeri un ruolo corrispondente a quello appena descritto.

La Dichiarazione di Bordeaux, su «Giudici e procuratori in una società democratica», adottata il 18 novembre 2009 nell’ambito dei Consigli consultivi dei giudici e dei procuratori in seno al Consiglio d’Europa, esprime il «ruolo distinto, ma complementare, dei giudici e dei procuratori», «garanzia necessaria per una giustizia equa, imparziale ed efficace», approntata da giudici e da procuratori che debbono essere «entrambi indipendenti e imparziali». La successiva Carta di Roma, documento in forma di parere rivolto al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ed elaborato dal citato Consiglio consultivo dei procuratori europei in data 17 dicembre 2014[24], reca Norme e principi europei concernenti il pubblico ministero e, nell’associare l’azione del pm alla tutela dei diritti, ne individua la funzione di rappresentanza dell’interesse pubblico (paragrafo 2) quale modo per contribuire al raggiungimento di decisioni giuste da parte delle Corti (par. 16). E ancora di “organo di giustizia”, “promotore dei diritti”, parla il documento finale redatto il 28 maggio 2011 all’esito della riunione della Rete dei procuratori generali delle Corti supreme dell’Unione.

Si tratta di enunciati generali, valevoli tanto per l’area penale quanto per quella civile.

Così, allargando il campo visivo, la complementarietà tra il giudice e il “suo” pubblico ministero quale si registra nello svolgimento della funzione di legittimità finisce per avvicinare il requirente italiano all’omologa figura che opera presso il giudice sovranazionale del Lussemburgo. L’intervento del pubblico ministero nel processo civile di legittimità, si è osservato e si ribadisce, non propone alcun profilo di singolarità nel panorama europeo, tenuto conto dell’omologo compito espletato dagli avvocati generali nel processo davanti alla Corte di giustizia dell’Unione europea, quello di «assistere quest’ultima nell’adempimento della sua missione, che è di garantire il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato», mediante una «”opinione individuale, motivata ed espressa pubblicamente” da “un membro dell’istituzione”» (Cgue, sentenza 8 febbraio 2000, C-17/98, Emesa Sugar). Compito degli avvocati generali, non diversamente da quello del pubblico ministero nel giudizio civile di cassazione, è dunque di «presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità e in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che […] richiedono il [loro] intervento» (art. 252, 2° comma, TFUE)[25].

La esplicita definizione dell’avvocato generale presso la Corte dell’Unione, in termini di componente dell’istituzione nel suo complesso, se trasferita sul piano interno propone in prospettiva spunti di particolare interesse in ordine alla cooperazione organizzativa del processo, alla selezione dei casi, all’attività di gestione dei procedimenti prima della loro trattazione (v. infra).

L’accennato carattere del pm presso la Corte di cassazione, d’altronde, assume contorni ancora più netti nel raffronto con la disciplina che concerne il pubblico ministero civile presso il giudice di merito. Qui, in sintesi, le regole del codice (e la legislazione societaria e concorsuale) declinano una preselezione dei casi di intervento ratione materiae, che individuano sul piano normativo la ragione dell’azione/impugnazione (artt. 69, 72 cpc) o dell’intervento (art. 70 cpc)[26] del pubblico ministero secondo una scala di valori piuttosto variegata, contenuta in disposizioni processuali o sostanziali, il cui comune denominatore è ancora una volta l’interesse pubblico. Il catalogo spazia dalle tematiche delle associazioni, alle tutele e in genere alla protezione dei soggetti deboli, alla materia familiare e delle responsabilità genitoriali, all’ambito fallimentare. Ma appunto, per quello che qui interessa, questa sorta di riserva di attribuzioni e di facoltà processuali “per settori” materiali declina – o dovrebbe – la difficoltà di pensare a una attribuzione minore, per estensione, in sede di giudizio di legittimità: e ciò sia per l’incoerenza sistematica di affidare all’ufficio la cura di quegli interessi solo nell’ambito dei gradi di merito e non dinanzi alla Cassazione, dove maggiore si profila la necessità della elaborazione di principi; sia per evitare possibili contraddizioni, quale quella di negare o rendere facoltativo l’intervento del procuratore generale della Cassazione proprio là dove, nei gradi precedenti, vi sia stata una iniziativa del pm agente, un intervento obbligatorio, così allo stesso tempo tutelando ma poi svalutando la portata dell’interesse sotteso.

In breve: nel processo di merito, ciò che conta è la natura della causa; nella sede di legittimità, è la funzione di uniformazione del diritto.

4. Teoria e prassi. Il confine mobile tra udienza e camera di consiglio

Lo schema appena delineato espone in maniera sintetica ciò che le norme, di ordinamento e del processo, descrivono e implicano, nel lungo periodo che corre tra l’avvento della Costituzione e l’ultimo decennio. Il dover essere. Ma sistema normativo ed esperienza giudiziaria non sempre hanno lo stesso passo, e dunque di questo sfasamento occorre analizzare le ombre.

Innanzitutto, non è disponibile una verifica misurabile dell’apporto che, in detto sistema, è stato offerto dall’Ufficio requirente all’andamento del giudizio di legittimità.

In effetti, non è agevole pesare l’efficacia della funzione cooperativa del pm una volta che essa si esprime, come è nel sistema descritto, fondamentalmente nella pubblica udienza e dunque in forma orale, che non lascia traccia[27]. Con poche eccezioni (ad esempio, nei casi in cui è la stessa decisione della Corte a darne esplicitamente atto, nel corpo della motivazione), le ragioni che sono fatte valere dal pubblico ministero in vista di una determinata conclusione restano confinate nella etichetta della “conformità” o della “difformità” tout court che appare sui motori di ricerca e sulle riviste.

La capacità persuasiva e il contributo di argomentazione che possono essere dati all’interno di una trattazione esclusivamente orale, a loro volta, postulano che sul piano organizzativo e della gestione del processo l’entità numerica dei ricorsi da affrontare e studiare sia contenuta – per il pm – in limiti ragionevoli.

A monte della regolazione processuale, infatti, v’è la evidente asimmetria di composizione strutturale e organizzativa dell’ufficio del giudice – la Cassazione – e di quello del pubblico ministero presso la stessa. L’una, articolata in Sezioni e con competenze predefinite per materia, secondo regole tabellari, e dunque composta da magistrati che acquisiscono conoscenze settoriali, ulteriormente affinate nel tempo dalla formazione di collegi specializzati; l’altro, numericamente assai più ridotto come organico, composto da magistrati ai quali non è normalmente offerta questa possibilità di specializzazione estrema, sia per il rapporto di proporzione tra numero delle cause trattate mensilmente dalla Corte, che non permettono abbinamenti stabili tra requirente e Sezione, sia perché all’Ufficio del pm sono assegnate attribuzioni ulteriori e di rilievo (la materia disciplinare, il coordinamento tra uffici del pubblico ministero ex art. 6 del d.lgs n. 106/2006), che sono affidate ai magistrati accanto e in aggiunta ai compiti di trattazione dell’udienza. Una asimmetria che refluisce nel quotidiano, nella palese diversità tra la distribuzione del carico dell’udienza tra i vari componenti del collegio e la attribuzione dell’intero carico al rappresentante del pm

Questo complessivo divario, che marca una forte differenza di approccio organizzativo rispetto alla medesima trattazione processuale, è solo in parte colmato dai criteri di auto-organizzazione che la Procura generale può adottare, senza incontrare particolari limiti[28], regolando settori di appartenenza e modi e criteri di attribuzione degli affari, al cui interno trovano spazio anche elementi di specializzazione[29].

In ogni caso, stabilire cosa e quanto portare in giudizio è compito della Corte; l’Ufficio requirente non ne dispone[30].

A bilanciare – sul piano esclusivamente funzionale – questa non eliminabile asimmetria (giacché non è ragionevolmente pensabile né auspicabile che l’ufficio requirente rifletta come uno specchio la stessa composizione e l’articolazione del giudice), però, vi è la più larga visuale di cui il requirente può godere nell’osservazione della giurisprudenza e del suo farsi in sede di legittimità. Il carattere più o meno generalista del pm civile, chiamato a concludere motivatamente su una serie ampia e variegata di questioni, gli consente di scorgere i possibili contrasti di indirizzo, tra le Sezioni e perfino all’interno di queste, in ragione della variazione dei collegi, e di proporre soluzioni di coordinamento interpretativo nelle materie che attraversano competenze plurisezionali. Stretto da carichi di studio e di elaborazione quantitativamente gravosi, ma affrancato dalla fase redazionale della decisione, il pm civile è in grado, anche grazie agli strumenti di circolazione informativa interna[31], di proporre di volta in volta argomenti che, conformemente all’idea di fondo che si è detta, mirano alla uniformazione del diritto, alla eliminazione di possibili contraddizioni interpretative che una produzione di giurisprudenza massiva e marcatamente specializzata rischia di determinare; così come può promuovere ripensamenti su temi già esplorati, o essere di impulso per questioni incidentali pregiudiziali, costituzionali o comunitarie.

In una strutturazione del lavoro della Corte che inevitabilmente si orienta verso la settorialità e che, nell’esperienza, affida l’esame più approfondito di ciascuna singola causa a chi ne sia designato come relatore, oltre che al presidente del collegio, la formulazione delle conclusioni motivate del pm può restituire al collegio di legittimità argomenti atti ad avviare una riflessione più estesa e completa sui temi da affrontare.

Tutto questo però esige una pre-condizione, che ha direttamente a che fare con il limite di gestione dei carichi di lavoro e delle pendenze dinanzi al giudice di legittimità. In tanto può dirsi che il contributo alla decisione della Corte rivesta i caratteri di apporto nomofilattico che sopra si sono ricordati, in quanto esso si svolga in un sistema operativamente omogeneo, che definisce un luogo processuale in cui tale dialettica abbia a svolgersi; luogo che è tradizionalmente la pubblica udienza. Ma allora occorre non solo che questa udienza sia singolarmente sostenibile, ma che l’assieme delle udienze corrisponda al flusso di procedimenti che la Corte stessa è chiamata a definire.

Emerge così il vero innesco della deflagrazione quantitativa che, con locuzione corrente e perfino abusata, è stata definita l’“assedio” alla Corte di cassazione[32].

La crisi della Cassazione come effetto del carico, insostenibile, che grava su di essa è un dato a tutti noto, formando da anni oggetto di dibattito e di forte sottolineatura ad opera dei suoi vertici[33]; e non è necessario soffermarsi oltre misura su questo, che costituisce il dato (negativo) di partenza delle considerazioni che seguono. Le molte ragioni che hanno condotto a riversare, oggi, sul giudice di legittimità un numero realmente “impressionante” di processi[34] sono variegate e di diversa natura: legislativa, innanzitutto, come lo spostamento dalla giurisdizione amministrativa verso la Cassazione della massa di controversie sul pubblico impiego privatizzato, o, ancor più, la mole di impugnazioni nel settore tributario, che origina a partire dalla istituzione della apposita sezione (quinta) nel 1999, a seguito della soppressione, tre anni prima, della mal funzionante Commissione tributaria centrale; ma anche di ordinamento costituzionale, con l’intatto e in taluni ambiti (si pensi alle sanzioni amministrative, ai preavvisi di contestazione, agli atti della giurisdizione volontaria) crescente spazio aperto all’impugnazione in cassazione ex art. 111 Cost., senza alcun correttivo di carattere selettivo; e di ordinamento comune, per l’emersione – di certo in sé da salutare con favore – di pretese crescenti, di nuovi diritti, nuovi interessi che reclamano garanzie e giustiziabilità, esigono regolazioni che il legislatore sovente non offre od offre tardi; il tutto nell’ambito di un sistema giuridico multilivello che propone più di un momento di frizione dei dati normativi – sovranazionali, nazionali, regionali – e che si associa a un  corpo sociale frammentato, il quale mostra aggregazioni settoriali intorno ad interessi particolari dei gruppi, a scapito della coesione sociale e perciò con incremento della conflittualità (la cd. litigation explosion). Ai fini del presente scritto è sufficiente constatare queste cause, che conducono all’onda lunga dell’aumento esponenziale del contenzioso, il cui approdo ultimo è il giudice di legittimità.

Impossibilitato a ricondurre a unitarietà le cause anzidette, o ad intervenire dall’alto, sul piano costituzionale, con una regolazione diversa della garanzia del ricorso all’ultima istanza di legittimità, il legislatore opera sugli effetti, o meglio sui modi di gestione dell’effetto-assedio. Lo fa, quindi, attraverso nuove regole di trattazione del processo, aprendo un varco sempre più ampio tra i due modi di definizione della causa, udienza pubblica e camera di consiglio, che dovrebbe corrispondere alla distinzione tra cause “nomofilattiche” e cause semplicemente “litigatorie”.

Si coglie, in questa constatazione, quello che risulterà essere lo snodo centrale del percorso con il quale si è inteso regolare il modo di operare della Corte negli anni più recenti, vale a dire il rapporto di prevalenza tra la sede pubblica e la trattazione camerale: l’una rivolta alla produzione di principi, l’altra alla definizione delle cause che non impegnano in tal senso.

5. Il decennio delle riforme. La crisi della Corte, i rimedi del legislatore

Inizia così la serie di riforme, in particolare dell’ultimo decennio, che mostra una intermittenza di interventi normativi, una sequenza “a docce scozzesi”[35], cui di volta in volta si intrecciano anche nuove disposizioni che inseriscono meccanismi di “filtro” nell’accesso al giudizio e nella sua destinazione all’una o all’altra sede: come il quesito di diritto ex art. 366-bis cpc, poi soppresso; o come l’inammissibilità del ricorso che non offra ragioni di novità rispetto a precedenti stabilizzati (art. 360-bis cpc).

Nell’accennato percorso, la chiave di volta è costituita dall’occupazione di sempre maggiore spazio da parte del processo a trattazione camerale[36]. Un rapido excursus,con le lenti del pm, è necessario.

Il primo passo è dato dalla legge cd. Pinto, n. 89/2001, mossa dall’esigenza di corrispondere ai dettami della Cedu e con la prospettiva di accelerazione complessiva della risposta giudiziaria, in coincidenza con l’introduzione dei noti rimedi indennitari per l’eccessiva durata dei processi e sulla scia del novellato art. 111 Cost. (legge cost. n. 2/1999). Quella legge riforma l’art. 375 cpc, fino ad allora di limitata applicazione, introducendovi lo strumento di definizione dei ricorsi che risultino “manifestamente” fondati o infondati. Si tratta di un modulo procedurale che si rivelerà tutt’altro che efficace e snello[37]. Il pubblico ministero, in questo rito, formula inizialmente conclusioni scritte, a ciò peraltro sollecitato da una indicazione della stessa Corte che indirizza la causa verso la camera di consiglio[38]; quindi, interverrà nuovamente – e generalmente in persona di altro magistrato – nella successiva camera di consiglio, nella quale il ricorso verrà definito oppure dirottato verso la pubblica udienza, se non risulti a definizione “manifesta”.

Le cose non migliorano, dal punto di vista dell’efficienza complessiva e in particolare dal punto di vista del contributo del pm civile, con l’istituzione della cd. Struttura unificata, istituita in via di auto-organizzazione[39], che sarà successivamente codificata e regolata con la legge n. 69/2009 come “apposita sezione” ex art. 376 cpc (la sesta sezione civile), quella cioè preposta alla trattazione delle cause da definire secondo lo schema della soluzione spedita e ad esito evidente, “manifesto”, a norma dell’art. 375. Qui, in breve, con l’inserimento, nel 2006 (d.lgs n. 40/2006), dello schema di opinamento o di progetto di decisione che si intravvede nella relazione stesa dal relatore della causa, secondo l’art. 380-bis, se si assiste di certo a una più puntuale selezione dei ricorsi, per la migliore strutturazione e specializzazione della sezione-filtro, dal lato del pm si perviene a una inversione di marcia che ne rende visibile l’appesantimento; se infatti in precedenza le conclusioni per la spedizione verso l’esito camerale erano, almeno processualmente, frutto di una valutazione del pm, ora questi si trova semplicemente a interloquire sulla relazione, dunque sulla proposta di soluzione del caso, in adunanze camerali nelle quali sono fissate svariate decine di cause, per dare risposta all’esigenza di smaltimento del carico che sempre grava sulla Corte. Se si analizza la serie statistica delle cause in camera di consiglio (circa 15.000 cause nel 2007, dato aggregato dei vecchi ricorsi e dei nuovi ex art. 380-bis; 4.500 vecchi e altrettanti nuovi nel 2008; poi, dal 2009, solo ricorsi di nuovo rito: 8500, nel 2009; 10.500, nel 2010; 9.000, nel 2011; 7.000, nel 2012[40]) e se si rileva che a fronte di questa massa d’urto, che ricade su una componente di magistrati del servizio civile che oscilla mediamente intorno alle 25 unità in organico effettivo, vengono proposte entità statisticamente insignificanti (qualche decina, in tutto) di deduzioni dissenzienti rispetto alla proposta del relatore, è facile ricavarne la constatazione della complessiva inutilità della presenza del pubblico ministero per quanto concerne questo ambito processuale.

Inutilità che infatti viene certificata nel 2013, con la riforma, recata dal Dl n. 69/2013, convertito dalla legge n. 98/2013, che modifica contestualmente gli artt. 380-bis cpc e 76 dell’ordinamento giudiziario, introducendo in quest’ultimo il primo strappo alla generalizzata prescrizione dell’intervento del pm in cassazione, ora soppresso per le cause che vengono trattate dalla sezione «di cui all’art. 376, primo comma, primo periodo» cpc, ossia la sezione sesta. È una modifica non irragionevole, tutt’altro, alla luce dei dati numerici sopra riportati. E tuttavia essa, codificando la possibilità che il pubblico ministero sia estromesso da “quote” di giurisdizione di legittimità, avvia, più o meno consapevolmente, un percorso critico che condurrà alla attuale crisi di identità del ruolo del pm in cassazione.

Da un lato, va ricordato che, con forzatura interpretativa del dato normativo, oggi abbandonata, presso la sesta sezione civile era invalsa per via di prassi una trattazione mista, non limitata all’adunanza camerale ma estesa all’udienza pubblica; una sorta di udienza “minore”, nella quale venivano definite controversie, per così dire, “meno manifestamente” infondate o fondate ma la cui effettiva funzione trovava in realtà origine nella consapevolezza che il rito incentrato sulla relazione costituiva un appesantimento per l’operato dei giudici, costretti, in quella sequenza, alla stesura della relazione, poi alla proposizione in collegio della stessa alla luce delle osservazioni e deduzioni delle parti private e del pm ed infine tenuto alla redazione del documento-sentenza[41]: il che dimostrava nell’esperienza concreta ciò che dovrebbe risultare evidente e cioè che non è la trattazione camerale, di per sé sola, a poter fornire un apporto fondamentale alla sollecitudine del giudizio e all’obiettivo della riduzione progressiva dell’arretrato.

Dall’altro, il favor legislativo per la cameralizzazione del rito civile[42] è parte di un tutto: esso si muove in parallelo non solo con la rivisitazione dei meccanismi di filtro in appello (artt. 348-bis e 348-ter cpc), ma altresì con ulteriori modifiche, man mano intervenute nel periodo 2009-2013, tutte orientate verso il dichiarato obiettivo di una risposta il più possibile “economica” alla domanda di giustizia: come la valorizzazione della sintesi descrittiva ed argomentativa del testo-sentenza (art. 132, n. 4, cpc, dove ora vi è il riferimento alla “concisa” esposizione in fatto e diritto della decisione, e art. 118 disp. att. cpc, che pone la regola di una “succinta” esposizione dei fatti e delle regioni giuridiche della pronuncia), ulteriormente svolta, presso la Cassazione, da integrazioni sub-normative e di autoregolazione, come il decreto della prima presidenza della Corte n. 27 del 22 marzo 2011 sulla motivazione semplificata dei provvedimenti civili[43] e come la nota al Cnf dello stesso organo di vertice della Corte in data 17 giugno 2013 sui limiti quantitativi degli atti processuali; o come la riforma dell’art. 360, n. 5), cpc, a opera della legge n. 134/2o12, con il ritorno alla formulazione originaria del codice di rito e relativa riduzione al cd. minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione del merito; o ancora come la preferibile opzione per la forma dell’ordinanza, in tutti i casi in cui non venga in rilievo un profilo di principio ma solo la soluzione e conclusione della controversia; o, infine, come la prescrizione che, rafforzando la forza del precedente di legittimità, indirizza i ricorsi che intendano contraddirlo (senza una pari contro-forza) nel vicolo cieco dell’inammissibilità.

Ai fini dell’analisi che qui si propone, si può compendiare il reticolo di riforme – e di autoriforme[44] – sul processo civile di cassazione finora richiamate nel segno dell’abbandono complessivo della scelta per il mododi proposizione dell’impugnazione, ossia per la tecnica di redazione dell’atto (come predicava il quesito di diritto dell’art. 366-bis), a favore della scelta per una deflazione che guarda al modo di decisione e al rito che vi è associato, in ragione della valutazione del contenuto dell’impugnazione.

Fin qui, i caratteri propri del senso dell’intervento del pubblico ministero non sembrano subire una mutazione radicale. Sgravato dalla partecipazione a una sede decisoria, presso la sesta sezione, che è o dovrebbe essere sempre connotata da un valore intrinseco di segno negativo delle cause ivi trattate, ossia il non avere rilevanza in termini di principio nomofilattico[45], l’Ufficio della Procura generale civile – anzi – può convogliare il proprio impegno verso le cause che, superando gli ostacoli indicati (il filtro ex art. 360-bis cpc), meritano la definizione in pubblica udienza (con sentenza). Il taglio di una quota numericamente elevata ma qualitativamente recessiva non comporta la necessità di ripensamenti nel modo di operare del requirente, e al contempo può armonizzare la cifra quantitativa del contenzioso da affrontare con l’immutato, limitato organico dell’Ufficio stesso[46], a fronte degli incrementi di quello della Corte.

Le linee portanti della funzione cooperativa svolta dal pm più sopra sintetizzate, dunque, fin qui valgono ancora.

Non va dimenticato, a completamento, che durante tutto il percorso legislativo e applicativo finora indicato restano altresì ferme le modalità di redazione delle requisitorie scritte nell’ambito dei giudizi per regolamento di competenza e, soprattutto, di giurisdizione, che sono disciplinati da un modulo processuale relativamente stabilizzato (art. 380-ter cpc) e che costituiscono una porzione di minore peso quantitativo – ancorché spesso di spiccata complessità – nell’attività dell’Ufficio[47]

6. La “cameralizzazione” come regola. La mutata identità del procuratore generale nel rito civile di cassazione

È la riforma del 2016 (Dl n. 168/2016, conv. dalla legge n. 197/2016) a imporre una riflessione del tutto diversa, perché la linea di complessiva continuità che si è detta, appena scalfita dalla abolizione dell’intervento nelle cause da definire presso la sesta sezione[48], si spezza, fornendo un panorama inedito.

Attraverso una impostazione che recepisce in parte spunti sistemici del processo penale, come nella inversione dell’ordine della discussione in pubblica udienza, in cui ormai il pm parla per primo anche nel processo civile[49], il mutamento strutturale portato dalla riforma del 2016 è chiaro: esso rovescia il rapporto regola-eccezione tra l’udienza e la camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice, e fa di quest’ultima il luogo ordinario di gestione del contenzioso di legittimità. In questo luogo, già prima fortemente de-strutturato con le varie innovazioni riduttive, ossia per sottrazione, che sono state elencate (meno argomentazione, dunque meno spiegazione; assenza di oralità), il pm civile di cassazione diviene un soggetto a intervento variabile. La camera di consiglio non è “partecipata”, e il procuratore generale, così come le parti in causa, può interloquire se e quando lo ritenga, ma esclusivamente in forma scritta, nel rispetto dei termini indicati nell’art. 380-bis.1 cpc di nuovo conio.

Si profila un triplice[50] livello, per così dire ad impegno crescente; (a) la – invariata – area dei ricorsi destinati allo smaltimento dinanzi alla sesta sezione, dove, dal 2013, il pubblico ministero è assente, in cui peraltro la novella aggiunge un aspetto di “avviso” ai difensori del presumibile esito del giudizio; (b) la fascia dei giudizi a trattazione camerale, ora modalità ordinaria del giudizio, in cui il pubblico ministero è messo in condizione di concludere se lo ritenga, con una impostazione che pare echeggiare l’avviso che è dato al pm del merito affinché “possa” intervenire, non perché intervenga (art. 71 cpc); e (c) la fascia “alta”, l’udienza pubblica, destinata a definire i giudizi che meritino il perpetuarsi della forma rappresentativa del contraddittorio orale in quanto essi presentano un coefficiente nomofilattico di un certo livello, che viene espresso dalla formula legislativa della “particolare rilevanza della questione di diritto” (nuovo art. 375, ult. comma, cpc); per questi giudizi permane, in una dimensione che mira a essere quantitativamente assai ridotta, il doveroso intervento del procuratore generale, il quale continua ad essere regolato dall’immutato art. 76 ord. giud., giacché il legislatore della riforma, cameralizzando il rito, istituisce l’accesso in modalità facoltativa del pm attraverso la sola disposizione processuale dell’art. 380-bis.1, in virtù della previsione generale dello stesso art. 76 secondo cui il “dovere” di intervenire è ascritto pur sempre alla forma dell’udienza, sia essa dinanzi alle Sezioni unite o alle Sezioni semplici[51].

La modifica in discorso appare costituire una svolta, nella definizione del ruolo del Procuratore generale in materia civile, ed impone una riconsiderazione complessiva della funzione ch’esso è chiamato svolgere.

7. Alla ricerca del significato della funzione requirente civile nel quadro delle attribuzioni della Procura generale

La riforma del 2016 propone più d’uno spunto di analisi, dal punto di vista della coerenza complessiva del – o meglio, dei – riti che ne conseguono. Imperniata sul leit-motiv ormai costante della velocizzazione e della semplificazione, in funzione della riduzione del contenzioso e dunque dell’arretrato insostenibile[52], la nuova disciplina è oggetto di considerazioni tutt’altro che uniformi, a seconda dell’accento che si intenda porre sulla regolazione nei suoi diversi aspetti e soprattutto sulla sua validità rispetto al fine che ha di mira[53].

Non è scopo di questo scritto svolgere un esame analitico della riforma, e neppure di evidenziarne gli aspetti problematici di interpretazione di alcune formule incomplete o la presumibile proiezione futura, quale ad esempio quella della verifica circa la razionalità di un duplice procedimento camerale, a gradazione differenziata di complessità decisoria, tra sesta sezione e sezione semplice della Corte. La discussione teorica intorno alla bontà della novella processuale è ampia e variegata, e non può che rinviarsi a essa[54]; come soltanto la sperimentazione sul campo per un tempo adeguato potrà attestare la riuscita del progetto deflattivo. Non senza notare tuttavia che il soggetto maggiormente interessato a tale progetto, cioè la stessa Corte, ne fornisce un apprezzamento di segno positivo, come si trae dalla Relazione del primo Presidente della Cassazione in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario 2018, in cui si dà atto che “si è rivelata proficua l’applicazione del nuovo rito civile di cassazione introdotto dal d.l. n. 168/2016 conv. dalla legge n. 197/2016. Il più snello procedimento decisorio della camera di consiglio e l’adozione più diffusa delle modalità di stesura semplificata dei provvedimenti, l’applicazione dei magistrati del massimario alle Sezioni ordinarie e la pressoché totale copertura dell’organico del personale di magistratura hanno consentito di assorbire un leggero aumento dei nuovi ricorsi … e di aumentare di non poco il numero di quelli eliminati (27.372 nel 2016, 30.338 nel 2017, con un incremento del 15,60%)”[55].

E neppure ci si sofferma qui sull’equilibrio di difficile misurazione tra ragioni pratiche e garanzie, ossia sulla bontà metodologica dell’accettazione di un “riduzionismo” dei principi (contradditorio, oralità, immediatezza, collegialità effettiva) in nome della finalità lato sensu economica o di smaltimento che anima la riforma, al pari di quelle che la precedono[56].

Si deve, invece, muovere dal dato normativo per ipotizzare quelli che possono essere gli scenari, immediati e del futuro, per la figura e per l’attività del pm nel rito civile di legittimità.

Se ne trae l’immagine di un pubblico ministero double face:

  1. da un lato v’è un pm civile impegnato, come in precedenza, nello studio e nella trattazione di procedimenti che assumono portata di principio e che, definiti in una udienza pubblica che dovrebbe risultare omogenea nel peso dei ricorsi, lo portano a formulare delle conclusioni motivate nelle quali il tasso di approfondimento, proprio per la avvenuta selezione a monte della rilevanza nomofilattica, dovrebbe incrementarsi. Si inserisce in questo quadro una possibilità concreta, da tempo esternata dall’Ufficio in più sedi, che metta il requirente in condizione di esprimere quelle conclusioni in un documento scritto, da versare agli atti del giudizio e tale da poter essere inserito negli archivi di ricerca giuridica, primo fra tutti il sistema Italgiure, e per tale via offerto al circuito della discussione giuridica[57], con l’avvocatura e la dottrina. In questa “faccia”, il pm come organo cooperativo alla funzione propria del giudice di legittimità vedrebbe accentuare l’avvicinamento alle figure degli Avvocati generali delle Corti sovranazionali;
  2. dall’altro, però, vi è un pm che potremmo dire disorientato nella ricerca di plausibili criteri che giustifichino, o impongano, il suo intervento là dove esso non è più obbligatorio. A fronte di una scelta selettiva pre-operata dalla Sezione semplice – id est dal suo presidente titolare, in cooperazione ovviamente con l’Ufficio spoglio istituito presso ciascuna sezione della Corte – che etichetta i ricorsi a trattazione camerale non partecipata come privi di quella “particolare rilevanza della questione di diritto” che costituisce il canone di selezione posto dalla normativa, stabilire autonomamente per il pubblico ministero  dove e come interloquire, nella forma scritta delineata dall’art. 380-bis.1 cpc, si pone come scelta disagevole, al limite della discrezionalità non controllabile o dell’arbitrio soggettivo.

Questo secondo terreno della funzione del pm di legittimità induce una sorta di horror vacui.

Già il discrimine proposto dalla disposizione processuale dell’art. 375 attuale mostra una intrinseca doppiezza[58], giacché annette il canone della rilevanza della questione di diritto a una contestuale valutazione di “opportunità”, il che potrebbe far pensare che quel canone sia necessario ma non sufficiente per indirizzare il ricorso verso la trattazione in pubblica udienza. Potrà darsi una trattazione in camera di consiglio anche di questioni di rilievo giuridico, in quanto si consideri – e da chi? – inopportuna la sede decisoria più garantita?

In realtà, la riforma mostra, sul punto, il carattere di una legge volutamente “imperfetta”, che asseconda una idea che si potrebbe definire di delegificazione processuale: impostata una determinata struttura essenziale del rito, nei passaggi che non possono non essere posti a livello primario, si affida alla regolazione negoziata – con i Protocolli di intesa – e alla prassi e all’applicazione la formazione delle regole che debbono colmare gli spazi lasciati aperti dalla legge. Si tratta di un modello che, dal punto di vista della elasticità, offre indubbiamente il vantaggio di adattare la forma del processo alle esigenze variabili dell’istituzione; il rovescio negativo di questa impostazione risiede ovviamente nel margine di maggiore ambiguità o incertezza che si annida sempre in norme che esigono, per essere applicate, una qualche etero-integrazione.

Così, per quanto riguarda la cameralizzazione del 2016, non può dirsi ancora adeguatamente esplicitato il punto cruciale del criterio, o dei criteri,di determinazione di cosa merita la trattazione in udienza e cosa no e, per il pm, di cosa merita la conclusione scritta nell’adunanza e cosa no. L’esperienza di applicazione del rito nel corso del 2017 ne dà conferma: si è manifestato un andamento eterogeneo, differenziato tra le diverse sezioni, quanto a carichi rispettivi nelle due sedi e soprattutto quanto a peso specifico delle controversie, ciò che è anche frutto delle ineliminabili varianti dei casi e dei settori giuridici (diversità di materia; esistenza o inesistenza di filoni di copertura nella giurisprudenza; livello economico della lite; implicazioni sociali e così via).

La stagione dei Protocolli di intesa, avviata da alcuni anni[59], sembra estendere la propria rete regolatrice, da questioni organizzative a moduli processuali, sebbene non presidiati da alcuna garanzia. Il protocollo di intesa del 17 novembre 2016 tra la Cassazione e la Procura generale sull’applicazione del nuovo rito civile[60], stipulato all’indomani della riforma, contiene alcune prescrizioni operative che riguardano in particolare la programmazione del calendario delle adunanze e delle udienze pubbliche, su proiezione semestrale, nonché i tempi di trasmissione dei procedimenti, per dare modo all’Ufficio di operare la scelta circa la formulazione di conclusioni scritte.

Ma resta intatto, per il pm di legittimità, il problema di fondo: quando svolgere l’intervento?, sulla base di quali premesse? è una domanda centrale nel futuro dell’Ufficio, anche tenuto conto dell’entità crescente del carico della sede camerale.

Nel primo anno effettivo di applicazione della riforma, il 2017, la Corte di cassazione ha definito 8.166 procedimenti in udienza pubblica e 22.838 procedimenti in adunanza camerale (ordinaria e di sesta sezione). Il rapporto circa di 1:3 inverte nettamente quello degli anni precedenti (19.159 in udienza e 8.855 in sede camerale nel 2016; 19.572 e 5.794 nel 2015; 20.616 e 7.149 nel 2014)[61]. Sempre nel 2017, nell’ambito dei procedimenti trattati con il rito camerale previsto dalla riforma del 2016, sui 12.401 ricorsi pervenuti, la Procura generale ha formulato conclusioni scritte in 2.263 procedimenti, con una percentuale del 18,24%, pari a circa un quinto del totale[62].

Se questo rapporto di crescita del ricorso alla sede della camera di consiglio verrà ulteriormente accentuato, una quota di impegno maggiore andrà a cadere sui magistrati assegnati al servizio civile, i quali secondo i vigenti Criteri organizzativi compongono un organico di 28 unità (di fatto mai pienamente ricoperto). Nell’estremo teorico della formulazione di conclusioni scritte per tutte le cause di adunanza camerale, a pieno organico, ciascun magistrato dovrebbe concludere in circa 450 procedimenti per anno, oltre alla partecipazione e conclusione nelle udienze pubbliche, e oltre allo svolgimento degli ulteriori compiti che derivano dalle attribuzioni dell’Ufficio, in ambito disciplinare, di vigilanza, internazionale.

In realtà non è tanto una questione di numeri, quanto di contenuti.

Svolgendo per via di auto-regolazione interna la scarna indicazione legislativa dell’’art. 375, i Criteri organizzativi dell’Ufficio indirizzano verso forme elastiche di coordinamento interno e di tendenziale uniformazione delle scelte sul se e quando optare per la conclusione nel processo camerale, sul presupposto della aggregazione dei magistrati dell’ufficio in gruppi sezionali, secondo le specializzazioni dei singoli[63].

Di qui, l’elaborazione di linee-guida di orientamento, adottate con un provvedimento degli avvocati generali del 16 gennaio 2017, nel quale sono tracciate alcune direttrici di massima per la formulazione delle conclusioni. Si tratta di indicazioni eterogenee, in parte correlate al possibile esito decisorio, in parte alla materia trattata, in altra parte ancora focalizzate sul fatto storico oggetto della causa[64]. Indicazioni empiriche, quindi, problematicamente misurabili secondo la sensibilità individuale.

Pur offrendo strumenti piuttosto semplici di orientamento, non sembra che esse possano aspirare a una stabilizzazione tale da consentire la risposta alla domanda di fondo, cioè quale sia oggi in questo scenario il ruolo del pubblico ministero di legittimità. Corrispondente alla domanda: a cosa serve la Procura generale della cassazione (nel settore civile)?

8. Un ritorno al futuro?

Come annotato acutamente da uno studioso del processo «la figura del giudice si colloca fuori del tempo e dello spazio e attraversa tutta la storia delle relazioni umane. Diversamente la funzione del pubblico ministero attiene alla maniera concreta con cui è organizzata l’amministrazione della giustizia, egli non è un organo necessario e la sua attività è variabile da luogo a luogo»[65].

L’itinerario intrapreso dal legislatore degli ultimi anni per ciò che attiene alle funzioni del pubblico ministero nel giudizio civile di cassazione non solo conferma questa idea ma sembra indirizzare l’ambito della scelta legislativa verso una operazione di sottrazione crescente, il cui punto di arresto è intravisto da alcuni perfino nella definitiva fuoriuscita della figura del pm dalla scena della legittimità[66].

Sembrano oggi riprendere quota alcune considerazioni, pragmatiche, espresse agli albori dell’assedio quantitativo dei ricorsi, circa la sostanziale superfluità o comunque la diseconomicità della funzione del pubblico ministero[67].

Senza indulgere a proposizioni nichiliste, è tuttavia indubbio che il ruolo del pm, in un assetto processuale a doppio binario quale è quello odierno, ha necessità di riconsiderare modi e ambiti della propria attività; la quale non potrebbe né risolversi in una soluzione di carattere burocratico (intervenire purchessia, sempre e comunque, nelle adunanze), che avrebbe una esclusiva e miope finalità di auto-conservazione, del tutto inidonea a svolgere una funzione cooperativa effettiva e a tutelare gli interessi pubblici; né di contro restringersi a un minimo assoluto, limitando la presenza alla sola udienza pubblica e trascurando in toto la numericamente maggiore quantità di procedimenti solo perché avviati al rito camerale, in tal modo abdicando alla possibilità di offrire il punto di vista “altro” che, specie in una (de)strutturazione del processo che valorizza oltre modo la sola conoscenza monocratica della causa, sembra costituire pur sempre una delle ragioni di fondo della figura. Una scelta auto-riduttiva di questo genere avallerebbe le ipotesi estintive che si sono ricordate.

Non è agevole definire quale sia la risposta efficace e in quale modo essa debba esprimersi, con quale strumento normativo e organizzativo.

Tuttavia, in assenza di indicatori di livello primario, è proprio questa la posta in gioco: la capacità di auto-regolazione della Procura generale in vista della formazione di un indirizzo operativo plausibile e razionale. Se in linea teorica l’intervento necessario del pubblico ministero in un processo di parti si giustifica differentemente, a seconda che il giudizio di cassazione sia letto principalmente quale strumento di soluzione del singolo conflitto ovvero sia trasferito sulla finalità di enunciare proposizioni generali[68], secondo una duplice conformazione che evoca la nota distinzione tra regole e principi, appare forse inevitabile recuperare le indicazioni che vengono fornite dallo stesso ordinamento, facendone i canoni di preselezione – per principi, appunto – che sottendono un interesse pubblico e generale da portare all’esame del giudice di legittimità.

Su questa base concettuale è forse possibile tracciare dal sistema e dall’esperienza pratica del processo quelle che sono le linee di indirizzo suscettibili di ricondurre a unitarietà e coerenza la presenza del pm civile dinanzi alla Corte di cassazione, e a giustificarne l’intervento in un giudizio nel quale egli non è parte in senso proprio:

(a) La funzione requirente nel settore del processo civile esprime una quota della più ampia serie di attribuzioni facenti capo alla Procura generale. Dove si consideri che, in modo diretto o mediato, anche le ulteriori attribuzioni in discorso – la competenza disciplinare, a tutela del rispetto della deontologia professionale; i compiti di coordinamento sottesi all’art. 6 del d.lgs n. 106/2006 sul pubblico ministero, univocamente rivolti alla correttezza  e uniformità di esercizio dell’iniziativa penale; la vigilanza sulla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo; e soprattutto la stessa proposizione di istanze “nell’interesse della legge” ex art. 363 cpc[69] – autorizzano l’individuazione di un filo rosso che tutte le lega e che è costituito dall’obiettivo di garanzia della uniformità, intesa non come conformazione dall’alto ma come costante verifica del rispetto dell’uguaglianza; se tutto ciò vale, la prima indicazione di metodo che può trarsene è quella della necessità/doverosità, per questo che è un interesse generale, di intervento nel processo quando si prospettino elementi di distonia, contrasti giurisprudenziali latenti o espliciti, oscillazioni di indirizzo. L’obiettivo fondamentale, su questo versante, è la chiarezza/prevedibilità del diritto. La semplificazione, lo snellimento motivazionale, l’accelerazione processuale, possono rivelarsi fattori di incremento del rischio di contraddizioni, di soluzioni non sempre coerenti tra loro, dentro e fuori della sezione di riferimento.

Questo primo criterio, trasversale alle materie e alle questioni portate nel processo, si propone in termini di salvaguardia della unità del diritto oggettivo, declinato dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario. Tra il naturale e benefico dinamismo della giurisprudenza e l’emergere di conflitti e contrasti vi è una evidente differenza di grado, e l’osservatorio più ampio di cui fruisce la Procura generale grazie alla sua struttura non settoriale consente un intervento di questo genere.

Se la giustizia di ultima istanza non si rivolge – o non dovrebbe – all’accertamento del fatto ma guarda al valore della uniformità dell’interpretazione del diritto, che a ben vedere è la ragione prima della proposizione costituzionale di garanzia della ricorribilità per violazione di legge ex art. 111, comma settimo, Cost., la validità di ogni strada interpretativa o ricostruttiva del sistema normativo e di ordinamento dovrebbe essere considerata rispetto alle conseguenze che ne dipendono[70] e pertanto questa funzione di prevenzione o soluzione dei contrasti, cui la Procura generale è in grado di offrire il proprio apporto, sembra perfino essere la condizione di base del compito nomofilattico. L’incremento di decisioni non coordinate, sulle norme sostanziali e perfino su quelle processuali, alimenta circolarmente lo stesso contenzioso di legittimità.    

(b) Un secondo canone dovrebbe poi guardare all’oggetto del giudizio, agli interessi che vi sono implicati.

Su detto versante, lo spazio vuoto (di indicazioni) lasciato dal legislatore del 2016 potrebbe essere colmato in via operativa – sia essa trasfusa in Protocolli d’intesa con il giudice, o semplicemente autodeterminata – mutuando gli indici legislativi di riconoscimento della “naturale” inerenza di detti interessi alla prospettiva della tutela di posizioni che eccedono la portata della singola lite: o perché interferiscono con delicati ambiti di regolazione della società civile , come ad esempio  nel diritto delle relazioni familiari; o perché  spesso implicano ricadute collettive e non solo “a due” parti della definizione giudiziale della controversia, come ad esempio per le procedure fallimentari in genere, per la materia del lavoro e della previdenza sociale,  per il diritto societario; o perché pongono temi che intersecano questioni di rilievo sovranazionale – penso alla disarticolata vicenda del ne bis in idem tra sanzioni amministrative e sanzioni penali, nei giudizi di opposizione a sanzioni del primo tipo e in particolare emanate dalle authorities; o perché si collocano nell’area di protezione di posizioni “deboli” – le incapacità, le garanzie del consumatore; o perché attengono a materia che ex se sottende un interesse della cosa pubblica, come nel diritto tributario[71], dove l’intervento della parte pubblica potrebbe valere anche a rappresentare aspetti ed argomenti che non sempre,  proprio per l’entità abnorme del contenzioso i di legittimità, la difesa erariale può dare.

Una selezione per materie potrebbe dunque essere effettuata in via preventiva, in linee-guida, eventualmente con clausole di salvaguardia “in negativo” (ad es., questioni già ampiamente esplorate dalla giurisprudenza; rilievo economico irrisorio), traendo spunto dalle indicazioni offerte in nuce dall’art. 70 cpc e dai caratteri intrinseci delle discipline[72].

È interessante, in una disamina di più ampia visuale temporale, la saldatura che, sotto questo profilo, si può riscontrare tra l’oggi e il passato. In un documento inedito dei primi anni ’90 redatto dal magistrato della procura generale Fabrizio Amirante[73], destinato a un progetto di legge ma poi non esitato, non solo era valorizzata la funzione di “consulenza” offerta dal pm alla Corte ma, proprio traendo spunto dal carico già allora imponente del contenzioso di legittimità e dalla connessa contrazione del tempo utile per ciascun magistrato per affrontare lo studio dei ricorsi in maniera adeguata, venivano indicate soluzioni anticipatorie di quelle emerse nel successivo dibattito: da quelle “endoprocessuali” (come la preferenza per la requisitoria scritta, nei casi che lo richiedono; o come la partecipazione plurima di magistrati dell’Ufficio requirente nelle udienze dinanzi alle Sezioni unite, ciò che è stato messo in opera da tempo presso l’Ufficio) a quelle a monte dell’attività, come la selezione in relazione alla necessità di dirimere incertezze interpretative ovvero in rapporto all’interesse pubblico delle controversie, vuoi predefinito ex art. 70 cpc vuoi ravvisato di volta in volta secondo scelte di natura discrezionale; tutto ciò al fine, allora come ora preminente, di offrire un apporto che sia non solo sostenibile in termini di impegno ma specialmente sia degno di questo nome, dinanzi al vertice giudiziario.

Niente di nuovo, dunque?

Riterrei di no, e non solo per eludere la condanna alla “vanità” delle fatiche umane del passo dell’Ecclesiaste.

Sembra possibile immaginare – come suole dirsi: a Costituzione invariata – di apprestare già nell’immediato strumenti diversi, che, focalizzando l’attenzione sul momento che precede il giudizio, con la determinazione del peso e dei profili di diritto implicati dalla singola causa e il conseguente invio verso una delle possibili sedi procedurali di trattazione, attraverso la verifica prima di ammissibilità/rilevanza nomofilattica, ripristinino quella cooperazione che si è sopra detta soprattutto sul piano organizzativo, dello spoglio dei procedimenti e della loro classificazione.

Si propone, dunque, una inedita possibilità realmente cooperativa da parte della Procura generale e non solo sul piano della dialettica in corso di giudizio, sia essa scritta o verbale. Una selezione preventiva stringente dei ricorsi “meritevoli” della pubblica udienza o invece destinati alla definizione camerale, svolta in forma concordata – anche qui, attraverso la posizione di una base regolativa sufficientemente definita, come lo strumento negoziato del Protocollo di intesa – permetterebbe l’interlocuzione del pubblico ministero in occasione della formazione dei ruoli; e, come suggerito di recente[74], un luogo di svolgimento di questa collaborazione a monte potrebbe trovare sede nell’ambito della applicazione della normativa sui programmi di gestione dei procedimenti civili, ex art. 37 del Dl n. 98/2011, conv. dalla legge n. 111/2011.

Una impostazione, questa, che solo formalmente e per approssimazione è accostabile al ritorno a uno schema già sotteso dalla disciplina dell’art. 137 disp. att. cpc, secondo il quale il cancelliere trasmette(va) “subito” al pubblico ministero una copia del ricorso e del controricorso, norma questa che nella disciplina preesistente costituiva il pendant della più sopra ricordata redazione delle conclusioni in calce al ricorso stabilita dal successivo art. 138 delle medesime disposizioni attuative e inoltre si collegava alla “assistenza” del pm nella camera di consiglio[75] stabilita dal successivo art. 138 delle medesime disposizioni attuative, il che assegnava al pubblico ministero, comunque, un ruolo compartecipe nella fase dell’esame preliminare dei ricorsi[76].

Una impostazione, invece, che, pur traendo spunto da quelle premesse remote, ne innovi fortemente il senso, utilizzando la libertà di determinazione integrativa accordata dalla rete di disposizioni processuali della riforma del 2016 e lo spazio di regolazione ch’esse sembrano non solo autorizzare ma incentivare; e ciò senza interferenze sul modo di conduzione e interlocuzione tra giudice, pm e parti private, nel processo civile di cassazione (ciò che potrebbe fornire dubbi di eccedenza delle regole secondarie rispetto alla legalità del processo), bensì prima che quest’ultimo sia avviato a trattazione.

Il mantra della semplificazione, dello snellimento, dello smaltimento del carico insostenibile, può avere uno sfogo, nella concordia operativa tra la Cassazione e il pm presso di essa; e dà conforto e concretezza a questa idea, di non difficile realizzazione, l’ipotesi perfino più avanzata suggerita, in questa stessa chiave finalistica, da A. Proto Pisani, che prospetta l’affidamento ai magistrati della Procura generale assegnati al servizio civile – previo loro aumento di organico – del compito di selezione preliminare dei ricorsi i quali, proprio nella dimensione della “opportunità” nomofilattica definita dal nuovo testo dell’art. 375 cpc, risultino “di interesse generale”, anche nel senso della eventualità di mutamenti di indirizzo o di ripensamenti su precedenti orientamenti del giudice di legittimità[77].

Un (apparente) ritorno a ciò che è stato per (cercare di) mutare il corso, dunque, e di ridefinire il volto e il ruolo della Procura generale della Corte di cassazione.

[1] Esorbita dal presente scritto la materia penale, che è oggetto di diversi contributi che appaiono su questo stesso numero. Sul pubblico ministero nell’ordinamento giudiziario e nel processo civile, in generale, A. Allorio, Il pubblico ministero nel nuovo processo civile, Riv. dir. proc. civ., 1941, p. 212; M. Vellani, Pubblico ministero in diritto processuale civile, Digesto – Sezione civile, Utet, Torino, 1997.

[2] Nel senso, si intende, che oggi assume questo attributo: funzionale, non di carattere gerarchico. L’ultima istanza, non quella che comanda.

[3] Derivata dall’impostazione francese, quale originata dal modello napoleonico poi rielaborato con la Restaurazione.

[4] Non è qui possibile se non questo rapido cenno alle origini della figura di un pm collocato all’interno di una magistratura disegnata dalle leggi di ordinamento, fortemente gerarchizzata, imperniata su uno schema di dipendenza dal Ministro della giustizia e culturalmente e socialmente legata al ceto politico, in particolare nella sua componente “alta”. Per un ampio quadro panoramico di particolare interesse al riguardo, anche per i profili del reclutamento e delle varie forme di condizionamento sul piano del percorso professionale, v. A. Meniconi, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna 2012. V. anche P. Marovelli, L’indipendenza e l’autonomia della magistratura dal 1848 al 1923, Milano, Giuffrè, 1967.

[5] In Francia, con il meccanismo del référé legislatif.

[6] Anche qui non può farsi più di un accenno. Oltre al testo di A. Meniconi, ult. cit., v. G. Neppi Modona, La magistratura e il fascismo, in Fascismo e società italiana, Torino, Einaudi, 1973; e il quadro generale offerto in Storia d’Italia. Annali 14, Legge Diritto Giustizia, a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 1998.

Emblematica la vicenda della “epurazione” del presidente della Corte, Lodovico Mortara, e del procuratore generale presso la Corte, Raffaele De Notaristefani, in concomitanza con l’unificazione delle Corti di cassazione in quella di Roma, nel 1923.

[7] Mentre la disposizione che predica la vigilanza del Ministro, art. 69, cede di fronte all’indipendenza dal potere politico, garantita da riserva di legge nella Costituzione (art. 108, secondo comma, Cost.).

[8] Dapprima con la sentenza n. 27/1972 della Corte costituzionale, relativa alle deliberazioni in sede giurisdizionale del Consiglio nazionale forense; poi con la sentenza n. 2/1974 della stessa Corte, limitatamente alla presenza del procuratore generale nelle camere di consiglio delle Sezioni unite civili riguardanti i ricorsi in cui egli riveste la qualità di parte (procedimenti disciplinari), per violazione del principio di parità delle parti; infine, con l’abolizione definitiva delle norme citate, nella parte implicata, a opera della legge n. 532/1977.

Come annota P. Borgna, in Questione Giustizia on line del 2 dicembre 2013, www.questionegiustizia.it/articolo/a-proposito-della-storia-della-magistratura-italiana-di-antonella-meniconi_02-12-2013.php, nel recensire il volume di A. Meniconi cit. sub nota 4, ancora nel 1960, redigendo per il dizionario enciclopedico Utet la voce “pubblico ministero”, Luigi Conti, magistrato, lo definiva «rappresentante del potere esecutivo presso l’Autorità giudiziaria … vincolato a eseguire gli ordini dei superiori gerarchici», riproponendo tale e quale la definizione dell’ordinamento giudiziario del 1865. Lo stesso autore sintetizza la vischiosità culturale di cui si dice sottolineando come la magistratura di vertice degli anni ’50 del secolo scorso fosse maggiormente conservatrice rispetto a quella degli anni ’20 e ’30; e svolge poi interessanti notazioni sulla funzione di garanzia del canone della interpretazione “stretta” ossia della osservanza, oggi diremmo formale, della legge, quale difesa – durante il regime – dalla immissione di elementi di discrezionalità politica. Un apparente paradosso, che si esprime di contro nella propensione dei vertici giudiziari, durante il ventennio, verso una marcata apertura del giudizio di legittimità al fatto, al merito sostanziale, contro l’asetticità del giudizio di pura legittimità.

[9] P. Curzio, Il futuro della Cassazione, in Obiettivo 1. A cosa serve la Cassazione?, in questa Rivista trimestrale, n 3/2017, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2017-3_10.pdf, esprime questa incontestata correlazione tra nomofilachia e uguaglianza nel senso che «uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge significa anche diritto ad un’eguale osservanza ed interpretazione della legge, significa uguaglianza di trattamento giurisdizionale di casi simili», sottolineando al contempo la non coincidenza tra “esattezza” interpretativa e principio di uniformità/prevedibilità: «L’interpretazione esatta della legge dovrebbe essere una e pertanto l’uniformità dovrebbe essere un carattere derivato. L’utilizzazione dei due concetti sembra indicare la consapevolezza del fatto che a volte sono ragionevolmente sostenibili più interpretazioni e che in tal caso la Corte deve comunque sceglierne e affermarne una in funzione del valore della uniformità».

[10] Nella ricostruzione dell’obiettivo di questo scritto, si sottolinea fin d’ora che il magistrato del pubblico ministero di legittimità svolge l’attribuzione generale che gli è commessa, quel “vegliare alla osservanza delle leggi”, anche in terreni non processuali.

[11] Non può farsi nel testo più di un accenno a questa duplice funzione, che richiama la ben nota distinzione tra ius litigatoris e ius constitutionis, ovvero tra applicazione della regola di diritto al caso concreto, per la sola verifica della corretta applicazione della legge, e formulazione della regola o del principio di diritto in astratto e a valere per la generalità dei casi; una distinzione che è frequentemente adoperata quale criterio selettivo della rilevanza, particolare o generale, di una questione giuridica, e al contempo è stata posta a presupposto più o meno esplicito delle recenti modifiche legislative di cui si dice nel testo. È una classificazione, utilizzata soprattutto sul piano applicativo, non da tutti condivisa sul piano dogmatico, e talvolta anche criticata da chi vi intravede una possibile deviazione rispetto all’endiadi giustizia – interpretazione del diritto, sottesa all’art. 65 ord. giud. Ma si deve ritenere che non solo essa è una pre-definizione e distinzione categoriale che sta alla base pressoché dell’intera serie di riforme più recenti (su cui infra) e dunque di essa deve prendersi atto, quanto, più nel fondo, che quella duplice categoria riflette i due indirizzi costituenti intorno alla Corte, quello della garanzia dell’impugnazione individuale “litigatoria”, contenuta nell’art. 111 Cost., e quella appunto della funzione nomofilattica di uniformità del diritto, non trasfusa esplicitamente nel testo della Carta fondamentale ma immanente nelle leggi di ordinamento e nel processo.

[12] V., in generale, e per ulteriori riferimenti, F. Morozzo della Rocca, voce Pubblico ministero (dir. proc. civ.), Enciclopedia del diritto, XXXVII, pp. 1078 ss., Giuffré, Milano, 1988. Del resto, nella disciplina del processo civile, il pubblico ministero è collocato a sé, non è tra le “parti” né tra gli “organi giudiziari”; può e deve astenersi, ma non è ricusabile; non può essere condannato alle spese, neppure quando entra nel processo come figura agente o impugnante, perché la nozione di soccombenza non ha senso nei riguardi della sua funzione (Cass., sez. un., n. 5079/2005; Cass., n. 19660/2003).

[13] Una formula questa che echeggia il pm preposto, là dove la legge lo stabilisce, alla tutela dei diritti: art. 2907 cc.

[14] Sulle molte implicazioni concettuali della formulazione del principio di diritto si rinvia alla approfondita disamina di M.R. Morelli, L’enunciazione del principio di diritto, in AA.VV., Il nuovo giudizio di cassazione, II ed., Giuffrè, Milano, 2010, pp. 485 ss.

[15] Come invece dispone l’art. 71, secondo comma, cpc per il merito.

[16] A. Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 2006, pp. 295 ss.

[17] F. Morozzo della Rocca, cit., esprime questa idea rilevando che l’intervento del pubblico ministero in cassazione non è imposto in ragione della natura o dell’oggetto della controversia, ma della funzione istituzionale dell’organo giudicante, così che «ne risultano sfumata la sua posizione di parte ed esaltati i suoi caratteri di organo di giustizia, chiamato a collaborare alla realizzazione dell’ordinamento indipendentemente dalla natura degli interessi in concreto dedotti in giudizio ... con la proposizione imparziale delle questioni, postulando la decisione conforme all’ordinamento».

[18] Art. 72, comma 2, cpc, che avverte la necessità di esprimere testualmente questo limite (“tranne che nelle cause davanti alla Corte di cassazione”) diversamente da quanto può il pm del merito, a ciò abilitato appunto in quanto parte in senso proprio.

[19] Il procuratore generale della cassazione può concludere in senso difforme da quello proposto dall’ufficio requirente del merito, sia nell’ambito penale sia anche – quando vi sia un caso di impugnazione del pm a quo, in base all’art. 72, comma quinto, cpc – in sede civile. È una evenienza meno rara di quanto si potrebbe pensare, specie per la materia penale. La prassi costante dell’Ufficio esclude tuttavia che il procuratore generale rinunci al ricorso proposto dal pm presso il giudice di merito, come pure in astratto è possibile (Cass., n. 4761/1996).

[20] Art. 379, terzo comma, cpc, ovviamente nella versione anteriore alle modifiche portate dalla legge n. 197/2016.

[21] Salva la possibilità di repliche per iscritto delle difese, nella stessa udienza. Da ciò la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale variamente proposte riguardo all’indicato ordine degli interventi; tra altre, Cass., sez. un. civili, n. 19660/2003.

[22] Nella sua versione “neutra”, cioè quella di un soggetto che interviene nel processo con la sola finalità di fornire al giudicante elementi conoscitivi e di ragionamento finalizzati alla migliore decisione in termini obiettivi, non in quella dell’amicus indirizzato a una certa soluzione in quanto portatore di interessi coinvolti dalla causa, che ha trovato applicazione – e frequenti abusi – nell’esperienza statunitense. Sulla figura, v. G. Criscuoli, Amicus curiae, Riv. trim. dir. proc. civ. 1973, 187. Con la non lieve e anzi fondamentale differenza, peraltro, della doverosità ex lege dell’intervento e delle conclusioni del pubblico ministero, nel sistema italiano; almeno, fino al 2016 (v. infra nel testo).

[23] Sull’accentuazione della funzione conformatrice, esterna e interna, delle pronunce della Corte, v. l’ampia relazione a cura dell’ufficio del Ruolo e del massimario, La Corte del “precedente” - Riflessioni su continuità ed innovazione per l’applicazione dell’art. 360-bis del codice di procedura civile, gennaio 2010.

[24] Tali atti si leggono in www.procuracassazione.it, Sezione internazionale.

[25] Così le notazioni ripetutamente espresse nei più recenti interventi e da ultimo ribadite nell’intervento del procuratore generale R. Fuzio, nell’Assemblea generale della Corte di cassazione, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2018 (www.procuracassazione.it/procuragenerale-resources/resources/cms/documents/Intervento_anno_2018.pdf).

[26] Assistito da una sanzione di nullità la cui portata è stata fortemente ridimensionata dalla giurisprudenza, essendo sufficiente che il pm sia messo in condizione di partecipare al giudizio.

[27]  Sono rari e percentualmente poco significativi i casi in cui alla requisitoria orale si associa un documento scritto, che compendia ciò che forma oggetto della discussione e delle conclusioni del pm; si tratta infatti di possibilità de facto, non prevista – ma nemmeno esclusa – dalla sequenza processuale e in particolare dall’art. 379 cpc, e il cui esercizio deve essere attentamente modulato, a garanzia del contraddittorio, tra le parti e rivolto al giudice.

[28] Nella Circolare 16 novembre 2017 del Csm sulla organizzazione degli Uffici di Procura, l’art. 22 si limita a registrare la formazione con cadenza triennale del Progetto organizzativo dell’Ufficio, di cui lo stesso Consiglio superiore prende atto; senza il vincolo alle minute prescrizioni poste, nelle disposizioni che lo precedono, per gli uffici di merito.

[29] Non è possibile illustrare in dettaglio i diversi criteri che regolano, con disposizioni auto-organizzative puntuali, la composizione dei servizi (civile, penale, disciplinare), le funzioni assegnate ai vari magistrati e le modalità di esercizio dell’attività dell’Ufficio. I Criteri vigenti possono leggersi sul sito web  www.procuracassazione.it, in fase di aggiornamento al momento di questo scritto.

[30] Salva la forma di cooperazione che si svolge nel quadro preliminare di interlocuzione della elaborazione del Programma per la gestione dei procedimenti civili, previsto dall’art. 37 del Dl n. 98/2011 convertito dalla legge n. 111/2011, regolato dalla Circolare del Csm del 7 dicembre 2016; anche in questo caso l’analisi delle pendenze, la determinazione dei carichi, l’individuazione delle priorità, la formazione dei ruoli, sono tutte attività che restano affidate al giudice.

[31] Oggi consistenti nell’area intranet,dove sono consultabili la generalità delle banche dati e dove vengono inserite le conclusioni scritte dei magistrati, e nel supporto della struttura d documentazione; oltre che, ovviamente, nelle riunioni periodiche e nello scambio informale.

[32] Mutuando l’efficace titolo del volume a cura di A. Scalfati, Giuffré, Milano, 2014, che raccoglie gli atti del convegno «Per una ragionevole deflazione dei giudizi penali di legittimità». Locuzione ripresa nell’intitolare l’incontro del 3 dicembre 2013 organizzato presso la Corte dall’Anm.

[33] Alla fine del 2016, i processi pendenti sono 106.862; alla fine del 2017, 106.920. Dieci anni prima, nel 2007, sono 102.588. Naturalmente tali cifre vanno associate alle sopravvenienze, tra loro in crescita, e tuttavia esprimono plasticamente il “peso” che grava sempre sulla Corte. I dati sono tratti dalle Relazioni inaugurali dei primi presidenti sull’amministrazione della giustizia negli anni di riferimento.

[34] P. Curzio, Il problema cassazione, in questa Rivista trimestrale, n. 4/2015, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2015-4_17.pdf; Id., Il futuro della Cassazione, in questa Rivista trimestrale n. 3/2017, cit.

[35] R. Rordorf, Nuove norme in tema di motivazione delle sentenze e di ricorso per cassazione, Relazione al corso di formazione decentrata, Milano, 18 maggio 2009.

[36] Come in qualche modo già prefigurato nel punto n. 7 della “bozza di provvedimenti urgenti sul giudizio di cassazione”, cd. Brancaccio-Sgroi, fatta oggetto della risoluzione adesiva del Csm 28 marzo 1990, redatta da G. Borrè.

[37] Ancora G. Borrè annoterà la maggiore snellezza della pubblica udienza rispetto al modello camerale così strutturato; critico, altresì, C. Consolo, Disciplina “municipale” della violazione del termine di ragionevole durata del processo: strategie e profili critici, Corr. giur., 2001, 569. Dall’intervento annuale del procuratore generale del 2003, si apprende la ridotta applicazione di questo modello procedurale, attestato mediamente nelle varie Sezioni intorno al 10%.

[38] Con appropriazione da parte del giudice di un impulso che la lettera della legge, art. 138 disp. att. cpc, sembrava per la verità affidare proprio al pubblico ministero: il quale, «se ritiene che i ricorsi debbano essere trattati in camera di consiglio, stende per iscritto le sue requisitorie in calce ai ricorsi stessi».

[39] Decreto del primo presidente della Corte di cassazione 9 maggio 2005 (Foro it., 2005, p. 2323).

[40] Dati tratti dagli interventi in occasione delle inaugurazioni degli anni giudiziari.

[41] L’appesantimento di simile procedura, da cui fondati dubbi di efficacia della riforma in senso deflattivo e di accelerazione, è stato sottolineato più volte: esso è stato definito una farragine legislativa, nel lavoro della Commissione Berruti. All’opposto, non manca chi ha messo in rilievo l’utilità del meccanismo della relazione in chiave di effettiva formazione collegiale del deliberato, v. B. Sassani, Giudizio sommario di cassazione ed illusione nomofilattica, Riv. dir. proc., 2017, p. 35.

[42] Espresso del resto, sia pure con accenti diversi, anche in seno alle Commissioni “Vaccarella” e “Berruti” per la riforma processuale. Cfr. il progetto Vaccarella del 3 dicembre 2013 e poi quello, esitato nel Ddl n. 2953/2015, della Commissione Berruti o “degli undici”, che prelude alla “vera” riforma della cameralizzazione attuata nel 2016; progetti annotati da C. Graziosi, La Cassazione “incamerata”. Brevi note pratiche, in www.judicium.it.

[43] In www.cortedicassazione.it; B. Capponi, La motivazione della sentenza civile, in Questione Giustizia on line del 24 marzo 2015, www.questionegiustizia.it/articolo/la-motivazione-della-sentenza-civile_23-03-2015.php, offre spunti su un possibile strabismo, tra una crescente semplificazione del provvedimento decisorio del giudice e la richiesta di completezza/autosufficienza degli atti delle parti. che indurrebbe le difese a una iper-scrittura fobica, per prevenire rilievi di inidoneità delle impugnazioni. Ma v. peraltro Cass., n. 21297/2016 e n. 14966/2016. V. anche M. Acierno, La motivazione della sentenza tra esigenze di celerità e giusto processo, Riv. trim. dir,. proc. civ., 2012, p. 437. Per una disamina di assieme delle riforme degli anni 2006 e 2009, F. Cipriani, La riforma del giudizio di cassazione, Cedam, Padova, 2009; L. Panzani, Il nuovo processo in cassazione, e P. D’Ascola, La riforma e le riforme del processo civile: appunti sul giudizio di Cassazione, Esi, Roma, 2010.

[44] Un panorama generale su queste ultime può leggersi in: Per l’accelerazione del processo di cassazione, Foro it., 2017, V, p. 344.

[45] Ciò, in astratto. La pratica e l’elaborazione interna della Corte hanno inserito nell’ambito delle competenze della sesta sezione una “materia” trasversale, quella dei profili processuali inerenti per l’appunto gli aspetti che legittimano o meno il ricorso alla trattazione semplificata, il che non sembra di per sé prestarsi a questa collocazione, sempre e comunque. V. al riguardo il Documento programmatico sulla sesta sezione civile, 22 aprile 2016, in www.cortedicassazione.it.

[46] L’organico attuale dei magistrati della Procura generale è in totale di 74, di cui 2 apicali e 5 direttivi. L’organico della Corte è di 365 magistrati, di cui 2 apicali e 55 direttivi, che aumenta a 432 se si considerano i magistrati dell’ufficio del massimario destinati alla Corte abilitati a comporre i collegi, come previsto dall’art.  115 dell’ordinamento giudiziario, novellato dal Dl n. 168/2016 conv. dalla legge n. 197/2016. E che aumenterà ulteriormente, relativamente alla sezione tributaria, che mostra la maggiore sofferenza delle pendenze (circa il 50%, ormai, del totale), in attuazione della prevista destinazione di 50 giudici “ausiliari” presso detta sezione, come previsto per la durata di tre anni dall’art. 1, commi 961-981, della legge di bilancio n. 205/2018.

[47] Il numero dei ricorsi per regolamento si attesta mediamente intorno ai 500-600 l’anno.

[48] Svolge, invece, considerazioni fortemente critiche sulla riforma del 2013 R. Russo, Il pm presso la S.C. civile! Chi era costui? Appunti sugli artt. 75 e 81 del Dl n. 69 del 2013, in www.judicium.it.

[49] Con una variazione che richiederebbe una disamina a sé stante; essa, pur generalmente plaudita, in particolare da chi ravvisava nell’ordine precedente una riduzione di garanzie, appare a chi scrive aliena dalla effettiva comprensione del ruolo del procuratore generale nelle materie civili e nel processo di parti, beninteso quando il pm non rivesta egli stesso la qualità di parte (ad esempio, nella materia disciplinare); e ciò non per la rivendicazione di un arcaico diritto all’ultima parola ma perché, come sottolineato nel testo, dal punto di vista logico la formazione dell’opinione del rappresentante dell’interesse pubblico dovrebbe seguire, non precedere, la ponderazione degli argomenti dei litiganti, ai cui interessi è estraneo. Sembra di intravvedere, nel nuovo modulo, l’idea che siano le parti processuali ad avere il diritto di fruire del punto di vista di una “parte” ulteriore, il pubblico ministero, per assecondarlo o confutarlo, il che sembra una alterazione funzionale, perché nella struttura dialettica del giudizio civile di legittimità il pm si rivolge al giudice, non alle parti. Non è un “contraddittore” in senso proprio.

[50] Anzi, quadruplice, se si considera il procedimento camerale ex art. 380-ter cpc per i regolamenti, di giurisdizione e di competenza. Ma come detto tale ambito resta collocato in un ambito invariante e non propone particolari ragioni di riflessione sul sistema; il pm redige una requisitoria scritta, senza successivi interventi.

[51] Merita qui annotare che la riforma, introdotta con la legge di conversione  n. 197/2016 di ottobre, è stata preceduta dal provvedimento della prima presidenza della cassazione n. 136 del 14 settembre 2016, che, sulla scia dell’analogo atto del 2011 (v. nel testo, par. 6), ha reiterato e ampliato le prescrizioni di carattere auto-organizzativo in tema di «Motivazione sintetica dei provvedimenti civili. In particolare la motivazione semplificata» (si legge in Foro it., 2016, V, p. 344), ponendo ancora una volta l’accento sulla centralità del binomio valore nomofilattico-sentenza (e dunque udienza), rispetto al tendenziale rapporto biunivoco adunanza-ordinanza (semplificata). L’esigenza di “sintesi” nel processo risulta essere una costante degli indirizzi attuali; si veda l’iniziativa del Ministro della giustizia, a partire dal 2016, per la costituzione di un Gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali, che ha redatto diverse relazioni sul tema. Sulle varie declinazioni della “sintesi” nel processo, da ultimo, F. De Stefano, La sinteticità degli atti processuali di parte nel giudizio di legittimità, in Questione Giustizia on line del 24 novembre 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/la-sinteticita-degli-atti-processuali-civili-di-parte-nel-giudizio-di-legittimita_24-11-2016.php.

[52] Come da titolazione/occasione del Dl n. 168/2016, «Misure urgenti per la definizione del contenzioso», ancorché sia stata la sola legge di conversione a riformare il processo, dato che il decreto recava misure di carattere organizzativo.

[53] Sembra possibile rilevare, nella gamma assai articolata di commenti alla disciplina, una tendenziale prevalenza di notazioni positive “dal di dentro”, a fronte di disamine maggiormente critiche da parte della dottrina. Così, ad esempio, L. Lombardo, Il nuovo volto della Cassazione civile, in Questione Giustizia on line del 2 dicembre 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-volto-della-cassazione-civile_02-12-2016.php, valuta con pieno favore la riforma, rimarcandone gli aspetti di allineamento a strumenti selettivi propri delle Corti di ultima istanza, soffermandosi anche sui profili di compatibilità convenzionale ex art. 6 Cedu per la eliminazione della pubblicità dell’udienza. Mentre rilievi critici sono formulati, tra altri, in una nota del 3 ottobre 2016, dall’Associazione italiana fra gli studiosi del processo civile, segnatamente sul punto focale del selettore della “particolare rilevanza” della questione, che indirizza verso la sede dell’udienza pubblica (Foro it., 2016, V, p. 344). 

[54] Tra i tanti contributi, v. C. Punzi, La nuova stagione della Corte di cassazione e il tramonto della pubblica udienza, Riv. dir. proc., 2017, I, p. 1; A. Panzarola, La Cassazione civile dopo la l. 25 ottobre 2016, n. 197 e i c.d. protocolli, Nuove leggi civ. comm., 2017, II, p. 269; L. P. Comoglio, Giudizio di legittimità, trattazione camerale “non partecipata” e processo equo, Nuova giur. civ., 2017, 7-8, p. 1028; A. Briguglio, Le nuove regole sul giudizio civile di cassazione: per i casi normali e per i casi a valenza nomofilattica. La scelta “fior da fiore” di una Suprema Corte ristretta nei limiti dell’art. 111 Cost., Giust. civ., 2017, II, p. 301; R. Rordorf, L’ampliamento della nomofilachia nella riforma del giudizio di cassazione, in La nuova cassazione civile, a cura di A. Di Porto, Cedam, Padova, 2017, pp. 28 ss.; G. Scarselli, Il nuovo giudizio di cassazione per come riformato dalla l. 197/2016, in Questione Giustizia on line, 1 dicembre 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/il-nuovo-giudizio-di-cassazione-per-come-riformato-dalla-legge-1972016_01-12-2016.php; P. Biavati, Brevi note sul nuovo procedimento in cassazione, Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 1209 . V’è chi sostiene la irragionevolezza dello sdoppiamento tra sezione sesta e sezione ordinaria, a fronte dell’unicità della forma camerale del processo: F. S. Damiani, Il nuovo procedimento camerale in cassazione e l’efficientismo del legislatore, Foro it., 2017, V, p. 28.

[55] Relazione cit., Roma, 26 gennaio 2018; in www.cortedicassazione.it.

[56] Sul punto v. le profonde considerazioni di P. Gaeta, Il nuovo processo civile di cassazione: la secolarizzazione della Corte e la scomparsa del procuratore generale, in questa Rivista trimestrale, n.  3/2017, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2017-3_11.pdf.

[57] Secondo una possibilità interpretativa espansiva dell’art. 378 cpc ovvero per via di integrazione “protocollare”. In tal senso già l’intervento del procuratore generale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, sul punto ribadito da ultimo in quello per il 2018; v. in www.procuracassazione.it.

[58] Di criteri “eterei”, “evanescenti”, parla al riguardo P. Gaeta, op. cit.

[59] Protocollo Corte di cassazione – Cnf sulla redazione degli atti processuali del 17 dicembre 2015, in Foro it., 2016, V, p. 40.

[60] In www.procuracassazione.it.; pressoché coevo al protocollo del 15 dicembre 2016 tra Corte, Cnf e Avvocatura dello Stato, sull’applicazione del nuovo rito civile, il quale, oltre a regolare alcuni profili di transitori,  si incentra sui contenuti standardizzati della “proposta” di trattazione dinanzi alla sesta sezione civile, con sintetici indicatori di “prognosi” di soluzione, disponendo inoltre circa le modalità di trasmissione alle difese delle conclusioni scritte del procuratore generale. V. in www.cortedicassazione.it.  

[61] Dati dell’intervento inaugurale del procuratore generale, 26 gennaio 2018.

[62] È ancora prematura una disamina delle variabili percentuali riferite a ciascuna sezione, che mostrano talune forbici ma non ampie e di non immediata decifrabilità, ad esempio per la minore percentuale nell’area dei diritti reali e dei contratti (sezioni II e III) rispetto a quella del diritto di famiglia e delle procedure concorsuali, o del lavoro: si coglie in questo uno spunto che, come si dice nel testo, propone forse un ritorno alle categorie del merito.

[63] Vi si stabilisce che l’Avvocato generale dirigente del servizio, anche sulla base dell’andamento semestrale delle udienze e delle adunanze di cui all’art. 380-bis.1 cpc, e della relativa programmazione da parte della Corte di cassazione, comunicata in applicazione del Protocollo d’intesa del 17 novembre 2016 tra la Corte di cassazione e la Procura generale sull’applicazione del nuovo rito civile, elabora direttive e metodologie organizzative di carattere generale, finalizzate allo svolgimento dei compiti di selezione e di valutazione dei ricorsi trasmessi dalla Corte di cassazione, sia in vista della regolazione delle modalità di intervento dei magistrati in pubblica udienza, con particolare riguardo alla rilevanza dei procedimenti, sia in funzione della predisposizione di criteri uniformi e specifici di trattazione dei procedimenti trattati in camera di consiglio. Inoltre, gli avvocati generali preposti al coordinamento dei procedimenti trattati dalla sezione civile di rispettivo riferimento attuano le direttive suddette, attraverso metodologie organizzative di selezione preventiva dei ricorsi, anche avvalendosi del gruppo dei sostituti procuratori generali abbinati alla stessa sezione, al fine di individuare tempestivamente e comunque con congruo anticipo rispetto alla data dell’udienza o dell’adunanza i procedimenti di particolare delicatezza o rilievo (per novità delle tematiche e rilevanza nomofilattica; per implicazioni istituzionali o sociali; per importanza dei fatti; per risonanza mediatica) o di speciale difficoltà, per i quali dispongono la formulazione da parte dei sostituti procuratori generali di una requisitoria scritta o la redazione di conclusioni specificamente motivate, rispettivamente per i procedimenti trattati in pubblica udienza o in adunanza camerale.

[64] Ipotesi di accoglimento del ricorso; di questioni preliminari impeditive in rito; di rilievo sociale del fatto; di necessità di conferma di indirizzi; di rilievo di pregiudiziali costituzionali o comunitarie; oltre alla generale possibilità di chiedere la trattazione in udienza pubblica, quando si riscontri il presupposto della particolare rilevanza nomofilattica del caso, possibilità di transizione adunanza-udienza, quest’ultima, che il sistema consente e la Corte di cassazione ribadisce (Cass., n. 5533/2017, n. 19115/2017).

[65] G. Verde, Il difficile rapporto tra giudice e legge, Esi, Napoli, 2012, p. 155.

[66] P. Gaeta, op. cit., classifica la riforma del 2016 come il de profundis dell’organo requirente civile.

[67] Si richiamano le note formule di F. Cipriani, L’agonia del pubblico ministero nel processo civile, Foro it. 1993, V, p. 14; e di V. Denti, Le riforme della cassazione civile: qualche ipotesi di lavoro, in Foro it. 1988, V, p. 24, che definisce l’organo un “lusso che non possiamo permetterci”. Una ipotesi abolitiva era stata del resto ventilata in un disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri l’8 maggio 1981, Giust. Civ., 1981, II, p. 323.

[68] G. Verde, op. cit.

[69] Attribuzione che, nella sintesi definitoria, in qualche modo concretizza quanto si dice nel testo e che pertanto meriterebbe una diffusa disamina, qui impossibile; per riferimenti, anche sulle più recenti iniziative, v. P. Ciccolo, Sulla richiesta di enunciazione del principio di diritto da parte del P.G. presso la Cassazione, Foro it., 2017, V, p. 223; R. Fuzio, Il procuratore generale nel giudizio civile di cassazione, Foro it., 2017, I, p. 41; G. Costantino, Note sul ricorso per cassazione nell’interesse della legge, Riv. dir. proc., 2017, 3, p. 712. V. anche la Sezione correlativa, Area civile, nel sito www.procuracassazione.it.

[70] L. Mengoni, L’interpretazione orientata alle conseguenze, Riv. trim. dir. proc. civ., 1994, pp. 1 ss.

[71] Che delinea una questione a sé, nell’ambito della questione-Cassazione. Sul tema, v. E. Cirillo, La giustizia tributaria nell’esperienza di un giudice di legittimità, in questa Rivista trimestrale, n. 3/2016, www.questionegiustizia.it/rivista/pdf/QG_2016-3_05.pdf.

[72] In questo senso già P. Prat, Esperienze e riflessioni sul ruolo del pm nel processo civile, in questa Rivista trimestrale, edizione Franco Angeli, Milano, n. 1/1985, p. 91.

[73] Reperito grazie alla cortesia del fratello Francesco Amirante, a lungo giudice e presidente di sezione della Corte di cassazione e quindi giudice e poi presidente della Corte costituzionale.

[74] Intervento inaugurale del procuratore generale, 26 gennaio 2018, cit., par. 3-e.

[75] V. sopra, note 38 e 8.

[76] P. D’Onofrio, Commento al codice di procedura civile, I, Utet, Torino 1957, p. 658.

[77] A. Proto Pisani, Tre note sui “precedenti” nella evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale, nella giurisprudenza di una Corte di cassazione necessariamente ristrutturata e nella interpretazione delle norme processuali, Foro it., 2017, V, 286.