Magistratura democratica

Un bilancio del sistema disciplinare
a 10 anni dalla riforma

di Claudio Castelli

Il sistema disciplinare dei magistrati viene spesso vissuto come un nemico, ma è una necessità ed un requisito coessenziale all’indipendenza della magistratura. La riforma del 2006, con le correzioni in positivo della legge n. 269/ 2006, era in senso punitivo con un maggiore rigore sulla base del binomio obbligatorietà–tipizzazione. L’esito che si è avuto è un aumento comunque limitato delle azioni disciplinari. Ciò è in particolare derivato dal fortissimo incremento di azioni disciplinari per ritardi nel deposito di provvedimenti che è stata per anni la tipologia di procedure percentualmente prevalenti, al di là del limitato numero di condanne (circa 20 l’anno). A una stagione di grande rigore, secondo cui era pressoché impossibile giustificare i ritardi ultra annuali è subentrato di recente un orientamento che elimina ogni automatismo e valorizza la responsabilizzazione del magistrato, la sua produttività e capacità organizzativa nella gestione del ruolo. Si sono rivelati fondamentali i due istituti introdotti come temperamento dalla legge n. 269/2006: l’archiviazione diretta da parte della Procura generale e l’art. 3 bis che ha introdotto la scarsa rilevanza del fatto. I dati aggiornati della Sezione disciplinare testimoniano la serietà dei giudizi con un 40% di sentenze e ordinanze di non luogo a procedere ed il 30% di condanne. Le proposte della Commissione Vietti si limitavano ad una risistemazione di codice e procedura. Le proposte possibili riguardano ridisegnare il recinto degli illeciti disciplinari limitandoli a comportamenti patologici eliminando le violazioni di sistema e non dei singoli e rendere adeguato l’organo inquirente e le sue strutture ovvero la Procura generale ai nuovi compiti

1. Il disciplinare: un nemico o una necessità

Il sistema disciplinare ha un’immagine del tutto schizofrenica: corporativo e lassista secondo molti commentatori esterni, ostile e pericoloso per molti magistrati. È evidente la sgradevolezza della funzione, diretta ad accertare violazioni gravi della deontologia e a irrogare sanzioni, ma è altrettanto evidente che ogni attività professionale di rilievo impone una vigilanza sul rispetto delle regole dell’arte proprio per tutelare la stessa categoria. Ciò avviene ed è avvenuto sin dalle corporazioni medioevali per arrivare agli attuali ordini professionali. Ma è ancora più rilevante per quanto concerne i magistrati. Il sistema disciplinare, per come è stato conformato dalla stessa Carta costituzionale, è difatti uno dei contrappesi all’ampia autonomia ed indipendenza riconosciuta alla magistratura. Il rispetto delle regole chiesto a tutti i cittadini deve essere difatti ancora più vincolante per chi rappresenta il centro di questo rispetto ovvero i magistrati.[1]

In un sistema come quello italiano, nel quale la legittimazione all’esercizio dell’attività giudiziaria trova il suo fondamento esclusivo nel superamento di un concorso, la responsabilità disciplinare costituisce un requisito coessenziale all’indipendenza della magistratura, nella ricerca di un punto di equilibrio tra autonomia della funzione e garanzia del servizio reso[2]. La garanzia assicurata dalla Costituzione è data dal fatto che il sistema disciplinare è parte integrante del sistema di governo autonomo della magistratura. Per cui il magistrato incolpato viene giudicato, come in tutti gli ambiti professionali che si autotutelano, da propri “pari”, da un organo giurisdizionale eletto (con elezione di secondo grado), parte del Consiglio superiore della magistratura. Questa garanzia è fondamentale per difendere il magistrato da azioni temerarie e persecutorie ed è a sua volta un contrappeso rispetto all’azione disciplinare riconosciuta al Ministro della giustizia, ovvero ad un organo dell’esecutivo prettamente politico. La diffidenza che accompagna l’attività disciplinare anche all’interno della magistratura deriva, oltre che da un utilizzo eccessivo e sbagliato che questa ha avuto, dalla sfiducia che permea come altre istituzioni l’organo di autogoverno. Ma anche dal fatto che per la prima volta in questi ultimi anni la paura verso l’intervento disciplinare è diventato motivo di dibattito interno e di propaganda lato sensu politica nella magistratura[3]. Questi aspetti mutuano ed assimilano sempre più la realtà della magistratura alla più complessiva realtà italiana e non in senso positivo: sfiducia verso le istituzioni e perdita di autorevolezza, demagogia e populismo, la paura come strumento di governo.

2. Le modifiche del 2006

Come è noto fino al 2006 il codice disciplinare sostanziale si riduceva ad una norma, l’art 18 Legge sulle guarentigie che testualmente diceva: «Il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario, è soggetto a sanzioni disciplinari secondo le disposizioni degli articoli seguenti.» Dizione quanto mai generica e tutta incentrata sul prestigio dell’ordine giudiziario e non sulla funzionalità del servizio. Dizione anche quanto mai pericolosa per la sua astrattezza, che però era stata man mano riempita dalla casistica e dai precedenti, avvicinandosi ad un’impostazione di “common law”. L’intervento del legislatore con il decreto legislativo n. 109 del 2006 era parte di una stagione politica punitiva e ritorsiva contro i magistrati e puntava anche ad una razionalizzazione del sistema, ma principalmente ad uno spostamento dell’equilibrio preesistente in favore del Ministro e ad una maggiore severità contro i magistrati incolpati.

La vulgata diffusa era “cane non mangia cane” e che il sistema disciplinare fosse del tutto inoffensivo nei confronti dei magistrati. Vulgata del tutto falsa perché a partire dal 2000 il numero di procedimenti instaurati l’anno arrivava a circa 150. Nei dodici anni tra il 1990 ed il 2012 su 524 richieste di proscioglimento in ben 125 casi (il 23,8%) la sezione disciplinare non aveva accolto la richiesta e disposto di farsi luogo al dibattimento. A fronte di 412 assoluzioni (il 40%) si erano avute 27 casi di decadenza dell’azione, 24 di chiusura per morte dell’incolpato e di ben 202 per cessata appartenenza all’ordine giudiziario (per evitare procedimento e condanna), ovvero il 19,6% e 365 (35,4%) condanne.   

L’intervento originario della legge delega e del decreto legislativo si basava su sei assi:

  • un doppio regime dell’azione disciplinare, obbligatorio per il procuratore generale e discrezionale per il ministro della giustizia;
  • la tipizzazione degli illeciti disciplinari;
  • l’applicazione al procedimento disciplinare del codice di procedura penale del 1989 (precedentemente veniva ancora utilizzato il codice inquisitorio garantito del 1941);
  • l’allargamento dei poteri cautelari della sezione disciplinare, in parallelo con la sterilizzazione dell’art. 2 legge guarentigie (trasferimento di ufficio) limitato a situazioni incolpevoli;
  • l’aumento dei poteri e della presenza del ministro della giustizia nelle diverse fasi del procedimento disciplinare;
  • la ricorribilità contro le sentenze della Sezione disciplinare del Consiglio avanti alle Sezioni unite penali e non più civili della Cassazione.

 

Il messaggio ideologico era chiaro: obbligatorietà e tassatività come risposta alla pretesa indulgenza da parte della sezione disciplinare del Consiglio, più poteri al Ministro e meno al Csm., parificazione del procedimento disciplinare (come obbligatorietà, codice, ricorso) a quello penale.

Questo nuovo sistema veniva corretto in corsa con un intervento parlamentare. La legge n. 269 del 2006, direttamente elaborata in Parlamento, sospendeva tutti i vari decreti legislativi emanati in materia di ordinamento giudiziario, salvo due, quello sul pubblico ministero e quello sul disciplinare che venivano direttamente modificati. Questa scelta evidenziava una volontà propria dell’intero Parlamento, più che di uno schieramento politico, di mantenere una gerarchizzazione degli Uffici di procura e un forte controllo disciplinare. Anche se alcuni dei temperamenti adottati sul sistema disciplinare ne correggevano e mitigavano grandemente l’impostazione punitiva e “ministeriale”.

In particolare andavano in tal senso sia la drastica riduzione del ruolo e della presenza del Ministro nelle diverse fasi del procedimento, l’abrogazione di diverse ipotesi incriminatrici (alcune delle molteplici relative ai rapporti con la stampa, ma in particolare le disposizioni finali aperte che sanzionavano genericamente ogni altra violazione dei diversi doveri del magistrato), il temperamento all’obbligatorietà dell’azione. Queste ultime norme erano fondamentali e riequilibravano (oltre che rendere praticabile) il sistema: da un lato veniva prevista la possibilità di autonoma archiviazione da parte della Procura generale, dall’altro veniva introdotta la clausola della scarsa rilevanza del fatto.

Le incongruenze del sistema rimanevano e rimangono. In particolare un sistema di incolpazioni (mutuato dalla casistica, dal codice deontologico dei magistrati e dalle norme sulla responsabilità civile) discutibile e con una graduazione delle sanzioni che appare francamente irrazionale e casuale, una procedura falsamente accusatoria in cui tutti gli atti acquisiti dall’inquirente entrano nel fascicolo del dibattimento.

Un sistema comunque sperimentabile ed in cui gli aspetti maggiormente penalizzanti erano stati eliminati o ridimensionati.

3. L’espansione del sistema disciplinare: giustizia disciplinare percepita e reale

Nel primo periodo di attuazione della nuova normativa si è avuto un forte aumento delle azioni disciplinari, frutto del coniugarsi dell’obbligatorietà da un lato e di un clima culturale ostile alla magistratura e totalmente difensivo dall’altro. Clima che ha incentivato la denuncia del magistrato ai titolari dell’azione disciplinare e al Csm come quarto grado di giudizio e come ritorsione a fronte di decisioni sgradite.

Anche se a dire il vero l’obbligatorietà dell’azione disciplinare ha avuto effetti molto meno dirompenti di quanto si paventava. Si è passati dalle 137 azioni disciplinari di media del decennio 1999-2008, alle 159 di media dei quadrienni 2009-2012 e 2013-2016.

Si tratta comunque di un aumento contenuto che oscilla tra il 5 ed il 35%[4].

Ciò è dovuto anzitutto all’azione di filtro che la Procura generale svolge rispetto alla mole di notizie di illecito che pervengono ogni anno (dalle 1780 del 2011 alle 1340 del 2017), con una capacità di archiviazione diretta significativa (dall’89,6% al 93,5%).

Ma quanto ha inciso sull’espansione del sistema è stato almeno nel periodo iniziale il forte aumento di azioni disciplinari per il ritardo nel deposito dei provvedimenti. Difatti delle azioni disciplinari promosse ben il 33% nel 2010 e nel 2013 riguardavano questo illecito, risultando poi in progressivo calo (17% nel 2014 e nel 2015, 12% nel 2016, 11,9 % nel 2017). Per il resto gli illeciti più diffusi erano i provvedimenti abnormi o contenenti gravi ed inescusabili errori (dal 14,2% del 2014 al 2,6% del 2016, allo 0,8 % del 2017), l’ingiuria, diffamazione e/o altri reati (dall’11,5% del 2014 al 6,7% del 2016 e del 2017), la tardiva o mancata scarcerazione (dal 15% del 2013 al 2,6% del 2016 al 4,1 % del 2017), la violazione di norme processuali penali e civili (dal 3,1% del 2013 all’ 11,5% del 2015 al 16,7 % del 2017), la scorrettezza (dal 7,6% del 2015 al 14,6% del 2016 e del 2017). Come si vede al di là della fattispecie dei ritardi vi è estrema varietà delle contestazioni e una forte variazione nel tempo dei diversi illeciti.

 

Illecito disciplinare (*) (**)20102011201220132014201520162017
Ritardi nel deposito dei provvedimenti 62 45 42 64 4 36 32 24
Ingiuria, diffamazione o altri reati 39 23 20 22 29 23 18 31
Provvedimenti abnormi o contenenti errori inescusabili 4 9 16 19 36 10 7 2
Ritardi e negligenze nell’attività dell’ufficio 7 16 15 13 12 11 11 10
Tardiva o mancata scarcerazione N.D. 6 12 29 23 16 7 10
Violazione di norme processuali civili e penali 26 26 10 6 12 25 43 41
Abuso della qualità o della funzione 3 9 8 7 18 8 10 9
Rapporti dei magistrati con altri magistrati dello stesso ufficio o di altri uffici 13 8 10 5 11 6 0 2
Astensione o omissione di atti dovuti 7 2 6 4 12 12 14 13
Scorrettezza N.D. N.D. N.D. N.D. N.D. 16 39 36
Inosservanza di norme che regolano il servizio giudiziario N.D. N.D. N.D. N.D. N.D. 9 24 16
Atti – comportamenti pregiudizievoli/vantaggiosi N.D. N.D. N.D. N.D. N.D. 15 22 21
Interferenza N.D. N.D. N.D. N.D. N.D. 1 10 6
Altro 25 25 23 24 57 23 31 25
TOTALE 186 169 191 193 253 211 268 246

(*) Fonte – Procura generale Corte di cassazione.

(**) Il numero di illeciti non corrisponde ovviamente al numero di incolpati essendovi diverse azioni disciplinari con contestazioni plurime.

 

Del resto il Decreto Legislativo n. 109/2006 con l’introduzione della tipizzazione degli illeciti avrebbe dovuto essere molto più garantista del vecchio e generico art. 18 R.lgs 31 maggio 1946 n.511.

In realtà la percezione di un’azione disciplinare pervasiva e tale da incutere paura e comportamenti difensivi a molti magistrati è derivato dal vero e proprio boom avutosi dal 2009 al 2013 dei procedimenti per ritardo nel deposito dei provvedimenti[5].

4. I procedimenti disciplinari per ritardo nel deposito dei provvedimenti

Indubbiamente per una lunga fase il problema dei ritardi nel deposito dei provvedimenti era stato sottovalutato, sottostimando sia il costo che ciò rappresentava per le parti, sia il costo economico vivo (nel penale per le notifiche). Una crescente attenzione era inevitabile anche per la generale maturazione di una maggiore consapevolezza del servizio e della sua necessaria efficienza, ma questo non avrebbe dovuto tradursi nell’applicazione di interpretazioni sostanzialmente retroattive che si sono risolte nell’individuazione di capri espiatori.

Non solo, ma le contestazioni disciplinari di questo illecito erano le più facili, derivanti da ispezioni ministeriali o da segnalazioni dei capi degli uffici, senza necessità di accurate istruttorie e sulla base di semplici riscontri documentali.

La sensazione che si ricava è che a fronte di questa generale sottovalutazione, vi sia stata nel periodo di prima applicazione del nuovo codice disciplinare una crescente insofferenza da parte degli organi disciplinari per questa fattispecie, ben dimostrata, più che dal numero delle azioni promosse, da una giurisprudenza, prima delle Sezioni unite e poi della stessa Sezione disciplinare, estremamente rigorosa. Se negli anni precedenti al 2006 l’interpretazione accolta dalla Sezione disciplinare riteneva insussistente l’addebito in tutti i casi in cui il ritardo non fosse sintomo di scarsa laboriosità o negligenza, con il risultato di un alto tasso di assoluzioni, successivamente il vento è cambiato. Dapprima vi è stata qualche isolata pronuncia che ricostruiva i ritardi come incapacità del magistrato di organizzarsi e di programmare adeguatamente il proprio lavoro e quindi si è affermata una giurisprudenza che ritiene la mancata giustificazione del ritardo come «un elemento esterno alla fattispecie disciplinare che gravita nell’area delle situazioni riconducibili alle condizioni di inesigibilità, in quanto tale è equiparabile ad una causa di giustificazione non codificata rilevante sul piano oggettivo o su quello soggettivo[6]». L’onere della prova viene così spostato sull’incolpato e si giunge a escludere la stessa possibilità di opporre giustificazioni in caso di ritardi particolarmente gravi.

Il culmine della severità disciplinare veniva raggiunto con l’orientamento delle Sezioni unite della Cassazione, poi recepito, dopo un’iniziale resistenza, dalla Sezione disciplinare del Csm secondo cui i ritardi ultra annuali erano di per sé ingiustificabili[7].

In tale direzione è la ormai nota pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione del 28 marzo 2012, n. 4943, che sancisce che «in caso di mancata allegazione e accertamento di circostanze assolutamente eccezionali, il superamento di un anno nel ritardo, del deposito dei provvedimenti giurisdizionali rende ingiustificabile la condotta dell’incolpato» (caso relativo a superamento dei termini di deposito per 396 sentenze penali, accumulando ritardi superiori ad un anno in 225 casi, a due anni in 59 casi ed a tre anni in 98 casi).

Ma l’elemento più negativo andava ben oltre i, tutto sommato, limitati casi che incappavano nelle maglie disciplinari. Il messaggio che rapidamente si diffondeva era puramente difensivo: l’importante è avere le carte a posto, non la funzionalità del servizio. Per cui l’insegnamento che ne derivava era di limitare i provvedimenti da introitare (dato che quasi nessuno è stato mai perseguito per scarsa produttività), prestare poca o nessuna attenzione alla qualità, rimettere la causa sul ruolo in caso di problemi. Questo ignorando che le incolpazioni disciplinari riguardavano comunque normalmente decine, quando non centinaia, di provvedimenti depositati con ritardi congrui, normalmente ultrannuali. Ma anche pochi casi adeguatamente presentati diventavano elemento di forte insicurezza percepita, che induceva comportamenti difensivi, favorendo chi anche in magistratura cerca di governare con la diffusione della paura, approfittandone per stimolare logiche di protezione[8].

Il rigore giurisprudenziale era però temperato dalla possibilità riconosciuta dalle stesse Sezioni unite di alcune tipologie di giustificazioni rilevanti: carico di lavoro, situazioni personali, oltre a ritenere sempre necessaria la sussistenza della colpa. Ciò anche al fine di superare quella sorta di responsabilità oggettiva ed automatica che sembrava discendere dall’ultra annualità del ritardo. Del resto al di là della diffusione a macchia d’olio dei timori del disciplinare che diventavano elemento condizionante di molti comportamenti professionali, i dati dal 2010 al 2015 parlano di una media di 20 condanne disciplinari l’anno, di cui solo 1 per ritardi inferiori all’anno (ma relativa al 74% dei provvedimenti depositati), e solo 4 per un numero di sentenze inferiore alle 50, ma in tali evenienze con ritardi massimi sempre superiori ai 3 anni. Il problema non era quindi di semplici ritardi nelle sentenze, ma di casi eclatanti con un numero di decine e decine e con ritardi di mesi quando non di anni. Ciò non toglie che anche in questi casi in apparenza eclatanti, poteva esservi spazio per giustificazioni serie derivanti da eccezionali carichi di lavoro o vicende personali (malattie, lutti, separazioni) che avevano condizionato un periodo della propria vita professionale. Un salto di qualità si è avuto con la Circolare 13 novembre 2013 del Csm. che ha responsabilizzato i capi degli uffici e previsto interventi a sostegno dei magistrati in difficoltà. Intervento che è riuscito a riassorbire e ridurre il problema dei ritardi, anche se ovviamente in relazione agli anni successivi al 2013. Un ulteriore salto di qualità che porta al tramonto di una stagione punitiva si è avuto con la fondamentale sentenza della Cassazione, Sezioni unite, n.2948/2016, Minniti. Tale lunga vicenda disciplinare è stata emblematica. Una prima condanna della Sezione disciplinare del Consiglio (n. 42/2015) sanzionava con la censura Luca Minniti, giudice civile del Tribunale di Firenze, per il deposito in ritardo di 594 sentenze civili su un totale di 1513 nel periodo 1 ottobre 2007 – 1 ottobre 2012. La sentenza n. 2948/16 della Cassazione sezioni unite cassava tale pronuncia ritenendo che l’eccellente produttività, l’abbattimento delle pendenze, il ruolo gravoso ereditato (originariamente 1343 cause), la buona durata media delle cause (complessivamente inferiore alla maggioranza dei colleghi della Sezione) erano elementi che dovevano essere riesaminati potendo portare a ritenere giustificati i pur ingenti ritardi del dott. Minniti.

Tali affermazioni seguono e concretizzano il passo nodale contenuto nella sentenza delle Sezioni unite:

«in linea di principio il magistrato è responsabile della gestione del proprio ruolo e quando, come nell’ufficio giudiziario in cui lavorava l’incolpato e nella gran parte degli uffici giudicanti civili, la consistenza del ruolo risulta sproporzionata rispetto alla possibilità di smaltimento del magistrato assegnatario, determinando perciò solo l’accumularsi dei processi e la conseguente irragionevole durata dei medesimi, questa responsabilità assume valenza più grave e profonda, sia perché impone valutazioni di priorità che non possono essere casuali, sia perché esige dal magistrato assegnatario importanti scelte organizzative intese, per quanto possibile, a contenere un arretrato destinato, in mancanza, ad accrescersi sempre più nel tempo, anche attraverso l’allocazione delle limitate risorse (temporali, personali e materiali) a sua disposizione nel modo più razionale e funzionale possibile».

Un passaggio fondamentale, come si legge, in quanto responsabilizza fortemente i magistrati, esaltando la funzione di autogoverno diffuso che gli stessi possono e devono assumere. Il che rappresenta anche l’esatto opposto della deriva burocratica.

Nella nuova sentenza disciplinare di assoluzione di Luca Minniti ad opera della Sezione disciplinare del Consiglio (n. 178/2016) non solo vengono recepiti i criteri direttivi della sentenza della Cassazione Sezioni unite n. 2948/16, ma vengono affermati principi radicalmente innovativi in tema di procedimenti disciplinari per ritardi nel deposito di provvedimenti.

In particolare:

- Viene escluso «qualsiasi rigido automatismo valutativo in chiave negativa tra ritardo nel deposito dei provvedimenti (anche in numero rilevante) e carenza organizzativa nell’operato del magistrato», richiedendosi una considerazione specifica sul singolo caso.

-«La esistenza di una diffusa sproporzione tra carichi di lavoro e capacità obiettive individuali di smaltimento degli uffici giudicanti civili (anche se, mutatis mutandis, stesso discorso può estendersi ai ruoli dei giudici penali), attribuisce a detto fattore, per così dire, strutturale, una potenziale efficacia giustificativa e quindi, esimente della responsabilità in tutti quei casi in cui il magistrato, lungi dall’aver assunto un atteggiamento difensivo o caratterizzato da inerzia, abbia al contrario profuso il proprio apprezzabile impegno in termini di produttività e conseguente sensibile abbattimento delle pendenze, anche se ciò abbia comportato, pur in presenza di una scelta organizzativa deliberata e validata all’interno dell’ufficio, la dilatazione dei tempi di deposito, anche in un numero rilevante di casi».

Tale orientamento probabilmente chiude una stagione non invidiabile, che peraltro si trascina ancora con inevitabili code, ma apre nuovi problemi. In primo luogo di approccio culturale generale: questo nuovo atteggiamento nei confronti dei ritardi supera la dimensione prettamente individuale del singolo magistrato, alle prese con problemi personali, di salute, di carichi di lavoro intollerabili o anche di semplice difetto di organizzazione, per divenire problema dell’ufficio e del suo dirigente che deve mettere in atto tutti i possibili interventi per aiutarlo e sostenerlo, nella consapevolezza che, al di là di responsabilità individuali, quanto conta è il servizio che si dà e la sua qualità. In secondo luogo di modalità di indagine da parte dell’Ispettorato e della Procura generale presso la Corte di cassazione che richiederanno accertamenti più penetranti e meno formali. Non è più sufficiente riscontrare il dato dei ritardi, ma è necessario verificare la gestione del ruolo, i risultati raggiunti, la tempistica complessiva, oltre che eventuali giustificazioni che affondano in ragioni di lavoro o personali. Si apre inoltre il problema, quanto meno sotto il profilo della riabilitazione, di tutti i magistrati che hanno subito condanne alla stregua di un primitivo orientamento molto rigorista.

5. La scarsa rilevanza del fatto ai sensi dell’art. 3 bis

Un primo bilancio di applicazione della riforma conferma quanto siano stati fondamentali i due istituti introdotti come temperamento dalla legge n. 269/2006, ovvero l’archiviazione diretta da parte della procura generale che, come visto prima, copre più del 90% delle notizie di illecito, e l’art. 3 bis che ha introdotto la scarsa rilevanza del fatto. Basti pensare che delle assoluzioni pronunciate in tre anni tra il 2014 ed il 2017 quasi un quarto sono state pronunciate per scarsa rilevanza del fatto. La casistica è in questo campo di grandissima rilevanza, per l’enorme spazio di discrezionalità che la norma dà in questo campo al giudice disciplinare, non vincolando l’applicazione ad alcun canone. Risulta anzitutto principio pacifico e consolidato l’applicazione dell’istituto a tutte le fattispecie, anche qualora la legge parli esplicitamente di gravità. Inoltre verificando la casistica si ricava che l’esercizio della discrezionalità ha individuato tre grandi canoni di applicazione:

  • l’inoffensività del comportamento e dei suoi risultati;
  • l’assenza di lesione al prestigio della magistratura e del magistrato (Sentenze sezione disciplinare Csm. nn. 71/2016, 195/2016, 6/2017);
  • l’episodicità del fatto (nn. 136/2016, 139/2016, 207/2016, 6/2017, 24/2017, 78/2017) e la positiva valutazione del magistrato e della sua carriera (nn. 5/2016, 18/2016, 176/2016,207/2016, 24/2017, 78/2017).

 

Quest’ultimo è comunque motivo concorrente, mai unica ragione che sostiene la scarsa rilevanza del fatto.

La inoffensività dell’azione o omissione oggetto di disamina disciplinare deve desumersi da elementi oggettivi caratterizzanti il fatto addebitato, anche riferibili al comportamento del magistrato. È stato così ritenuto che rientrasse nella scarsa rilevanza il ritardo nella scarcerazione, quando questa fosse meramente formale (nn. 97/2016, 149/2016, 215/2016) proprio per l’assenza di danno riportato dall’indagato o imputato. Vi è poi un’ampia casistica che ha come criterio unificante l’inesistenza o la non apprezzabile entità di conseguenze negative per il danneggiato e/o per il servizio.

Il panorama della casistica in materia è quanto mai vario e, se rientra nel generale criterio dell’assenza o non apprezzabile offensività, si diffonde su tutta le tipologie di illeciti disciplinari.

L’ipotesi di scarsa rilevanza del fatto è stata così ritenuta in caso di[9]:

  • avere modificato una propria sentenza con un successivo provvedimento correttivo anomalo per non avere arrecato alcun danno rilevante (n. 5/2016);
  • avere disposto come pubblico ministero due intercettazioni nonostante il provvedimento di rigetto del gip essendogli stato erroneamente riferito dall’Ufficiale di polizia giudiziaria che il gip aveva autorizzato l’intercettazione e stante la sua limitata anzianità e la complessità degli adempimenti cui provvedeva in assenza dei colleghi in ferie (n. 18/2016);
  • omessa motivazione di un decreto di archiviazione avendo lo stesso giudice revocato detto decreto, disponendo la restituzione al  pubblico ministero per gli avvisi alla parte offesa (n. 64/2016);
  • aver travisato i fatti affermando la riconducibilità all’opponente di sottoscrizioni disconosciute quando la consulenza diceva invece il contrario, avendo l’appello posto comunque rimedio (n. 71/2016);
  • inerzia per 7 anni nelle indagini di un procedimento assegnato come pm per il fortissimo carico giudiziario e per gli incarichi istituzionali svolti come Magrif e nel Consiglio giudiziario (n. 76/2016);
  • inerzia di 6 anni nel non avere trattato come pubblico ministero un procedimento assegnato, poi comunque successivamente archiviato nel merito (n. 78/2016);
  • rigetto di applicazione della pena disponendo, invece della restituzione degli atti al pubblico ministero, il rinvio a giudizio dell’imputato avanti al Tribunale non essendovi stato pregiudizio per l’imputato avendo comunque la Cassazione annullato il provvedimento rilevando l’abnormità (n. 79/2016);
  • mail contenente affermazioni offensive ed aggressive nei confronti del presidente del Tribunale e del presidente di Sezione che avevano chiesto chiarimenti sulla dinamica di un infortunio in itinere subito dall’incolpato, notificando anche un atto stragiudiziale di diffida alla Procura generale, avendo la Sezione disciplinare valutato il suo stato d’animo esacerbato dalla prolungata invalidità derivante dall’incidente e per la convinzione di essere stato trattato senza il dovuto riguardo (n. 104/2016);
  • ritardo di anni nel definire una causa promossa dalla curatela fallimentare essendo state le stesse parti a chiedere di attendere avendo in corso accordi transattivi, essendosi in effetti poi accordate le parti con estinzione del giudizio (n. 105/2016);
  • dichiarazioni critiche in senso diffamatorio di una sentenza del Tribunale avanti cui era pubblica accusa, per la distanza di tempo dai fatti, l’estemporaneità della dichiarazione, il fatto isolato e la successiva dissociazione pubblica (n. 122/2016);
  • conferimento di un incarico di consulenza avente ad oggetto l’individuazione di violazioni della normativa essendosi limitato poi il consulente a una ricostruzione dei profili di legittimità amministrativa (n. 136/2016);
  • nomina (vietata) di un giudice onorario di tribunale a curatore fallimentare vista la regolarità della procedura fallimentare (n. 139/2016);
  • errore nel deposito di minuta di sentenza, scambiata con altro provvedimento, in un contesto di un’udienza molto impegnativa e di decisione contestuale (n. 176/2016);
  • offese su di un social network riprese dalla stampa, ridimensionate dalla persona offesa (n. 207/2016);
  • violazione delle tabelle subito ripristinata con revoca del provvedimento incriminato (n. 209/2016);
  • richiesta di archiviazione a carico di persona con cui aveva rapporti di amicizia in presenza di condivisione e accoglimento della richiesta da parte del gip (n. 6/2017);
  • interferenza su altro magistrato, sminuita dal collega medesimo (nn. 24/2017, 61/2017);
  • omissione meramente formale di dichiarazione di situazione di incompatibilità (n. 39/2017);
  • accesso abusivo al Re.Ge., quando il magistrato poteva comunque accedere legittimamente ai dati (n. 40/2017);
  • reiezione diretta di un’istanza di dissequestro senza inoltrarla al gip, in quanto comunque inammissibile (n. 67/2017);
  • ritardo nella scarcerazione per il carico di lavoro, il rientro dopo un lungo periodo di congedo per maternità, ed entità limitata a sei giorni (n. 78/2017);
  • uno scatto di nervi durante un’udienza con frasi offensive per le parti, per l’immediato recupero del controllo con scuse alle parti riprendendo il regolare svolgimento dell’udienza (n. 88/2017);
  • inerzia di un fascicolo per il reato di diffamazione senza alcuna attività di indagine o richiesta per cinque anni in attesa di archiviazione, stante il carico di lavoro e la chiara insussistenza di responsabilità penali (n. 95/2017).

Le motivazioni nei casi di reiezione di applicazione dell’istituto sono del tutto coerenti con quanto precede. Diverse sentenze di condanna contengono affermazioni come quelle che seguono del tutto in linea con le ipotesi di accoglimento:

«Non appare, in ultima analisi, ipotizzabile la scarsa rilevanza del fatto ai sensi dell’art. 3 bis del d.lgs n.109/2006 dovendo al riguardo essere considerato che, nell’attuale quadro di tipizzazione dell’illecito disciplinare, il bene giuridico va considerato unico per tutte le ipotesi di illecito disciplinare ed è identificabile nella compromissione dell’immagine, della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere nella collettività in cui opera, valutazione questa che deve riguardare tutto l’ambiente in cui il magistrato svolge le sue funzioni, per i riflessi sulla fiducia e considerazione che il magistrato ivi gode».

«La norma (di cui all’art. 3 bis), ispirata ad un criterio di ragionevolezza e di proporzione, in un sistema che prevede un regime di stretta tipizzazione degli illeciti – introduce nella materia disciplinare il principio di offensività, proprio del diritto penale, secondo il quale la sussistenza dell’illecito va comunque accertata alla luce della lesione o della messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, con accertamento in concreto effettuato ex post[10]».

È stata così esclusa la sussistenza della scarsa rilevanza per avere chiesto il rinvio a giudizio dell’imputato per un reato già prescritto (Cassazione, Sezioni unite, n. 14800/2016), in caso di rilevante massa delle parti coinvolte per l’elevatissimo numero dei giudizi ai quali sia riferibile il ritardo (Sezione disciplinare Csm. n. 44/2017), quando per modalità, reiterazione delle condotte (nn. 211/2016; 8/2017), per percezione tra personale e magistrati del comportamento offensivo tenuto da un lato (n. 211/2016), per il risalto dei fatti data dagli organi di stampa (n. 8/2017) veniva ritenuta lesa l’immagine ed il prestigio del magistrato.

Ne deriva comunque come l’art. 3 bis, utilizzato anche in sede di archiviazione diretta del Procuratore generale, sia divenuto oggi uno degli istituti che caratterizzano il sistema disciplinare e che temperano la durezza del principio di obbligatorietà.

È anche significativo che mentre sino ad oggi il ricorso in Cassazione contro le sentenze di proscioglimento per scarsa rilevanza del fatto venivano pacificamente ritenute inammissibili per carenza di interesse, oggi l’orientamento è cambiato.

Mentre precedentemente la Suprema corte affermava che «la formula assolutoria (…) riflette (…) la carenza stessa di un requisito essenziale della fattispecie astratta, che non lascia sussistere, in radice, alcun giudizio di antigiuridicità della condotta e non è dunque, neppure in ipotesi, idonea ad influire negativamente sullo stato di servizio o sul profilo professionale del magistrato, anche in sede di merito comparativo, tale da giustificare l’interesse alla rimozione dell’accertamento[11]».

Ora invece la Cassazione ha ritenuto che la pronuncia di assoluzione per scarsa rilevanza del fatto non è totalmente liberatoria e può recare pregiudizio nella sfera giuridica o morale dell’incolpato e pertanto vi è interesse ad impugnare la sentenza al fine di ottenere una pronuncia di esclusione dell’addebito[12].

6. I dati

I numeri della giustizia disciplinare si prestano a diverse letture. Prendendo in esame la statistica dell’attuale consiliatura dal settembre 2014 sino al 31 dicembre 2017 si notano quattro dati: il numero elevato di procedimenti definiti (553), la forte incidenza complessiva delle ordinanze e sentenze di non luogo a procedere (quasi il 40% complessivo, rispettivamente il 35,26% ed il 4,0%), il numero contenuto, ma significativo di condanne (il 30,92% del complessivo ed il 47,76% limitatamente alla fase del dibattimento), il numero ancora elevato di condanne per ritardi nel deposito dei provvedimenti.

 

 

Procedimenti definitiSentenze condanneSentenze assoluzioneSentenze di non doversi procedereOrdinanze di non luogo a procedere
553 171 165 22 195

 

Di particolare interesse è sia l’elevato numero di assoluzioni per scarsa rilevanza del fatto (39, ovvero il 23,6%) sia l’elevato numero di sentenze e ordinanze di non luogo a procedere per cessazione di appartenenza all’ordine giudiziario (17 sentenze e 41 ordinanze, ovvero il 26,7% dei provvedimenti di non luogo a procedere).

 

 

Sentenze di condanna
PercentualeTipologia Illecito
38,02 Ritardo deposito sentenze
23,14 Ritardata scarcerazione (art. 2, co. 1, lett. a e g, d.lgs n.109/2006)
9,92 Illeciti conseguenti a reato (art. 4, co. 1, lett. c e d, d.lgs n.109/2006)
6,62 Comportamenti scorretti nei confronti delle parti, dei difensori e di altri magistrati (art. 2, co. 1, lett. d, d.lgs n.109/2006)
4,14 Provvedimenti privi di motivazione art. 2, co. 1, lett. l, d.lgs n.109/2006)
18,16 Altro

 

Le tipologie di illecito sono con evidenza condizionate dalle azioni disciplinari promosse negli anni precedenti. Difatti mantengono un ruolo principe il ritardo nel deposito dei provvedimenti, pur in calo quanto a contestazioni dal 2013, e la ritardata scarcerazione, crollata come incolpazione nell’ultimo anno. Ma confermano altresì la facilità di contestare fatti puramente documentali, in larga parte derivanti da ispezioni ministeriali, che non richiedono particolari indagini ed istruttorie.

Un quadro francamente non positivo che denota anche la debolezza dell’organo inquirente che non ha né la struttura, né l’abitudine a svolgere accertamenti complessi e che aumenta la diffidenza del corpo della magistratura nei confronti di un sistema che come risultati appare capace di sanzionare violazioni formali (spesso dei colleghi più generosi), ma incapace o in ritardo rispetto a cadute deontologiche e professionali gravissime. Il fatto stesso che normalmente l’indagine penale determini il procedimento disciplinare, e non viceversa, è sintomo di un sistema debole.

Quanto poi alla valutazione sul numero di assoluzioni e condanne occorre liberarsi da due opposti atteggiamenti entrambi viziati. Esaltare condanne e severità per dimostrare la capacità di un autogoverno non lassista ha una sua razionalità, ma solo se questo rigore corrisponde a serie infrazioni, non se sanziona magistrati capaci e produttivi alla prima mancanza o che attraversano periodi difficili della propria vita personale. Altrimenti diventa un boomerang rendendo il sistema disciplinare odioso e ostile. Così all’opposto esaltare la percentuale di proscioglimenti in un’ottica corporativa che difende tutto e tutti, dimentica che sono gli stessi magistrati della porta accanto che vedono con insofferenza e vogliono rimuovere situazioni intollerabili di opacità, di connivenze, di abusi, fortunatamente rare, ma purtroppo esistenti.

Un ragionamento va condotto per tipologia di illecito. Abbiamo visto come per anni si sia avuto un orientamento estremamente punitivo in tema di ritardo nel deposito di provvedimenti e di ritardate scarcerazioni. Gli uni sono in fase di superamento grazie alla Circolare 13 novembre 2013 del Csm. e ai più recenti orientamenti delle Sezioni unite, mentre quanto alle seconde, sono in calo, ma ancora irrisolte. In apparenza si tratta di un fatto gravissimo perché incide sulla libertà personale, ma chiunque abbia svolto per qualche anno le funzioni di pubblico ministero o di gip, magari gestendo contemporaneamente decine o centinaia di persone detenute sa bene quanto facile sia un errore, specie a fronte di cancellerie sempre più desertificate. Per superare il problema basterebbe l’adozione di uno scadenzario informatico collegato al registro Sicp per aiutare gli uffici ed evitare danni a indagati ed imputati. Scadenzario contenuto nella Banca dati misure cautelari personali sperimentato dieci anni fa e mai messo in produzione. Limiti quindi che travalicano il singolo magistrato.

7. Le proposte di modifica della Commissione Vietti

La Commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario istituita dal ministro Orlando e presieduta dal professor Vietti[13] è intervenuta con una proposta anche su questo settore, limitandosi, anche per il poco tempo a disposizione (inizialmente tre mesi, poi prorogati a sei), ad una risistemazione di codice e procedura, alla luce delle esperienze maturate in questo decennio[14].

La proposta di intervento normativo non ha inteso toccare alcuni elementi di fondo della disciplina del 2006, in particolare l’obbligatorietà dell’azione disciplinare e la tassatività delle fattispecie, intesi come elementi di garanzia della giurisdizione da un lato e del magistrato incolpato dall’altro. L’intervento è stato piuttosto di razionalizzazione di un sistema che si è manifestato alternativamente burocraticamente punitivo o inefficace.

Ciò ha comportato un esame fattispecie per fattispecie ed un riordino generale. A tal fine sono stati recuperati ed a volte ripresi i ddl Flick e Vassalli, cui anche il testo vigente si era in parte ispirato. Il riordino ha comportato una ristrutturazione sistematica per doveri, enunciando per ogni fattispecie dovere, addebito, sanzione. Questo anche per superare l’attuale situazione del tutto irrazionale che non vede corrispondenza tra incolpazione e sanzione. Inoltre si è cercato di operare verso una chiarezza delle fattispecie eliminando o chiarendo fattispecie generiche e riformulandole sulla base delle giurisprudenze formatesi. In particolare sono state cancellate sia l’ipotesi dei comportamenti che arrecano un ingiusto danno o un indebito vantaggio ad una delle parti (art. 3, co. 1, lett. a), sia la grave violazione di legge (art. 3, co. 1, lett. g) in quanto estremamente generiche. Sono state invece aggiunte due specifiche contestazioni che oggi rientravano nella grave violazione di legge ovvero la ingiustificata ritardata scarcerazione e la manifesta elusione dell’obbligo di procedere alla tempestiva iscrizione della notizia di reato o del nome dell’indagato nel prescritto registro al fine di eludere i termini.

La necessità di un codice disciplinare chiaro e trasparente ha portato a enunciare una riserva di codice, facendo rientrare in questa legge tutte le disposizioni sparse che oggi sono contenute in leggi diversi[15].

Sul lato sostanziale è stata infine introdotta la riabilitazione.

Sotto il profilo procedimentale gli interventi sono stati limitati a rendere il procedimento garantito, con l’obbligo di interrogatorio e chiarendo i rapporti tra Procura generale e Ministero.

Il punto più discusso e contestato è stata la previsione nell’ambito degli illeciti extra funzionali di una norma di chiusura «che punta a far rientrare nel recinto della sanzionabilità tutti i comportamenti illeciti sfuggiti attraverso le maglie troppo larghe della tipizzazione[16]». Non a caso è la norma su cui si sono incentrate le critiche della Risoluzione del Csm: «Concludendo sul punto, il sistema punitivo attuale, per la sua plasticità applicativa, è già pienamente rispondente all’esigenza di completezza dell’ordinamento, per cui non appare affatto indispensabile la reintroduzione nel sistema di una clausola sanzionatoria del tipo indicato andrebbe a minare il cardine portante del  sistema disciplinare tipizzato, come voluto dal legislatore, vanificandolo totalmente: il rischio è quello di una regressione dell’ordinamento ad una fase regolativa già da tempo superata, in ragione di fondanti esigenze avvertite nella comunità scientifica e sostenute con fermezza dalla giurisprudenza, anche sovranazionale, con effetti collaterali chiaramente gravi e molteplici, quali i prevedibili riflessi negativi che una norma di tal fatta potrebbe svolgere sui diritti, anche costituzionalmente garantiti, del magistrato (si richiamano qui le parole di Corte costituzionale, sent. 7 maggio 1981, n. 100, per cui “... deve riconoscersi e non sono possibili dubbi in proposito che i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino”)[17]» La questione non è facile perché se è vero che la tipizzazione in particolare degli illeciti extra funzionali inevitabilmente non comprende comportamenti ex ante non prevedibili, in un campo estremamente vasto, d’altro lato vulnerare con norme di chiusura, come tali inevitabilmente generiche, il principio di tassatività viene ad avere un forte costo di immagine e di possibili strumentalizzazioni. Tutto nasce da due o tre casi che, pur estremamente riprovevoli (il magistrato che si presenta ubriaco all’udienza o sorpreso in un bagno a drogarsi), non rientravano in nessun illecito del codice disciplinare. Vi è da domandarsi se, a fronte di altre possibilità di intervento pur esistenti (la procedura per incompatibilità ambientale o la valutazione di professionalità), ciò giustifichi di alterare un sistema che oggi ha una sua coerenza e si basa sul binomio obbligatorietà-tassatività.

8. Qualche proposta possibile

Non siamo in epoca di riforme, come testimonia lo stesso elaborato della Commissione Vietti richiesto con grande urgenza ed abbandonato nei capaci archivi del Ministero. Anzi, se riforme ci saranno, temo che avranno una direzione regressiva. Ma ciò non toglie che proposte in positivo siano possibili. Il primo e fondamentale cardine è che il sistema disciplinare per essere una vera tutela non solo del cittadino, ma anche della magistratura, deve investire e sanzionare solo le patologie dei comportamenti.

Ciò significa che i ritardi nel deposito dei provvedimenti (salvo casi macroscopici o la trasgressione ai piani di rientro), come altri attuali illeciti funzionali, dovrebbero essere affrontati ed eventualmente sanzionati nell’ambito delle valutazioni di professionalità. E ciò dovrebbe avvenire per le varie violazioni funzionali episodiche, lasciando l’intervento disciplinare ai casi davvero gravi e reiterati. Del resto ricordiamo sempre che il numero di procedimenti e sanzioni disciplinari irrogati in Italia è molto superiore alla mediana degli altri Paesi dell’Europa[18]. Sempre in questa direzione andrebbe esclusa la sussistenza di azioni e responsabilità disciplinari in tutti i casi in cui le violazioni siano di sistema e non dei singoli. Se i ritardi non sono di un singolo magistrato, ma di un’intera sezione o ancora se l’assenza o il malfunzionamento di uno scadenzario di ufficio porta una sede ad una situazione di crisi, occorre riscontrare che il problema non può essere addossato e trovare un singolo magistrato come capro espiatorio, più o meno casuale, ma essere risolto a livello più generale dell’ufficio. È la direzione fatta propria dalla Circolare 13 novembre 2013 del Consiglio, e che occorrerebbe estendere.

Inoltre viene ad essere necessaria una diversa organizzazione dell’organo inquirente, ovvero della Procura generale. Il forte aumento quantitativo di procedimenti portati all’attenzione della Procura generale della cassazione ha fatto divenire questo settore uno dei principali compiti di tale Ufficio. Senza peraltro che lo stesso fosse rafforzato e dotato di strutture per condurre indagini che a volte sono necessariamente complesse. Da ciò una giustizia disciplinare inesorabile per le violazioni formali facilmente documentate e documentabili e scarsamente efficace per i casi più gravi che richiedono penetranti accertamenti. Dimensioni, struttura e mezzi della Procura generale vanno pertanto fortemente ripensati alla luce dell’esperienza di questi anni.

Anche la composizione delle Sezioni unite della Cassazione in materia disciplinare va ripensata ed è opportuno che le Sezioni unite ricomprendano sia magistrati provenienti dalle sezione civili che penali, proprio al fine di conoscere quanto più possibile ed essere quindi in grado di valutare il lavoro svolto dal magistrato[19].

Proprio questa necessità invece fa ritenere incongrue e pericolose tutte le proposte di sostituire al Csm come organo giudicante un’alta Corte di giustizia composta anche da provenienti dalle altre magistrature o seguendo lo schema della Corte costituzionale (un terzo di eletti dai magistrati, un terzo dal Parlamento ed un terzo nominati dal Presidente della Repubblica). Queste proposte rispondono a diverse volontà: rendere più efficace il sistema disciplinare nelle altre magistrature unificandolo, dare una maggiore terzietà all’organo, evitare il preteso lassismo della sezione disciplinare del Consiglio[20]. La realtà è che in questo modo si accentua la lontananza dell’organo disciplinare dalla conoscenza delle diverse realtà giudiziarie e si rende più formale e casuale il giudizio: cosa può sapere un giudice amministrativo o contabile delle problematiche e delle regole dell’arte di un magistrato di sorveglianza o del tribunale del riesame? Terzietà non può voler dire scarsa conoscenza o incompetenza sia pure incolpevole.

Infine occorre prendere atto della radicale differenza di situazioni, condizioni e consapevolezza tra gli anni scorsi, quando gli addebiti sono stati commessi, e l’attuale situazione e prevedere una sorta di riabilitazione o di cancellazione formale o sostanziale delle sanzioni disciplinari trascorsi un certo numero di anni.

Far dipendere la carriera di un magistrato da ciò non solo è ingiusto, ma porta ad una perdita di motivazioni del tutto negativa per il servizio prima ancora che per il singolo.

Il problema comunque non è solo, né principalmente di norme, ma anzitutto di una cultura che metta al primo posto il servizio e l’ufficio giudiziario evitando sia coperture corporative, sia ricerca di capri espiatori.

[1] Elena Ficociello, La responsabilità disciplinare dei magistrati, in www.iusinitinere, luglio 2017, www.iusinitinere.it/la-responsabilita-disciplinare-dei-magistrati-4126.

[2] Gianfranco Ciani, Responsabilità civile e responsabilità disciplinare, in Foro it., III, 2015, p. 334.

[3] Vedi il manifesto di Magistratura Indipendente, I magistrati sotto la morsa del disciplinare, 10 maggio 2012.

[4] Per questi ed altri dati sono fondamentali le statistiche relative all’attività della Procura generale in materia disciplinare pubblicate ogni anno allegate all’intervento del procuratore generale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario rinvenibili nel sito della Corte di cassazione.

[5] Sul tema v. M. Fresa, La responsabilità disciplinare per ritardi nella gestione del processo, SSM, Formazione decentrata, Milano, 12 dicembre 2013; M. Fresa I ritardi nell’attività giudiziaria e la responsabilità disciplinare, SSM, 6 ottobre 2014; Caputo, Gli illeciti disciplinari, in Ordinamento giudiziario, leggi, regolamenti e procedimenti, a cura di E. Albamonte e P. Filippi, Utet giuridica, 2009, pp. 729 ss.; D. Cavallini, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Cedam. Padova, 2011, pp. 99 ss.

[6] Cassazione, Sezioni unite, 17 gennaio 2012, n. 528.

[7] Cassazione, Sezioni unite, 18 maggio 2010, n. 14697; 30 marzo 2011, n. 7193; 13 settembre 2011, n. 18699 nonché le nn. 18696, 18697, 18698 del 2011; 3 novembre 2011, n. 22729; 17 gennaio 2012, n. 5281; 13 febbraio 2012, n.1990 e 5 aprile 2012, n. 5444.

[8] C. Castelli, Ancora il caso Minniti: verso il tramonto di una stagione punitiva per i ritardi in Questione Giustizia on line, 20 dicembre 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/ancora-il-caso-minniti_verso-il-tramonto-di-una-stagione-punitiva-per-i-ritardi_20-12-2016.php.

[9] La casistica è ovviamente molto più ampia. La presente rassegna si limita alle sentenze pubblicate nel 2016 e 2017.

[10] Cassazione, Sezioni unite, n. 6468/2015.

[11] Cassazione, Sezioni unite, n. 19976/2014.

[12] Cassazione, Sezioni unite, 9 maggio 2017, n. 29914.

[13] Sui lavori della Commissione vedi M. Vietti, Mettiamo giudizio. Il giudice tra potere e seevizio, Università Bocconi Editore, UBE, 2017; C. Castelli, Commissione ministeriale per l'ordinamento giudiziario: più di un semplice maquillage, non ancora un progetto, in Questione Giustizia online, 7 aprile 2016, www.questionegiustizia.it/articolo/commissione-ministeriale-per-l-ordinamento-giudiziario_piu-di-un-semplice-maquillage_non-ancora-un-progetto_07-04-2016.php; Risoluzione sulla relazione della Commissione ministeriale per il progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario, delibera del Csm del 13 settembre 2016.

[14] Commissione di cui ho fatto parte e nella quale ho coordinato la sottocommissione che si è occupata di valutazioni di professionalità, incompatibilità e disciplinare.

[15] Disposizione di attuazione del cpp, d.lgs n. 209/2006 sul pubblico ministero.

[16] M. Vietti, op. cit., p. 149.

[17] Risoluzione Csm, cit,  p. 28.

[18] V. Cepej Report on European judicial systems – Edition 2014 (2012 data): efficiency and quality of justice, ove risulta che nel 2012 c’erano state 0,6 sanzioni disciplinari irrogate per ogni 100 giudici e 2,3 sanzioni per ogni 100 pubblici ministeri contro una mediana europea rispettivamente di 0,4 e di 0,6 – pp. 348 ss.

[19] Tale modifica è contenuta anche nelle proposte della Commissione Vietti. Una variazione tabellare in tal senso relativa alla composizione delle Sezioni unite ad opera del presidente della Corte di cassazione ha dovuto arrestarsi stante la attuale chiara disposizione di legge.

[20] La proposta è stata avanzata nel 2010 nel disegno di riforma costituzionale del ministro Alfano e, come organo di appello sul disciplinare, ma anche come destinatario dei ricorsi contro i provvedimenti amministrativi del Csm in, L. Violante, Magistrati, Einaudi, Torino, 2009, pp. 175 ss.