Magistratura democratica

La giustizia tributaria vista da un giudice laico.
Ovvero sul contributo dei giudici non professionali

di Antonio Ortolani

La specificità degli interessi coinvolti nelle controversie tributarie rende irrinunciabile l’apporto di specifiche competenze tecniche ai fini della loro cognizione e contrasta l’ipotesi del giudice monocratico come forma generalizzata di decisione delle controversie medesime, pur essendo possibili ed auspicabili correttivi idonei a migliorare il funzionamento del processo innanzi al giudice tributario.

1. Le caratteristiche del processo tributario e la specificità degli interessi protetti

Il contenzioso tributario è stato caratterizzato da sempre da un corpo normativo e da un ordinamento specifico e particolare, che solo a partire dal 1992 con il d.lgs n. 546 del 31 dicembre 1992 ha assunto quale riferimento (quanto al rito) il codice di procedura civile. Anche successivamente, grazie sia alle pronunce giurisprudenziali sia agli interventi di volta in volta disposti dal legislatore, il sistema si è evoluto in modo sempre più mirato e finalizzato, onde ricondurre il processo tributario, seppur con significative deroghe, al più generale rito processuale di riferimento.

Tale specificità non rappresenta tuttavia un limite o una incongruità nel sistema, ma è la logica conseguenza della peculiarità della materia tributaria: una peculiarità tale che non consente al processo di essere ricondotto interamente allo schema tipico del processo civile se non a pena di conseguenze tali da vanificare l’efficienza e la funzionalità del procedimento stesso.

Mi riferisco in particolare al fatto che in materia di tributi più che altrove la norma va calata nella realtà operativa, il che non significa differenze interpretative o diversi e maggiori ambiti di discrezionalità – sempre forieri di giustizie “particolari” e quindi di ingiustizie – quanto invece una particolare attenzione al perseguimento dei fini voluti dal legislatore e che trovano limiti e condizionamenti nei diritti costituzionalmente garantiti di natura economica reale, molto più complessi che non in altri settori dell’ordinamento.

Nel contenzioso tributario più che altrove la necessità di giustizia richiede tempi brevi e giustizia sostanziale, non solo formale, e il mondo dell’economia tocca interessi che riguardano tutti, interessi che sono in rapido cambiamento, che non conoscono confini geografici tanto che sovente le categorie giuridiche rigide non sono in grado di governarli.

Ne consegue che a seconda di come detti interessi economici vengano declinati, le operazioni in cui si estrinsecano possono essere ritenute legittime od illegittime (si pensi al caso dell’abuso di diritto), spesso anche per fattori esterni che mal si prestano ad osservazioni puramente oggettive anche se deve necessariamente essere rifiutata una valutazione prevalentemente soggettiva; e ciò esalta la necessità di “agire e decidere informati” anche sul più vasto contesto in cui viene applicata la specifica norma di legge.

Per tale ragione la giurisprudenza della Suprema Corte è particolarmente importante, anche se sovente non uniforme e bisognosa di più tempo e riflessione prima di potersi ritenere “assestata”.

In una tale situazione è molto importante il confronto delle opinioni, unica via per limitare quanto più possibile gli errori, dato che il principio giuridico da solo sovente non coglie le ipotesi e le realtà concrete alle quali deve essere applicato: occorre in tali casi una valutazione corretta ed orientata che dia al principio giuridico il suo significato pieno e soddisfacente, e che sovente non è solo un significato formale.

2. La proposta di monocraticità come forma generalizzata di decisione delle controversie tributarie di primo grado. Critiche alla proposta

Le osservazioni che precedono sembrano sufficienti per contrastare ed escludere l’ipotesi del giudice monocratico, salvo alcuni limitati casi di cui si dirà.

Si può certamente obiettare che ciò accade, forse in minor misura, in tutti i settori del diritto, e che le leggi devono essere sempre applicate con coerenza ed oggettività. L’osservazione è certamente vera, ma non esiste un’area del diritto che sia così tanto condizionata e che interagisca in modo così significativo con l’economia quanto il diritto tributario. E lo stesso discorso vale per la vastità degli interessi toccati e per la rilevanza delle conseguenze a livello di sistema (non certo singolarmente) che ne possano derivare.

A mio giudizio queste sono le ragioni che hanno imposto la scelta di un organo giudicante sempre collegiale e a composizione mista, tecnica e togata: scelta apparentemente singolare e anomala nel sistema giudiziario italiano, ma altamente funzionale ed idonea alla materia trattata, peraltro “protetta” da una rigidissima incompatibilità quanto ai membri non togati.

Tale sistema ha garantito risultati concreti di grande pregio, permettendo rapidità di decisioni, una ridotta durata del processo e il contenimento dei costi, risultati altrimenti non ipotizzabili con un sistema per così dire “tradizionale”.

La breve durata dei processi, generalmente attestati ad un anno per il primo grado e sovente meno per il secondo (circa 1/3 del tempo richiesto dal processo civile), salvo anomalie circoscritte e generalmente dovute a disfunzioni organizzative, non è solo merito del rito semplificato, ma va riconosciuto in particolare alla coesistenza di queste due componenti, che riesce a garantire la necessaria specifica conoscenza tecnica della materia.

Quale esempio di tale peculiarità può essere interessante rilevare la connotazione particolare rappresentata dalla fase cautelare, che vede nel processo tributario l’esatto opposto del rito ordinario quanto all’interesse del ricorrente, ovvero all’ipotesi di un utilizzo strumentale dilatorio. Chi non è assistito da un significativo “fumus boni iuris” o ha interesse a dilatare i tempi del giudizio non chiede la sospensione: senza sospensione gli viene iscritto un terzo, ma con la sospensione, quando poi ha torto nel merito, dopo 90 giorni si vede iscrivere i due terzi. Chi chiede la sospensione deve sentirsi ragionevolmente sicuro, ovvero rischia.

Ciò vale più di tante dissertazioni sul significato di danno grave e irreparabile, ed è un esempio di come sovente il diritto sia condizionato dalla realtà, e non viceversa.

A tal proposito e nell’ottica dell’economia del processo sarebbe ad esempio molto utile fissare l’udienza del merito a data fissa anziché a nuovo ruolo anche nell’ipotesi in cui la sospensione venisse negata: si evita il “solve et repete”, si rende giustizia e si velocizza il procedimento, dato che il caso è già stato esaminato almeno sommariamente in sede cautelare.

Sarebbe poi possibile trovare una soluzione anche alla sempre controversa questione del mancato compenso per il giudizio cautelare: basterebbe applicare una maggiorazione percentuale.

Da un punto di vista puramente astratto non vi è dubbio, ed è da tutti riconosciuto, che la competenza tecnica sia un requisito imprescindibile e irrinunciabile nel processo tributario, con una valenza però più rilevante di quanto avviene nella gestione del contenzioso tradizionale, in quanto in materia tributaria il merito è sovente l’elemento decisivo quando non assumano rilevanza pregiudiziale le questioni di diritto.

Una breve disgressione può aiutarci a comprendere meglio il tema.

La scuola, e in particolare l’Università, ha come fine l’insegnare il “perché” (“why”), con prevalenza sul come: senza conoscenza del perché delle cose non si fa strada nel mondo scolastico e accademico, e la giustizia ordinaria è fortemente vicina a tale logica.

Nella realtà di tutti i giorni è invece privilegiato il “come” (“how”), e lo è a tal punto e sempre più da superare e sovente dimenticare il perché, in questo caso con danni che si evidenzieranno sempre più nel tempo.

Non credo di esprimere un concetto arcaico nel dire che una giustizia efficiente ha bisogno di ambedue queste conoscenze e che il “why” e il “how” devono completarsi: è ciò che avviene nel contenzioso tributario proprio grazie alla forma collegiale del giudizio e alla coesistenza della componente togata e della componente laica, portatrici di culture e saperi comuni, ma differenziati dall’esperienza quotidiana.

Pur dando per certa ed acquisita la competenza tecnica di ogni componente il collegio giudicante, sovente il problema non è la conoscenza della norma, quanto invece la sua particolare applicazione nel caso di specie. Ciò invero è tipico anche di altre giurisdizioni, e vi si ovvia con la qualità della difesa di parte o, estrema ratio, con la consulenza tecnica. Tale rimedio, in particolare con riferimento alla consulenza tecnica, non porta però a risultati soddisfacenti nel contenzioso tributario in quanto i contendenti non difendono interessi della medesima natura e le parti in giudizio (la pubblica amministrazione e il contribuente) possono generalmente contare su supporti professionali diversi sia come habitus mentale proprio, che quale ricorso a professionisti di elevato standing, il cui costo va a discriminare le parti anche in termini di accesso ai mezzi di difesa.

Si pensi ai contenziosi più rilevanti sia in termini qualitativi sia quantitativi. L’Ufficio è certamente in grado – e generalmente lo fa – di svolgere una buona difesa, che però è sovente più orientata a dimostrare di aver bene operato sotto l’aspetto procedurale e con riguardo al rispetto delle norme interne che non finalizzata ad individuare il punto di ragionevole convenienza del contendere nell’ottica del realizzo della pretesa tributaria. Il contribuente in tale caso – e sempre più frequentemente – sarà portato a sviluppare la sua difesa con ampio ricorso al principio di non contestazione; ed è noto che tale strumento difensivo diviene più efficace quanto più si amplia il dibattito, si emettano ordinanze o si ammettano consulenze tecniche, con un carico di lavoro che soprattutto la parte pubblica non sarebbe in grado di sostenere.

Ne è prova che pur potendo ricorrere ai servigi dell’Avvocatura dello Stato, l’intervento dell’Avvocatura nei giudizi in primo e secondo grado non è di fatto praticato né previsto, anche quando sono in discussione questioni di rilevanza generale.

La consulenza tecnica poi, per la natura stessa della materia non potrebbe essere quasi mai astrattamente cognitiva, ma acquisirebbe anche una valenza conclusiva che è in evidente e netta antitesi con quella che deve invece essere la sua finalità.

Inoltre difese di tal tipo, oltre che essere costose, non sono compatibili con la maggior parte delle vertenze che approdano in Commissione, per lo più legate – nei numeri – ad errori materiali o a iscrizioni automatiche che un più attento ed indipendente esame preventivo potrebbe evitare, e che certamente non richiedono per la loro soluzione particolari conoscenze giuridiche mentre certamente richiedono conoscenze tecniche su come si generino e si sviluppino tali situazioni, cognizioni che sono sicuro patrimonio degli “addetti ai lavori”. In tali casi potrebbe risultare praticabile l’ipotesi del giudice monocratico, ma solo a condizione di avere questo specifico skill di “addetto ai lavori”.

Si potrebbe osservare, e non senza fondamento, che tali questioni non dovrebbero arrivare nelle aule della giustizia tributaria, e che dovrebbero trovare componimento prima. Osservazione giusta, che però non tiene conto della realtà: la cosiddetta mediazione ex art. 17 bis non è una mediazione, in quanto avviene nei confronti di quella parte (anche se è diverso l’ufficio), che ha emesso l’atto impugnato. È di fatto una richiesta di riesame in autotutela che nulla ha a che vedere con la mediazione pre-contenzioso, che in realtà non c’è, e che richiederebbe un soggetto terzo e un sistema premiale che è oggi vanificato dalla rilevanza delle sanzioni.

3. L’irrinunciabilità all’apporto di competenze tecniche specifiche nella decisione delle controversie tributarie

Anche tali ultime considerazioni ci riportano alla caratteristica fondamentale che deve essere propria di un contenzioso tributario efficiente: la disponibilità di competenze tecniche in materia di gestione aziendale, finanza ed economia d’impresa, unita alla conoscenza del diritto tributario e degli istituti che caratterizzano il procedimento civile.

La proposta di istituire sezioni specializzate in materia fiscale, così come disegnata nel progetto Ermini, è a mio parere destinata non a migliorare ma a peggiorare la situazione attuale in quanto per funzionare richiederebbe un giudice togato con le conoscenze economiche, e non sono teoriche ma sperimentate sul campo, di un dottore commercialista (posto che non sarebbe possibile il contrario): ciò non può avvenire in quanto sono troppo diverse le culture e i percorsi formativi delle due professioni per essere sintetizzabili nella stessa persona.

Ecco perché, e da sempre, il processo tributario ha avuto bisogno di organi giudicanti collegiali a composizione mista: solo così si può ottenere il massimo dalle due componenti giuridica ed economica, e solo così si può velocizzare il processo e ridurne i costi, pervenendo ad una giustizia che sia anche e soprattutto di sostanza.

A giudizio di chi scrive il progetto Ermini non propone un modello più funzionale di giustizia tributaria proprio perché non risolve in realtà il problema della specifica conoscenza e della specializzazione, pur riconoscendone la necessità, tanto da farne il motivo primo della riforma. Di fatto però tale progetto sceglie una strada che annulla proprio quella necessaria sommatoria di saperi che per poter funzionare non può risiedere in un giudice monocratico, né può acquisirsi con corsi di specializzazione in quanto essa si forma solo con la frequentazione quotidiana dei fatti e delle casistiche in merito alle quali il giudice deve esprimersi.

Inoltre – ed è la terza critica di carattere generale al progetto – esso prevede la costituzione di organi di giudizio collegiali di secondo grado in tutte le sedi di Commissione provinciale con giudice monocratico. Ciò può sembrare una facilitazione per il ricorrente che non deve spostarsi presso la sede regionale, ma in realtà ciò comporterebbe una controproducente parcellizzazione dell’appello con l’apertura di almeno settanta/cento ulteriori commissioni di secondo grado (numero da moltiplicarsi se vi fosse più di una commissione di secondo grado per ogni sede), con una conseguente dispersione di tempi, diseconomie di scala, ulteriori necessità di reperire locali e personale, e quindi con oneri economici che vanno in senso esattamente opposto rispetto all’obiettivo di ridurre i costi e i tempi e di rendere più efficiente il sistema.

4. Alcuni possibili correttivi per migliorare il funzionamento del processo tributario

Meglio allora analizzare cosa funziona e cosa non va nell’attuale sistema, ricercandone ove possibile le soluzioni e tenendo conto anche dei suggerimenti che possano pervenire dalla proposta Ermini, là ove possibile.

Ecco alcuni temi, che ci consentono di richiamare sia quanto proposto sia la realtà esistente.

La mediazione ex art. 17 bis d.lgs n. 546/92

L’istituto della mediazione è certamente uno strumento molto valido per ridurre il contenzioso, ma perché esso funzioni deve essere ripensato interamente, e qui si propongono due ipotesi di lavoro alternative:

a) rimane un filtro obbligatorio al contenzioso, non costituisce un grado di giudizio ed è limitato a tipologie quantitative modeste.

In tal caso potrebbe essere sufficiente individuare un soggetto che faccia effettivamente da “mediatore” (non già da giudice monocratico) e, cioè, da facilitatore della composizione e che – qualora vi sia il consenso delle parti ed entro limiti percentuali prefissati – possa anche avanzare una proposta conciliativa, libere le parti di accettarla o no.

Una tale proposta deve però vedere estremamente limitate le ipotesi di applicazione e un tetto al valore della controversia, con la conferma ad esempio del tetto attuale e la limitazione alle iscrizioni automatiche ex art. 36bis, 36ter e 51 IVA). Vanno comunque sempre escluse le questioni di diritto;

b) diviene una fase pre-contenziosa facoltativa a più ampio raggio, esperita presso le Commissioni tributarie ma con un giudice monocratico già componente le attuali Commissioni provinciali, e con attribuzione quantitativa più elevata (es. fino a 50.000 euro), con abbattimento delle sanzioni (ad esempio ad un quinto del minimo), e con spese compensate. La mediazione si trasforma in tal caso in pre-contenzioso e quindi la proposta, qualora non accolta, dovrà essere impugnata avanti ad altra sezione ordinaria a composizione collegiale della Commissione provinciale la cui sentenza potrà essere impugnata solo con ricorso in Cassazione se si tratta di sola questione di diritto, ovvero in Commissione regionale quale ultimo grado di giudizio se la vertenza riguarda anche o solo il merito.

Ci si rende conto che una ipotesi di tale tipo può sembrare provocatoria, oltre che spuria rispetto al sistema, e quindi può essere preferibile e più facilmente praticabile una terza soluzione;

c) la situazione rimane quella attuale ma la mediazione avviene in sede terza con memoria scritta di ciascuna parte che accetta o no il tentativo di mediazione, e se lo accetta formula obbligatoriamente una proposta motivata con valenza transattiva.

Nel range delle proposte delle parti il mediatore formula una sua proposta con riduzione delle sanzioni al 20% del minimo e la compensazione delle spese, libere le parti di accettarla o meno, e nulla cambierebbe in tal caso quanto al prosieguo del contenzioso, dato che già oggi sono previste delle penalizzazioni per il soccombente finale.

Il diverso inquadramento del personale di segreteria

Non vi è dubbio che su tale punto si debba necessariamente intervenire.

In realtà, sulla base della esperienza maturata in ormai trentatré anni di Commissione tributaria, non ho conoscenza di casi in cui la dipendenza funzionale del personale di segreteria sia stata utilizzata a vantaggio dell’amministrazione finanziaria, se non per una più che ragionevole economia operativa, ma mai sotto il profilo dei diritti.

Ciò non di meno è privo di logica ed è contrario al necessario principio di terzietà il fatto che l’inquadramento funzionale, che comprende anche aspetti economici e percorsi professionali e di carriera, dipenda dal Ministero dell’economia e non dal Ministero della giustizia.

Analoga questione, invero, dovrebbe porsi anche per i giudici, ma in tal caso la questione si limita solo a chi paga i compensi dato che l’autonomia è garantita da altre norme e dal Cpgt, che non va abolito, ed è ovvio – e noto – che la funzione di tesoreria è comunque accentrata presso il Mef.

Non va infine trascurato il “fattore di rischio”: ciò che non è avvenuto finora non è detto che non possa avvenire in futuro e quindi il correggere una stortura è sempre dovere necessario, non dimenticando che oltre che essere irreprensibili nella sostanza (dato essenziale) è necessario esserlo anche nella forma, per quanto la prima debba sempre far premio sulla seconda.

La formazione e l’obbligo di aggiornamento

Anche tale punto merita una valutazione positiva, seppur in una logica che comprenda sia la componente laica sia quella togata, posto che non condivido l’esclusione dai collegi giudicanti dei membri laici.

Non ho mai creduto che la conoscenza possa essere acquisita nel tempo con l’esercizio della funzione: sarebbe una forma di giustizia minore che riconosce un deficit di conoscenza all’origine, per cui è certamente opportuna, anzi necessaria, la seconda valutazione di professionalità: ma da sola essa non basta.

Occorre infatti che vi sia anche una specifica preparazione in materia economica, finanziaria ed aziendale che, nell’ipotesi di soli membri togati, richiederebbe la frequenza di corsi specifici (utili peraltro anche per il Tribunale delle imprese) che preveda anche una sperimentazione pratica quale soluzione minimale, comunque a mio giudizio non sufficiente.

Qualora invece si dovesse mantenere – come auspico – la doppia componente, è necessario rafforzare il livello qualitativo all’entrata anche per giudici laici onde rafforzare il know why, limitando l’accesso ai soli laureati in possesso di laurea specialistica in economia con piano di studi che abbia previsto il diritto privato, il diritto tributario e la procedura civile, ovvero di laurea in legge con piano di studi che abbia previsto economia aziendale, finanza e diritto tributario.

Semplificando, l’accesso dovrebbe essere consentito, garantendo così maggior professionalità, ai soli laureati in economia che abbiano superato l’esame di stato per dottori commercialisti (include lo studio dei diritti), ovvero ai laureati in giurisprudenza che abbiano superato l’esame di stato quale avvocato, ma con una specializzazione in economia, e in ogni caso per ambedue con almeno 5 anni di iscrizione all’Ordine.

Ciò garantirebbe conoscenza tecnica, esperienza professionale (praticantato più esercizio della professione per almeno 5 anni) e deontologia, nonché la certezza dell’aggiornamento professionale, caratteristiche tutte che l’attuale normativa non prevede e ancor meno garantisce.

Estensione della competenza dell’organo giudicante alla determinazione delle sanzioni

É noto come il sistema delle sanzioni sia oltre modo rigido ed eccessivamente punitivo, tanto che è di poco tempo fa la rivisitazione delle sanzioni in chiave di adesione.

L’organo giudicante già oggi può dichiarare non dovute le sanzioni, ma solo nel caso di dubbio interpretativo della norma, quindi con esclusione di ogni valutazione oggettiva o soggettiva del caso in esame, e ciò forse anche in violazione del disposto della Corte di giustizia europea che ha più volte dichiarato illegittime le sanzioni che non rispettino il principio di proporzionalità e gravità rispetto alla violazione, principio che certo non è garantito dal solo valore percentuale quando non è consentito al giudice di esprimersi sul contesto di applicazione, e questo valore percentuale è spesso un multiplo.

Parrebbe quindi opportuno un intervento su tale punto che consenta al giudice tributario, riprendendo proprio l’insegnamento della Corte, di dichiarare non dovute, ovvero dovute in misura ridotta le sanzioni con motivazione obbligatoria e con riferimento alla gravità della violazione e al contesto soggettivo ed oggettivo del fatto.

 

Necessità di delimitare in modo più puntuale le incompatibilità dei giudici laici con esclusione di incompatibilità per le attività proprie previste dai singoli ordinamenti professionali che non abbiano valenza fiscale.

Il concetto è così chiaro ed evidente che non avrebbe bisogno di essere trattato, ma purtroppo le finalità evidentemente punitive di taluni recenti interventi legislativi hanno creato situazioni di totale illogicità, probabilmente suscettibili anche di eccezione di incostituzionalità.

Se si ritiene che la magistratura tributaria debba essere composta da soli giudici togati (es. proposta Ermini) il presente problema ovviamente non si pone.

Qualora invece si ritenga, come io ritengo, che l’apporto professionale della componente laica sia essenziale per un giudicato equilibrato e coerente con la realtà economica e con la vita sociale quotidiana, tale partecipazione deve essere incentivata e allora il tema è della massima importanza in quanto la sua corretta soluzione è alla base non solo della credibilità dell’organo giudicante ma rappresenta anche la “conditio sine qua non” perché ulteriori professionalità possano essere coinvolte e dare il loro apporto rilevante al buon funzionamento della giustizia tributaria.

Com’è noto, oggi l’incompatibilità non è soggetta a limitazioni territoriali, riguarda qualsiasi attività di natura tributaria nei confronti di ciascun cliente e indipendentemente dall’esistenza o meno di contenzioso.

Già tale previsione è così vasta da scoraggiare qualsiasi commercialista “classico” o avvocato che si occupi di tributi dall’esercitare la funzione di giudice tributario.

Negli ultimi tempi poi sono intervenute nuove disposizioni legislative che hanno vietato l’attività di arbitro (e senza limite di materia) ai giudici tributari, ecclesiastici e militari, il che è francamente incomprensibile.

Talora poi si sentono affermazioni parimenti insostenibili, quali ad esempio una asserita incompatibilità a ricoprire la carica di amministratore, in quanto redigendo un bilancio ci si occupa “necessariamente” anche di questioni fiscali, ovvero che il sindaco e il revisore (come l’amministratore) firmano la dichiarazione dei redditi e quindi esprimono (?) un giudizio fiscale sull’operato della società.

L’assurdità di tali affermazioni è in “re ipsa”; che dire allora della redazione e firma della propria dichiarazione dei redditi? Dobbiamo dare procura a terzi sia per la redazione sia per la sottoscrizione? Tralasciamo quindi queste ipotesi prive di ogni logica, prima ancora che di pregio giuridico, e torniamo alla vera consistenza del problema: occorre separare nettamente l’attività in materia fiscale, vietandola per chi fa parte delle Commissioni tributarie, ma a livello operativo sia diretto che indiretto e con riferimento alla fase contenziosa, quand’anche solo potenziale, facendo ovviamente salvi lo studio delle problematiche e la sola espressione di giudizi non professionalmente richiesti (garantendo così la libertà didattica, di ricerca, pubblicistica che trova il suo limite non in una misura di principio necessariamente aberrante ma in valutazioni di opportunità).

Quanto alle attività proprie professionali non dovrebbe esserci a mio giudizio limite alcuno per tutte le attività previste dai singoli ordinamenti professionali e che non comportino un rapporto diretto, attuale o futuro, con gli uffici fiscali o con gli organi preposti alle verifiche e agli accertamenti nonché per ogni forma di contenzioso, incluso pertanto anche il divieto al rilascio di pareri e non la sola redazione di atti.

Non può invece esservi incompatibilità con altre attività proprie della professione che non abbiano come oggetto il rapporto tributario, anche se possono – seppur indirettamente e non quale oggetto diretto – richiedere valutazioni economiche con valenza fiscale, dato che oggi qualsiasi attività economica è indirettamente interessata da una valutazione anche fiscale, dalla sottoscrizione di un mutuo alla scelta di un investimento (cct o corporate bond, quale tipo di società costituire, comunione o separazione di beni, etc.) e ciò anche nella vita quotidiana di ciascuno quale comune cittadino.

A maggior ragione va eliminato il divieto per arbitrati e mediazioni, o perlomeno limitato alle sole questioni fiscali: il buon senso già lo dice, ma la norma di legge dice il contrario.

Altri ancora sono i punti su cui è possibile intervenire, ma con un discorso più tecnico che richiede approfondimenti e tempi non consentiti dai limiti di questo scritto.