Magistratura democratica

La riforma costituzionale e il referendum. Le ragioni del SÌ

di Luciano Violante

Viviamo – scrive l’Autore – non in un’epoca di cambiamenti, ma in un cambiamento d’epoca, contrassegnato da fattori come il rovesciamento dei rapporti tra finanza e politica, l’interdipendenza globale, la necessità di velocizzare le procedure decisionali. Sono circostanze che chiedono un mutamento di orizzonte costituzionale, nella direzione del superamento del “complesso del tiranno”. In questo contesto, infatti, occorre scegliere se rimanere subalterni e subire il cambiamento, oppure se governarlo con norme costituzionali per ridare al sistema politico capacità di decisione e stabilità, evitando al contempo rischi di straripamenti personalistici. È questa la rotta intrapresa dalla riforma costituzionale: eliminazione del bicameralismo paritario, concentrazione del rapporto fiduciario nel rapporto Camera/Governo, voto a data fissa sui disegni di legge di iniziativa governativa, previa deliberazione della Camera, controllo del Senato sulle politiche del Governo. Sono innovazioni che mirano a restituire efficienza alla democrazia. Non mancano i bilanciamenti al potere del Presidente del Consiglio, che anzi vengono ampliati, dai limiti posti al ricorso ai decreti legge alla possibilità per il popolo di promuovere referendum propositivi.

1. Il referendum sceglierà il sistema politico nel quale vivremo nei prossimi anni. Il SÌ e il NO hanno pari dignità e meritano pari rispetto, ma producono conseguenze molto diverse.

Se vincesse il NO, continueremmo a vivere per molti anni nel sistema attuale caratterizzato dalla instabilità dei Governi, dodici Esecutivi negli ultimi venti anni, dall’assenza di controllo sulle politiche dei Governi, dalla umiliazione del Parlamento per effetto della sequenza decreti legge omnibus-maxiemendamenti-fiducie che si trascina da anni con ritmi crescenti. È infatti difficile che dopo una eventuale bocciatura, le Camere riprendano a lavorare a un nuovo progetto di riforma, anche per la difficoltà di trovare punti di convergenza tanto tra le forze parlamentari che avranno sostenuto il voto contrario, quanto tra gli studiosi che condividono la stessa posizione. Inoltre nel 2018 dovrebbero tenersi le prossime elezioni politiche ed è evidente anche al più sconsiderato ottimista che l’attuale situazione di instabilità istituzionale, abusi regolamentari, incertezze sui diritti si trascinerebbe ancora in questa e nella prossima legislatura.

Due importanti personalità del Paese, l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema e l’ex presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo, entrambi contrari alla riforma, hanno minimizzato gli effetti di una eventuale vittoria del NO, sostenendo che non sarebbe successo nulla, come non è successo nulla dopo la vittoria del NO nel referendum del 2006 che respinse la riforma del centro destra.

In realtà il problema è proprio quello indicato: non è successo nulla, non c’è stato alcun cambiamento. Dal 2006 al 2016 abbiamo continuato con l’instabilità: sei Governi in dieci anni, contro i tre della Germania e della Gran Bretagna, scelte di breve respiro, mutevolezza delle regole dovuta all’avvicendarsi delle maggioranze politiche, una pubblica amministrazione lasciata a sé stessa perché priva di duraturi indirizzi politici.

La stabilità é un valore decisivo per i sistemi democratici. La mancanza di Governi stabili impedisce scelte strategiche, quelle che cambiano davvero la vita dei cittadini, comporta frequenti cambiamenti delle regole con conseguente incertezza dei diritti, fa navigare la vita della comunità nazionale tra piccolo cabotaggio e grandi naufragi. Si tratta, inoltre, di una condizione necessaria per la credibilità di un Paese e per la sua possibilità di incidere positivamente nelle relazioni internazionali. Cambiare troppo spesso presidente del Consiglio e ministri rende il Paese e i suoi rappresentanti poco ascoltati e poco credibili.

Nei rating internazionali non siamo indietro perché siamo incapaci; siamo indietro perché il nostro sistema politico non é stabile, non é rapido e quindi non aiuta i cittadini. Se i nostri giovani sono richiesti da centri di ricerca e imprese straniere in misura assai superiore rispetto alla media europea, vuol dire che le capacità ci sono, che le istituzioni della formazione funzionano ma é il contesto italiano che non favorisce le giovani generazioni. Qualcuno obbietterà che è colpa delle classi politiche dirigenti. L’obiezione non é sbagliata, ma senza un adeguato contesto istituzionale anche i migliori costumi naufragano nella disillusione e nel velleitarismo.

 

2. Se prevalesse il SÌ, non si aprirebbero le porte dell’Eden, ma avvieremmo una fase di positivi cambiamenti. Come vedremo nelle prossime pagine verrebbe favorita la stabilità, cesserebbero i decreti legge omnibus, i cittadini avrebbero diritto al referendum propositivo, le politiche del Governo sarebbero soggette al controllo del Senato, le decisioni parlamentari diventerebbero, in media, più rapide.

Nessuna riforma costituzionale ha effetti salvifici. Occorrono anche classi dirigenti adeguate, etica pubblica, reputazione, tutte doti che purtroppo non si ottengono per legge. Ma in un cattivo assetto dei poteri della Repubblica difficilmente fiorisce a lungo una buona democrazia, anche quando le classi politiche dirigenti siano stimabili e apprezzate.

Ogni Costituzione, ed ogni incisiva riforma costituzionale apre le porte a un futuro solo in parte prevedibile e proprio per questo suscita timori e timidezze.

Il funzionamento delle norme costituzionali non è conseguenza automatica della loro approvazione, ma frutto di molteplici fattori: la rappresentatività dei partiti, i rapporti tra maggioranza e opposizione, la volontà politica della maggioranza, la cultura democratica delle classi dirigenti, la situazione economica, le condizioni internazionali. Inoltre una incisiva riforma costituzionale cambia il rapporto tra i poteri pubblici e il ruolo dei poteri privati nella vita pubblica, mette un discussione consolidate certezze intellettuali, costringe a pensare in termini nuovi mettendo in discussione idola e tabù.

“L’ostruzionismo della maggioranza” negli anni successivi al 1948 rallentò a lungo l’attuazione dei nuovi principi. Giudizi ferocemente critici vennero dati sulla nuova Costituzione in Assemblea Costituente da Calamandrei, Nitti e Orlando[1]. Salvemini, nei suoi scritti, parlò di «l’alluvione di scempiaggine». Consiglio di Stato e Cassazione, come é noto, contestarono la stessa giuridicità di gran parte delle norme costituzionali.

Eppure quella Costituzione ha aperto, sviluppato e garantito un processo di civilizzazione democratica tra i più imponenti del mondo occidentale.

La nostra storia ci consiglia di esser prudenti. Occorre separarsi intellettualmente dall’ordinamento vigente e leggere la riforma con lo sguardo rivolto al futuro, come si guarda a un mondo nuovo. È evidente che il vecchio mondo ha una sua ragion d’essere, una sua nobiltà e una sua dignità. Ma il giurista non può non chiedersi se nell’ordinamento vigente sia davvero tutto ancora valido e tutto ancora efficace e se la proposta nuova pur se non priva di difetti, sia più adeguata a garantire i valori fondamentali. Ed é proprio del sapere e del ruolo del giurista sottoporre le norme, specie quelle costituzionali, a vaglio critico senza preconcetti ideologici e pregiudizi politici.

I sistemi costituzionali non vivono nel mondo delle idee anche se da quel mondo attingono le proprie caratteristiche fondamentali. La loro vita quotidiana si svolge all’interno di determinati contesti nazionali e internazionali, economici, finanziari, sociali. Se il contesto cambia radicalmente non sono sufficienti pratiche di rianimazione delle categorie tradizionali. Sono necessari cambiamenti, a volte profondi, per salvaguardare con mezzi nuovi i valori della democrazia.

Le procedure tradizionali presupponevano una politica padrona del proprio spazio e del proprio tempo. Non prevedevano la interdipendenza globale; non tenevano conto della permeabilità delle politiche pubbliche di ciascuno Stato a quelle degli altri Stati. Agivano in un contesto in cui la politica governava ancora i grandi processi economici e finanziari. Non ritenevano la velocità della decisione politica una qualità necessaria della democrazia; anzi ritenevano utili ripensamenti, pause di riflessione, riesami.

Oggi non è più così. Bisogna rendersi conto che non viviamo in un’epoca di cambiamenti; viviamo in un cambiamento d’epoca, caratterizzato da almeno quattro fattori.

Le politiche pubbliche sono diventate interdipendenti; i Governi devono perciò tenere conto di quanto fanno i Paesi concorrenti per non essere tagliati fuori dalla competizione internazionale danneggiando così i propri cittadini. Siamo nel tempo della morte dei confini.

Il rapporto tra politica e finanza si é rovesciato. «A volte», disse Tietmeyer a Davos nel 1996, «ho l’impressione che la maggior parte dei politici non abbia ancora capito quanto essi siano già oggi sotto il controllo dei mercati finanziari.»

È in corso la quarta rivoluzione industriale, quella dell’internet delle cose e dell’industria 4.0. Ogni rivoluzione industriale ha comportato il passaggio a una nuova epoca con nuovi ordinamenti e nuovi soggetti politici.

Nel nostro mondo, infine, la razionalità, che è l’anima della democrazia politica, è sempre più frequentemente sconfitta dall’emozione. Si tratta di un processo che mortifica le classiche procedure democratiche fondate appunto sulla razionalità ed esalta invece la figura del leader seduttivo e la teatralizzazione della politica. Il filosofo tedesco di origine sud coreana Byung-Chu Han in un libro recentemente pubblicato in Italia, Psicopolitica[2], sostiene che oggi viviamo in un«capitalismo delle emozioni» perché il processo razionale è troppo rigido e prevedibile per le nuove tecniche di produzione che si basano sulla emotività. Si potrebbe dire qualcosa di analogo per la “democrazia delle emozioni”, priva di narrazione, fondata sul fluire di messaggi sganciati dal tempo e privi di consequenzialità che guadagnano consensi per la loro capacità di suscitare emozioni, non per quella di alimentare riflessioni.

 

3. Per non essere subalterni, occorrono cambiamenti di orizzonte e un ripensamento degli strumenti tradizionali della democrazia, la riaffermazione di una unificante razionalità. Ignorare le trasformazioni e restare legati a modelli ideali, nobili ma incapaci di fronteggiare i nuovi caratteri del mondo in cui si vive, produce emarginazione del Paese dai processi economici globali, penalizzazione dei cittadini e dei loro diritti, colonizzazione economica e finanziaria. In assenza di riforme, prevalgono le vie di fatto che nascono dalla necessità e prosperano nell’arbitrio.

Poco più di dieci anni fa, il 29 novembre 2005, Leopoldo Elia tenne una lectio doctoralis sulla presidenzializzazione della politica in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Scienze politiche da parte dell’Università di Torino[3]. Elia spiegava che si tratta di un fenomeno che in forme diverse si stava affermando in molte democrazie occidentali, prendeva le mosse da un importante studio comparativo pubblicato nello stesso anno[4] e si soffermava sulle caratteristiche e sulle cause di questa trasformazione delle democrazie parlamentari. Sulla scorta delle sue riflessioni e delle evoluzioni successive del sistema politico italiano, si può sostenere che la presidenzializzazione è in corso anche nel nostro Paese e non da oggi. Con quel termine si indica il peso determinante del presidente del Consiglio all’interno del Consiglio dei ministri, la concentrazione nelle sue mani di risorse decisionali anche in campi che dovrebbero appartenere alla competenza dei singoli ministri, il forte condizionamento della vita parlamentare, anche attraverso l’abuso di strumenti regolamentari, l’autonomia rispetto al partito, anzi l’adattamento del partito alle sue esigenze, la forte personalizzazione della comunicazione politica.

Il fenomeno è frutto del crescente rilievo della politica europea e della politica estera, sempre più spesso condotte direttamente dal presidente del Consiglio, della necessità di decisioni rapide, che non consentono confronti, dell’esigenza di un parallelismo tra le proprie funzioni e quelle dei colleghi di altri Paesi con i quali il presidente del Consiglio deve interloquire e negoziare. Tuttavia quando il fenomeno della presidenzializzazione si muove nel vuoto normativo, come oggi da noi, sono possibili straripamenti, forzature e distorsioni personalistiche delle funzioni pubbliche.

 

4. «Questo sistema [...] è stato strutturalmente predisposto sulla premessa di un contrappeso reciproco di poteri e quindi di un funzionamento complesso, lento e raro, sì come quello di uno Stato che non avesse da compiere che pochi e infrequenti atti sia normativi che esecutivi, perché non tenuto ad adempiere un’azione di mediazione delle forze sociali , e tanto meno ... un’azione continua di reformatio, di propulsione del corpo sociale [...]»[5].

Così Giuseppe Dossetti si espresse nel 1951, solo tre anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione. Questo giudizio sulla Seconda parte della Costituzione fu comune a molti degli stessi costituenti. Il 4 settembre 1946, ad esempio fu approvato in seconda sottocommissione dell’Assemblea costituente l’ordine del giorno Perassi, che appariva frutto della consapevolezza dei rischi cui andava incontro quello specifico ordinamento della Repubblica: «La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del Governo presidenziale, né quello del Governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Quando la capacità dei partiti si esaurì, il problema della funzionalità del sistema e i pericoli segnalati dall’on. Perassi cominciarono a porsi in termini sempre più drammatici: le degenerazioni del parlamentarismo furono affrontate con iniezioni di autoritarismo. Il carattere dominante acquisito in via di fatto dalla figura del presidente del Consiglio risponde quindi ad esigenze oggettive di funzionalità del sistema politico. Non è l’unica risposta possibile alle nostre attuali fragilità istituzionali; ma, in assenza di una diversa risposta, è inevitabile che tenda ad espandersi illimitatamente persino creando pericoli per i valori democratici. E tuttavia se si vuole porre un freno, superando la soglia della pura lamentela, la riforma è inevitabile. Appare quindi contradditorio denunciare il fenomeno della presidenzializzazione senza confini e poi impegnarsi perché venga respinta la riforma, consolidando quindi lo status quo.

La mancanza di norme costituzionali dirette a garantire la piena funzionalità dell’ordinamento ha una precisa ragione politica e storica. Dopo la Liberazione dal nazifascismo si fronteggiavano due coalizioni, una delle quali, Pci e Psi, faceva espresso riferimento all’Unione Sovietica e l’altra, Dc con i suoi alleati, faceva riferimento agli Stati Uniti. Le prime elezioni politiche dell’Italia repubblicana, che si sarebbero tenute nel 1948, avrebbero deciso anche della nostra collocazione internazionale: se avesse vinto il blocco Pci-Psi, saremmo finiti nell’orbita dell’Unione Sovietica; se avesse vinto, come poi vinse, il blocco moderato saremmo stati attratti nell’orbita occidentale. Diritti fondamentali, libertà, rapporti tra pubblico e privato avrebbero avuto assetti completamente diversi se avessero vinto i filosovietici o i filoamericani. Conseguentemente, ciascuno dei due blocchi vedeva come una iattura la vittoria dell’altro, nutrendo profonda sfiducia nella altrui capacità di rispettare le regole della democrazia. Per queste ragioni si evitò di formulare regole costituzionali a garanzia della stabilità e del governo del Paese.

 

5. La specificità italiana si coglie con nettezza se si confronta la Costituzione italiana con quella tedesca. Entrambi i Paesi avevano dato vita a una dittatura, avevano provocato una guerra e l’avevano persa. Venivano quindi da esperienze politiche simili e avevano le stesse esigenze: forma di governo parlamentare, maggioranze stabili, governi forti, ruolo di garanzia del presidente della Repubblica. Ma i congegni istituzionali per la stabilizzazione dell’esecutivo, la riduzione della frammentazione politica, l’omogeneità delle maggioranze parlamentari furono introdotti nella Costituzione tedesca e non in quella italiana: solo il Bundestag dà la fiducia e non anche il Bundesrat; sfiducia costruttiva; soglia di sbarramento al 5%; fissazione di un termine entro il quale il Bundestag deve dare la fiducia al cancelliere, pena lo scioglimento, potere del cancelliere di revocare i ministri. Tutto il sistema tedesco è orientato alla stabilità e alla decisione.

Il nostro sistema costituzionale, al contrario, è tuttora espressione del principio di instabilità e di non decisione: il bicameralismo paritario fa sì che chi ha vinto in un ramo del Parlamento potrebbe soccombere nell’altro; la necessità della fiducia di entrambe le Camere per dar vita ad un Governo, e il fatto che sia sufficiente la sfiducia di una sola di esse per farlo cadere, accentua la instabilità politica come carattere fondamentale del sistema. La mancanza di termini entro i quali le Camere dovrebbero dare la fiducia a un Governo fa sì che le crisi possano durare un tempo indefinito, sino a quando i partiti della maggioranza non abbiano trovato una intesa. Il complesso del tiranno fu superato in Germania con un sistema democratico forte, in Italia con un sistema democratico debole. Nel nuovo edificio politico tanto il Parlamento quanto il Governo erano privi di autonomia e decidevano solo su input dei partiti.

Giorgio Amendola ne spiegò le ragioni in Assemblea costituente: «Si è parlato del tentativo di dare alla nostra democrazia condizioni di stabilità con norme legislative. È evidente che una democrazia deve riuscire ad avere una sua stabilità se vuole governare e realizzare il suo programma; ma non è possibile ricercare questa stabilità in accorgimenti legislativi … e c’è il fatto nuovo e positivo della formazione dei grandi partiti democratici, che sono condizione di una disciplina democratica … Oggi la disciplina, la stabilità è data dalla coscienza politica, affidata all’azione dei partiti politici.[6]».

I garanti della democraticità del sistema e della concreta possibilità di governare il Paese sarebbero stati quindi i partiti, legittimati da quasi due milioni di iscritti, dalla guerra contro il fascismo e il nazismo, dalla scelta per la Repubblica e per l’Assemblea costituente e che, quando lo Stato si disfaceva dopo l’8 settembre e la fuga del Re con la sua corte, avevano sostituito i pubblici poteri nell’esercizio delle funzioni politiche e persino nella cura dei servizi pubblici essenziali.

Il sistema politico guidato dai partiti funzionò, pur tra contraddizioni, cadute e tragedie, sino a tutti gli anni Settanta. La situazione economica era positiva; non c’erano reali alternative al governo della Dc e dei suoi alleati tradizionali; c’era continuità di linea politica. I governi erano transitori; i ministri ruotavano negli incarichi ma erano quasi sempre gli stessi e garantivano quindi stabilità di linea politica: dal 1948 al 1996 su 233 ministri e presidenti del Consiglio solo 63 hanno ricevuto un solo incarico; su 1988 incarichi complessivi, 162 personalità hanno ricevuto 1332 incarichi di governo. Una intesa non scritta tra tutte le forze politiche salvaguardava la dignità delle istituzioni e il primato degli interessi nazionali. Lo prova il caso delle votazioni segrete; nella prima Legislatura, quella della guerra fredda, del Patto Atlantico, dei tentativi legislativi anti Pci e antisindacali di Scelba, su 1114 sedute di Camera e Senato si tennero solo 175 votazioni segrete; nella nona Legislatura (1983-1987), quella della rottura tra Pci e Psi e dell’inizio della crisi dei partiti, in 634 sedute se ne tennero ben 2485.

 

6. Non mancarono cadute e tragedie; ma si trattò di eccezioni anche gravissime che evidenziarono le prime difficoltà dei partiti a svolgere il proprio ruolo costituzionale. Il sistema ha funzionato sinché i partiti sono stati in grado di adempiere alla loro funzione di guida. La loro crisi ha determinato la crisi del sistema. I tentativi di riforma costituzionale cominciano infatti negli anni Ottanta, dopo l’assassinio di Aldo Moro e la crisi del compromesso storico, quando il sistema dei partiti comincia a dare segni di cedimento.

Da quel momento tutti i tentativi di riforma (commissioni Bozzi e De Mita Jotti, comitato Speroni, commissione D’Alema; riforma del centro destra bocciata dal referendum del 2006; cosiddetta bozza Violante; Comitato istituto dal Presidente Napolitano; Commissione istituita dal Presidente del consiglio Enrico Letta; riforma Renzi) perseguono sempre più intensamente la finalità di costruire regole costituzionali per garantire quella stabilità che i costituenti avevano consegnato alla volontà dei partiti politici e che i partiti non erano più in grado di garantire.

È difficile contestare le finalità della riforma; ma occorre accertare se i mezzi predisposti sono adeguati. Non è questa la sede per un esame analitico di tutte le norme del testo sottoposto a referendum. Possono darsi per scontate aporie, inesattezze linguistiche, incertezze normative. Gli studiosi sanno che nessun testo costituzionale, per di più passato attraverso ben sei letture parlamentari, è uscito indenne dalle critiche dei contemporanei. Qui interessa piuttosto porre in luce gli aspetti che rispondono alle principali esigenze e che hanno lo scopo di migliorare le prestazioni della nostra democrazia.

 

7. La stabilità è conseguita attraverso il superamento del bicameralismo paritario e una legge elettorale maggioritaria, che, pur non essendo sottoposta a referendum, è strettamente connessa alla riforma. La fiducia al Governo sarà conferita o revocata non più da entrambe le Camere ma solo dalla Camera dei deputati, eletta con il premio di maggioranza previsto dal cosiddetto Italicum. La doppia fiducia, di Camera e Senato, un unicum nel panorama Ue, è stata una mina vagante per molti governi, compreso il governo Renzi che al Senato si sostiene con i voti del gruppo fuoriuscito da Forza Italia, diretto dal senatore Verdini. Con la fiducia da parte della sola Camera il rischio-Senato sarebbe cancellato. Sull’Italicum, entrato in vigore il primo luglio 2016, ci sono molte riserve anche da parte di chi é favorevole alla riforma. In base a questa legge chi prende almeno il 40% dei voti al primo turno o vince il secondo turno, ha un premio di maggioranza che lo porta a conquistare complessivamente 340 seggi, ventiquattro in più della maggioranza assoluta (316 seggi). I principali timori sull’Italicum sono due: che possa attribuire al presidente del Consiglio, chiunque esso sia, un eccesso di potere e che la maggioranza assoluta alla Camera possa corrispondere ad una insufficiente rappresentatività. I ventiquattro seggi in più della maggioranza assoluta (316) sono sufficienti per il primato ma insufficienti per governare con tranquillità. È quindi evidente che il vincitore avvierà consultazioni per costruire una coalizione di governo; ma, a differenza del passato, le eventuali consultazioni partiranno da un piano di forza del candidato alla Presidenza del consiglio che disporrebbe comunque già della maggioranza assoluta.

Più fondata appare la seconda obiezione. Non essendo fissato un quorum per la validità del ballottaggio, nel secondo turno potrebbe votare ad esempio il 40% degli elettori; la maggioranza assoluta potrebbe aggirarsi perciò attorno al 22 o 23 per cento del corpo elettorale. Anche tenendo conto dei seggi guadagnati direttamente al primo turno e della corrispondente percentuale dei votanti, il “premio” in alcuni casi potrebbe risultare sproporzionato rispetto alla effettiva rappresentatività del vincitore. Peraltro proporre un quorum di votanti per rendere efficace il ballottaggio potrebbe consegnare un’arma pericolosa ai perdenti nel primo turno che, non partecipando al voto, renderebbero nullo il ballottaggio e farebbero scattare inevitabilmente una ripartizione proporzionale dei seggi sulla base dei voti ottenuti nel primo turno: il contrario della stabilità. Diventano sempre più insistenti, infine, le richieste dei partner di Governo per introdurre il ballottaggio di coalizione, che era in realtà la prima opzione dello stesso presidente del Consiglio. In caso di ballottaggio di coalizione, occorrerebbe elevare significativamente il premio di maggioranza per garantire una effettiva stabilità.

Le leggi elettorali, per la loro importanza sistemica, possono essere assoggettate a due valutazioni: una di carattere politico e una di carattere costituzionale. Sulla prima le opinioni sono molteplici e dipendenti dalle convenienze delle diverse parti politiche. Il punto sul quale appare necessario insistere nella vicenda italiana è che la maggioranza parlamentare si formi direttamente nelle urne attraverso un ragionevole ed efficace premio in seggi a chi abbia vinto le elezioni e abbia riportato un apprezzabile coefficiente di rappresentatività. La riflessione sull’Italicum dovrebbe ispirarsi a questi criteri.

L’unico modo per verificare la seconda valutazione è sollecitare l’intervento della Corte costituzionale. Pende già oggi dinanzi alla Corte una eccezione sollevata dal Tribunale di Messina, sulla cui ammissibilità potrebbe sollevarsi qualche dubbio. Ma non è l’unica strada. La riforma infatti attribuisce a un quarto dei deputati o a un terzo dei senatori il potere di chiedere alla Corte costituzionale la verifica delle leggi elettorali per una o per entrambe le Camere. Le opposizioni e la minoranza del Pd hanno già annunciato che si avvarranno di questa facoltà, se il referendum confermasse la riforma. Il vantaggio di questa soluzione è di avere il giudizio della Corte prima che la legge sia applicata ed evitare quindi, in caso di incostituzionalità, totale o parziale, le polemiche sulla legittimità del Parlamento eletto in forza di quella legge. Chi ha preoccupazioni sull’Italicum dovrebbe votare SÌ al referendum per poter consentire l’esame immediato di quella legge elettorale. Chi vota NO perché non condivide quella legge elettorale, paradossalmente la consolida perché impedisce la pronuncia preventiva della Consulta.

 

8. La riforma prevede due procedimenti legislativi. Quello bicamerale riguarda un certo numero di proposte di legge, assai rilevanti e specificamente indicate nel nuovo articolo 70 (art. 10 della legge di riforma); quello monocamerale riguarda tutte le altre proposte che vengono approvate definitivamente dalla sola Camera dei deputati. Le leggi monocamerali sono approvate dalla Camera e inviate immediatamente al Senato. Il Senato, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può richiamare la legge approvata a Montecitorio entro dieci giorni ed apportare modifiche entro i successivi trenta giorni. La Camera decide poi in via definitiva.

I termini di dieci e trenta giorni sono ridotti per alcuni tipi di leggi, che richiedono una particolare celerità, come le leggi di bilancio o quelle che intervengono nelle competenze regionali al fine di tutelare l’interesse nazionale. Le leggi approvate dalla Camera e non richiamate dal Senato entro dieci giorni diventano definitive.

Sono previsti rigorosi limiti per i decreti legge. Il Governo non potrà più ricorrervi con la disinvoltura attuale e non potranno più essere presentati al Parlamento decreti omnibus dove sono ammassate norme disparate, non omogenee e di difficile reperibilità non solo per i comuni cittadini ma anche per i tecnici. I decreti devono recare misure di immediata applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo. Il Parlamento non può approvare disposizioni estranee all’oggetto.

La riforma risolve la delicata questione del rinvio alle Camere da parte del presidente della Repubblica della legge di conversione di un decreto legge. Oggi il rinvio alle Camere comporterebbe quasi sicuramente la decadenza del decreto perché il riesame da parte del Parlamento comporterebbe prevedibilmente il superamento del termine di sessanta giorni entro il quale il provvedimento deve essere convertito in legge. Questa è la ragione principale per la quale i Presidenti non hanno mai esercitato la facoltà del rinvio nei confronti delle leggi di conversione dei decreti legge. Il nuovo articolo 77 (art.16 della legge di riforma) prescrive che il termine dei sessanta giorni é prorogato a novanta giorni qualora il presidente della Repubblica abbia rinviato la legge alle Camere chiedendo una nuova deliberazione. È una forma ulteriore di controllo sulla maggioranza e sul Governo.

A compensazione della ridotta ricorribilità al decreto legge, è previsto il voto a data fissa: l’Esecutivo può chiedere alla Camera il voto entro settanta giorni per provvedimenti essenziali all’attuazione del programma di Governo. La Camera, se vota la proposta, si vincola all’approvazione entro il termine deliberato. La innovazione, già prevista in taluno dei progetti elaborati dalle Camere negli ultimi tempi, da al Governo la certezza sui tempi di approvazione di provvedimenti ritenuti necessari, anche nei confronti degli impegni assunti con la comunità internazionale.

 

 

9. Le critiche sulla nuova forma del Senato tendono a mettere in luce il numero ridotto di componenti e la riduzione dei compiti, convergendo per la sua sostanziale inutilità. In realtà, prescindendo dalle intenzioni dei proponenti, all’esito della riforma il Senato non appare né una camera morta né un dopolavoro per consiglieri regionali in vacanza nella Capitale. Mantiene molti compiti legislativi ed esercita rilevanti funzioni di controllo sull’attività del Governo e della maggioranza. Per funzionare, però esige un modello organizzativo totalmente nuovo. Occorre partire dai nuovi compiti e costruire il modello attorno a questi compiti.

Ad esempio, per determinare il numero delle Commissioni, sarebbe sbagliato partire dalle attuali 14 per poi ridurne il numero accorpando le attuali competenze. Le funzioni previste dalla riforma sottoposta a referendum sono di tre tipi: legislative, di controllo e per i rapporti con l’Unione europea. Sarà opportuno quindi istituire tre sole Commissioni, una per ciascuna di queste funzioni. Utile in ogni caso sarà lo studio dei modelli organizzativi di altri Senati con caratteristiche simili al nostro, anche per rendere compatibile l’esercizio delle funzioni nei rispettivi consigli regionali o giunte comunali con l’esercizio delle funzioni nel Senato.

L’elenco delle leggi bicamerali è indicato con precisione nell’art. 70. L’ultimo periodo del primo comma chiarisce che le leggi bicamerali «ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma» (procedura bicamerale). Questa clausola contribuirà nel corso del tempo alla chiarezza dell’ordinamento giuridico riducendo l’incertezza sulla effettiva esistenza di norme apparentemente abrogate. Spetterà ai presidenti delle Camere e ai presidenti delle Commissioni competenti disporre, previa approvazione di apposita norma nei nuovi Regolamenti, lo stralcio delle disposizioni che contengono disposizioni eterogenee rispetto al contenuto proprio del ddl.

L’art. 70 è stato criticato per la sua lunghezza a fronte dell’attuale testo della Costituzione. Questa critica, a differenza di altre, appare infondata: il bicameralismo differenziato comporta più procedimenti legislativi e pertanto un maggior dettaglio delle diverse discipline. Basta consultare gli articoli da 76 a 79 della Costituzione tedesca che affrontano lo stesso problema.

I compiti di controllo son quelli più innovativi; se ben gestiti, come ci si augura, farebbero del Senato un efficace contrappeso nei confronti dell’attività della maggioranza e del Governo. Riguardano questioni cruciali come la valutazione delle politiche pubbliche, l’attività delle pubbliche amministrazioni, l’attuazione delle leggi dello Stato, l’impatto sui territori delle politiche dell’Ue. Il Senato, inoltre, svolge funzioni di raccordo tra Stato, Regioni, Comuni e Ue.

Il Senato ha 95 componenti elettivi e 5 nominati dal presidente della Repubblica tra le personalità eminenti del Paese per sette anni e non rinominabili. I senatori quindi sono quindi 100 (i senatori tedeschi sono attualmente 69) più gli ex presidenti della Repubblica che restano senatori a vita. I novantacinque sono eletti per ciascuna regione dal consiglio regionale tra i consiglieri regionali e i sindaci. I senatori che provengono dai consigli regionali sono eletti «in conformità alla scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi», secondo le modalità stabilite da una legge bicamerale. Pertanto la scelta dei senatori da parte dei consigli regionali avviene sulla base di una preventiva selezione dei candidati effettuata da parte degli elettori. Gli elettori infatti, all’atto della elezione del nuovo consiglio regionale, dovranno scegliere oltre al proprio candidato che, se eletto, resterà in consiglio regionale, il proprio candidato al consiglio regionale che, se eletto, sarà anche candidato al Senato. I senatori infatti conservano le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, come fanno già oggi i loro colleghi tedeschi, spagnoli o francesi. I poteri del Senato, cioè dei consiglieri regionali e dei sindaci che ne fanno parte, vanno letti anche in relazione al ridimensionamento dei poteri delle Regioni, peraltro attuato da tempo dalla Corte costituzionale attraverso numerose sentenze in materia di sussidiarietà legislativa e di coordinamento della finanza pubblica. La riduzione di alcune competenze delle Regioni, infatti, appaiono compensate dai compiti dei consiglieri regionali in Senato. Per di più il presidente del Consiglio non può porre al Senato la questione di fiducia. Il Senato, infine, con la deliberazione della maggioranza assoluta dei componenti, può chiedere alla Camera di procedere all’esame di un disegno di legge. La Camera deve pronunciarsi entro sei mesi.

 

10. La legge sottoposta a referendum arricchisce il catalogo costituzionale delle forme di partecipazione popolare alla decisione politica, attraverso referendum propositivi e di indirizzo, nonché attraverso «altre forme di consultazione anche delle formazioni sociali».

«Per formazione sociale» – ha deciso la Corte Costituzionale, sent. 138/2010- «deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico») L’art. 71 della legge di riforma rinvia ad una futura legge costituzionale, per la definizione degli istituti partecipativi[7].

È previsto l’innalzamento del numero delle firme necessarie per le proposte di iniziativa popolare, da 50.000 a 150.000, compensato dalla garanzia costituzionale di discussione e di deliberazione da parte delle Camere; oggi quelle proposte non hanno alcuna garanzia di esame e finiscono sovente nel dimenticatoio. È previsto un abbassamento del quorum di partecipazione al referendum abrogativo quando la proposta è stata sottoscritta da almeno 800.000 elettori: in questo caso è sufficiente la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera. Il voto contrario alla riforma priverebbe i cittadini di queste non secondarie forme di partecipazione alle decisioni politiche.

 

11. La legge di riforma aumenta in modo irrazionale i poteri del presidente del Consiglio? Questa obiezione sembra priva di fondamento. La limitazione del ricorso ai decreti legge, la possibilità del presidente della Repubblica di rinviare alle Camere le leggi di conversione dei decreti legge, la necessità delle procedure bicamerali per leggi molto importanti e la correlativa impossibilità di porre al Senato la questione di fiducia, i poteri di controllo dello stesso Senato sulle attività del Governo e della maggioranza, l’irrobustimento delle forme di partecipazione popolare alle decisioni politiche che rompono il monopolio della legge da parte della maggioranza parlamentare e del Governo, l’intervento preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali, pongono limiti che sembrano smentire tale preoccupazione. Il presidente del Consiglio, comunque si chiami, avrà poteri analoghi a quelli del Cancelliere tedesco, del Premier inglese o del Presidente spagnolo, salvo il potere di revocare i ministri (come in Germania e in Gran Bretagna) o di chiederne la revoca (al Re in Spagna).

Occorre liberarsi dal complesso del tiranno, che maschera spesso l’avversione per il potere politico in quanto tale, come se potesse essere dato governo senza potere. I limiti e i controlli servono appunto ad indirizzare sui binari giusti l’esercizio del potere politico. Dal complesso del tiranno non bisogna scivolare verso il comodo fascino del Re Travicello (Tacete, tacete/lasciate il reame,/o bestie che siete,/a un Re di legname./Non tira a pelare/vi lascia cantare/non apre macello/un Re Travicello.).

Nel corso delle polemiche, talunoha sostenuto che la riforma del centro destra, bocciata dal referendum del 2006, fosse migliore di quella di cui oggi si discute. Per una valutazione scevra da pregiudizi si può rinviare all’ultima parte della lezione tenuta da Leopoldo Elia presso l’Università di Torino, citata in precedenza. In ogni caso occorrerebbe ricordare, a parte la confusione sui procedimenti legislativi e sul tipo di federalismo, che in quella legge il Presidente del consiglio aveva il potere di sciogliere direttamente la Camera dei deputati, tenendola quindi sotto permanente ricatto.

Ha fatto male il Governo a presentare il disegno di legge e a guidare il dibattito parlamentare?

Il fallimento parlamentare di tutti i precedenti progetti di riforma, per circa 30 anni,[8] è stato determinato proprio dalla mancanza di una guida nel dibattito parlamentare. Una riforma costituzionale ha bisogno di coerenza e di determinazione; è necessario ascoltare e correggere, ma con l’intento di procedere e di concludere perché la necessità di una modernizzazione degli strumenti per rendere effettivi i valori costituzionali era ed è non rinviabile. I gruppi parlamentari, non per loro difetti, per ragioni proprie della dinamica politica e parlamentare, non sono mai stati in grado di dirigere un processo così lungo, complesso e irto di ostacoli. D’altra parte gli oltre cinquemila emendamenti votati, le numerose correzioni apportate, le sei letture parlamentari dimostrano che il confronto non è venuto meno. Alla fine il testo è stato votato dalla sola maggioranza di governo, e non è stato un fatto positivo. Ma è dipeso dall’atteggiamento pregiudizialmente negativo sin dal primo momento di una parte considerevole del Parlamento, quella che fa capo al M5S. Il centro destra, invece, ha votato la riforma sino a un certo punto e poi, come accadde anche con la proposta della Commissione presieduta da Massimo D’Alema, si è tirato indietro adducendo questa volta, a giustificazione del cambio di orientamento, il metodo seguito dal presidente del Consiglio per la elezione del capo dello Stato, dissenso che peraltro non investiva la personalità indicata per il Quirinale.

Occorre rilevare, infine, che tutte le più importanti Costituzioni sono state sottoposte a revisione. In Francia la Costituzione del 1958 è stata modificata più volte. In Germania, fra il 2006 e il 2009, i tedeschi hanno proceduto alla modernizzazione (così è stata chiamata) dell’ordinamento federale, modificando fortemente il testo della Costituzione del 1949 nelle materie relative ai rapporti tra le due Camere, ai rapporti tra Federazione e Länder, e alla riduzione dei trasferimenti finanziari ai Lander. I cambiamenti più importanti della Costituzione degli Stati Uniti (1787) avvennero nell’arco di due anni dall’adozione, quando vennero aggiunti i primi dieci emendamenti, noti come Bill of Rights. Nei due secoli successivi ci sono stati altri diciassette Amendments.

Dunque è evidente che ogni Costituzione debba subire periodicamente un processo di revisione, di modernizzazione, di adeguamento.

La prossima modifica della Costituzione italiana porterà frutti positivi, si è chiesto recentemente Paolo Pombeni[9]? Le norme si possono cambiare e migliorare, mentre la qualità di un Paese e la classe politica che esso esprime non sono modificabili a piacimento: «Con la qualità del Paese la faccenda è assai più complicata, per cui sarebbe meglio lavorare a migliorare quella (la Costituzione, nda), che perdersi a disquisire sulla democrazia perfetta”.

 

12. Un dibattito pubblico sulla riforma costituzionale riguarda il futuro. Deve perciò essere condotto con la consapevolezza di quanto è in gioco. Non sarebbe aiutato da motivazioni scadenti che prescindono dal merito costituzionale e politico delle questioni e tendono a suscitare emozioni o risentimenti. Né da offese o insulti. La crisi di credibilità delle classi dirigenti è dovuta anche alla mancanza di rispetto reciproco, allo smarrimento del senso della Repubblica, alla perdita della idea che essere tali è una responsabilità, non un privilegio. Forse questo è uno dei momenti nel quale quella specifica classe dirigente che esercita le proprie competenze e la propria professione nel mondo del diritto e che si interroga criticamente sul presente e sul futuro dell’ordinamento giuridico dovrebbe coraggiosamente affrontare il futuro dell’ordinamento costituzionale. Conosco i difetti della legge di riforma e tuttavia quella legge disegna un futuro che sarebbe migliore rispetto all’attuale presente e quei difetti potrebbero essere superati proprio da una cultura giuridica che si appresti ad un’opera di interpretazione, di correzione e di ricostruzione. Abbiamo la possibilità di rendere forti i diritti ed esigibili i doveri dei quali si occupa la prima parte della Costituzione. Il diritto triste dei nostri tempi potrebbe cedere il posto al diritto del coraggio e della responsabilità.

[1] V. P. Pombeni, La questione costituzionale in Italia, Il Mulino, Bologna, 2016, p. 214 ss.

[2] Byung-Chu Han, Psicopolitica, 2016, p. 55 ss.

[3] Il testo della lezione è pubblicato sul sito AIC, Materiali.

[4] T.Poguntke e P. Webb, The Presidentialization of Politics, Oxford University Press, 2005.

[5] G. Dossetti, Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, Relazione al III Convegno nazionale di studi UGCI 12 novembre 1951, in E. Balboni (a cura di), Non abbiate paura dello Stato, Milano, Vita e Pensiero,2014 , p.32.

[6] Assemblea Costituente, Seconda sottocommissione, 5 settembre 1946, p. 125.

[7] Nel corso del dibattito al Senato venne presentato dalla senatrice Lo Moro il seguente emendamento all’art. 11, bocciato dalla Commissione e dall’Aula, perché ritenuto troppo dettagliato, ma che prevedibilmente servirà da indirizzo per l’attuazione della norma costituzionale: «Se la proposta di legge di iniziativa popolare è sottoscritta da 250.000 elettori la Camera dei deputati e se necessario il Senato della Repubblica deliberano definitivamente entro dodici mesi dal suo deposito. Se il termine decorre inutilmente e se la proposta è respinta o sostanzialmente modificata nel suo contenuto precettivo essenziale è sottoposta a referendum se altri 500.000 elettori lo richiedono entro tre mesi dalla scadenza del termine o dalla deliberazione definitiva delle Camere. Nel caso di modifica sostanziale sono sottoposti al voto popolare, in alternativa, il testo della proposta e quello approvato dalle Camere. Ove più proposte di iniziativa popolare abbiano il medesimo oggetto sono tutte sottoposte a referendum in alternativa tra loro e con l’eventuale testo approvato dalle Camere.

Non si fa luogo a referendum se la proposta ha ad oggetto leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali o se comunque comporta minori entrate o maggiori spese per il bilancio dello Stato.

La Corte costituzionale si pronuncia sull’ammissibilità del referendum nei modi e secondo il procedimento stabiliti con legge bicamerale.».

[8] Fatta eccezione per quella varata dal centro destra, che presentava numerosi gravi difetti ma che conferma la necessità di una guida del procedimento di riforma costituzionale.

[9] P. Pombeni, La questione costituzionale in Italia, Bologna, Il Mulino, 2016.