Magistratura democratica

Il referendum costituzionale e l’impegno politico di Magistratura democratica

di Giovanni (Ciccio) Zaccaro

Le polemiche conseguenti all’adesione di Magistratura democratica (Md) al Comitato referendario per il NO sono l’occasione per tornare sul tema dell’impegno politico ed in politica dei magistrati.

1. Premessa

Il 12 gennaio 2016 Magistratura democratica ha aderito al Comitato per il No al referendum costituzionale sulla legge di riforma Renzi-Boschi[1].

Subito la decisione è stata oggetto di polemiche.

Il presidente del Consiglio, durante una riunione della direzione del Pd, ha evidenziato che «sarà la prima volta nella storia in cui Berlusconi e Magistratura democratica saranno insieme, una cosa meravigliosa, roba da comprare i pop corn» associando tutti i sostenitori del NO nel fronte conservatore ed anticipando i temi della campagna referendaria: mentre Renzi si impegna per il rinnovamento, i sostenitori del No sono espressione di chi si oppone ad ogni modernizzazione del Paese.

Il direttore de Il Foglio, rispondendo ad un lettore, ha considerato la scelta di Md la violazione dei principi di separazione dei poteri[2].

Molti magistrati, anche aderenti ad Area, nel dibattito sulle mailing list, hanno contestato, non il merito dell’adesione al Comitato per il No, ma l’opportunità che Md partecipi attivamente al dibattito referendario, schierandosi «come se fosse un partito politico».

È opportuno allora tornare ad interrogarci sui limiti dell’azione politica di un’associazione di magistrati.

Tuttavia, dapprima sarà opportuno verificare il reale significato del referendum costituzionale.

Solo chiarito il senso del referendum, si potrà verificare l’opportunità della scelta di Md.

Sarà anche l’occasione per verificare i limiti dell’impegno politico dei magistrati. E, poi, del valore e dei limiti dell’impegno “in politica” dei magistrati.

Sarà svolto un ragionamento molto generale, prescindendo da ogni valutazione sulla fondatezza o meno delle tesi che Md ha sostenuto aderendo al Comitato per il No, appunto perché quello che interessa è il diritto di un’Associazione di magistrati a prendere parte ad un Comitato per il referendum ex art. 138 Cost.

2. Il diritto dei magistrati a partecipare alla campagna referendaria costituzionale

In Assemblea plenaria, il dibattito sull’art. 138 Cost. si avviava nella seduta pomeridiana del 14 novembre 1947[3]. Ad aprirlo era Paolo Rossi, che riferiva dei profili discussi e deliberati in Seconda sottocommissione: «Ci siamo ritrovati tutti d’accordo nel ritenere che la nuova Costituzione italiana debba essere una Carta costituzionale rigida», egli rilevava. Il dibattito era stato su quali garanzie assicurare sì da coniugare «le istanze opposte di certezza e costanza della legge costituzionale e di adattabilità al tempo che preme con le sue continue mutevoli esigenze. La Costituzione non deve essere un masso di granito che non si può plasmare e che si scheggia; e non deve essere nemmeno un giunco flessibile che si piega ad ogni alito di vento. Deve essere, dovrebbe essere, vorrebbe essere una specie di duttile acciaio che si riesce a riplasmare faticosamente sotto l’azione del fuoco e sotto l’azione del martello di un operaio forte e consapevole!».

La scelta era ricaduta su una doppia approvazione delle due Camere, intervallata da tre mesi «perché una cosa tanto seria come la riforma costituzionale non sia il prodotto d’impulsi momentanei e demagogici o, comunque, non ben confermati e meditati»; su una approvazione a maggioranza assoluta «per evitare colpi di mano minoritari, sempre deplorevoli, pericolosi, deplorevolissimi e pericolosissimi nella suprema materia costituzionale»; sul ricorso «alla fonte stessa della sovranità: il referendum popolare»; sulla richiesta del referendum da parte di un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o di sette (sarebbero divenuti cinque, in prosieguo di quella discussione) Consigli regionali, perché in tal modo «anche i diritti della minoranzadi una modesta minoranzasono tutelati efficacemente, restando aperto l’appello al popolo, anche ad opera di una parte comparativamente piccola della pubblica opinione»; su un termine di tre mesi per la richiesta referendaria, «per non lasciar troppo nell’indefinito le norme costituzionali». Concludeva il relatore «Col sistema che vi proponiamo, io non so veramente se si possa parlare, in termini costituzionalistici, di una Costituzione rigida. Io vorrei che gli illustri maestri che sono qui me lo dicessero. Personalmente temo alquanto che non si possa più parlare di Costituzione rigida; si potrebbe forse parlare di una Costituzione semi-rigida o piuttosto di una Costituzione garantita da un serio e severo congegno di revisione costituzionale».

Appare evidente l’intento di investire la sovranità popolare nelle scelte di modifica della Costituzione.

Come suggerito dalla migliore dottrina[4], il Corpo elettorale è investito direttamente del procedimento di revisione costituzionale, essendo il referendum – seppure eventuale – un elemento formativo dell’iter legislativo. Il Corpo elettorale diventa insomma un terzo organo legislativo[5].

Proprio il coinvolgimento del popolo, insieme alle necessarie maggioranze qualificate, fondano il carattere “aggravato” della procedura disciplinata dall’art. 138 Cost.

Si tratta, insomma, di uno dei modi di esercizio della sovranità popolare.

Nei procedimenti ordinari di formazione delle leggi, il popolo esercita la sovranità scegliendo, tramite il voto, i propri rappresentanti in Parlamento, titolare del potere legislativo ordinario.

Invece, nel procedimento “aggravato” di revisione costituzionale, la sovranità è esercitata non solo per mezzo del Parlamento ma, eventualmente, tramite il referendum, ossia chiamando direttamente al voto i singoli cittadini.

La ratio è quella di garantire la partecipazione al dibattito sulle modifiche alla Costituzione anche a coloro i quali non si sentano rappresentati delle forze politiche che siedono in Parlamento. Non per nulla, in caso di approvazione parlamentare con maggioranza qualificata, presumendosi che tale maggioranza rispecchi la volontà di tutta la Nazione, non si fa luogo al referendum. Ne consegue che, nelle intenzioni del Costituente, il dibattito sulle eventuali riforme costituzionali prescinde dall’appartenenza ai diversi schieramenti parlamentari ed, attenendo ad alte idealità, non consente di iscrivere i favorevoli od i contrari ad un fronte politico piuttosto che ad un altro.

Logica conclusione è che ogni cittadino, componente del Corpo elettorale, investito del potere costituente, può partecipare alla campagna referendaria.

Tale partecipazione ancora di più spetta alle associazioni di cittadini, quali sono le associazione dei magistrati, qual è Md.

Invero, si tratta di formazioni sociali tutelate dalla Costituzione quali strumento per lo svolgimento della personalità dei singoli e volano per il migliore esercizio dei diritti individuali.

Ma si tratta anche di formazioni che, elaborando e sintetizzando un’originale pensiero giuridico e politico, possono contribuire alla discussione pubblica sulle riforme.

Anzi, il coinvolgimento delle associazioni di cittadini alla campagna referendaria soddisfa l’intento del Costituente di allargare, oltre le compagini parlamentari, il confronto sulle riforme coinvolgendo anche soggetti portatori di interessi, idealità, culture non rappresentate nell’assemblea legislativa. Tale scopo è oggi ancora più attuale a fronte di un sistema maggioritario, che dunque esclude le minoranze dal procedimento legislativo, e di una crisi di rappresentanza dei partiti politici, che fa sentire ampi strati della popolazione non rappresentata in sede parlamentare.

Non vi sono, dunque, ostacoli alla partecipazione di Md, come formazione sociale, al dibattito sulla modifica costituzionale ed alla campagna per il No.

Del resto, già nel 2006, con minore scandalo, il gruppo fu soggetto attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale, allora promossa da Silvio Berlusconi.

3. L’impegno politico dei magistrati e l’impegno “in politica” dei magistrati

Il tema torna, allora, ad intrecciarsi con quello dell’impegno politico dei magistrati, ossia del loro diritto di partecipare al dibattito della comunità in cui vivono.

Coloro che osteggiano tale facoltà rivendicano la necessità che il magistrato debba essere ed apparire imparziale e dunque non possa esprimere le proprie idee in pubblico.

Si tratta di un’opinione ipocrita (perché pretenderebbe che i magistrati non abbiano idee od, avendole, le nascondano) e senza fondamento costituzionale.

Certo l’imparzialità è requisito della giurisdizione ma è necessario intendersi sul suo significato[6].

L’imparzialità attiene alle parti ed agli interessi in gioco nel processo che ciascun magistrato tratta. Significa non parteggiare per uno degli attori processuali. Non significa, però, indifferenza rispetto alle questioni di fondo che animano il dibattito culturale e politico. Non significa rinunciare ad avere un patrimonio ideale ed impegnarsi per realizzarlo. Non per nulla, la Costituzione definisce la magistratura autonoma ed indipendente (art. 104) e richiama il principio di imparzialità del giudice quando detta le norme del giusto processo da svolgersi in contraddittorio fra le parti e davanti ad un giudice terzo ed imparziale (art. 113).

Non è dunque il requisito della necessaria imparzialità a limitare l’impegno politico del magistrato.

Non rileva, rimanendo al tema referendario, neppure l’argomento di chi oppone la necessità che i magistrati non interferiscano con il potere legislativo: come si è visto, le procedure di revisione costituzionale non sono appannaggio esclusivo del Parlamento ma pretendono il coinvolgimento dell’intero Corpo elettorale e dunque anche dei magistrati.

Rimangono questioni di opportunità, che però sono legate al significato che questo referendum ha assunto per iniziativa del Presidente del Consiglio.

La riforma costituzionale è un tassello fondamentale dell’impegno istituzionale e politico di Matteo Renzi ma soprattutto assume un valore simbolico che non sfugge ai più. Se la riforma dovesse perfezionarsi, dopo i tanti fallimenti dei decenni passati, Renzi assumerebbe il ruolo dello statista che ha semplificato l’assetto istituzionale repubblicano.

Per questo, innanzi ai dubbi degli accademici e dei componenti del suo stesso partito, il capo del Governo non ha esitato a giocare la carta plebiscitaria. Ha così trasformato il referendum sulla Costituzione in un referendum sulla sua persona ed il suo Governo. Ha riversato nella campagna elettorale non solo il suo indubbio carisma comunicativo ma anche i timori di chi non vuole lo scioglimento anticipato delle Camere e le elezioni anticipate, adombrate quale sicura conseguenza in caso di fallimento referendario.

Di contro, il fronte del No è popolato da chi, per varie ragioni, per spirito di rivalsa interno all’area del centro sinistra o per opportunismo politico, spera nell’indebolimento della leadership di Renzi.

Tenuto conto di questo quadro generale, l’adesione ad uno dei fronti referendari potrebbe essere confusa, oltre l’intenzione degli aderenti, con una manifestazione di consenso oppure di dissenso nei confronti del governo Renzi.

Per sottrarsi a tale rischio, che effettivamente potrebbe nuocere al senso intimo del referendum costituzionale e svilire gli argomenti che consentono la partecipazione di Md al fronte del NO, è necessario che la campagna referendaria sfugga alla provocazione politica contingente e si limiti alla difesa della Costituzione da ogni “stravolgimento” che ne rimetta in discussione le linee portanti ed i valori di fondo. È pertanto necessario concentrare l’attenzione ed il dibattito pubblico sulla riforma del Senato, sulla legge elettorale approvata da poco, sul sistema di pesi e contrappesi, il cui venire meno determinerebbe un vulnus al sistema democratico di rappresentanza dei cittadini.

Impegno difficile che spetta alla maturità politica di Md e della cultura giuridica democratica portare avanti, sottraendosi all’inevitabile tentativo di essere iscritti in un qualsiasi schieramento politico e limitandosi all’impegno per la salvaguardia della Costituzione vigente.

Da qui, infine, traiamo anche risposta al quesito circa il significato ed il limite dell’impegno “in politica” dei magistrati, ossia della partecipazione diretta dei magistrati all’attività politica[7].

L’impegno non può che essere per la realizzazione dei diritti, delle libertà e delle garanzie della Costituzione. Soccorre, a tale proposito, Marco Ramat: «fondamentale è la distinzione tra la grande politica della Costituzione, dove la magistratura deve impegnarsi, e la politica di partito, contingente, da cui la magistratura deve estraniarsi»[8].

Distinzione che, con la crisi delle organizzazioni di massa e la personalizzazione della politica, appare sempre più difficile da operare.

Dopo l’epoca delle candidature dei singoli magistrati, nei partiti tradizionali e poi in partiti personali e movimenti “fai da te”, è ora il tempo dei magistrati coinvolti dall’Esecutivo nazionale, ma anche dalle amministrazioni locali, a titolo di “esperti” o “garanti”, quasi che la loro pregressa professionalità possa rassicurare l’opinione pubblica ed evitare compromissioni fra sfera politica e poteri criminali.

È sempre però il tempo in cui ai magistrati è contestato l’impegno in politica, anche da chi, prima di ogni competizione, li ricerca per inserirli nelle liste elettorali.

Nel dibattito è sempre coinvolta Md.

La fiera rivendicazione della politicità della giurisdizione (cosa ben diversa dalla rivendicazione di un governo “delle toghe”) viene sistematicamente scambiata come la ricerca di visibilità nell’agone politico ed Md viene ritenuta, dall’opinione pubblica, un vivaio di uomini politici. Falso storico, come è facile verificare solo a scorrere le biografie dei tanti magistrati impegnati “in politica”, spesso lontani, se non fieri avversari di Md.

Ma è giusto tornare sul tema e verificare quale debbano essere i confini virtuosi dell’impegno “in politica” del magistrato.

Diamo per scontato il diritto di elettorato passivo che spetta a ciascun magistrato, come ricordato anche dalla Consulta e l’ovvio rispetto delle leggi che regolamentano l’accesso a cariche elettive dei magistrati.

Non è questo il luogo per affrontare i giusti dubbi sulle regole esistenti e la necessità di regolare meglio, non solo l’accesso in politica, ma soprattutto il rientro nella giurisdizione dei magistrati che si siano impegnati “in politica”[9].

Qui interessano i temi generali: perché la “politica” contesta le invasioni di campo della giurisdizione e perché, allo stesso tempo, i “politici” corteggiano i magistrati ogni qual volta è necessario comporre le liste elettorali? Quale deve essere la ratio dell’impegno “in politica” dei magistrati?

Due sono le questioni che condizionano il tema dei rapporti fra magistratura e politica.

La prima è la centralità della giurisdizione nell’odierno contesto istituzionale.

La marginalizzazione della potestà legislativa statuale ed insieme la sempre maggiore complessità dell’esistente, ogni giorno cangiante per l’evoluzione scientifica e la globalizzazione dei rapporti sociali ed economici, spingono il giudice al centro del sistema giuridico contemporaneo. Si pensi al tema della bioetica, alla tutela dei diritti fondamentali, alle nuove famiglie ed alle nuove relazioni affettive, all’integrazione culturale dei popoli migranti. Ancora, la patologica inefficienza dell’apparato amministrativo e la corruzione diffusa trovano unico, spesso tardivo ed inutile, baluardo nell’accertamento penale. Dunque, sempre più spesso le vicende finanziarie, industriali e politiche del Paese sono condizionate dall’esercizio dell’azione penale.

Tutto ciò inevitabilmente comporta la maggiore visibilità dei magistrati nel dibattito culturale e politico.

Inoltre, le esperienze professionali dei magistrati si arricchiscono di sempre maggiori competenze e tanto consente di considerarli nel rango definito, efficacemente, delle «riserve della Repubblica».

Ma, se rimanessimo fermi a tali questioni, saremmo ancora alla fisiologia.

Il corto circuito risiede nella seconda questione, la crisi della rappresentanza politica. Negli ultimi decenni si è assistito non solo alla crisi della politica intesa come sfiducia dell’elettorato nei confronti del ceto politico ma soprattutto alla crisi dei corpi intermedi, chiamati ad operare una sintesi fra società ed Istituzioni ed ad concorrere a determinare gli indirizzi della politica nazionale.

Complici le riforme elettorali e prima ancora il ridimensionamento delle organizzazioni politiche di massa, si sono sempre di più affermate leadership personali, partiti carismatici, coalizioni formate non su un programma ma sulla figura ed il richiamo mediatico del candidato di turno.

Tale contesto premia la notorietà del singolo e dunque anche del singolo magistrato. Nel caso di candidature in partiti di massa e con un’organizzazione ed uno statuto ideologico storicamente strutturati, il magistrato si “spersonalizzava” ed acquistava valore non per la sua mera notorietà ma per l’autorevolezza delle sue opinioni, per la preparazione tecnica, per la sua storia personale e politica, vissuta dentro e fuori dalla giurisdizione.

Tanti sono gli esempi di magistrati che sono stati, in passato, protagonisti attivi della vita parlamentare, appunto perché la loro candidatura ed elezione seguì ad una lunga militanza associativa, fondata sulla pratica e lo studio dei problemi della giurisdizione.

Invece, oggi, la liquidità dei movimenti politici e la scomparsa dei collanti ideologici spesso riducono il candidato, chiunque esso sia, a manifesto propagandistico. Maggiore sarà la notorietà pubblica del magistrato, maggiore sarà il suo appeal elettorale.

Proprio per ciò, oggi, è necessario più che mai ribadire che l’impegno “in politica” non debba e non possa essere il “premio” per un’attività giurisdizionale brillante e nemmeno, peggio!, si debba vivere l’esercizio delle funzioni giurisdizionali come il palcoscenico sul quale acquisire meriti elettorali.

L’eventuale impegno “in politica” oltre all’ovvio rispetto delle regole sull’elettorato passivo, dovrà consistere nella prosecuzione, in ambito istituzionale, dell’impegno politico del magistrato. Ovviamente, si intende impegno in senso alto. Impegno per i diritti, le libertà, la «politica scritta nella Costituzione»[10].

Episodio di questo impegno è certo la partecipazione alla campagna referendaria costituzionale. Sempre che l’obiettivo sia, non già la polemica contingente sulla tenuta del governo Renzi o della legislatura, ma l’affermazione della democrazia pluralistica costituzionale.

Come suggerito da Luigi Ferrajoli[11], il mito della governabilità ossia dell’onnipotenza della politica, dietro il quale si nasconde chi vuole cambiare la Costituzione, determina, in realtà, la massima mortificazione della politica. Significa ridurre la politica alla tecnocrazia, alla gestione dell’esistente, al soddisfacimento delle esigenze del Mercato e della Finanza. Invece, il sistema di limiti e garanzie creato dal Costituente del ‘48, limitando i poteri delle maggioranze parlamentari, tutela i diritti sociali, i diritti fondamentali di uguaglianza dai tentativi egemonici dei Mercati. E proprio questo è lo scopo della politica, creare un argine ai poteri selvaggi.

[1] Il comunicato di adesione si può leggere qui www.magistraturademocratica.it/Mdem/articolo.php?id=2444&a=on.

[2] La lettera e la risposta del Direttore si possono leggere qui www.ilfoglio.it/politica/2016/01/14/giustizia-riforme-che-direbbe-montesquieu-vedendo-ultima-genialita-di-Md___1-v-137026-rubriche_c340.htm.

[3] I lavori dell’assemblea costituente si possono leggere qui www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00739696.pdf.

[4] A. Pizzorusso, Art. 138, Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca ed A. Pizzorusso, Bologna, Zanichelli, 1975.

[5] T. Martines, Diritto Costituzionale, V ed, Milano, Giuffrè, 1988.

[6] Si leggano le riflessioni sul significato dell’imparzialità del magistrato svolte da N. Rossi, Lettera aperta ad impossibili avversari, in questa Rivista, 2001, 2, Franco Angeli.

[7] G. Cascini, Politicità della giurisdizione e consapevolezza del proprio ruolo, in questa Rivista 2012, 6, pagg.62 e ss., Franco Angeli.

[8] M. Ramat, Spiccioli di Md, appendice in Crisi della Giurisdizione e crisi della politica. Studi in memoria di Marco Ramat, a cura di S, Mannuzzu e F. Clementi, Milano. Gli Spiccioli, compreso quello intitolato La nascita di Md” si possono anche leggere qui www.magistraturademocratica.it/mdem/mediano_dettaglio.php?m=marco%20_ramat.

[9] Sull’opportunità di una migliore regolamentazione dell’accesso dei magistrati alle carriere politiche elettive od amministrative cfr. G Cascini, cit.

[10] N. Rossi, Lettera aperta ad impossibili avversari, cit.

[11] www.questionegiustizia.it/articolo/verso-una-costituzione-di-minoranza-per-una-democrazia-dell-onnipotenza_02-05-2016.php.