Magistratura democratica

Qualche breve considerazione sull’associazionismo dei magistrati e sulle sue prospettive

di Enrico Manzon

In vista delle elezioni per il Comitato direttico centrale dell’Anm del prossimo anno, ragionare sulle prospettive dell’associazionismo giudiziario e sul ruolo di Area all’interno di esso implica una precisa, attualizzata analisi dello “stato” della magistratura italiana. Che è cambiata nel profondo e non sempre in meglio. Non comprendere a fondo la “cifra” di questo mutamento e, allo stesso tempo, non fare una calibrata, costruttiva autocritica, può comportare seri problemi ed altrettanto gravi danni per un indirizzo di politica associativa coerente con i nostri principi ed i nostri valori, quali “ereditati” da Md e dal Movimento per la giustizia, ora transitati in Area. Molti magistrati, giovani e meno giovani, continuano a guardare con rispetto ed attenzione alla tradizione migliore dell’Anm, della quale quei principi e quei valori sono parte essenziale, ma chiedono alla nostra Associazione un “cambio di passo”. La tesi è dunque che Area abbia prospetticamente le maggiori e migliori chance per tenere insieme nell’azione associativa l’ interesse dei magistrati/della magistratura con le aspettative della collettività nazionale all’efficienza ed alla qualità del servizio giudiziario. Il corollario è che ciò sia doverosamente praticabile negli assetti associativi che verranno. La condizione predicata è che si mettano in campo idee nuove e che si facciamo scelte adeguate al tempo presente, ma soprattutto a quello futuro. Senza incertezze, con coraggio.

1. I termini della questione, in sintesi

Ma cos’è realmente la magistratura oggi ? Che categoria sociale sono i magistrati oggi ? qual è la loro “cifra culturale” ?

È persino banale pensare che sia necessario partire da queste domande per darsi delle risposte, ragionevolmente congrue, su cosa può e deve essere, domani, il nostro associazionismo. Se infatti non si analizza adeguatamente la “materia prima”, difficile pensare di riuscire a formulare idee fondate sul come amalgamarla. Il rischio di “maionese impazzita” diviene forte.

Ed allora partiamo da un dato, credo ormai chiaro a tutti coloro i quali hanno una vista appena normale, un dato credo dunque lapalissiano: i magistrati non sono più quelli di venti o più anni fa. Sono cambiati; sono diversi.

A parte gli “ultimi nati”, dai cinque anni di carriera in su tutti hanno vissuto, in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente il ventennio berlusconiano. Non è stato soltanto un lungo periodo di insulti e delegittimazione quotidiana; no davvero. È stato molto di più e, nella sostanza, di peggio.

Tuttavia l’Italia è il Paese delle grandi amnesie: carnefici che diventano vittime; politici che dopo varie nefandezze ritornano in auge e via dicendo. Il perdonismo permea il volksgeist italiano, ne è la vera essenza.

Quindi, ancorché con tempo e fatica, si può sensatamente prevedere che perderà via via efficacia l’opera di demolizione dell’ immagine dell’Istituzione giudiziaria, costantemente attiva negli ultimi 20/30 anni, risalendo all’ultimo Craxi, poi proseguita in termini scientifici da Berlusconi e dai suoi vari lacchè.

Certo ci vorrà del tempo e non sarà poco; certo la politica attuale, di destra e di sinistra, in questo campo per la prima volta forse solidali, sembra continuare in quest’opera anticostituzionale, sia pur con molta meno virulenza ed aggressività.

Tuttavia l’onda lunga della calunnia sistematica e del tambureggiamento mediatico sembra esaurirsi o quantomeno divenire una risacca quasi fisiologica, data la naturale “scomodità” dell’intervento giudiziale.

Ed in Italia questo prelude ad un'altra “grande amnesia”, stavolta positiva, ad un sostanziale ripristino di una più corretta dinamica dei rapporti tra Istituzioni e quindi ad una ripresa di positività del senso popolare verso chi fa questo lavoro appassionante, ma consunstanzialmente ingrato, di interpretazione ed applicazione della legge.

Il problema, più grave, è però un altro.

Non per incuria, ma per effetto di un disegno consapevole e chiaro, in parallelo al dileggio ed al disprezzo pubblicamente manifestati, purtroppo anche recentemente da chi rappresenta la sinistra al Governo, in questi ultimi 30/20 anni si è progressivamente smantellato il sistema di giustizia in Italia.

Un’azione di soffocamento progressivo, con una diminuzione costante delle risorse materiali/finanziarie e, soprattutto, umane, che hanno ridotto i nostri Uffici a plaghe variamente desolate, se non a vere e proprie sacche di resistenza. Certo, a macchia di leopardo, con isole di inopinata efficienza e con tante, troppe situazioni al limite della decenza.

Qui sta il vero problema, che è poi un problema doppio, una medaglia con due facce.

Per un verso infatti l’insoddisfazione dell’utenza, professionale e non, per il “prodotto giudiziario medio” è lievitata ed è non di rado ai limiti della sopportazione collettiva, quantomeno locale.

Per altro verso le condizioni di lavoro dei magistrati italiani sono enormemente peggiorate in questi decenni, provocando fenomeni di disaffezione e riflusso verso modelli professionali difensivi, di tipo burocratico.

Il magistrato italiano “medio”, oggi, si sente tra l’incudine ed il martello; sa di non poter dare tutto quello che i destinatari del suo servizio si aspettano – secondo i loro diritti, pubblici e privati – e ne teme le iniziative, così come quelle riflesse degli organi di controllo interno all’Istituzione cui appartiene.

È nella risposta a questo secondo corno del dilemma che sta la chiave di soluzione della questione di quale associazionismo della magistratura serve oggi.

Per chi è dentro l’evoluzione di Area, è altrettanto chiaro che questa risposta è indissolubilmente collegata a quella del primo corno del dilemma medesimo.

Simul stabunt, simul cadent.

2. I nostri ritardi

Credo che la verità inter nos vada detta tutta.

Per troppo tempo l’area democratica e progressista della magistratura è rimasta bloccata negli schemi del passato; non dico delle ideologie, ma degli schemi mentali sì.

Certamente la battaglia contro l’aggressione berlusconiana è stata durissima e non si può certo dimenticarne in fretta gli snodi più difficili. Altrettanto ovvio è che bisognava stare nella “trincea costituzionale”, spesso ritrovandosi con le spalle al muro (le varie leggi ad personam; tutti i gravi tentativi di lesione dei principi costituzionali fondamentali in materia di giurisdizione e dei suoi valori).

Queste battaglie hanno consumato quasi tutte le risorse morali, personali e politiche a disposizione ed hanno perciò chiuso molti altri, non meno rilevanti, spazi di riflessione e di intervento. Conseguentemente dalla nostra “parte della barricata”, a mio avviso non abbiamo prestato la necessaria attenzione né abbiamo opposto un contrasto adeguato alla seconda linea di attacco di chi con così tanta pervicacia ha avversato lo status della magistratura italiana, riducendolo di fatto, modificandolo al livello della “costituzione materiale” in misura rilevante.

In termini più precisi, affannati dal/nel contrasto alle aggressioni mediatiche e normative, mi sembra piuttosto evidente che non siamo stati abbastanza attenti al degrado concreto delle condizioni di lavoro della stragrande maggioranza dei magistrati italiani, nella convinzione, errata, che, forse com’era di più un tempo, bastasse la loro consapevolezza del ruolo ossia la loro spinta motivazionale, lo spirito di servizio, se non la loro abnegazione.

Poi è anche vero che le nuove generazioni di magistrati sono figlie del loro rispettivo tempo e i “tempi stratificati” delle generazioni sono profondamente diversi. Perché si va da chi ha attraversato i grandi rivolgimenti politici e sociali degli anni sessanta/settanta del ‘900 a chi in quegli anni non era nemmeno nato, con tutta la gamma esperienziale intermedia. La magistratura oggi è sicuramente un corpo diacronicamente assai eterogeneo e che perciò non da né può dare risposte omogenee, se non sui principi massimi cristallizzati nella Costituzione.

Forse nell’era repubblicana è sempre stato così, ma oggi lo è senz’altro di più.

Ed al giovane magistrato affogato nel contenzioso civile o penale della sede disagiata (quante lo sono!), privo di un dignitoso, minimamente sufficiente supporto di risorse umane e materiali, preoccupato dalle prime valutazioni di professionalità e dalla spada di Damocle dei ritardi, nessuno oggi può chiedere molto di più se non stare sulla difensiva.

Al netto del “fuoco sacro”, che magari non è nemmeno mai abbondato nella magistratura, nessuna sensata azione associativa può più dunque prescindere dalle condizioni oggettive del servizio ed anzi deve partire proprio da esse.

3. Cosa fare. Il metodo

Sappiamo bene che “rovesciare il cono” implica due strade: quella comunemente intesa come “corporativa/burocratica”, già monopolizzata da MI ed ora contesa da altri gruppi; quella nostra, di Md, del Movimento per la giustizia, ora in sintesi di Area.

Con la prima si parte dalle condizioni di lavoro (anche sotto il profilo del trattamento economico) e si finisce lì; l’azione associativa è di tipo sindacale in senso stretto ed è tutta costruita intorno alle esigenze del magistrato uti singuli, al più con qualche abbellimento esornativo di tipo costituzionale/istituzionale.

La seconda è, storicamente, un’altra cosa, ma vediamo di capirci bene cosa.

Cosa è stata, cosa è, cosa dovrà essere. Quindi analisi e soluzioni.

Cosa è stato lo sappiamo: molta ideologia, intendiamoci anche nel senso -che esiste- positivo del termine, ma insieme, come ho già scritto sopra, minore attenzione alla concretezza della vita professionale dei magistrati.

Oggi l’inversione di tendenza è netta, ma, a mio giudizio, ancora non basta.

Tutto sommato è ancora forte e diffusa la ritrosia ad occuparsi delle questioni pratiche dell’attività giudiziaria nei suoi riflessi individuali, professionali ed esistenziali, pubblici e privati.

Ma, a ben vedere, non esiste una reale possibilità di scissione tra questioni di sistema e questioni attinenti alla sfera degli individui che il sistema muovono. Esse infatti sono soltanto aspetti di un’unica, grande questione: la questione giudiziaria.

In altri, se si vuole più chiari termini, l’associazionismo “non corporativo”, il nostro associazionismo, deve ancora fare un salto di qualità, che presuppone un cambiamento di merito e di metodo. Che è appunto quello di non scindere né gerarchizzare mai più interessi individuali, categoriali, istituzionali, ma concepire il sistema di riferimento come un insieme di componenti fisse che meritano uguale attenzione e che quindi vanno armonizzate al fine di realizzare la migliore tutela giurisdizionale dei diritti possibile.

4. Cosa fare. Il merito

Sulla base di queste premesse passo quindi a qualche considerazione sulle prospettive dell’associazionismo dei magistrati.

Il termine sindacato deve tuttora considerarsi vietato, una sorta di taboo ?

Io penso di no. Infatti esso ha in sé un nota di nobiltà, trattandosi di una parola che rappresenta una delle assi portanti della storia del movimento operaio e più in generale democratico dei due secoli scorsi.

Il problema non è comunque di forma, ma di sostanza.

Fare sindacato, anche per i magistrati, è un diritto costituzionalmente garantito che si estrinseca nelle azioni opportune per la tutela dei diritti dei magistrati medesimi, quali professionisti che esplicano un’attività lavorativa per conto dello Stato.

Come ho provato a dire sopra, è necessario sdoganare definitivamente questa “idea-forza”, non avere più alcuna remora né alcuna “vergogna” nel pensare che uno degli scopi primari dell’Anm sia appunto quello di fare ciò che tutti i “sindacati” fanno; appunto tutelare gli interessi anche personali della categoria di riferimento.

Il punto è però che a partire dallo stesso status economico per poi continuare in quello normativo, la particolarità, assolutamente relativa (mi si perdoni l’ossimoro), di questa nostra categoria è che, per così dire, essa “incarna” un potere essenziale dello Stato o, se si preferisce, ne concretizza una funzione essenziale. “Individuale” e “istituzionale” sono perciò aspetti inscindibili per la magistratura italiana, viepiù se si tiene conto del suo statuto costituzionale, particolarmente rafforzato e specialmente connotato nello scenario dei Paesi di democrazia di tipo occidentale.

Tuttavia questo intreccio ontologico, lungi dall’essere inestricabile, è/deve essere la base di qualsiasi ragionamento sensato intorno al “sindacalismo dei magistrati”.

A ben vedere si tratta di un sistema di vasi comunicanti che, mantenuti in equilibrio tra di loro, determinano l’equilibrio complessivo della parte apicale, quella magistratuale appunto, dell’Istituzione giudiziaria.

In altri termini ed in concreto, la parte stipendiale pertiene all’indipendenza di fatto dei singoli magistrati così quanto le loro individuali condizioni di lavoro e questi sono aspetti che si relazionano alle norme – costituzionali, primarie e secondarie – che disciplinano l’indipendenza formale, interna ed esterna dei singoli magistrati stessi e quindi della magistratura nel suo complesso.

Se poi dobbiamo dare come storicamente acquisito il ruolo di fonte di diritto integrativa della giurisprudenza, se quindi esiste, come esiste, una cultura della giurisdizione che inevitabilmente vede e va oltre il prodotto giudiziale singolo, divenendo, oggettivamente, politica del diritto, allora abbiamo un quadro completo.

Ne risulta evidente che il “sindacalismo giudiziario” è un fenomeno davvero complesso, che presenta molti diversificati aspetti. Ma qui sta e deve stare la differenza tra il “sindacalismo corporativo” e, azzardo, il “sindacalismo istituzionale”.

Sappiamo bene cos’è il primo; in termini moderni ha la sua massima epifania nel “ferrismo”.I tratti essenziali sono quelli appunto noti, che è inutile ribadire in questo scritto. A voler solo dare una sintesi, per così dire, teoretica, questo tipo di associazionismo giudiziario mette al centro il singolo magistrato ed i suoi personali interessi, quindi la categoria ed i suoi particolari interessi.

Il servizio all’utenza è una variabile che dipende da questi interessi combinati con la scarsità delle risorse – umane, materiali, finanziarie – dedicate al servizio stesso.

Ne conseguono tutte le correlative, consolidate, posizioni associative: rivendicazioni stipendiali, carichi esigibili, sabati festivi, incarichi extragiudiziari liberi et coetera.

Per il secondo tipo “storico” di sindacalismo giudiziario invece il servizio all’utenza ossia, con lessico migliore ed a noi più familiare, la tutela dei diritti è una “variabile indipendente”, nel senso che il compito dei magistrati, come singoli professionisti e come categoria, è quello di erogare il miglior prodotto giudiziario possibile, per tempi, quantità e qualità, ancorché le condizioni date non lo consenta nel miglior modo possibile.

Pertanto le rivendicazioni sul trattamento economico, sulle guarentigie normative, sull’attribuzione delle risorse si finalizzano e si giustificano con questa particolare mission costituzionale del servizio.

Tuttavia modernamente, post ideologicamente, ciò non significa pensare che queste rivendicazioni non abbiano anche rilevanti riflessi sulle condizioni di lavoro concrete e sulla stessa vita personale dei magistrati uti singuli; che dunque esse non debbano essere assunte e declinate anche sotto questo profilo, trattandosi, lo ribadisco, soltanto delle due facce della stessa medaglia o, forse con miglior metafora, di un centauro, che per metà è cavallo e deve quindi soltanto che correre, ma che per metà è uomo ed ha diritto di vivere.

Il non dimenticare la natura umana del “centauro” è, a mio giudizio, il cuore strategico di un sindacalismo giudiziario “istituzionale” rinnovato.

5. Il nostro compito, domani

Voglio trarre delle conclusioni di queste mie brevi osservazioni e le focalizzo su due questioni: i giovani magistrati e “oltre Area” ossia sulle possibili politiche di aggregazione interna all’Anm, in vista delle ormai prossime elezioni per il Comitato direttivo centrale.

Quanto alla prima, soprattutto chi vive nelle istituzioni giudiziarie “di base” ossia negli uffici di primo grado e pertanto convive con il ricambio generazionale vede e sa bene quanto sia cambiata e stia cambiando la magistratura italiana.

Tra i vari aspetti di questo cambiamento, quello che in questa sede più ci deve interessare è la pesante disaffezione dei giovani verso l’Anm ed ancor più verso i gruppi associativi (le correnti dell’Anm stessa).

A parte infatti le aggregazioni che sono motivate esclusivamente dalla logica clientelare dello scambio, che ci sono state sempre e che ci saranno sempre, perché questo è nella natura umana, e nella silloge socratica anche i magistrati sono uomini, il resto è in trend negativo costante ed apparentemente inarrestabile.

Area è un tentativo forte di cambiare passo e di arrestare il declino della cifra culturale, politica nel senso alto del termine, della magistratura italiana. È uno sforzo in itinere che naturalmente chi legge questa Rivista si augura abbia il miglior successo possibile.

Ma proprio perché nella sua concezione e nella sua evoluzione, nella sua stessa semantica evocativa, Area vuole essere uno spazio libero e non un nuovo recinto, al contempo chi vi si ritrova dev’essere consapevole che anche nella sua massima espansione ciò comunque non basterebbe.

Per la semplice e dirimente ragione che Area ha anche delle caratterizzazioni precise (Carta dei valori) che sono inclusive in potenza, ma sicuramente non sono, non possono, né vogliono essere totalizzanti.

Del resto Area si muove a sua volta in uno spazio, fisico e morale, di persone e di idee, ben più ampio, che è appunto prima di tutto quello dell’Anm e che peraltro mira ad andare fuori del campo istituzionale giudiziario, verso le altre istituzioni e la società civile.

Quindi Area deve essere, anche, un tramite, una specie di torpedone sul quale far salire i magistrati giovani; quelli che entrano, quelli che sono appena entrati, quelli che entreranno. Deve riuscire, prima e più delle altre aggregazioni associative, a far loro comprendere il valore, intrinseco ed aggiunto, dell’esperienza associativa; deve riuscire a dimostrare che esserne parte non significa acquisire crediti da spendere durante la carriera, ma mantenere viva e vegeta una comunità professionale, che ha questa assoluta particolarità di essere allo stesso tempo, e prioritariamente, il motore principale di una funzione pubblica primaria.

Si tratta dunque di scaldare il cuore dei giovani colleghi, e già questa non è cosa facile, ma anche inscindibilmente di stimolarne l’ingegno e, not least, di sedarne le ansie. In sintesi, come slogan, si tratta di riaccreditare l’Anm come la casa comune dei magistrati italiani.

In questo momento storico, diversamente che nei decenni scorsi, tale non è il senso corrente nella magistratura, tantomeno della sua parte più giovane. Ma questa è la strada obbligata da riprendere, in tutti modi che la nostra intelligenza collettiva ci può suggerire.

E peraltro questa strada la dobbiamo fare con gli “altri”; gruppi più o meno storici, più o meno rilevanti, più o meno strutturati; con questi “altri” dovremo viaggiare.

Ecco su questo tòpos vado a concludere rapidamente le mie considerazioni.

Non ho vissuto direttamente gli eventi degli ultimi anni di politiche interne dell’Associazione e non ne sono certamente un esperto. Perciò rischierei di scrivere stupidaggini e questo lo voglio evitare. Dico soltanto, un po’ seguendo l’istinto e un po’ la logica, che se forse nel quadriennio che va a finire non si poteva fare molto altro a livello di vertice Anm, altrettanto ragionevole è pensare che nel quadriennio prossimo qualcosa di diverso si possa fare.

Intendo dire che si può provare a togliere al “ferrismo” ed ai nuovi “prodotti associativi” simili la rendita di posizione che hanno avuto in questi anni facendo la politica della “associazione nell’associazione” o peggio ancora del gioco di sponda con le istituzioni della politica governativa.

Credo pertanto che bisognerà fare qualche “patto chiaro” e perciò, senza rinunciare ad alcun principio, ché ontologicamente i principi non sono rinunciabili, bisognerà trovare quel compromesso di gestione dell’Anm che appunto la riporti al suo ruolo storico e naturale.

Quindi oltre i dati tuttora “bulgari” di rappresentanza formale, la riconduca ad essere una comunità di persone che, a partire dalla pienamente legittima tutela delle proprie necessità e prerogative, mira alla soddisfazione del primario interesse collettivo al buon funzionamento del servizio giudiziario; che si rinforza al proprio interno e torna ad essere un punto di riferimento nello scenario della vita pubblica italiana; insomma che, orgogliosa del proprio passato, sa muoversi con adeguatezza ed efficacia nel presente; che guarda senza infingimenti e con coraggio al proprio futuro.