Magistratura democratica

Dissenso e diritto costituzionale. Appunti per una riflessione

di Silvia Niccolai

Dei pregi e dei difetti immediati che deriverebbero dall’introduzione nel nostro ordinamento della dissenting opinion si è già detto molto (soprattutto con riferimento alla giurisprudenza costituzionale). In questo contributo, l’Autrice – prendendo come un dato di fatto il mancato ricorso a tale strumento nelle nostre istituzioni – ragiona sulle ragioni culturali profonde di tale ritrosia. Ripercorrendo allora vari filoni di pensiero (storico-comparatistico e costituzionalistico), l’Autrice giunge ad ipotizzare che – dietro la scelta (o non scelta) di non introdurre nel nostro sistema la dissenting opinion – si celi una precisa visione dei rapporti tra legge e diritto (con il prevalere di una visione imperativistica e esclusivamente legalistica del diritto) e della stessa funzione del giudice (anche costituzionale): mero esecutore della legge o creatore (con il legislatore) del diritto; non senza notare, però, che il dissenso nella pratica giudiziaria sarebbe coerente con la nostra esperienza storica e potrebbe dare un importante contributo ad una istanza di garanzia coessenziale alla giustizia (l’arginare i possibili abusi degli organi di governo).

1. Il dissenso nella decisione giudiziaria come problema di diritto costituzionale

È piuttosto evidente che se il dissenso non è entrato a far parte delle prassi della nostra Corte costituzionale o della giurisdizione ordinaria ciò è dovuto a scelte che risalgono anche, se non principalmente, ai diretti interessati, ovverosia alla Corte e alla magistratura. Come titolare di potere regolamentare sulla propria procedura la Corte costituzionale ben avrebbe potuto e ben potrebbe introdurre uno stile di decisione che annoveri l’opinione dissenziente e concorrente, ma non lo ha fatto, nonostante un certo numero di sollecitazioni dottrinali in questo senso. Certamente diversa è la posizione della magistratura ordinaria, che opera secondo procedure stabilite dalla legge; è vero però che la nostra magistratura non ha mai annoverato l’introduzione del dissenso tra i capitoli importanti del suo intenso lavoro di ripensamento intorno alle condizioni della propria organizzazione e funzionamento[1]. Anzi, benché da noi la segretezza della Camera di consiglio non sia imposta dalla Costituzione e «costituisca materia di scelta legislativa che nulla ha a che vedere con l’indipendenza del giudice, che è valore morale che si realizza in tutta la sua pienezza quando si esplica nella trasparenza del comportamento» (Corte cost. n. 18/1989), la magistratura ha reagito, a suo tempo, all’introduzione di qualcosa di (sia pure molto lontanamente) simile a un principio di dissenso nella nostra procedura difendendo la segretezza della Camera di consiglio quale garanzia della propria indipendenza[2]. Come risultato di quello snodo, oggi dell’eventuale dissenso di un componente del collegio si tiene nota nel processo verbale che rimane segreto e serve all’unico scopo di esonerare il dissenziente dalla responsabilità che potrebbe sorgere dalla decisione (art. 131 cpc e 125 cpp)[3]..

Il perimetro del problema del dissenso nella nostra esperienza repubblicana è, con questo, già visibile: esso coincide con il modo in cui sono intese l’indipendenza della giurisdizione e la responsabilità del giudice, ciò che chiama in causa l’intera idea che abbiamo del diritto e della sua funzione sociale. Probabilmente, possiamo leggere nel trattamento del tema del dissenso l’interfaccia di una storia della giustizia in Italia che, da un lato, ha contestato la burocratizzazione della magistratura, ma, dall’altro lato, non ha mai rinunciato a concezioni del diritto di stampo imperativistico[4]. Dell’indipendenza della giurisdizione sono rimaste così percepibili e valorizzate due dimensioni, quella organizzativa, che protegge il giudice da influenze esterne o provenienti dal suo stesso ordine, e quella “morale”, che interpella la personalità del singolo giudice sotto il profilo della sua integrità e rettitudine. La dimensione o le precondizioni culturali, o come altri autorevolmente preferisce dire, professionali[5],dell’indipendenza della giurisdizione sono restate invece molto più sullo sfondo. Queste ultime sono rappresentate dalle risorse di autonomia di giudizio e di valutazione che vengono al giudice dall’essere portatore e parte del diritto come complesso di esperienze, di conoscenze e di modi di ragionare, di principi, alla cui evoluzione il giudice compartecipa, che affondano le loro radici in millenni di storia[6] e che permettono di parlare del diritto come di un “valore in sé”[7]: la procedura basata sul contraddittorio, il ricorso ai principi generali, un’argomentazione dialetticamente orientata il cui scopo, dal significato profondamente etico (particolarmente avvertibile in momenti come quello presente, attraversati da conflitti molteplici e profondi), è «evitare che in ambiti nei quali l’opinione ha un posto prevalente, l’esercizio della ragione si traduca in abuso»[8].

Nella preferenza verso la segretezza e l’impersonalità della decisione giudiziaria – a loro volta annodate a un’idea di indipendenza e di responsabilità rivolte principalmente verso l’esterno (gli altri poteri, l’opinione pubblica, gli estranei alla giustizia) - possiamo in altri termini riconoscere l’onda lunga del positivismo statualista, del legalismo, che hanno condizionato significativamente la struttura e il funzionamento della giurisdizione in Italia sin dall’unificazione. Il contributo etico che il diritto dà alla convivenza grazie alla sua stessa essenza, di ambito orientato da una, fondamentale e pervasiva, istanza di eguaglianza[9], viene naturalmente sottovalutato dalla pretesa di separazione tra diritto e “morale” che accompagna l’istanza giuspositiva. La profonda influenza di quest’ultima può essere riconosciuta anche nel ruolo assegnato alla Costituzione, che, come è stato anche provocatoriamente, ma condivisibilmente, notato, è stata in molti casi intesa come una “superlegge” che permetteva al giudice di emanciparsi dalla subordinazione alla legge in nome della propria soggezione ad altra e superiore volontà normativa[10]. Oggi, in una fase di terribile indebolimento della effettività della Costituzione, la giurisdizione può sentirsi smarrita non sapendo quali valori, principi opporre al legislatore che la chiama semmai ad accompagnarlo, sostenendolo, in bilanciamenti nuovi e un tempo inauditi, come quello di anteporre l’interesse della produzione economica all’interesse alla salute o a quello del lavoratore alla conservazione del suo posto di lavoro. Se questo accade, nella misura in cui accade, ciò può significare che dei principi costituzionali non è stata sufficientemente colta, approfondita e esplorata la connessione coi principi costitutivi del diritto; e anche che, almeno nella nostra esperienza, l’esperimento che chiamiamo “democrazia costituzionale”, un complesso mix di componenti statualiste che risalgono all’esperienza liberale e affondano nelle concezioni moderne e assolutiste, da un lato, e di componenti che richiamano l’antica istanza di equilibrio tra jurisdictio e gubernaculum, dall’altro lato, sono le prime ad avere prevalso. Questo ha reso difficile il recupero dell’«autonomia del concetto di diritto rispetto a quello di legge», condizione a sua volta di una autentica dialettica legislatore-giudice (A. Giuliani), e ha influito, anche, sugli svolgimenti del tema del dissenso. La sua pregevolezza, e uguale dignità rispetto al decisum, la sua fisiologica appartenenza all’esperienza giuridica derivano dal suo concorrere al diritto quale ambito, dialettico[11], della lex interpretatio. Esse tendono ovviamente a divenire confuse, a non venire più percepite, quando diverse condizioni del diritto prevalgono.

Il dissenso, allora, non appare del tutto correttamente inteso, come problema di diritto costituzionale, quando lo si riduce a problema di giustizia costituzionale, che si incentra cioè intorno al se e al perché sia opportuno o meno introdurre il dissenso nelle decisioni della Corte costituzionale. Il dissenso interessa il diritto costituzionale perché è tema che investe le concezioni della Costituzione, della sua interpretazione, del suo rapporto con il complesso dell’esperienza del diritto che si sono affermate in Italia; e che rinvia, anche, al «modo in cui siamo fatti», che è del resto una delle aree semantiche cui il termine “Costituzione”, lo ricorda la classica voce mortatiana dell’Enciclopedia del diritto, rimanda.

2. Itinerari del dissenso nel dibattito giuridico italiano d’età repubblicana

In questa chiave, può essere interessante riconsiderare i due principali itinerari di ricerca e di discussione che, nell’Italia repubblicana, si sono svolti intorno al tema del dissenso. Uno lo ha visto comparire all’interno della stagione di riscoperta della tradizione giuridica italiana ed europea del diritto comune (e, se si vuole, del concetto stesso di “tradizione” nel diritto), che ha avuto uno dei suoi epicentri negli studi di Gino Gorla[12] ed è stata componente di una proposta precisa, che investe direttamente la comprensione del diritto. Se quest’ultimo va studiato in chiave storico-comparativa è perché quelle sono le dimensioni in cui il diritto vive, consiste, come esperienza[13]. In questo itinerario, la scoperta dell’esistenza e del ruolo dell’opinione dissenziente nel diritto preunitario è diventata un frammento di un disegno più ampio che concorse a riconfigurare la tradizione giuridica italiana assegnandole la “primogenitura”[14] di istituti, come appunto la dissenting opinion o la vincolatività del precedente giudiziale, «di cui si va fieri nel mondo anglo-americano». Ma non era la palma della primogenitura o la redazione di classifiche a interessare quel genere di studi: riflettere su singoli istituti del passato concorreva a comporre lo spessore di un’esperienza giuridica che conosceva il giudice come difensore degli “iura naturalia” e dunque come “consulente”, ma anche come “controllore” di un Principe al quale il giudice si rapporta con autorevolezza e indipendenza perché portatore di una sapientia juris che conosce, e sviluppa, la communis opinio fori totius orbi, vale a dire i principi accolti dai grandi tribunali del “mondo civile comunicabile” e li interroga per la soluzione dei problemi pratici che incontra, a partire da quello delle lacune[15].

L’altro itinerario di riscoperta del dissenso si svolge all’interno del diritto costituzionale, come scienza specializzata nello studio della Costituzione repubblicana e del suo giudice, e ha il suo momento di avvio con la raccolta di studi pubblicata nel 1964 da Costantino Mortati[16]. Con questa importante opera il dissent inizia a diventare un problema disciplinare del diritto costituzionale e, di qui, a concentrarsi intorno alla domanda sui pregi e difetti, sull’auspicabilità o meno dell’introduzione di questo istituto nelle decisioni della nostra Corte costituzionale. È il tema che, attraverso una non povera serie di studi e dibattiti[17], e solitamente organizzato attorno a richiami comparatistica indirizzati agli Stati Uniti, alla Gran Bretagna, e, più di recente, alla Germania o alla Spagna, si è sistemata sui binari ancor di recente sintetizzati da Cassese[18]e che tutti conosciamo: fa bene al pluralismo, però innalza il rischio di politicità, ecc. ecc.  Il dissenso diventa in questa corrente di studi l’attributo di un giudice del tutto speciale per il carattere eminentemente politico della sua opera e del suo principale interlocutore (il legislatore), un giudice la cui accentuata influenza sui processi decisionali democratici impone un tasso particolarmente alto di trasparenza, ma può, d’altro canto, giustificare anche una preoccupazione particolarmente intensa per la salvaguardia di una immagine di unità.

Un punto di incontro, e insieme quasi uno spartiacque, tra i due itinerari, quello storico-comparativo (e, come dirò, processualista e giusfilosofico[19], da un lato, che ha indagato il dissenso all’interno di un percorso di rilettura e di riproposizione della tradizione giuridica italiana di diritto comune, e quello costituzionalistico, dall’altro lato, che lo ha incorporato come problema specifico della giustizia costituzionale, sta proprio nel volume curato da Mortati, dove il coltissimo saggio iniziale di Vittorio Denti[20]si incaricò di contestare la allora ancora condivisa credenza, o “dogma” della estraneità del dissenso alla nostra tradizione giuridica richiamando le significative esperienze del diritto napoletano, estense e toscano d’epoca pre-unitaria, e facendo accurata menzione ai pochi, sparsi e fino ad allora pressoché dimenticati riferimenti al “voto di scissura” rintracciabili nella nostra dottrina d’età liberale.

3. Il dissenso e le risposte alla “crisi del formalismo” in Italia

È facile scorgere che, in ambedue gli itinerari, il tema del dissenso si intreccia con quello della reazione al formalismo giuridico, con la ricerca di risposte alla crisi del formalismo. Proprio sullo sfondo della crisi del formalismo, Aschieri ha incorniciato complessivamente l’opera di Gorla, considerandolo orientato «non solo alla ricerca di elementi generali e comuni tra common law  e civil law, come comparatista, ma anche alla ricerca, come giurista, di uno sbocco positivo alla crisi del “formalismo” giuridico»[21]; in quella direzione andavano esplicitamente gli auspici di Mortati, e di Denti, per un dissenso compagno di una “nuova” concezione della Costituzione, e della funzione giudiziaria, l’una da vedersi come «organismo vivente che affida la vitalità delle sue formule alla loro aderenza alla coscienza sociale», l’altra chiamata a svolgere «una funzione creativa di esplicazione e di adattamento dei principi costituzionali»[22], nell’auspicio che «nella vita stessa del diritto operino forze liberatrici, intese a riportare alla luce i procedimenti di elaborazione dei principi politici, economici e sociali di cui le ‘norme in bianco’ dell’ordinamento sollecitano continuamente l’applicazione»[23].

Riconsiderando questa discussione il dissenso ci appare, in modo trasparente, un capitolo dello svolgimento del rapporto tra la dottrina italiana e il realismo giuridico, nelle molteplici versioni in cui l’istanza realista può manifestarsi[24]. Nelle pagine di Mortati e di Denti invocare l’opportunità dell’introduzione del dissenso nella nostra giurisprudenza costituzionale è un modo per contestare un «modello burocratico di giurisdizione»[25] al posto del quale sembra, però, non poter esistere altro che un giudice «espressione della coscienza sociale». È il richiamo a un realismo ingegneristico, di marca statunitense, che non rinuncia all’idea del diritto come strumento di trasformazione della società, rispondente a un piano, a un programma, e anzi la corrobora, risolvendo il giudice in un «organizzatore della società», secondo le parole di Alessandro Giuliani. Vi era realismo, peraltro,anche nell’indagine gorliana, un realismo diverso ma tutt’altro che incomunicante col primo. La preoccupazione di confutare un’ “ortodossia” giuridica centrata sul codicismo e sulle dimostrazioni deduttive, che conduce all’attenzione verso la dimensione giudiziale, verso la pratica del diritto e i suoi attori, non andava in quell’indagine, e non va di solito, esente dal rischio di essere recepita solo come enfasi sui misteri procedurali, sulle sapienze recondite, dal rischio, cioè, di tendere a descrivere il giudice come il centro, nevralgico e unico, del diritto. È possibile che, attenuando l’interesse per l’elemento dogmatico e sistematico, per il filo conduttore che riconduce l’attività del giudice al complesso più ampio dell’esperienza giuridica quale ars boni et aequi[26], la ricerca gorliana abbia contribuito al percorso che ha visto il realismo diventare, anche, un campo di esaltazione del protagonismo giudiziale. Il figurino che risulta da questo percorso è noto, è quello della giurisprudenza che col precedente crea il diritto, cioè una visione che conferma la risoluzione imperativistica del diritto. Diversamente accade quando si indaghi intorno al perché della valorizzazione del precedente nella nostra tradizione antica. Se, ma solo allorché, si coglie che è il primato del fatto a obbligare alla ricerca del precedente giusto e opportuno, onde «ogni regola viene trattata come se fosse un precedente giudiziario» (anziché il precedente diventare regola) [27], il richiamo al valore del precedente assume il senso di contrastare una riduzione imperativistica del diritto. L’attenzione al ruolo del giudice, se separata da quella verso la logica more iuridico, può determinare invece la propensione a esaltare, del primo, la creatività e la “politicità”. Questa propensione non è estranea ai percorsi che hanno fatto del dissenso un tema tipicamente collegato alla riflessione sulla legittimazione “democratica” di un giudice ormai chiamato a “scelte discrezionali” che richiedono succedanei della responsabilità politica[28]. Quella stessa propensione spiega anche, d’altro canto, che il dissenso sia divenuto un argomento di quasi esclusiva pertinenza della giustizia costituzionale, quale tratto comprensibile, o auspicabile, in un giudice che si accosta a domande intrise di valore, ma non perché di esse è comunque fatto il lavoro di ogni giudice, sebbene perché è un giudice dalla speciale e particolarissima posizione [29].

Ci sono dunque legami, tra le due prospettive di ricerca intorno al dissenso, che sto evocando. Eppure esse appaiono anche assai divergenti. Davanti alle lacune, o per pronunciarsi su problemi che possono avere implicazioni politiche di altissimo rilievo,il giudice di Mortati e di Denti si sporge fuori, verso la coscienza sociale e altre scienze e ambiti di sapere ed esperienza, la politica, l’economia, la scienza sociale. Il giudice di Gorla, colto nella complessità e nello spessore dell’esperienza giuridica in cui era collocato, quella di ordine antico, va invece a dialogare con altri giudici, coi precedenti e con le leggi, relative a casi analoghi, o di un luogo vicino, si interroga sulle regulae iuris e le adopera per interpretare la legge, evitare possibili abusi.

Il fatto è, mi pare, che una risposta alla crisi del formalismo che non fosse interamente riassorbita nel realismo ingegneristico c’era effettivamente in questa seconda visione, quella di Gorla, ma noi per riconoscerla, dobbiamo leggere le monumentali ricostruzioni che questo Autore ci ha consegnato (un po’ troppo tentate, lo dicevo or ora, dalla fascinazione di ridurre l’esperienza giuridica all’attività del giudice) attraverso i contributi di Nicola Picardi o Alessandro Giuliani sul processo, o di Riccardo Orestano sull’esperienza giuridica. Si tratta di ricerche, queste ultime, attentamente concentrate sul recupero dell’autonomia del diritto come sapere, come forma mentale e come esperienza collettiva[30], ambito di culture e di prassi che coinvolgono giuristi operanti in diversi momenti dell’esperienza giuridica (giudice, avvocato, teorico, insegnante, consigliere), immerse nella cornice valutativa del proprio tempo[31], che vengono valorizzate soprattutto come altrettante manifestazioni di una forma della ragione problematica, confutativa, prossima a una idea di verità sempre rivedibile, e in cui è centrale la sottolineatura della dimensione qualitativa, e innervata di valore, dei problemi che si pongono al giurista[32].

4. Il dissenso come componente di una ragione giuridica forma della ragione dialettica e controversiale, in cui risiede l’indipendenza culturale della giurisdizione

Il “voto di scissura” praticato nelle prassi dei tribunali e delle rote di diritto comune ci appare, nella luce di questi studi, parte di una idea di procedura che esalta il momento cooperativo nella valutazione giuridica e giudiziale, prevedendo vota scritti dei singoli giudici (pubblicati dopo la resolutio della causa) che rappresentano altrettanti consilia al ponente o relator; la presenza dei singoli vota e dei dissensi fa sì che la decisione risulti appunto non “decisione”, ma “valutazione”, o opinio, risultante dall’accurata presa in considerazione dei punti di vista contenuti nelle argomentazioni altrui, non atto di imperio, ma di ragione.

Si riconosce in queste forme del processo antico l’operare, come premessa e condizione della pratica del dissenso, di una concezione dialettica e controversiale del diritto, che riguarda  i rapporti tra le parti e il giudice ma investe anche, e allo stesso titolo, la formazione del convincimento del giudice, anch’essa inscindibile da una logica dialettica e problematica che si traduce in primo luogo in disciplina dell’argomentazione e del discorso. Apprendendo[33] che vi era una varietà di motivi che spingeva alla pubblicazione del dissenso, tra questi anche l’evitare la possibile responsabilità per il sindacato; l’adempimento del dovere deontologico di avere ben studiato e conosciuto la causa; l’interesse pubblico a una conoscenza delle motivazioni nel loro complesso, che permettessero di valutare la correttezza della decisione redatta dal ponente, avvertiamo intanto che il senso della “scissura” non era certamente quello di sottolineare componenti soggettivistiche, individualistiche della interpretazione, o volontaristiche del diritto. L’istituto si accordava, al contrario, a una idea di diritto come ricerca della verità probabile nel campo dell’opinabile, come “impresa collettiva”, dunque, che si arricchisce del contributo di molte menti. Interessanti in vista di una “nuova giurisprudenza” o per offrire alle parti motivi di impugnazione, ma anche territori di accordo, i vota concorrenti o dissenzienti, pubblici, non di rado pubblicati in forma di “trattatelli” erano componenti di un quadro che della giurisdizione esaltava la natura di una attività cooperativa, molto spesso vicina all’arbitrato, cioè esercitata nell’interesse delle parti litiganti, che si nutre di studio ed è costante incitamento alla prudenza. Il dissenso ci appare parte di una esperienza di diritto comune in cui «le tecniche di individuazione della regola sono articolazioni di una ragione pratica, giustificativa, comparativa con precisi agganci logici e filosofici (che rinviano rispettivamente alla topica e alla filosofia retorica)», in cui si persegue «una dialettica tra legislazione, scienza e giurisprudenza» fondata sulla «diffidenza non  solo nei confronti dell’onniscienza del legislatore, ma anche di quella dei dottori»[34].

Il diritto costituzionale italiano sembra aver perduto in qualche modo di vista proprio questa dimensione dell’indipendenza del giudice, che in apertura ho chiamato “culturale”, data dalla consistenza di un’esperienza giuridica in cui radicare il «punto di vista del diritto», come lo ha chiamato Alessandro Giuliani, che è stata sottovalutata, direi, insieme alle opportunità che il modo storico-comparativo di pensare l’esperienza giuridica[35], che ne ha consentito la riscoperta, racchiudeva e racchiude per il diritto costituzionale. Un certo attaccamento all’alternativa tra giudice “soggetto alla legge” e giudice “creativo”, tracciata nella raccolta mortatiana, ha certamente valso nel senso di spingere verso l’obliterazione la dimensione culturale dell’indipendenza della giurisdizione, e, con essa, dell’autonomia del diritto rispetto ad altri campi dell’esperienza e della conoscenza. Ogni petizione di anti-formalismo è stata  del resto, a partire dallo snodo del dibattito intorno al dissenso segnato dal volume mortatiano, nel costituzionalismo italiano, dichiarazione del bisogno di  apertura del diritto costituzionale e del suo studio, forse della sua stessa funzione, ad altri ambiti, e specialmente ad uno: il campo della politica [36]. La quale però è stata centrale, quasi per paradosso, anche per i formalisti, cioè per coloro che hanno temuto una giurisprudenza, costituzionale, troppo “creativa”, vedendovi la via per possibili tradimenti o annacquamenti del disegno costituzionale, inteso, spesso proprio dai formalisti, come un progetto chiaramente e nitidamente orientato verso obiettivi di maggiore giustizia sociale, che la politica avrebbe dovuto realizzare e la Corte a sua volta attuare nelle sue decisioni. È vero infatti che l’antiformalismo realista, pur avendo influenzato settori della cultura giuridica e della giurisdizione in Italia, non ha preso molto piede nel costituzionalismo italiano, che ha preferito il formalismo dogmatico, ma quest’ultimo atteggiamento è diventato coessenziale a una volontà di non «riappropriarsi di una visione storico-politica la più ampia possibile, che consenta [al diritto costituzionale] di riprendere quel respiro culturale e quella libertà di valutazione dei processi reali che esso ha avuto in Europa in alcuni grandi momenti della storia istituzionale.» Ritornanti contestazioni del canone della ragionevolezza come minaccia alla cogenza del progetto costituzionale di società sono state l’espressione di questo tipo di formalismo. Oggi possiamo domandarci se avere riflettuto molto sulla contiguità tra il diritto costituzionale e il politico, molto meno sulla connessione tra il diritto costituzionale e la cultura e l’esperienza giuridica, la pratica del diritto, possa aver indebolito la capacità della dottrina del diritto costituzionale di «mantenere un ruolo che le possa assicurare un’autonomia e un’autorevolezza rispetto ai poteri economici e politici che appaiono sempre più forti»[37].

5. Che cosa il ricordo del dissenso avrebbe potuto dire

Lo studio del dissenso segnala due approcci diversi alla storia e alla comparazione nel diritto: da un lato l’invito a comprenderne l’intima storicità, che problematizza gli istituti, resiste alle certezze e alle astrazioni dogmatiche, è refrattaria alla riduzione del diritto a una dimensione imperativistica; dall’altro la storia come antefatto[38], utile semmai, insieme alle tassonomie comparatistiche, per suggerire soluzioni organizzative e tecniche considerate preferibili sotto astratti profili di politica costituzionale o all’interno di variabili modelli teorici della democrazia. Se la nostra Corte non ha saputo o voluto fare di sé un Grande Tribunale, questo può essere spiegato in parte anche con un contesto dottrinale, quello del costituzionalismo italiano, che, da un lato, ha lasciato quegli antichi modelli e le corrispondenti aspirazioni a territorio di altre discipline, considerandole da un lato erudite, dall’altro eterodosse, e soprattutto, forse, inutili (se la democrazia è suffragio universale, rappresentanza politica e sistema dei partiti, come potrebbe, e perché dovrebbe il costituzionalista interessarsi del processo antico, o delle risorse pluralistiche della conoscenza giuridica?). E che, dall’altro lato,  ha privilegiato metodi di insegnamento e di riflessione sulla materia innervati dalla convinzione che il punto di inizio del costituzionalismo in Italia sia il 1948, che l’interrogazione storica del costituzionalista non abbia ragione di spingersi, per cercare stimoli ideativi e risorse pratiche, oltre lo stato liberale.

Così si spiega, per esempio, la ritrosia a riconoscere e valorizzare nel canone della ragionevolezza i legami con l’equità classica, struttura portante della dialettica diritto-legge; o che nell’odierno, trionfante “liberalismo” sia stato possibile da parte della stessa Corte declassare il rilievo di una disposizione come quella dell’art. 41, senza tener conto che essa contiene principi indisponibili, perché senza di essi non vi è diritto nella convivenza, quali l’alterum non laedere e quello secondo cui i lucra devono essere guadagnati honeste[39]. Davanti al legislatore che riscrive, modifica, deroga ai precetti costituzionali (o magari vi inserisce, come sta avvenendo oltralpe, e come potrebbe accadere dovunque, restrizioni profonde ai diritti civili di libertà) nulla o molto poco resta da dire al giudice - costituzionale e ordinario - se questi ha perduto la consapevolezza che dentro, sotto, attraverso i principi costituzionali e le leggi vivono i principi generali e costitutivi del diritto e che sono questi ultimi ciò che esso è chiamato a interpretare e mettere all’opera nel dialogo col legislatore, per mitigarne e contrastarne gli abusi, se non si vuole che la legalità costituzionale residui solo come veicolo per legittimare le esigenze del potere, secondo i rischi di ogni riduzione del diritto a forma. Va da sé che, se il diritto non è pensato come portatore di un proprio punto di vista sui problemi della convivenza,  si dimentica che ad esso è connaturale il dissenso.

Il ricordo del dissenso, ricostruito dagli studi gorliani, riempito di senso dalle riflessioni di Picardi, Giuliani, Orestano sull’esperienza giuridica, rappresenta allora un’occasione perduta del costituzionalismo italiano e il trattamento ricevuto da questo tema nella piccola ma densa branca specialistica che lo ha considerato recinta uno spazio dal quale emergono le domande centrali della nostra crisi attuale, forse alcune tra le ragioni più profonde di essa. Frammento della storia dei Grandi Tribunali, il dissenso era proposta che poteva offrire occasione decisiva per  una profonda rivisitazione di ciò che, invece, abbiamo inteso per diritto costituzionale in Italia: non solo lo studio, l’esegesi, l’interpretazione e le decisioni intorno a un testo entrato in vigore nel 1948, ma una tradizione che affonda complesse, ricche radici nella nostra storia, in cui innumerevoli volte è stato il diritto, sono stati cioè i giuristi, a immaginare e argomentare limiti al potere, politico ed economico, facendo generare dall’idea di eguaglianza, dal problema della giusta retribuzione del torto, regole pratiche di condotta che sono diventate patrimonio (valori) della convivenza civile. Lo studio della storia ci ricorderebbe che «i principi costitutivi del diritto riguardano nodi cruciali del costituzionalismo: l’individuo, la sua personalità e la sua libertà, la necessità di prevedere limiti per il potere politico» ed essi non sorgono con l’illuminismo[40]. È del resto nel diritto, non con la rivoluzione francese, che nasce l’eguaglianza: ricordarlo, ci chiamerebbe, come giuristi, a sentirci partecipi dello stesso impegno grazie al quale i giurisperiti d’età comunale seppero condannare i monopolia in nome della publica libertas, riconoscendovi «una forma di tirannide non meno grave di quella politica», o trarre dal divieto di illecito arricchimento una dottrina che contrastava la politica dei bassi salari, per via delle «conseguenze deleterie della povertà sull’ordine civile»[41]. Dal riflesso determinante (“nefasto”, lo qualifica Cervati) del positivismo giuridico imperante nel costituzionalismo italiano, rappresentato dalla «scarsa considerazione dedicata alla storia costituzionale del nostro Paese», dal poco interesse verso la riflessione sulla «storia del pensiero giuridico nel quadro della storia sociale e politica nazionale» discende la conseguenza di cui oggi misuriamo tutta la gravità: poco abituati a confrontarci «costantemente con le trasformazioni avvenute nella nostra disciplina»[42] ci sentiamo perduti quando, constando l’«ineffettività» della Costituzione come testo e come “progetto”, sembra possibile solo dichiarare la morte o la fine del costituzionalismo in Italia[43].

Il ricordo del dissenso sarebbe stato molto importante, dunque, per tenere presente che la capacità del diritto di porre in essere un’effettiva dialettica col gubernaculum, volta a mitigarne gli abusi, dipende tanto dalla sua capacità di farsi portatore di una propria autonomia culturale, fatta di un patrimonio di principi e di regulae iuris, di un accostamento topico e controversiale alle domande di giustizia, quanto dall’esistenza di un contesto che sia sensibile a quel tipo di influenza. Il ricordo del dissenso nel diritto antico sarebbe valso, infatti, anche a far meditare su come fattibilità e utilità del dissenso sono questioni che non investono solo la giurisdizione, ma anche la legislazione, perché sono condizionate dalla qualità del rapporto che intercorre tra questi due termini dell’esperienza giuridica. L’epoca del diritto comune non fu solo il tempo dei Grandi Tribunali, ma anche quello del «legislatore ragionevole» indagato dagli studi giulianei[44], riflesso della concezione mista di ordine antico del “comando come giudizio”, che, incentrata sulla esigenza di equilibrio tra legislazione e giurisdizione, rammemora che questo equilibrio è, ai fini della consistenza dell’ordine giuridico, nevralgico. Il ricordo del dissenso poteva dunque spezzare i confini disciplinari in cui il diritto costituzionale si è chiuso, non solo diacronicamente, ma orizzontalmente, spingendo a considerare parte diretta della nostra materia, vichianamente, «il livello delle mentalità e della moralità» di ogni certa epoca, i modi di pensare, i valori che ispirano la convivenza, le forme della ragione che prendono via via il sopravvento. Si trattava di annoverare, come pure è stato proposto, tra i capitoli centrali del diritto costituzionale[45],non solo gli organi della forma di governo e le sue dinamiche, ma la giurisdizione con la sua complessa intelaiatura alla costruzione del diritto pubblico e costituzionale; l’educazione del giudice e del giurista, fornendogli gli strumenti per  riflettere criticamente, in primo luogo, su se stesso, sui propri metodi, sulle proprie mentalità, così come sugli istituti attraverso cui il diritto vive, primo tra questi, e non solo ai fini del nostro discorso, l’indipendenza della giurisdizione, tema circa il quale si tende a dimenticare che «non può dare per presupposta alcuna definizione dogmatica dell’indipendenza o dell’imparzialità, né della funzione giurisdizionale, ma [occorre] concentrare la riflessione sulle esigenze reali, sulle minacce concrete all’imparzialità del magistrato, sulle attese della collettività»[46].Infine, e soprattutto, si trattava di soffermarsi non tanto sulle “fonti del diritto e gli atti normativi” ma sui  percorsi di riconoscimento del diritto che avvengono nel giudizio[47], dove i principi operano in forza dell’attitudine pratica e valutativa di quest’ultimo, anziché per effetto della forza normativa (che tanto drammaticamente può decadere) della fonte che li racchiude. Il ricordo della stagione in cui il dissenso nella decisione giudiziaria è appartenuto alle nostre prassi avrebbe potuto insomma consentire una riflessione più profonda sulle ragioni del «conflitto tra il diritto comune e la codificazione», rivelandone il carattere di grandi costanti. Non si tratta infatti di cose del passato, ma di «due opposti modi di configurare le norme di riconoscimento, che legittimano rispettivamente una dialettica legislatore-giudice (lex-interpretatio) e l’onnipotenza legislativa. I principi del diritto comune (nel senso delle regulae iuris) sono legati alle tecniche di una ragione retorica, argomentativa, giustificativa (rationabilitas)». Erano in causa le opportunità di un diverso antiformalismo, che non spinge il diritto fuori da sé (come avviene in tutti i casi in cui esso va verso la politica, l’economia, la sociologia, ma anche verso le sole norme positive), ma dentro, verso la sua propria logica, «una logica dell’applicazione giudiziaria – intesa come metodologia del ragionamento analogico, basato sul primato dell’argomento a simili [che] privilegia la ricerca di una soluzione giusta e ragionevole». Si sarebbero potute interrogare meglio le risorse che, al diritto costituzionale, offre una simile dottrina,  cui è sottintesa la sfiducia nei confronti della «onniscienza di un legislatore, che pretenda di avere il monopolio nel mutamento nel diritto»[48], di qualunque “grado” siano le espressioni normative in cui quel legislatore si manifesta.

6. Segreto o pubblicità come garanzia di indipendenza? Dal dissenso alle costanti della nostra esperienza civica

Nella resistenza della nostra esperienza a salvaguardare la non coincidenza tra diritto legge, diritto e potere, diritto e politica, si esprime probabilmente la lunga vittoria di una forma della ragione strumentale, calcolante, divenuta dominante dai tempi della rivoluzione francese in poi, sempre alleandosi al mito del progresso, della necessità storica[49] (o del bene comune, o dell’interesse generale). Essa  contrasta l’idea  stessa di una diversa forma della ragione, dialettica, problematica, senza la valorizzazione della quale è difficile che si sviluppi, e si preservi, una concezione della giurisdizione capace di coltivare il valore dell’opinione dissenziente. Ecco che le ragioni per introdurla, o per non introdurla, oscillano, sono equipollenti, restano indecise: può giovare alla trasparenza, ma anche minacciare l’indipendenza, oppure non, perché quella è questione prettamente “morale”. Tutte le volte in cui il problema del dissenso si allea con, e si riduce a, un’esigenza di trasparenza avvertiamo che dell’attività del giudice, costituzionale o ordinario, in primo piano è collocata la rilevanza politica nel senso di sporgenza nella sfera, ad esso impropria, dell’indirizzo politico, del governo della società: se il giudice non può più essere mero “esecutore” della legge allora sia almeno trasparente nei suoi processi decisionali “creativi” attraverso i quali esplica il suo ruolo di organizzatore della società. Il dissenso diventa attributo di un giudice che non è “proprio” o “solo” un giudice, ma il pendolo continua a oscillare tra soggezione alla legge e creatività, riconfermando una visione imperativistica del diritto, e il modello rimane il giudice funzionario. Tutte le volte che l’indipendenza si declina solo come connotato sostenuto dalla moralità individuale del funzionario, si nega che etico è, in primo luogo, il contributo che il diritto dà alla convivenza. In una cultura giuridica che non ha coltivato il senso dell’autonomia del diritto come esperienza retta da propri principi costitutivi (eguaglianza, contraddittorio, prova, argomentazione, responsabilità), il dissenso, che a quei principi costitutivi rimanda direttamente resta, al massimo, come gingillo, abbellimento esteriore o mera soluzione tecnica.

Val la pena, però, di porsi, conclusivamente, un’ultima domanda: è stato veramente, soltanto, l’avvento della cultura “francesista”, la piemontesizzazione, colpevole di avere interrotto così decisamente[50] la tradizione giuridica italiana che valorizzava, del diritto, la natura dialettica e controversiale e pertanto conosceva il dissenso? Quel taglio rispetto alle nostre tradizioni è certamente fondamentale. Questo ci permette, però, di concludere che la preferenza della cultura giuridica italiana verso «una legislazione sistematica», la sua «avversione ad assoggettarsi alle incertezze e ai pericoli di una elaborazione di tradizioni giuridiche»[51] è stata solo il risultato di una scelta d’autorità, calata dall’alto sulla giurisdizione? La svolta unitaria per il legicentrismo riesce davvero, da sola, a spiegare come mai il giudice che si è “democratizzato” negli anni ’70 del Novecento non ha invocato la reintroduzione del dissenso nel nostro stile giudiziario?

Il fatto è, a me pare, che la riduzione del diritto a legge non è stata solo subìta, ma anche accettata e favorita dalla giurisdizione. La legge, lo si sa, non va mai priva della fascinazione che le viene dal potersi rappresentare come strumento di progresso: per questo possiamo pensare che, proprio perché la nostra magistratura ha voluto sentirsi parte di un processo riformatore della società, essa si sia sentita meglio rispecchiata nel modello del giudice funzionario, che è gemello della “legge eguale per tutti”: perché ogni progressista ama l’idea del piano, del programma, della riforma dall’alto e la legge, la legge virtuosa della democrazia costituzionale soprattutto, si è da sempre ammantata di questo mito.

Rispetto a questo mito, l’immagine del giurista che interroga la natura della cosa e si confronta con antichi principi, per quanto possa essere stata evocata e spesa in una direzione tutta contestativa e dinamica, come ha fatto, in pagine ineguagliabili, Michel De Villey[52], resta ammantata di un sospetto di conservatorismo, e di soggettivismo. Sostenerne il valore, anche solo coltivarne la memoria, diventa ogni giorno più difficile: un tempo essa ha avuto contro di sé l’ideale di un giudice alleato del progetto costituzionale di una società più giusta; oggi le si oppongono i perentori itinerari contemporanei del potere pubblico. Apparentemente nuovissimi, essi rilanciano l’antica e mai sopita inimicizia della statualità, del potere, verso la mentalità giurisdizionale e le sue prassi, che, con la loro natura problematizzante, fanno del giudice il “cattivo conduttore” di una “decisionalità”[53] considerata, invece, sempre più pregevole, e unico, valore.

Nella presa di distanza da una tradizione giuridica di diritto comune che annoverava, tra altri istituti, il dissenso, come parte di una concezione dialettica e argomentativa, isonomica, del processo e della conoscenza giuridica, ha giocato dunque forse, oltre che una scelta dall’alto, rappresentata dalla svolta codicistica, anche un consenso che a quella scelta è venuto motu proprio dalla giurisdizione, forse specialmente da quando il volontarismo è potuto apparire un importante alleato dell’attuazione della Costituzione.

Ma nemmeno così il quadro delle ragioni che hanno spinto la nostra giurisdizione a prediligere il segreto e il monismo della decisione sarebbe forse completo. Occorre dar conto anche dei segnali che sembrano indicare che il dissenso non sempre ha lasciato una buona memoria di sé. Stolfi, nello scritto cui Denti rinvia quale una delle principali fonti che, in epoca liberale, conservavano memoria del voto di scissura, non lo rimpiangeva, per esempio, affatto (benché Denti di questo, nel suo scritto del 1964, non desse atto). Pur facendo sua l’appassionata difesa svolta da Francesco Saverio Merlino delle istituzioni giudiziarie del Regno delle Due Sicilie, e delle tradizioni pre-unitarie «purtroppo spezzate dalla negazione e dall’imitazione francese» (peggiorata, egli osserva giustamente, rispetto all’originale), Stolfi non vedeva nel voto di scissura una prassi da riproporre, perché favoriva «l’antagonismo tra i giudicanti»[54]. Era un’allusione alla possibilità che il dissenso fosse usato per quella che oggi chiameremmo una ricerca di visibilità, era un’osservazione che nasceva dall’esistenza di prassi di questa natura? Essa fa pensare subito al rischio di usi strumentali del dissenso, che nessuno potrebbe considerare del tutto remoto, o escluso, negli scenari odierni.

E d’altro canto, riconsideriamo la stessa ricerca gorliana, da cui abbiamo preso le mosse. Gorla da un lato accusa i piemontesi di avere rotto le tradizioni antiche, ma poche pagine prima ci dice che il segreto comincia a entrare nella nostra tradizione per suo conto nel tardo Seicento, nel Settecento, insieme alla centralità del giudice relatore, e alle spinte verso il monismo imperativi stico nella redazione della sentenza. Motivo: il timore dei condizionamenti esterni: in una temperie culturale che da un lato difende la pubblicità delle opinioni dei singoli giudici, per esempio della Rota fiorentina o di quella di Macerata, si affacciano anche le «ragioni per il segreto, avanzate da Emerix sulla scorta della Costituzione di Urbano VIII, ad evitare le pressioni delle parti o di ‘magnati’»[55]. Si era nella prima metà del 1600. Più di trecento anni dopo, nel 1988, nella sua ordinanza di rimessione sulla disposizione che prevedeva l’obbligo di annotazione nominativa delle opinioni dei giudici, il Tribunale di Roma avanzò l’argomento secondo cui «soltanto attraverso l’impersonalità della deliberazione, garantita dalla segretezza, ciascun componente del collegio sarebbe sottratto a condizionamenti»[56].

Sotto questa seconda sollecitazione, la mente va a Muratori, al problema delle influenze, dei mercimoni, di una giustizia tirata da tutte le parti in una società che non conosce l’uguaglianza (e dunque non ha una giustizia). Difendendo il segreto, ora come allora, la magistratura e forse la stessa Corte costituzionale hanno sposato, oltre che una concezione del diritto, una strategia nascente dalla consapevolezza delle condizioni della propria azione, difficili e rese probabilmente tanto più difficili dall’insieme di squilibri che percorrono la decisione politica, la prassi amministrativa, il rapporto tra le istituzioni e la cittadinanza. Se è così, la persistente affezione della nostra giurisdizione, ordinaria e costituzionale, alla segretezza dei percorsi decisionali, la refrattarietà alla assunzione delle responsabilità implicite nel dissenso, ci appaiono, anche, come altrettante espressioni dell’intrinseca debolezza della nostra convivenza, sotto il profilo dei valori che la innervano, o come altrettanti segnali, degni di riflessione, di una continuità di problematiche che si sono ripresentate come costanti della nostra storia e che legano lo stato della giustizia a quello della società. 

Il timore di influenze indebite, o delle tentazioni di protagonismo, hanno contribuito a spingere la giurisdizione a individuare come condizioni della propria indipendenza il segreto della decisione e la moralità individuale, in un quadro che si è poi orientato al giuspositivismo, che a sua volta diffonde la convinzione che «la politica elabora i valori, o l’etica, o l’economia, giammai il diritto»[57]. Il costo, per la  nostra esperienza, è stato una perdita di consapevolezza circa lo specifico contributo etico che il diritto come tale dà alla convivenza, offrendo uno spazio per il confronto paritetico tra le opinioni, per il rispetto delle regole del gioco, per l’esercizio di una forma della ragione problematica, confutativa. Si tratta delle stesse componenti in cui risiedono le premesse, e il presidio, di un ordine isonomico della comunità; si tratta di beni dei quali, se riflettiamo sulle condizioni della nostra convivenza, avvertiamo la crisi e la fragilità.

La mancanza del dissenso segnala allora mancanze profonde. Riflettendovi, potremmo avvertire ragioni per una rinnovata indagine sulla nostra tradizione, che sappia tornare a valorizzare la struttura controversiale della questione giuridica, la consapevolezza del giurista di muoversi nel campo dell’opinabile, e delle risorse a questo scopo offerte da una forma della ragione che investa sull’argomentazione anziché sulla dimostrazione, privilegiando il contraddittorio, evitando così la tentazione di sfuggire il confronto tra le argomentazioni e ogni uso abusivo della ragione. Vi è «un nesso tra una ragione dialettica, confutatoria, controversiale, e un campo etico della comunicazione umana orientato all’esigenza della veracità»[58]; è un nesso che passa sui valori dell’eguaglianza e della reciprocità: il diritto non può esistere, come tale, senza quei valori, e serve a farli vivere. Essi richiedono cultura, prudenza, moderazione. Il dissenso, ripensato in quest’ottica, riaffiorerebbe come componente dell’etica professionale del giudice; discuterne, ci aiuterebbe a riscoprire i nessi reciproci che intercorrono tra il diritto e i valori isonomici senza i quali non può vivere una democrazia costituzionale.

[1] Il tema è rimasto latente nel versante di discussione che si è interrogato intorno alla funzione “extraprocessuale” della motivazione nella democrazia, cfr. con ampi richiami, F. Biondi, La responsabilità del magistrato. Saggio di diritto costituzionale, Giuffré, Milano, 2006.

[2] Si può leggere il tenore delle questioni di l.c. sollevate contro l’art. 131 cpc aggiunto dall’art. 16 della l. n. 117 del 1988 (che prevedeva la redazione obbligatoria del processo verbale di ogni provvedimento collegiale, con menzione nominativa e succinta motivazione di ogni eventuale dissenso), per come ricapitolate nel corpo della sent. n. 19 del 1989 della Corte costituzionale. Un altro motivo importante di critica a quella disposizione, poi raccolto dalla Corte nella dichiarazione di incostituzionalità, fu quello che puntava sulla sua contrarietà al buon andamento dell’amministrazione della giustizia (e si incentrava dunque sul pieno accoglimento di una concezione della giustizia, meglio della magistratura, come amministrazione), il nuovo meccanismo determinando lentezza, farraginosità, o esponendo il giudice a un rischio eccesivo di responsabilità per erronea conoscenza del fatto o del diritto; obiezione interessante posto che, come vedremo più avanti, l’uso antico dei vota pubblici serviva appunto ad assicurarsi che ogni giudice, e tra questi il relatore, conoscesse bene il fatto e il diritto su cui si pronunciava. Nella questione dunque rilevò con notevole nitore anche un’auto-percezione della magistratura come branca dell’amministrazione, auto-percezione che fu confermata dalla Corte, e che tende, fatalmente, a sottolineare un’omogeneità di esigenze e di valori, dunque di identità, tra amministrazione e giurisdizione, in cui si perde la specificità di quest’ultima (se tener nota del dissenso di ogni componente del collegio avrebbe costretto a uno studio dei fascicoli immane, come si argomentò, più che servire a contrastare l’introduzione del principio, questa preoccupazione poteva diventare argomento per una richiesta di ampliamento degli organici o per un ripensamento delle procedure tale da dare al giudice il tempo di studiare le cause e di formarsene la più compiuta opinione, differenziando l’attività giurisdizionale da quella amministrativa in nome di una difesa delle sue caratteristiche ed esigenze peculiari).

[3] La giurisprudenza presidia invero il valore della segretezza della Camera di consiglio qualificando come illecito disciplinare la menzione in sentenza penale che su una certa decisione è mancata l’unanimità (S.U. 5 febbraio 1999 n. 23) e come reato ex art. 685 cp la divulgazione della notizia che una certa decisione è stata presa all’unanimità (Cass. Pen. I sez., 10 gennaio 2001). Ringrazio il dott. Francesco Parodo dell’Università di Cagliari di avermi segnalato queste due decisioni, e Andrea Natale di Questione Giustizia per avermi ricordato il caso Carnevale, facendomi presente come uno degli elementi a carico di Carnevale fosse rappresentato proprio dalle dichiarazioni di un giudice su alcuni fatti avvenuti durante alcune camere di consiglio. Le Sezioni unite statuirono che «Il giudice penale che abbia concorso, in Camera di consiglio, alla deliberazione collegiale non può essere richiesto - trattandosi di attività coperta da segreto di ufficio - di deporre come testimone in merito al relativo procedimento di formazione (e, se richiesto, ha l'obbligo di astenersi), limitatamente alle opinioni e ai voti espressi dai singoli componenti del collegio, salvo il sindacato del giudice che procede circa l'effettiva pertinenza della domanda formulata alle circostanze coperte da segreto. Ne consegue che la testimonianza eventualmente resa, poiché acquisita in violazione di un divieto stabilito dalla legge, è inutilizzabile. (Fattispecie relativa a imputazione di concorso cd “esterno” in associazione di tipo mafioso)». (Sez. U, n. 22327 del 30/10/2002 - dep. 21/05/2003, Carnevale, Rv. 224182).

[4] Su questo punto mi permetto di rinviare, per un approfondimento, a S. Niccolai, Vicende dello status dei magistrati in Italia: una contestazione del modello burocratico di giurisdizione che si è fermata a metà, in A.A. Cervati e M. Volpi (cur.),  Magistratura e consiglio superiore in Francia e in Italia, Giappichelli, Torino, 2010, p. 53 ss.

[5] Così N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Milano, Giuffré, 2007, dove in particolare l’insistenza sul valore della procedura, relativamente al quale Picardi esprime l’auspicio che «stiamo entrando, o meglio rientrando, nell’ordine di una procedura intesa come insieme di regole professionali, che finisce per privilegiare il contraddittorio inteso come cardine di una ricerca dialettica, e quindi, il giudizio sul processo»(p. 187). Il tema del dissenso è oggi rielaborato in questo cono di pensiero da C. Asprella, L’opinione dissenziente del giudice, Aracne, Roma, 2012.

[6] E che egli spesso non è portato a valorizzare, dato il carattere tecnicistico della preparazione che viene ritenuto adeguato fornirgli nelle università e nelle scuole di formazione. Si tratta di un percorso che, come noto, inizia almeno da quando lo studio del diritto romano e del diritto comune sono diventate materie confinate nella dimensione storico culturale e non più considerate in vista della pratica, e che è stato parte integrante della modernizzazione della cultura giuridica italiana inaugurata con la fase napoleonica. L’opposizione e l’incomunicabilità quasi, che ne è derivata, tra un diritto costituzionale inteso come concezione moderna e modernizzatrice e un diritto antico bollato come strumento di conservazione, sono alla radice dei processi di isolamento del diritto costituzionale rispetto al resto dell’esperienza giuridica che contribuiscono a determinare del primo, come dirò nel testo, la attuale debolezza. Cfr. G. Marongiu, Storia del diritto pubblico italiano, Istituto editoriale cisalpino, Milano Varese, 1956, p. 473: «Uno dei primi atti dei regimi rivoluzionari fu l’introduzione nel 1797 a Bologna, Pavia, Ferrara e altre sedi del diritto costituzionale, indirizzato al fine di assicurare «nella più alta maniera l’insegnamento e la diffusione delle sublimi teorie sopra le quali sono fondati i diritti dell’uomo e del cittadino, la sovranità del popolo, il riparto dei poteri nella sovranità compresi, l’analisi dei bisogni della società e gli offici dei magistrati». Tale cattedra sostituì quella di diritto romano, di diritto canonico e di notariato, col pretesto che queste fossero «inconcludenti e del tutto estranee allo spirito di una Costituzione repubblicana». Le proteste dei dirigenti universitari contro tale soppressione apparvero alle autorità «insidiosi maneggi controrivoluzionari.».

[7] Per questa riflessione v. in particolare F. Cerrone, Alessandro Giuliani: un’idea di ragione critica, dialettica e controversiale per il diritto, in www.dircost.unito/dizionario/pdf . Per un ordine di idée analogo J. Waldron, How Law Protects Dignity, New York Un. School of Law Public and Law Theory Research Paper Series No 11-83, dicembre 2011, leggibile anche su ssrn.com.

[8] Così F. Cerrone, Appunti intorno a interpretazione e principi (con particolare riferimento alle fonti del diritto) nel pensiero di Alessandro Giuliani, in F. Cerrone, G. Repetto (cur.), Alessandro  Giuliani: l’esperienza giuridica tra logica e etica, Milano, Giuffré, 2012, p. 617 ss., p. 621.

[9] È forse pleonastico, ma può giovare forse a una migliore chiarezza del punto di vista che assumo, precisare in che senso: l’eguaglianza ispira la procedura, basata sul contraddittorio; la posizione del giudice, che è imparziale cioè eguale nei confronti delle parti e del tema in causa; l’interpretazione, tramite l’analogia, la finalità dell’attività processuale e del diritto in generale, almeno quando non si voglia mettere del tutto a tacere che questa finalità è la giustizia, che rimanda all’equità dunque all’eguaglianza e pertanto non si riduce all’applicazione del disposto normativo (ricorderemo almeno la riflessione di S. Satta sul rilievo dell’espressione costituzionale «la giustizia è amministrata in nome del popolo», nella voce Giurisdizione (nozioni generali), in Enc. Del Dir., ad vocem, Giuffré, Milano, 1971, p. 218 ss.

[10] E. Scoditti, Il giudice nell’Italia degli anni Settanta, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2007, p. 129 ss.

[11] Se il diritto è concepito come un ambito portatore di suoi peculiari principi e modi di affrontare i problemi, cioè come un ambito in cui domande dall’intrinseca dimensione qualitativa, ovvero cariche di implicazioni di valore, vengono affrontate con la consapevolezza che nessuno dispone della verità e non esiste una verità unica e definitiva, e tuttavia ciascuno può contribuirvi con uno sforzo di “veracità”, di adesione alla propria verità, dunque con modi che richiedono l’argomentazione, la prova, la confutazione, il contraddittorio e il lavorio sistematico di riconduzione della varietà delle soluzioni sperimentabili a un complesso di principi, soltanto in queste condizioni, dicevo, è percepibile che tanto la decisione quanto il dissenso appartengono entrambe al diritto, rappresentandolo come costitutivamente dialettico. Questo mi pare sia reso molto bene dalle parole con cui spesso si aprivano i “voti di scissura” d’età moderna: «Questa decisione è ingiusta e contraria al diritto, secondo me». (La frase è riferita da N. Stolfi, Alcune note sulla riforma giudiziaria, in Scritti per Chironi, II, Torino, 1915, p. 229 ss., p. 236 ss.) Sui tratti appena sopra sintetizzati come propri del diritto v. la riflessione di F. Cerrone intorno al pensiero di A. Giuliani, Appunti, cit.,  p. 670-671: la logica more iuridico ha carattere controversiale, argomentativo, selettivo, confutatorio poiché «si propone come strumento per dirimere questioni nelle quali il disaccordo è costitutivo ed eliminabile», dove la «rinuncia a una verità assoluta (…) implica un impegno etico per la veracità (…) nel senso che ciascuno deve dire la propria verità, certamente in fondo coincidente col proprio orientamento di valore, ma proprio per questo una verità che già esclude la frode, l’inganno, la menzogna».

[12] Parte importante dell’opera di Gorla è raccolta in Id., Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano, 1981. Una menzione a parte merita qui Iura naturalia sunt immutabilia: i limiti al potere del “Principe” nella dottrina e nella giurisprudenza forense tra i secoli XVI e XVIII, in Diritto e potere nella storia europea. Atti in onore di Bruno Paradisi, II, Firenze, 1982, p. 629 ss.

[13] Sul questo, e sull’importanza per della storia e della comparazione in particolare per il diritto costituzionale, per evitare che esso si chiuda in una materia da ‘esperti’, v. A.A. Cervati, Per uno studio comparativo del diritto costituzionale, Giappichelli, Torino, 2007.

[14] Così M. Aschieri, I grandi tribunali e la ricerca di Gino Gorla, in N. Sbriccoli e A. Bettoni (cur.), Grandi tribunali e Rote nell’Italia di antico regime, Giuffré, Milano, 1993, p. XI ss., p. XXIV, da cui anche le parole citate di seguito.

[15] Si trattò di giudici non dissimili da quelli francesi di antico regime di cui Tocqueville, del resto appassionatamente studiato da Gorla, poté così sintetizzare il contributo di civiltà: «Le consuetudini giudiziarie erano diventate su molti punti consuetudini nazionali. In genere si era presa dai tribunali l’idea che ogni questione può essere discussa e che per ogni decisione ci si può appellare; si era preso l’uso della pubblicità, l’amore per le forme, cose nemiche della servitù.» (L’antico Regime e la Rivoluzione, edizione Bur, Rizzoli, Milano, 1981).

[16]Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e internazionali, Scritti raccolti a cura di Costantino Mortati, Milano, Giuffré, 1964.

[17] Ricorderò qui gli atti del seminario svoltosi a Roma, Palazzo della Consulta, nei giorni 5 e 6 novembre 1993, pubblicati a cura di A. Anzon, Giuffré, 1995 col titolo L’opinione dissenziente, dove il saggio della stessa Anzon, Per l’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudici costituzionali, p. 429 ss.; o il volume di S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino, 1998, rimandando a una più completa bibliografia oggi reperibile in calce a G. Bisogni, La ‘forma’ di un ‘conflitto’. Brevi osservazioni sul dibattito italiano intorno all’opinione dissenziente, in Ars Interpretandi, 2015, p. 51 ss.

[18] S. Cassese, Una lezione sulla cosiddetta opinione dissenziente, in Quaderni costituzionali, 2009, p. 973 ss. Ora Id, Dentro la Corte, Il Mulino, Bologna, 2015 (a favore dell’introduzione dell’opinione dissenziente in nome della trasparenza).

[19] Non si può non ricordare il contributo che le riflessioni di A. Giuliani, cui mi riferirò del resto poco oltre, hanno dato all’approfondimento delle tematiche del ‘mos italicus’ in connessione con le quali è avvenuta la riconsiderazione del tema del dissenso.

[20] V. Denti, Per il ritorno al ‘voto di scissura’ nelle decisioni giudiziarie, in Le opinioni dissenzienti, cit., p.  1 ss.

[21] M. Aschieri, op. cit., p. XXV.

[22] Per questa citazione e la precedente C. Mortati, Prefazione, in Le opinioni dissenzienti, cit., p. XI.

[23] V. Denti, op. cit., p. 19.

[24] Si potrebbe parlare, per la tradizione giuridica italiana, di un realismo ‘classico’ che non nega ma anzi corrobora l’autonomia del diritto. A questo realismo rinvia tutta la grande tradizione di giuristi diffidenti verso le visioni statualistiche del diritto, refrattari al dogma della volontà del legislatore come criterio decisivo per il giurista, concentrati sull’esigenza di una sistematica attraverso la quale la dottrina si dimostri capace di elaborare «principi idonei a regolare istituti cruciali per la vita di relazione degli individui», giuristi cioè che hanno inteso il diritto come «incrocio tra studio della società e delle istituzioni, in chiave storica e comparativa, onde poter valutare la portata dei mutamenti nel tempo e delle variazioni nello spazio dell’esperienza giuridica, senza trascurare la complessità dei percorsi argomentativi della giurisprudenza, teorica e pratica», come scrive F. Cerrone, Appunti, cit., p. 639, richiamando, sulla scorta di Giuliani, in particolare Gianturco e Saredo; questo realismo ‘classico’ «è presente necessariamente in una visione storica del diritto costituzionale, non significa rinuncia a un proprio impegno etico e critico nella costruzione teorica dei fenomeni giuridici, né pura accettazione dell’esistente e non ha nulla a che vedere con atteggiamenti di acritico rispetto nei confronti di chi esercita il potere» (A. A. Cervati, Per uno studio, cit., p. 25). A questo realismo ‘classico’ opporrei il realismo ingegneristico di marca statunitense e d’epoca novecentesca, che riduce il diritto a una tecnica sociale e la cui portata ‘critica’ si esaurisce nella destrutturazione cinica, e fine a se stessa, della conoscenza giuridica. Quanto a Mortati, sento l’esigenza di precisare in queste righe che, se mi pare di poter dire che nell’introduzione al volume sul dissenso le sue posizioni richiamassero questo secondo tipo di realismo, è chiaro al contrario, nella sua opera complessiva, il potente influsso del realismo ‘classico’ che distingue la tradizione italiana.

[25] Espressamente in V. Denti, op. cit., p. 11: «l’organizzazione burocratica della giustizia [è] ostacolo ad un più efficiente coordinamento delle funzioni del giudice con esigenze profonde, in senso progressivo, della società contemporanea»; questa prospettiva, a testimonianza della sua centralità nelle discussioni intorno al dissenso, è stato ripreso di recente da G. Bisogni, La ‘forma’ di un ‘conflitto’, cit., p. 63.

[26] Ringrazio Antonio Cervati per un breve scambio di idee su questo punto, anche con riferimento all’opinione di Betti sulle ricerche di Gorla. Negli studi di Giuliani sul realismo il costo della sottovalutazione dell’autonomia del diritto rispetto ad ‘altre scienze’ e campi dell’esperienza è l’erosione del momento dogmatico-sistematico.

[27] A. Giuliani, La controversia. Contributo alla logica giuridica, Pavia, 1966, p. 115, cit. in F. Cerrone, Appunti, cit., p. 627. Giuliani ragiona intorno alla capacità del fatto nella sua configurazione qualitativa (ancoraggio topico della ricerca giuridica) di problematizzare la norma (precedente o regola positiva) sotto il profilo della sua adeguatezza.

[28] Cfr. F. Biondi, op. cit., p. 137 ss.

[29] La grande enfasi sulla specialità del giudice costituzionale non va del resto esente da una ritornante preoccupazione di distinguere diritto e morale (attraverso la distinzione tra principi e valori) negli studi di G. Zagrebelsky, pur importantissimi per avere significato un importante rilancio della distinzione diritto-legge nel costituzionalismo italiano, a partire dal celebre Il diritto mite, Einaudi, Torino, 1991. Per questa riflessione su Zagrebelsky v. F. Cerrone, Appunti, cit., p. 634.

[30] Richiamo ancora A.A. Cervati, Per uno studio, cit., passim, che a sua volta si ispira alle concezioni di A. Giuliani.

[31] A.A. Cervati, Per uno studio, cit., p. XVII.

[32] F. Cerrone, Appunti, cit., p. 617 ss.

[33] Sto riferendomi qui allo studio di G. Gorla, Procedimento individuale. Voto dei singoli giudici e collegialità ‘rotale’: la prassi della Rota di Macerata nel quadro di quella di altre rote o simili tribunali fra i secoli XVI e XVIII, in M. Sbriccoli e A. Bettoni (cur.), Grandi tribunali, cit., p. 3 ss.

[34] A. Giuliani, Le disposizioni sulla legge in generale, gli articoli da 1 a 15, in Trattato di diritto privato, dir. P. Rescigno, vol. I, Premesse e disposizioni preliminari, Utet, Torino, 1999, p. 490 in nota 6 punto II.

[35] L’articolo di G. Gorla, Studio storico-comparativo della ‘common law’ e scienza del diritto (le forme d’azione), in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, fasc. I, 1962, p. 26 ss., si chiude con queste parole: «Molto del futuro della scienza del diritto, della sua possibilità di rinnovarsi, e della pratica nazionale e internazionale del diritto dipenderà dal fatto che si prenda o meno la decisione di organizzare uno studio storico-comparativo del genere di quello prospettato da questo discorso».

[36] Cfr. in particolare, per la loro emblematicità, le posizioni di C. Mezzanotte, Le ideologie del Costituente, Milano, 1979. L’opera fornisce una delle più compiute espressioni delle posizioni culturali che hanno bandito, in Italia, la memoria stessa di una nozione di esperienza giuridica, che pure al suo interno è stata enormemente fertile, e che alimenta la coscienza della autonomia del diritto, e precisamente della autonomia del diritto dalla politica e da altre scienze sociali come l’economia o la sociologia, in quanto scienza pratica orientata alla ricerca di assetti equitativi alimentata da una forma di conoscenza che si sviluppa sul contraddittorio e intorno all’approfondimento di un bagaglio di principi generali. La professione di antiformalismo è fatta, da Mezzanotte, in nome della contestazione dell’amore della dottrina del passato verso «la classificazione per la classificazione» e dell’«eccesso di formalismo che impedisce di risalire “alle grandi istanze teoriche (che possono essere anche ideologiche)” e “lascia indietro” (cioè non si occupa, come invece dovrebbe, del)la forma di stato, la forma di governo, il sistema delle fonti, o l’incidenza che i diversi tipi di sindacato sulle leggi hanno sull’atteggiarsi dei rapporti costituzione-legge» (p. 4 nt 5). Uno studio siffatto della giustizia costituzionale tende, per esempio, a sottovalutare l’importanza di una ricerca che indaghi il rapporto tra le modalità di ragionamento adottate da una Corte e quelle provenienti dalla cultura giuridica cui appartiene. In tal modo la giustizia costituzionale è sospinta fuori dal campo dell’esperienza giuridica ed esaurita nel campo della decisione politica. 

[37] A. A. Cervati, Per uno studio, cit., p. 14.

[38] A.A. Cervati, Per uno studio, cit., p. 4: «la storia non è un antefatto ma il fondamento costante della esperienza giuridica».

 

[39] Faccio riferimento alla sent. 65 del 2013, dove il «principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica private sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge», introdotto dal dl n. 138 del 2011, sostanziale (e abusiva) riscrittura dell’art. 41, è stato utilizzato per giudicare della legittimità delle pretese dello Stato e della Regione in ordine alla estensione e al contenuto delle loro competenze, cioè come principio costituzionale: se in un principio costituzionale non si riesce a vedere il rapporto con un principio generale, l’esito può essere la completa manipolabilità del primo.

[40] F. Cerrone, Appunti, cit., p. 632-633.

[41] A. Giuliani, Giustizia e ordine economico, Giuffré, Milano, 1997, p. 130 ss. su come i giuristi italiani d’età comunale abbiano saputo contrastare gli abusi dei ‘magnati’ ponendo le premesse del concetto di concorrenza, o della libertà della ricerca e della scienza.

[42] A.A. Cervati, Per uno studio, cit., p. 10.

[43] Cfr. la riflessione pessimistica di G. Azzariti, che del resto dichiara di considerare il costituzionalismo un prodotto ‘moderno’, nel volume Il costituzionalismo moderno può sopravvivere?, Laterza, Bari, 2013.

[44] Cfr. in part. A. Giuliani, Il modello di legislatore ragionevole. (Riflessioni sulla filosofia italiana della legislazione), in M. Basciu (cur.), Legislazione. Profili giuridici e politici, Milano, Giuffrè, 1992, p. 13 ss.

[45] V. in part. S. Chiarloni, Nomofilachia e giudizio di cassazione, in M.Mariani Marini e D. Cerri (cur.), Il diritto giurisprudenziale e il diritto vivente, Pisa, Edizioni Plus, 2007, p. 41 ss., dove la sottolineatura del ruolo delle clausole generali e dell’equità nei processi valutativi del giudice, tutti aspetti cui civilisti e processualisti sono sempre rimasti più attenti di quanto non lo siano stati i costituzionalisti.

[46] A.A. Cervati, Per uno studio, cit., p. XXI.

[47] A.A. Cervati, A proposito di metodi valutativi nello studio del diritto costituzionale, in Diritto pubblico, 2005, p. 707 ss. ,  e di nuovo Id., Per uno studio, cit., spec. p. 109 ss.

[48] A. Giuliani, Le disposizioni sulla legge in generale, cit., p. 304, da dove anche i passi che precedono riportati tra virgolette.

[49] “Il positivismo codicistico ha raccolto dal diritto naturale moderno l’idea di una razionalità elevata a calcolo”: A. Giuliani, Le disposizioni preliminari, cit., p. 490, nota 6, I.

[50] Ma, del resto, forse non altrettanto profondamente, giusta le osservazioni di A. Giuliani, Le disposizioni sulla legge in generale, cit., p. 394 ss., sulla sopravvivenza della dottrina dei principi del diritto, nel senso delle regulae iuris, nella giurisprudenza e nella dottrina fino alla fine del secolo XIX.

[51] Così Fadda e Bensa, citati da Giuliani, Le disposizioni, cit., p. 491 nota 7.

[52] «Cercare incessantemente e in ogni caso concreto la giusta parte che spetta a ciascuno, e non proteggere pretesi diritti soggettivi, sottratti a ogni discussione, su cui si fonderebbero automaticamente proprietà e crediti, questo è il compito dei giureconsulti. Il diritto così inteso ha un contenuto suo proprio e non si confonde con la morale corrente»: M. Villey, La formazione del pensiero giuridico moderno, 1975, trad. it., Milano, Jaca Book, 1985, p., 406. Nella dottrina italiana recente, queste virtù del ‘suum cuique’ sono state rilanciate da R. Manfrellotti  in una analisi critica e propositiva delle funzioni della giustizia costituzionale (Giustizia della funzione normativa e sindacato di costituzionalità, Napoli 2008).

[53] L’immagine del giudice che per effetto del suo ethos è sempre un ‘cattivo conduttore di decisionalità’ e perciò è visto con ostilità dal legislatore e dell’amministrazione orientati alla riforma e alla pianificazione viene da L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, Laterza, Bari, 2001, p. 77.

[54] N. Stolfi, op. cit., p. 241.

[55] G. Gorla, Procedimento individuale, cit., p.63.

[56] Lo ricorda lo stesso Gorla, Procedimento individuale, cit., p. 77-78, dove del resto questo Autore finisce col convenire con una dimensione tutta ‘morale’ della indipendenza del giudice.

[57] F. Cerrone, Appunti, cit., p. 632, corsivo nell’originale.

[58] Così riflette, sulla scorta di A. Giuliani, F. Cerrone, Appunti, cit., p. 675.