Magistratura democratica

Quarant'anni di ordinamento penitenziario: bilanci e prospettive

di Carlo Fiorio

Il testo del disegno di legge di iniziativa ministeriale di riforma dell’Ordinamento penitenziario diventa il punto di partenza per una riflessione approfondita sull’equipaggiamento giuridico necessario per rendere, nel 2015, l’esecuzione della pena conforme alla Costituzione. Una vera e propria road map per il futuro (prossimo venturo, possibilmente).

1. Le poste di bilancio: “giusto” procedimento vs «semplificazione delle procedure»

Cominciamo dalla fine.

L’art. 26 del recente ddl di iniziativa ministeriale (C 2798), recante «Princìpi e criteri direttivi per la riforma dell’ordinamento penitenziario» può rappresentare un singolare canovaccio per esaminare lo stato della legge fondamentale di ordinamento penitenziario e la sua attitudine a soddisfare le esigenze carcerarie del terzo millennio.

Analizziamone il primo criterio: «a) semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione».

La storia della legge penitenziaria[1] è anche – se non soprattutto – storia dei suoi procedimenti[2]. Se il periodo 1975-1989 è stato prevalentemente caratterizzato dalla cartolarità del contraddittorio, il modello “partecipato” introdotto dal vigente codice di rito (artt. 666-678 cpp) si è progressivamente imposto grazie alla giurisprudenza costituzionale, lambendo taluni settori in precedenza non garantiti.

Gli anni Novanta del millennio passato hanno registrato un’imponente opera interpretativa della Consulta[3], culminata con la celebre sentenza n. 26 del 1999. L’annosa supplenza giurisdizionale[4], resasi necessaria a causa della prolungata inattività del legislatore, ha registrato l’applicazione del contraddittorio cartolare (artt. 69 e 14-ter ord. penit.) al settore dei reclami c.d. generici, attraverso i quali dal 1975 ad oggi sono stati “giustiziati” i diritti soggettivi dei detenuti.

Solamente a seguito del diktat imposto al nostro Paese dalla Corte di Strasburgo[5], il problema di un rimedio effettivo a tutela dei diritti dei detenuti si è posto in tutta la sua drammatica indifferibilità. Gli artt. 35-bis e 35-ter ord. penit. compendiano il duplice livello della tutela, preventiva e compensativa, elevando al massimo grado la tutela procedimentale.

Nondimeno, già a far data dal 2000, la spinta propulsiva del “giusto” procedimento di sorveglianza si era progressivamente attenuata: “indultino” e procedimento in tema di liberazione anticipata avevano anticipato i segni di una controtendenza legislativa, caratterizzata dall’«abbandono della giurisdizionalità “necessaria” a favore di quella “eventuale” e “posticipata”»[6]. Il recente legislatore (dl n. 146 del 2013), attraverso l’inserimento dell’art. 678 comma 1-bis cpp, ha metabolizzato le tendenze emerse in seno alla Commissione Giostra, volte a riservare la «procedura a maggiore tasso di giurisdizionalità alle materie per le quali si procede con le più garantite forme di cui all’art. 666 c.p.p. (poiché involgenti più direttamente profili afferenti a diritti fondamentali, quali la libertà personale) ed estendendo alle materia di competenza del magistrato di sorveglianza la più snella e semplificata procedura camerale»[7].

Quali, gli ulteriori spazi di semplificazione?

Fermo il divieto di incidere sulle «procedure […] relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione», gli unici procedimenti suscettibili di contrazione procedimentale sembrerebbero essere quelli di concessione delle misure alternative alla detenzione, nonché di rinvio, obbligatorio e facoltativo, dell’esecuzione. Trattasi, però, di àmbiti in cui il contraddittorio “preventivo” pare costituire una garanzia ineliminabile, anche in considerazione dell’apporto dei giudici “esperti”, il ruolo dei quali perderebbe di significato, se svincolato dal contatto diretto con l’interessato. Con riferimento, invece, alla competenza del magistrato di sorveglianza, se sembra da escludere, in ragione della complessità dell’accertamento, l’operatività del procedimento de plano in riferimento ai procedimenti di riesame della pericolosità; di applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca di misure di sicurezza; e di ricoveri ex art. 148 cp, lo stesso non è a dirsi con riguardo alle dichiarazioni di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere, relativamente alle quali la discrezionalità del giudice potrebbe prescindere dal previo contraddittorio.

Il settore, invece, in cui potrebbe rivelarsi efficace ed opportuno un intervento di semplificazione è quello della liberazione anticipata. Nello specifico, oltre a prevedersi espressamente un’iniziativa officiosa per la concessione del beneficio[8], potrebbe essere soppressa la previsione dell’obbligatoria richiesta del parere al pubblico ministero, al quale residuerebbe comunque il potere di reclamo[9].

Alla luce delle rilevanti interpolazioni operate dal dl n. 146 del 2013, l’utilità marginale dell’intervento si rivela comunque talmente scarsa, da far pensare che il criterio di delega fosse stato elaborato prima della “triade” post-Torreggiani[10].

2. La ridefinizione della competenza del magistrato di sorveglianza

Piuttosto, anche a fronte del rilevante incremento di carico giurisdizionale che onererà la magistratura di sorveglianza per effetto dell’introduzione degli artt. 35-bis e 35-ter ord. penit. si impone la rivisitazione dell’anacronistico (e, sotto taluni profili, incostituzionale) sistema di competenze delineato dalla legge n. 354 del 1975.

Come noto, benché la legge fondamentale di ordinamento penitenziario vanti, tra le modalità del trattamento, «la separazione degli imputati dai condannati e internati», essa attenua le potenzialità espansive dell’art. 27 comma 2 Cost. laddove, accomunando i condannati in primo grado a quelli definitivi, priva i primi di quelle garanzie di giurisdizionalità che Costituzione e codice di rito contemplano, invece, per ogni individuo sottoposto a procedimento penale.

Siffatta distorsione del principio di non colpevolezza si riflette sulle cadenze procedimentali: se il giudice naturale della persona sottoposta a misure cautelari personali è quello «che procede», dopo la sentenza di primo grado a questi subentrano il magistrato di sorveglianza ed il direttore dell’istituto, ai quali la legge riconosce un potere limitativo di diritti soggettivi.     

Nello specifico, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado sono di competenza del magistrato di sorveglianza: il trasferimento del detenuto in luogo esterno di cura (artt. 240 disp. coord. cpp, in relazione all’art. 11 ord. penit.); i provvedimenti che limitano la corrispondenza epistolare e telegrafica e la ricezione della stampa; la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima (art. 18-ter comma 3 lett. a ord. penit.). Al di là ed oltre le aporie costituzionali, questo sistema cozza con gli scarni organici di sorveglianza, ragion per cui le competenze ben potrebbero essere “restituite” al giudice naturale (cfr. artt. 279-299; 309-311 cpp).

In prospettiva correlata, potrebbero essere “dirottate” verso il giudice dell’esecuzione tutte le attribuzioni non propriamente riconducibili alla “rieducazione”. Il riferimento corre ai prelievi sulla remunerazione (art. 56 dpr n. 230 del 2000), alla remissione del debito (art. 6 dpr n. 115 del 2002) ed alle questioni attinenti alla rateizzazione ed alla conversione delle pene pecuniarie (art. 660 cpp).

3. Il finalismo rieducativo della pena e le alternative alla detenzione

L’art. 26 lett. b) dello schema di delega legislativa impone la «revisione dei presupposti di accesso alle misure alternative, sia con riferimento ai presupposti soggettivi sia con riferimento ai limiti di pena, al fine di facilitare il ricorso alle stesse».

Non è certamente questa la sede per ripercorrere la storia e lo snaturamento funzionale delle alternative alla detenzione nel loro transito da “pilastro” della funzione rieducativa della pena[11] a “strumento” piegato a fini eterogenei (talvolta di contrasto alla criminalità, talaltra di mera deflazione penitenziaria)[12]: premesso, però, che qualsivoglia intervento sull’assetto delle alternative alla detenzione impone una previa armonizzazione con i princìpi contenuti nella legge-delega 28 aprile 2014, n. 67, sembra comunque necessario disincagliare l’attuale sistema dalle secche di una consolidata prassi caratterizzata da un’eccessiva “amministrativizzazione” trattamentale, non disgiunta da una pilatesca ipocrisia nella decodificazione degli elementi del trattamento stesso.

Quanto al primo profilo, è necessario che si pervenga all’affermazione del diritto (costituzionale) alla rieducazione. In altri termini, il passaggio alla misura alternativa non dovrà più essere considerato un evento eccezionale, bensì il naturale sviluppo dell’esecuzione penale, ispirato al principio di «progressività trattamentale»[13].

E’ purtroppo ben noto come, nella prassi, la concessione del (primo) permesso premio segua dinamiche eccessivamente burocratizzate, postulando la c.d. chiusura della sintesi trattamentale operata dalla relativa équipe. Deriva da tanto che le carenze amministrative sono suscettibili di ricadere “a cascata” sui tempi (e quindi sull’effettività) della progressione trattamentale. Talvolta, poi, la mancata previsione del permesso premio nel programma di trattamento (ad es. nei casi di condannati per delitti di cui all’art. 4-bis comma 1 ord. penit.) genera inquietanti non liquet giurisdizionali, inaccettabili con riguardo ad un assetto che postula la giurisdizionalizzazione delle dinamiche de libertate. In tale prospettiva, l’esperienza dei permessi premio, in quanto «parte integrante  del programma di trattamento», assume una rilevanza fondamentale ed è necessario che la magistratura di sorveglianza vigili costantemente su tempistica ed instaurazione (anche ufficiosa) del relativo procedimento, al fine di garantire l’effettività della progressione trattamentale.

Con riferimento al secondo profilo, i tre capisaldi del trattamento penitenziario, (religione, istruzione e lavoro) chiedono di essere attualizzati: il primo, soprattutto in ragione del multiculturalismo penitenziario; il secondo, alla luce dell’effettività del relativo diritto, spesso vanificata dai trasferimenti disposti dall’amministrazione penitenziaria ovvero da circolari dalla stessa emesse. Il lavoro, infine, alla luce di una crisi che colpisce da tempo anche la società dei liberi.

Del resto, i numeri parlano da soli: le statistiche ministeriali evidenziano che al 31 dicembre 2014, il 56% dei detenuti definitivi doveva espiare una pena residua inferiore ai tre anni di reclusione. Il dato evidenzia una sconfortante sottoutilizzazione delle alternative a disposizione della magistratura di sorveglianza, non certamente imputabile alla disciplina dettata dall’art. 4-bis ord. penit.

4. Anacronismi del “doppio binario”

La lett. c) della bozza di delega impone l’«eliminazione di automatismi e di preclusioni che impediscono o rendono molto difficile, sia per i recidivi sia per gli autori di determinate categorie di reati, l’individualizzazione del trattamento rieducativo e revisione della disciplina di preclusione dei benefìci penitenziari per i condannati alla pena dell’ergastolo».

Il sostantivo (eliminazione) non pare lasciare dubbi di sorta: il criterio di delega impone sia di proseguire nell’opera di “riabilitazione” dei recidivi reiterati, parzialmente realizzata dal dl 1° luglio 2013, n. 78, conv. dalla l. 9 agosto 2013, n. 94, sia nel ripudio del “doppio binario”, introdotto anche in àmbito penitenziario[14] attraverso il dl n. 306 del 1992 e progressivamente implementato, dapprima per effetto della l. 23 dicembre 2002, n. 279 e, successivamente, tramite la l. 23 aprile 2009 n. 38.

Quanto al primo aspetto, è d’uopo rammentare che il dl n. 78 del 2013, chiaramente volto alla risoluzione delle ostatività introdotte dalla l. n. 251 del 2005, aveva abrogato tutte le disposizioni (art. 656, comma 9, lett. c) cpp; artt. 30-quater, 47-ter, commi 1.1, e 1-bis, 50-bis, 58-quater, comma 7-bis, ord. penit.) che, a vario titolo, introducevano preclusioni ovvero stabilivano soglie espiative “maggiorate” a carico dei condannati recidivi reiterati. A seguito di una dialettica, anche aspra, tra i due rami del Parlamento, solo alcune delle innovazioni sono state metabolizzate dalla legge di conversione, mentre le altre non sono state recepite. Il riferimento corre agli artt. 30-quater e 58- quater comma 7-bis ord. penit., la cui vigenza, strenuamente difesa dal Senato (che votò per il ripristino integrale delle norme della legge n. 251 del 2005), fu condivisa anche dalla Camera dei Deputati, diversificando “a monte” e “a valle” il trattamento rieducativo per i condannati recidivi reiterati.

Con riferimento, invece, alla differenziazione per titolo di reato, il riferimento corre all’icona, al simbolo delle scelte carcerocentriche degli ultimi venticinque anni: l’art. 4-bis ord. penit., che continua a precludere le potenzialità trattamentali insite nella legge penitenziaria, attraverso un anacronistico “patteggiamento” tra rieducazione e collaborazione.

Se, nel primo decennio applicativo, il combinato disposto degli artt. 4-bis e 58-ter ord. penit. aveva forse contribuito a fronteggiare la criminalità organizzata in executivis, le successive interpolazioni della prima norma, volte ad utilizzare il “contenitore” penitenziario come espressione di emergenze contingenti ed eterogenee, da reprimere “buttando via la chiave”, hanno evidenziato un assetto che suscita svariate perplessità sul piano costituzionale, violando gli artt. 3, 25 comma 1 e 27 comma 3 Cost.

Anche la prassi applicativa da tempo registra solo richieste di collaborazione c.d. impossibile o inesigibile con il rischio di appesantire ancor più i ranghi (già ridotti) della magistratura di sorveglianza.

É giunto il momento, insomma, che la politica abbandoni l’ipocrisia bipartisan che da troppo tempo caratterizza l’approccio al carcere e affronti con serenità l’idea che «doppio binario» e «pena» sono entità diverse e che non può negarsi il diritto alla rieducazione in nome di “verità” che il sistema dovrebbe acquisire senza ricatto.

Del resto, anche in riferimento alla differenziazione esecutiva i numeri non mentono: alla data del 31 dicembre 2014 solo il 12% dei detenuti definitivi stava scontando pene residue superiori ai dieci anni di reclusione, a fronte di un 31,2% di condannati ad eguali pene inflitte. É quindi da ritenere che l’onda lunga delle condanne per fatti di criminalità organizzata sia lentamente scemata, sì da rendere plausibile ed opportuna una rimeditazione politico-sistematica dell’art. 4-bis[15].

Con riferimento, infine, all’ergastolo ostativo[16], è plausibile ritenere che la “normalizzazione” dell’art. 4-bis ord. penit. sortirebbe effetti positivi anche in ordine alle posizioni penitenziarie degli ergastolani. In ogni caso, ben si potrebbe “affrancare” la liberazione condizionale dalle preclusioni contenute nell’art. 4-bis ord. penit.

5. Diritti e garanzie

Ma è la lett. h) dello schema di delega («riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e delle condizioni generali per il suo esercizio») ad evidenziare il punctum dolens della legge penitenziaria. Al di là ed oltre l’imperativo rivolto al legislatore delegato, recentemente sottoposto al vaglio della Consulta[17], il tema della tutela dei diritti del detenuto è ancora confinato in quella no-man’s land contesa dall’amministrazione penitenziaria e dalla giurisdizione rieducativa.

La questione della soggettività giuridica della persona detenuta, sostanzialmente inesplorata nel corso del primo periodo repubblicano[18], ha costituito oggetto di maggiore attenzione solamente dopo il varo della riforma penitenziaria del 1975, anche se l’attività legislativa e l’elaborazione scientifica sono state indirizzate maggiormente verso i profili concernenti le misure alternative alla detenzione, che non nei confronti di quelli inerenti la titolarità e l’esercizio dei diritti riconosciuti al recluso all’interno dell’istituzione carceraria[19]. In tal modo, è stata privilegiata maggiormente l’analisi delle dinamiche deflative dell’esperienza carceraria, rispetto all’elaborazione di una vera e propria carta dei diritti della persona detenuta[20].

L’esigenza di garantire una tutela effettiva ai diritti individuali dei detenuti all’interno dell’istituzione penitenziaria si è, però, manifestata in tutta la sua concretezza a seguito del definitivo consolidamento del c.d. «doppio binario» penitenziario, per effetto del quale hanno ricevuto legittimazione forme trattamentali diversificate, in relazione al tipo di reato commesso dal detenuto medesimo[21].

Il ruolo svolto dalla giurisprudenza costituzionale nel definire il confine tra l’esercizio legittimo di poteri autoritativi da parte dell’amministrazione penitenziaria e nel ribadire l’esigenza di tutelare i diritti soggettivi del detenuto dinanzi al giudice ordinario consente di individuare il complesso di situazioni giuridiche soggettive riferibili alla persona in vinculis, nonché il quantum di garanzie ad esse riservate dall’ordinamento.

A far data dal leading case del 1979[22], passando attraverso la “lunga marcia” sull’art. 41-bis comma 2 ord. penit.[23], sino alle più recenti decisioni[24], la Corte costituzionale ha rivendicato, a più riprese, la necessità di pervenire ad un’actio finium regundorum tra amministrazione penitenziaria e giurisdizione di sorveglianza.

Il relativo cammino, irto di ostacoli - normativi e culturali - è stato parzialmente colmato, sul primo fronte, dagli artt. 35-bis e 35-ter ord. penit., la cui non agile applicazione dipende in gran parte dalle scelte (anche lessicali) operate in sede di drafting. Sul piano culturale, invece, il percorso è tutt’altro che piano: basti pensare che, proprio nel momento in cui il governo assisteva alla conversione in legge del dl 1° luglio 2013, n. 78 e si preparava ad emanare il dl 23 dicembre 2013, n. 146, istitutivo, tra l’altro, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private  della libertà personale il DAP interveniva con una circolare[25] fortemente limitativa dell’attività dei garanti.

6. Le prospettive

Una seria (ed indifferibile) riforma penitenziaria non può prescindere dall’attuazione della già ricordata l. 28 aprile 2014, n. 67, recante deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio[26]. Solamente attraverso il superamento della logica “carcerocentrica”, sarà, infatti, possibile concepire l’istituzione carceraria come luogo della rieducazione e non più meramente contenitivo.

In ogni caso, con riferimento al rilancio delle alternative alla detenzione, pare imprescindibile: a) proseguire nell’opera di “bonifica” della legge n. 251 del 2005, attraverso l’abrogazione degli artt. 30-quater e 58-quater, comma 7-bis ord. penit.; b) coordinare l’art. 656 cpp con il testo novellato dell’art. 47 ord. penit., al fine di consentire anche al condannato libero di proporre istanza di affidamento in prova “allargato”; c) stabilizzare ed estendere ai condannati ex art. 4-bis ord. penit. la liberazione anticipata speciale; d) stimolare le iniziative del consiglio di disciplina (art. 57 ord. penit.) e l’attivazione ex officio per le misure alternative in genere e per la liberazione anticipata in particolare; e) adottare le azioni necessarie ad assicurare l’accessibilità per tutti i detenuti di una modulistica unica su base nazionale per la formulazione delle istanze; f) sviluppare modalità di trasmissione telematica delle istanze e della documentazione a corredo delle medesime, prevedendo, all’interno di ogni istituto penitenziario e dell’Uepe, l’individuazione di un referente unico, responsabile del procedimento di trasmissione. Prevedere altresì l’automatico corredo delle istanze con le relazioni comportamentali presenti nella cartella del detenuto, al fine di evitare, per quanto possibile, richieste istruttorie ad hoc; g) ridurre i tempi dell’istruttoria giurisdizionale, attraverso la previsione che il Dap disponga l’invio per posta elettronica delle sentenze di condanna e di tutta la documentazione utile per la decisione; h) prevedere uscite dallo Stato temporanee durante l’esecuzione dell’affidamento in prova, quando ciò sia indispensabile per esigenze di lavoro, di studio, di salute o di famiglia; i) introdurre l’affidamento in prova in casi di disagio psichico o sociale, per intervenire sulla cd detenzione sociale, di cui fanno parte persone tossico e alcooldipendenti, immigrati e, in minore, ma significativa misura, persone con disagio psichico e sociale. Trattasi, invero, di soggetti con problemi psichiatrici, che non hanno situazioni stabili di vita e di soggetti che hanno perduto o non hanno mai avuto una radicazione sociale; l) potenziare l’àmbito di operatività degli artt. 146 e 147 cp e degli artt. 47-quater e 47-quinquies ord. penit., nonché creazione di nuove misure alternative terapeutiche: deve essere affermato il diritto ad una morte dignitosa e libera.

Con riferimento al “doppio binario” penitenziario, qualora non si realizzassero le condizioni per l’abrogazione dell’art. 4-bis ord. penit., se ne renderebbe comunque opportuna una drastica limitazione dell’àmbito di operatività, eliminando il presupposto della collaborazione di giustizia e introducendo il criterio della prova positiva della permanenza dei rapporti tra il detenuto e l’organizzazione[27].

Quanto, infine, al tema centrale dei “diritti”, un percorso diretto al riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute passa necessariamente attraverso l’applicazione del principio di territorialità, sancito dall’art. 30 reg. es. e sistematicamente disapplicato. Nondimeno, gli interventi “minimi” per attuare il criterio di delega in commento sono i seguenti: a) previsione che negli edifici penitenziari debbano essere realizzati locali idonei a consentire ai detenuti l’intrattenimento di relazioni personali e affettive; b) introduzione di una maggiore flessibilità degli orari di accesso al carcere anche utilizzando i giorni festivi e le domeniche per i colloqui con i bambini, altrimenti costretti ad interrompere giornate di scuola, in situazioni tra l’altro spesso di marginalità sociale di una certa consistenza; c) previsione di (almeno) un incontro al mese di durata non inferiore alle tre ore consecutive con il proprio coniuge o convivente senza alcun controllo visivo; d) previsione che i detenuti abbiano diritto a trascorrere mezza giornata al mese con la famiglia, in apposite aree presso le case di reclusione; e) prevedere che i colloqui dei minori con genitori detenuti siano concessi anche oltre i limiti temporali stabiliti dall’art. 37 comma 8 reg. es.; f) aumento dei colloqui telefonici con il minore, oltre a quelli previsti dall’art. 39 comma 8 reg. es.; g) soppressione della distinzione tra congiunto/convivente e c.d. terza persona, attraverso l’abrogazione dell’ultimo periodo dell’art. 37 comma 1 reg. es.; h) previsione che i detenuti stranieri siano autorizzati a colloqui telefonici con propri familiari residenti all’estero o con le persone conviventi residenti all’estero una volta ogni quindici giorni; i) ampliamento della disciplina dei permessi premio da trascorrere con il coniuge, con il convivente o con il familiare.

In prospettiva correlata, con riferimento ai detenuti stranieri, sarà necessario introdurre norme che considerino i loro diritti, bisogni sociali, culturali, linguistici, sanitari, affettivi e religiosi specifici, con particolare riguardo alle loro esigenze di vestiario ed igiene.

[1] In prospettiva generale e di fondo v. S. Margara, Sorvegliare e punire: storia di 50 anni di carcere, in questa Rivista, 2009, n. 55, 89 ss.

[2] Cfr., specialmente, V. Grevi, Magistratura di sorveglianza e misure alternative alla detenzione nell’ordinamento penitenziario: profili processuali, in Aa.Vv., Pene e misure alternative nell’attuale momento storico. Atti del convegno, Milano, 1977, 101 ss; G. Giostra, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale: Dalle misure alternative alle sanzioni sostitutive, Milano, 1983; F. Della Casa, La magistratura di sorveglianza: organizzazione competenze procedure, 2° ed., Torino, 1998; M. Ruaro, La magistratura di sorveglianza, Milano, 2009; nonché, volendo, Fiorio, Procedimenti e provvedimenti penitenziari, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, VII, Modelli differenziati di accertamento, Tomo I, a cura di G. Garuti, Utet, Torino, 2011, 705.

[3] Il riferimento corre, soprattutto a Corte cost., sent. n. 53 , 349 e 410 del 1993; n. 351 del 1996, n. 212 e 376 del 1997.

[4] V. Cass., Sez. Un., 26 febbraio 2003, Gianni, in Cass. pen., 2003, 2961, secondo la quale i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria in materia di colloqui visivi e telefonici dei detenuti e degli internati, in quanto incidenti su diritti soggettivi, sono sindacabili in sede giurisdizionale mediante reclamo al magistrato di sorveglianza che decide con ordinanza ricorribile per cassazione secondo la procedura indicata nell’art. 14-ter ord. penit.

[5] Cfr. Corte Edu, Sez. II, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia.

[6] In questo senso, di recente, M. Ruaro, Art. 678, in G. Conso-G. Illuminati, Commentario breve al codice di procedura penale, 2° ed.,  Padova, 2015, 2989.

[7] Così la Commissione di studio in tema di ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione. Documento conclusivo, in www.penalecontemporaneo, 20 dicembre 2013.

[8] L’art. 69-bis comma 1 ord. penit. opera, invero, riferimento all’«istanza».

[9] Al contrario, dovrebbero essere potenziate le garanzie giurisdizionali nell’àmbito del procedimento per reclamo in materia di permessi di necessità e di permessi premio (art. 30-bis ord. penit.).

[10] Cfr. dl 1° luglio 2013, n. 78, conv. l. 9 agosto 2013, n. 94; dl 23 dicembre 2013, n. 146, conv. l 21 febbraio 2014, n. 10; dl 26 giugno 2014, n. 92, conv. l  11 agosto 2014, n. 117.

[11] V., specialmente, F. Bricola, Le misure alternative alla pena nel quadro di una «nuova» politica criminale, in Aa.Vv., Pene e misure alternative nell’attuale momento storico. Atti del convegno, cit., 363 ss.; V. Grevi, Esigenze di sicurezza e prospettive premiali nel quadro della legge penitenziaria, in Id. (a cura di), Alternative alla detenzione e riforma penitenziaria, Bologna, 1982, spec. 11 ss.

[12]  V., per tutti, F. Della Casa, voce «Misure alternative alla detenzione», in Enc. dir., Annali, III, Milano, 2010, spec. 818 ss.

[13] Quale corollario del principio, inoltre, si pone la previsione che eventuali modificazioni in peius delle condizioni di accesso ai benefici o alle misure alternative alla detenzione non abbiano efficacia retroattiva.

[14] Cfr. A. Bitonti, voce «Doppio binario», in Dig. disc. pen., Agg., III, t. I, Torino 2005, 393 ss.

[15] Sul punto, anche la Corte costituzionale, nella celebre sent. n. 306 del 1993 (§ 11 del considerato in diritto) precisava quanto segue: «Non si può non rilevare come la soluzione adottata, di inibire l’accesso alle misure alternative alla detenzione ai condannati per determinati gravi reati, abbia comportato una rilevante compressione delle finalità rieducative della pena. Ed infatti la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai princìpi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi di autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita».

[16] L. Eusebi, Ergastolano “non collaborante” ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. e benefici penitenziari: l’unica ipotesi di detenzione ininterrotta, immodificabile e senza prospettabilità di una fine?, in Cass. pen., 2012, 1220 ss.; C. Fiorio, “Logiche” dell’emergenza e “razionalità” normativa, in Giur. it., 2013, 664 ss.; F. De Minicis, Ergastolo ostativo: un automatismo da rimuovere, in Dir. pen. e proc., 2014, 1269.

[17] Cfr. Corte cost., sent. n. 301 del 2012, a margine della quale v. A. Diddi, Il diritto del detenuto a coltivare legami intimi con persone esterne al carcere: una questione antica e non (ancora) risolta, in Proc. pen. giust., 2013, n. 3, 13; F. Fiorentin, Detenzione e tutela dell’affettività dopo la sentenza costituzionale n. 301 del 2012, in Giur. merito, 2013, 974; Id., Affettività e sessualità in carcere: luci ed ombre di una pronuncia che rimanda al difficile dialogo con il legislatore, in Giur. cost., 2012, 4726; C. Renoldi, Il diritto all’affettività delle persone detenute: la parola alla Corte costituzionale, in questa Rivista, 2012, n. 4, 215; S. Talini, Diritto inviolabile o interesse cedevole? Affettività e sessualità dietro le sbarre (secondo la sentenza n. 301 del 2012), in Studium iuris, 2013, n. 10, 1089.

[18] Cfr., anteriormente alla riforma dell’ordinamento penitenziario operata attraverso la l. 26 luglio 1975, n. 354, R. Dell’Andro, I diritti del condannato, in Iustitia,1963, 258; G. Delitala, Il rispetto della persona umana nella esecuzione della pena, in Aa. Vv, Il rispetto della persona umana nell’applicazione del diritto penale. Quaderni di Iustitia - 9, Roma, 1957, 91; G.F. Falchi, I diritti soggettivi della persona detenuta, in Scuola positiva, 1935, I, 1; A. Malinverni, Esecuzione della pena detentiva e diritti dell’individuo, in Indice pen. 1973, 17; E. Massari, La condizione giuridica delle persone detenute, in Riv. dir. penit., 1930, 7; D. Melossi-M. Pavarini, Diritti costituzionali negli istituti carcerari, in Aa. Vv., Giustizia penale e riforma carceraria in Italia, Roma, 1974, 286; P. Nuvolone, Il rispetto della persona umana nella esecuzione della pena, in Trent’anni di diritto e procedura penale, vol. I, Padova, 1963, 295; G. Ragno, Le posizioni subiettive del condannato, in Iustitia, 1962, p. 209; A.M.V. Valenti, Tutela dei diritti soggettivi fondamentali e garanzia giurisdizionale nella esecuzione della pena detentiva,in Rass. studi penit., 1973, 591.

[19] Così F. Della Casa, Un importante passo verso la tutela giurisdizionale dei diritti del detenuto, in Dir. pen. e proc., 1999, 855-856.

[20] L’unico contributo organico recante un’approfondita analisi delle situazioni soggettive della persona in vinculis è quello di V. Grevi (a cura di), Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, cit. In ordine a taluni particolari aspetti, v. anche R. Belvedere, Diritti e doveri dei detenuti, Roma, 1981; E. Bernardi, Corrispondenza dei detenuti e diritti fondamentali della persona, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1983, 1414; Ead., I colloqui del detenuto fra Costituzione italiana e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Giur. it., 1983, IV, 337; M. Chiavario, Problemi attuali della libertà personale, Milano, 1985, 17 s.; Id., Processo e garanzie della persona, 3° ed., vol. II, Milano, 1984, 364 s.; S. Cirignotta-R. Turrini Vita, Adeguamento alle indicazioni della Corte di Strasburgo per il visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti, in Dir. pen. e proc., 1998, 1153; M. De Pascalis, Colloqui visivi e telefonici: non solo diritto del detenuto ma anche componente del trattamento, ivi, 1996, 384; F. Della Casa, Il colloquio con il difensore in sede esecutiva: da “graziosa concessione” a “diritto”, ivi, 1998, 210; G. di Gennaro-E. Vetere, I diritti dei detenuti e la loro tutela, in Rass. studi penit., 1975, 16; L. Ferrajoli, Carcere e diritti fondamentali, in Quest. giust., 1982, 351; M. Genghini, “Sicurezza degli istituti penitenziari. Diritti soggettivi e interessi legittimi dei detenuti”, in Diritto penitenziario e misure alternative, Roma, 1979, 65; G. La Greca, La riforma penitenziaria a venti anni dal 26 luglio 1975. I) Linee generali e sviluppo, in Dir. pen. e proc., 1995, 875; S. Margara, Garanzia dei diritti in carcere, in Leg. e giust., 1986, 410; G. Nespoli, Riflessioni sulle posizioni soggettive nel rapporto di esecuzione, in Giust. pen., 2000, III, 446; Id., “Status” detentivo e difesa degli interessi legittimi, ivi, 1979, I, 321; E. Somma, La “giurisdizionalizzazione” dell’esecuzione. Processo penale e processo di sorveglianza, in Pene e misure alternative nell’attuale momento storico. Atti del convegno, Milano, 1977, 159 s.; L. Stortoni, «Libertà» e «diritti» del detenuto nel nuovo ordinamento carcerario, in F. Bricola (a cura di), Il carcere “riformato”, Bologna, 1977, 31; D. Valia, I diritti del recluso tra legge 354/1975, Costituzione e Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, in Rass. penit. crim., 1999, 1.

[21] Sono, invero, editi nel terzo millennio, i primi studi organici sulla soggettività giuridica delle persone detenute, strutturati sull’analisi della dicotomia giurisdizione/amministrazione (v. S. Anastasia, Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale, Roma, 2012; A. Pennisi, Diritti del detenuto e tutela giurisdizionale, Torino, 2002; M. Ruotolo, Diritti dei detenuti e Costituzione, Torino, 2002; Id., Dignità e carcere, Napoli, 2011; nonché, volendo, C. Fiorio, Libertà personale e diritto alla salute, Padova, 2002.

[22] Cfr. Corte cost., sent. n. 114 del 1979, con cui il giudice delle leggi dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 589 comma 5 cpp 1930 nella parte in cui, nel caso previsto dall’art. 147 comma 1 n. 2 cp, attribuiva al Ministro della giustizia il potere di sospendere l’esecuzione della pena, quando l’ordine di carcerazione del condannato fosse già stato eseguito. In quella decisione, infatti, si precisava che «è principio di civiltà giuridica che al condannato sia riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive, e garantita quella parte di personalità umana, che la pena non intacca. Tale principio è accolto nel nostro ordinamento: nell’art. 27, comma terzo, Cost. é detto, anzitutto, che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”; ed é, allora, alla luce di questo precetto che, nel caso in esame, va considerato il trattamento del condannato».

[23] Cfr. Corte cost., sent. n. 349 e 410 del 1993, n. 351 del 1996, n. 376 del 1997, n. 190 del 2010.

[24] Cfr. Corte cost., sent. n. 26 del 1999, n. 266 del 2009, n. 135 del 2013.

[25] Circ. DAP, n. 3651/6101 del 7 novembre 2013.

[26] Interessanti spunti di riflessione emergono dai Lavori della Commissione Palazzo, in www.penalecontemporaneo.it, 10 febbraio 2014.

[27] In tale prospettiva, il vigente comma 1 potrebbe prevedere che: «1. L’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, non possono essere concessi ai condannati per i delitti di cui agli articoli 270, 270-bis, 416-bis e 416-ter del codice penale, nonché per i delitti ai quali sia stata applicata la circostanza aggravante di cui all’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni, nei casi in cui sia fornita la prova della sussistenza di elementi concreti e specifici, fondati su circostanze di fatto espressamente indicate, che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva». Analogamente, al vigente comma 1-ter, le parole: «purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva» potrebbero essere sostituite dalle seguenti: «purché non sia fornita la prova della sussistenza di elementi concreti e specifici fondati su circostanze di fatto espressamente indicate, che dimostrino in maniera certa l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva». Infine, il vigente comma 3-bis dell’art. 4-bis ord. penit., nonché l’art. 58-ter ord. penit. dovrebbero, a parere di chi scrive, essere abrogati. In prospettiva correlata, appare necessaria la soppressione di ogni preclusione, fondata sul titolo del reato in esecuzione, che pregiudichi l’individualizzazione del trattamento rieducativo (artt. 30-quater, 47-ter commi 01 e 9-bis, 58-quater comma 7-bis ord. penit.).