Magistratura democratica

La legge elettorale in corso di approvazione.
Profili di costituzionalità

di Marco Bignami

«Al di sopra del Parlamento (…) vi è il dittatore di fatto plebiscitario che (…) trascina dietro di sé le masse e per il quale i parlamentari sono soltanto dei beneficiari politici che si pongono al suo seguito (omissis). Si può con buone ragioni definire l’attuale situazione come una “dittatura che si fonda sullo sfruttamento dell’emotività delle masse”». Il lettore di Questione Giustizia, cui oggi sono offerti i contributi dei costituzionalisti Gino Scaccia e Mario Volpi sulla riforma della legge elettorale in corso di approvazione, non dovrà compulsare i quotidiani nazionali  per scoprire l’autore di queste parole. Naturalmente, a parlare è Max Weber (La politica come professione, ed. it. Mondadori, 2006, 50), e siano nel 1919.

Il parlamentarismo, insomma, non gode di buona salute da circa un secolo, e ogni qual volta si cerca di collocarlo nuovamente al centro ideale del disegno costituzionale repubblicano, vi sarà chi ne enumererà le ragioni di crisi e di inefficienza.

Profonde correnti sotterranee pulsano insieme per minare il convincimento che la politica nasca anzitutto dal confronto di chi rappresenta la Nazione nelle aule parlamentari, e viene scelto a tale scopo dal popolo sovrano. La crisi della dialettica, fulminata dallo scetticismo destrutturante della filosofia novecentesca, convince che il dialogo condotto grazie agli argomenti della razionalità non sia una via utile per formulare alcuna proposizione aletica condivisa. Lo sfarinamento dei valori unitari della Repubblica, perseguito attraverso una incessante guerriglia di confine ai danni della Costituzione, introduce nel flusso politico l’ermeneutica binaria dell’amico/nemico, che reclama giochi a somma zero, ove il vincitore incassa l’intera posta, annichilendo l’altrui ragione. E, per restare in tema, cogliamo l’inversione dei termini del discorso schmittiano sulla sovranità: si crea, spesso con consumati artifici, uno stato di eccezione permanente, proprio perché esso produca il sovrano cui affidare, con la spada di Brenno, la decisione ultima e salvatrice.

Non è facilmente negabile che la legge elettorale in corso di gestazione, con il suo formidabile premio di maggioranza alla lista unica, le soglie di sbarramento per i partiti minori, il divieto di apparentamento in fase di ballottaggio, la designazione dei 100 capolista, perlomeno sia fecondata da questo humus culturale.

È però altrettanto incontestabile che una robusta ed autorevole corrente di pensiero ha, già ben prima delle miserie odierne, individuato nel Governo il «comitato direttivo della maggioranza parlamentare» (Mortati). Ciò può piacere, oppure no. Altra questione è domandarsi se siano state oltrepassate le colonne d’Ercole della Costituzione. Il pluralismo di quest’ultima, innestato su una forma di governo la più flessibile nell’adattarsi alla contingenza dei rapporti di forza tra i protagonisti del gioco politico, è capace di accogliere concezioni non sempre convergenti sulla funzione della scelta elettorale, e di conseguenza sul rapporto di equilibrio tra esigenze di governabilità ed istanze di rappresentatività.

Volpi non ha esitazioni nel denunciare la palese incostituzionalità della nuova normativa per plurimi aspetti: tra questi, la compressione della rappresentanza indotta da un premio di maggioranza eccessivamente generoso; l’elusione della volontà del corpo elettorale di non conferire il premio, determinata dalla fase del ballottaggio; l’introduzione di una soglia di sbarramento al 3%, che non si giustifica con uno scopo di governabilità, posto che esso è in ogni caso posto al sicuro dal meccanismo elettorale. Scaccia è più prudente, ma non meno severo nel segnalare punti di grave problematicità: il premio di maggioranza resiste al test matematico elaborato per “pesare” la diseguaglianza dei voti in uscita, in modo che essa non superi il grado massimamente tollerabile, ma l’effetto ulteriormente distorsivo introdotto attraverso la soglia di accesso alla ripartizione dei seggi rende precario anche questo approdo iniziale; il ballottaggio, inserendosi in un sistema politico altamente frammentato come l’attuale, rischia di avvantaggiare liste che hanno ottenuto al primo turno un consenso ben lontano dal 40%, in tal modo sviluppando all’ennesima potenza l’effetto di alterazione della rappresentatività; le pluricandidature dei capolista consentono una opzione del tutto discrezionale tra un collegio e l’altro, e di conseguenza l’investitura diretta, da parte dei leader del partito, del candidato che otterrà in loro vece il seggio nel collegio cui i primi hanno rinunciato.

Sono temi di riflessione non eludibili, sui quali non ha certo importanza sapere come la pensa chi scrive.

È invece utile sottolineare che si tratta di rilievi che, prima della storica sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, avrebbero saturato il dibattito sulle riviste giuridiche, e poco più. Oggi, invece, essi si offrono come una testa d’ariete per l’accesso “semi-incidentale” al giudice costituzionale. È vero che l’estensione del sindacato della Corte sulla legge elettorale fu favorita da circostanze contingenti del tutto peculiari, ma va escluso che il canale di ingresso, una volta aperto, possa venire nuovamente sbarrato. E, sotto questo profilo, vi è anche da interrogarsi circa l’opportunità di introdurre con legge di revisione costituzionale, come pare accadrà, una inedita forma di sindacato preventivo da parte della Corte. Non è solo che, in tal modo, viene inevitabilmente a scaricarsi su quest’ultima, nell’immediatezza, la virulenta tensione che può alimentarsi tra le forze politiche. Vi è anche il fatto che il giudizio preventivo inevitabilmente strozzerà la via incidentale, pregiudicando questioni che il giudice ordinario, su impulso delle parti, avrebbe forse con maggior efficacia saputo calibrare in chiave meramente tecnica, depurandole dalla vis polemica del confronto parlamentare. Ma, soprattutto, l’insegnamento che si può trarre dalla sentenza n. 1 del 2014 è che un certo tempo è necessario, per capire davvero se un qualche algoritmo elettorale tiene o cede di fronte alla Costituzione, a seconda dell’impatto che esso produce sulla vita del Paese e sulle sue articolazioni istituzionali.

La stessa famigerata legge n. 270 del 2005 non aveva suscitato diffusi dubbi di costituzionalità, fino a quando lo schema bipartitico della cd. seconda Repubblica non evolse verso la deflagrazione tripolare imposta dal movimento 5 Stelle, rendendo visibile sia l’effetto antidemocratico del premio di maggioranza, se privo della soglia minima di accesso, sia l’incapacità del meccanismo, pur a fronte di tale sacrificio, di garantire uno stabile assetto di governo, in ragione del bizzarro riparto su base regionale del premio al Senato.

E, allora, un giudizio ponderato sulla nuova legge elettorale non potrà prescindere da un apprezzamento sul medio periodo degli effetti che essa determina in concreto, in danno del minimo tasso di democraticità che l’ordinamento costituzionale deve comunque conservare, anche con riguardo al grado di rappresentatività degli organi elettivi. In questo senso, non vi è dubbio che gli spazi della rappresentanza politica stiano subendo una forte contrazione, sia, in prospettiva, attraverso la riforma del Senato, sia, allo stato, in forza dell’idea che gli enti territoriali possano venire integralmente costituiti secondo elezioni indirette (si allude, ovviamente, alla riforma Delrio sulle Province), sia, infine, per mezzo della sistematica delegittimazione mediatica inflitta ai corpi intermedi della società civile. Su di un altro piano, ma parimenti imprescindibile, il rafforzamento della maggioranza di governo dovrebbe accompagnarsi ad un incremento dello statuto di garanzia delle minoranze parlamentari, e non, al contrario, all’indulgenza verso pratiche elusive del confronto (il bestiario politico sul punto è notoriamente ricco). Poter decidere, infatti, non significa poter non ascoltare, ché, anzi, la prima cosa dovrebbe presupporre la seconda. Né può trascurarsi la necessità di elevare i quorum richiesti per l’elezione degli organi di garanzia costituzionale, per i quali sarebbe esiziale l’attrazione verso logiche maggioritarie.

La costituzionalità della legge elettorale, insomma, è frutto di valutazioni di insieme.

Essa, per un certo verso, dipende anche da noi, o comunque dalla nostra capacità di coinvolgere e farsi coinvolgere in una vita pubblica partecipe, sfuggendo alle non rare sirene che cantano, all’opposto, la seduzione dell’apatia politica.

Perché il bilanciamento di una forte governabilità viene non solo dalle istituzioni, ma anche dall’attitudine critica della opinione pubblica, purché le sia offerto, anzitutto da una magistratura indipendente e da una stampa libera, lo spazio necessario per potersi dispiegare.

Pensando, ad esempio, al ballottaggio, la chiave del successo, per quanto ciò possa dispiacere ai cultori dell’elitismo, sta nella partecipazione democratica. Convince chi pensa che, in definitiva, l’elezione può divenire l’investitura non già di chi si reputa più affine, ma, piuttosto, di chi è meno lontano dalla sensibilità politica dell’elettore. Questo, in qualunque sistema elettorale non puramente proporzionale, è pressoché inevitabile. Ma, certamente, se l’elettorato dovesse disertare in massa l’eventuale secondo turno di voto, il problema posto da Scaccia in ordine agli effetti di sovrarappresentazione di un’iniziale minoranza che si muta in forte maggioranza, meriterebbe una risposta. Ancora una volta, si tratterà di vedere come l’elettore percepirà e reagirà alla nuova normativa.

A chi sia fautore di quest’ultima, perciò, non conviene insistere troppo sulle virtù della delega in bianco che il cittadino conferisce alla maggioranza di governo ad ogni turno elettorale, per poi ripiegare su una silente accettazione del verbo sovrano. È il caso, invece, di stimolare la partecipazione alla vita della comunità, attraverso politiche inclusive che non rendano intollerabile per gli elettori di minoranza la scelta di esprimere un voto in fase di ballottaggio, anche da parte di chi in prima battuta ha scelto, o avrebbe scelto, altro.

Un merito piace però riconoscere alla legge elettorale in corso di approvazione. Essa ci traghetta fuori dalla palude dei governi, più o meno dichiarati, di convivenza coatta tra partiti che pretendono di essere invece alternativi l’uno all’altro, ove la politica, che è anzitutto scelta di fini e selezione di interessi contrapposti, viene risucchiata via dal caldo abbraccio dell’unità nazionale, tanto comodo ad essere predicato, quanto fittizio per come viene praticato.

Chi ripone fiducia nel sistema elettorale proporzionale, privo di adeguati correttivi a vantaggio della governabilità, deve infatti a propria volta confrontarsi con la realtà di un sistema politico allo stato frammentato, ove, tuttavia, uno dei soggetti protagonisti, il movimento 5 Stelle, non si mostra disposto a coalizzarsi, spianando la strada ad un’unica, inalterabile formula di governo.

L’auspicio di un ritorno alla politica, forse fallace dopo le molte delusioni, ma perlomeno pronunciabile, non è fattore di poco conto, quando si voglia prendere posizione su vizi e virtù della nuova legge elettorale. Ma, certo, le vie a tale scopo aperte sono più di una: se il Parlamento sapesse ascoltare le critiche correttive che anche, ma non solo, su questa Rivista vengono suggerite da autorevoli costituzionalisti, avremmo tutti da guadagnarci.