Magistratura democratica
Giurisprudenza e documenti

Un'interessante decisione sulla legge Mancino. Nota a sentenza del Tribunale di Vercelli del 24 maggio 2017

di Fabrizio Filice
giudice del Tribunale di Vercelli
Con la sentenza in oggetto, il Tribunale ha assolto due attivisti dall’area antagonista locale dall’imputazione del reato di cui all’articolo 3, comma 1, lett a), della l. n. 654/1975 (legge Mancino), contestata loro per avere appeso alla cancellata della Sinagoga di Vercelli un drappo con la scritta “#STOP BOMBING GAZA ISRAELE ASSASINI FREE PALESTINE”. La nota, ripercorrendo l’iter motivazionale della sentenza, illustra come sia stata decisiva la ricostruzione del contesto politico in cui si sono svolti i fatti. Nell'estate del 2014, infatti, era in corso una campagna militare delle Forze di difesa israeliane contro i guerriglieri palestinesi di Hamas, in cui sono rimasti uccisi più di duemila civili, fra cui centinaia di bambini. Determinante è stata anche la storia personale dei due imputati, che gli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine locali, sentiti come testi istituzionali, hanno attestato essere imperniata, fin da quando erano studenti, a posizioni politiche nettamente contrarie all’antisemitismo o al revisionismo sulla Shoah, e anzi ispirate ai valori dell’antifascismo e dell’antirazzismo: posizioni che non si erano modificate nel tempo, in modo da rivelare come anche la scritta ingiuriosa oggetto di imputazione fosse attribuibile non già a un sentimento di ostilità nei confronti del popolo israeliano in quanto popolo ebraico, bensì contro la politica militare israeliana; il che, avendo riguardo all’oggettività giuridica della fattispecie, ha di fatto incrinato la sussistenza del suo elemento caratteristico, che è l’”odio razziale o etnico” quale motivo ispiratore della condotta.

Con la sentenza in commento, resa il 24 maggio 2017, il Tribunale di Vercelli in composizione monocratica ha avuto modo di affrontare un interessante caso di applicazione della cosiddetta Legge Mancino (Legge n. 654 del 1975, modificata nel 1993 su proposta dell’allora Ministro dell’interno Mancino), in particolare dell’art. 3, comma primo, lettera a): ciò è a dire la fattispecie di propaganda di idee fondate sull’odio razziale o etnico.

Imputati, due attivisti della sinistra antagonista locale i quali, nella notte tra il 17 e il 18 luglio 2014, hanno appeso alla cancellata della Sinagoga di Vercelli – uno splendido edificio di fine ottocento realizzato dall’architetto Giuseppe Locarni nel cuore dell’antico ghetto - un drappo con la scritta “#STOP BOMBING GAZA ISRAELE ASSASINI FREE PALESTINE”.

Il processo – che ha avuto una certa risonanza a livello locale soprattutto per la costituzione di parte civile della Comunità Ebraica di Vercelli, Biella, Novara e Verbano Cusio Ossola – non ha presentato alcuna difficoltà in ordine alla ricostruzione del fatto e alla sua ascrivibilità ai due imputati, che ne hanno immediatamente ammesso – anzi, rivendicato – la paternità con una dichiarazione congiunta letta all’apertura del dibattimento.

Piuttosto, è stata un’ottima occasione di riflessione su una norma molto citata dai media e spesso oggetto di querelle a sfondo politico (chi, “da sinistra”, la vorrebbe estendere ai reati di genere e a quelli commessi per omo o trans-fobia; chi invece, “da destra”, la ritiene in contrasto con la libertà di espressione e di critica politica) ma scarsamente applicata dai tribunali di merito.

La riflessione della giudice inizia con la correzione dell’imputazione contenuta nel decreto di citazione a giudizio, erroneamente individuata in un decreto legge di modifica (il n. 122 del 1993 per esattezza, peraltro poi superato da un restyling di più ampio respiro, che ha dato alla norma la forma attuale, contenuto nella legge n. 85 del 2006) e correttamente ricondotta, appunto, alla fattispecie dell’art. 3, comma 1, lett a), della legge n. 654 del 1975: il quale prevede la pena della reclusione sino a un anno e sei mesi, alternativa alla multa sino a seimila euro, per chi propagandi idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istighi a commettere o commetta atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

L’istruttoria dibattimentale ha contato, oltre che sull’esame dei due imputati, di altri attivisti locali e di alcuni operanti della questura, anche sull’importante testimonianza di un operatore umanitario (teste R***) concretamente attivo nella zona di Gaza, il quale ha parlato della cosiddetta “Operazione Margine di Protezione”: nome in codice della campagna militare iniziata l’8 luglio 2014 dalle Forze di difesa israeliane contro i guerriglieri palestinesi di Hamas e altri gruppi nella Striscia di Gaza, e che avrebbe avuto termine il 26 agosto dello stesso anno.

L’intento dichiarato dell’operazione israeliana era quello di fermare il lancio di missili dalla Striscia di Gaza verso il proprio territorio, intensificatosi dopo il giro di vite operato dagli israeliani a seguito del rapimento e dell’uccisione di tre adolescenti israeliani ad opera di due membri di Hamas.

Il 17 luglio era iniziata l’invasione di terra con l’obiettivo di distruggere la rete di tunnel di Hamas e, proprio nel corso di quella giornata, era stato distrutto un centro di accoglienza italiano a Gaza che ospitava donne e bambini.

Il bilancio ufficiale delle vittime dell’operazione, a Gaza, si è poi attestato tra le 2.125 e le 2.310 vittime, tra cui 495-578 bambini, ai quali si aggiungono 5 civili uccisi dall’esplosione di un ordigno israeliano durante uno sminamento: tra queste, il videoreporter italiano Simone Camilli.

È quindi stato fin da subito evidente che la protesta dei due imputati non fosse rivolta genericamente contro il popolo israeliano in quanto popolo ebraico, bensì contro la politica militare israeliana: e infatti l’istruttoria ha altresì toccato (testi B*** e H***) il tema generale della differenza tra antisionismo ed antisemitismo, e dell’esistenza di posizioni contrarie allo stato di Israele diffuse anche tra gli stessi cittadini israeliani e in molte comunità ebraiche europee.

La connotazione politica, e non strettamente etnica o religiosa, della condotta non vale tuttavia a distrarla aprioristicamente dall’area del “penalmente rilevante”, in quanto può certamente darsi che proprio motivazioni squisitamente politiche stiano alla base di un sentimento di ostilità e avversione nei confronti di un intero popolo, la cui comunicazione all’esterno nelle forme dell’istigazione o della propaganda, ben può integrare, consequenzialmente, il precetto penale (si veda, ad esempio, proprio sul concetto di propaganda, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10779 del 12/05/1986, Rv. 173926, secondo la quale concreta il reato di propaganda sovversiva l’azione di colui che, in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo di diffusione, ponga a conoscenza di un numero indeterminato di persone idee, propositi ed apprezzamenti di ordine sociale o politico idonei, per la loro concretezza e specificità, a provocare un effettivo e concreto pericolo di adesione alle idee, alle tesi ed ai propositi propagandati).

La soluzione, dunque, non poteva (e non può) che essere quella di un attento contemperamento della libertà di manifestazione del pensiero e di espressione – diritto tutelato alle più alte vette della gerarchia delle fonti (articolo 21 della Costituzione; articolo 10 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo; articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) – in vista della protezione del “bene giuridico” sotteso alla fattispecie in scrutinio.

Si è molto discusso, al riguardo, sulla reale oggettività giuridica delle disposizioni penali che sanzionano gli atti discriminatori, ed è ormai opinione largamente diffusa in dottrina, e condivisa dalla giurisprudenza, che il “bene giuridico” protetto dalle norme incriminatrici in tema di discriminazione sia la dignità dell’uomo in sé; e che, quindi, il bilanciamento si giochi fra beni di rilievo costituzionale: la libertà di manifestazione del pensiero da un lato e la pari dignità di tutti gli uomini dall’altro: là dove a essa − alla dignità umana appunto – si trovano riferimenti impliciti in quelle disposizioni, costituzionali e convenzionali, che sanciscono in generale il riconoscimento dei diritti inviolabili della persona o l’affermazione dell’uguaglianza formale e sostanziale di tutti i cittadini, come gli articoli 2 e 3 della Costituzione e gli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo; oltre che un riferimento esplicito all’articolo 1 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, che segue a un riconoscimento della dignità umana fra i principi generali dell’ordinamento comunitario già in precedenza statuito per via giurisprudenziale.

Il principio della dignità umana peraltro assume, nel sistema assiologico euro-unitario a carattere multilivello, piuttosto la condizione di postulato ontologico del sistema dei diritti costituzionali e di premessa di tutti i diritti umani: sì che esso può assumere un contenuto più concreto soltanto per effetto della configurazione e della formulazione attribuitegli nei singoli diritti fondamentali in rapporto ai quali funge da criterio valutativo e interpretativo [1], e quindi anche in rapporto alla –  e come limite della – la libertà di manifestazione del pensiero: in questo senso definendosi, in una sorta di dialettica negativa, come limite alla libertà di espressione.

A ciò consegue che la giurisprudenza in materia si delinei necessariamente come giurisprudenza del caso concreto, essendo possibile tracciare una linea di confine tra i due diritti, entrambi di rilievo costituzionale e convenzionale, solo avendo riguardo alla concreta fattispecie.

Ad esempio, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 37581 del 07 maggio 2008, Mereu, Rv. 241071, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 3, legge 13 ottobre 1975, n. 654 (modificato dal dl 24 aprile 1993, n. 122, conv. con modd. in legge 25 giugno 1993, n. 205 nonché dall’art. 13, legge 24 febbraio 2006, n. 85) laddove vieta la diffusione in qualsiasi modo di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, per asserito contrasto con l’art. 21 Cost., in quanto la libertà di manifestazione del pensiero e quella di ricerca storica cessano quando travalicano in istigazione alla discriminazione ed alla violenza di tipo razzista (In motivazione la Corte ha ulteriormente precisato che la libertà costituzionalmente garantita dall’art. 21 non ha valore assoluto ma deve essere coordinata con altri valori costituzionali di pari rango, quali quelli fissati dall’art. 3 e dall’art. 117, comma primo, Cost.). Analogamente Cass. Sez. 5, Sentenza n. 31655 del 24 gennaio 2001, Gariglio, Rv. 220021, ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., dell’art. 3, comma 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 654, come modificato dall’art. 1 del dl 26 aprile 1993, n. 122, convertito nella legge 25 giugno 1993, n. 205 nella parte in cui configura come reato associativo la promozione, la direzione o la semplice partecipazione ad ogni forma di organizzazione che abbia tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, atteso che il precetto deve ritenersi tipizzato in base alla individuazione dello scopo ultimo della struttura collettiva, che consiste nel limitare o impedire ad altri individui della stessa società civile l’esercizio dei propri diritti civili e politici, individuali e collettivi.

Ponendosi sulla stessa linea, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 33179 del 24 aprile 2013, Scarpino, Rv. 257216 , ha ritenuto integrata la fattispecie di associazione per delinquere finalizzata all’incitamento e alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi anche da una struttura che utilizzi il blog per tenere i contatti tra gli aderenti, fare proselitismo, anche mediante la diffusione di documenti e testi inneggianti al razzismo, programmare azioni dimostrative o violente, raccogliere elargizioni economiche a favore del forum, censire episodi o persone responsabili di aver operato a favore dell’uguaglianza e dell’integrazione degli immigrati.

Del resto, la linea era già stata tracciata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che aveva precisato, a proposito della cd. legge Scelba (n. 645/1952), con specifico riguardo al reato di apologia del fascismo, che la libertà di manifestazione del pensiero non può spingersi oltre il limite segnato da altri principi costituzionali fondamentali (cfr. le sentenze di rigetto delle relative questioni di legittimità costituzionale, n. 1 del 1957 e n. 74 del 1958).

Più di recente, invece, la giurisprudenza di legittimità pare essere andata oltre nell’analisi della fattispecie, soprattutto relativamente alla ratio sottesa e alla conseguente selezione delle condotte rilevanti, proprio al fine di salvaguardare in egual modo, con un equo contemperamento, entrambi i diritti di rango costituzionale: ad esempio Cass. Sez. 3, Sentenza n. 36906 del 23/06/2015, Salmè, Rv. 264376, ha stabilito che ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 3, comma primo, lett. a), prima parte, legge 13 ottobre 1975, n. 654, la “propaganda di idee” consiste nella divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ed a raccogliere adesioni; l’”odio razziale o etnico” è integrato non da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione, ma solo da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, e la “discriminazione per motivi razziali” è quella fondata sulla qualità personale del soggetto, non – invece − sui suoi comportamenti.

Allo stesso modo, Cass. Sez. 1, Sentenza n. 42727 del 22 maggio 2015, Valandro, Rv. 264854 ha ritenuto che il reato di incitamento alla violenza ed atti di provocazione commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, previsto dall’art. 3, comma primo, lett. b), legge 13 ottobre 1975 n. 654 e successive modificazioni, sia un reato di pericolo, e che si perfezioni indipendentemente dalla circostanza che l’istigazione sia accolta dai destinatari, essendo tuttavia necessario valutare la concreta e intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta, con riferimento al contesto specifico ed alle modalità del fatto.

Rigoroso accertamento della finalità etnica, razziale o religiosa, della propaganda da un lato, e concreto pericolo di adesione di terzi all’istigazione e quindi della diffusione di condotte violente o discriminatorie dall’altro, quindi, sono i due cardini si cui di regge il catafratto della fattispecie.

Di più difficile lettura si dimostra la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e questo perché, nell’interpretazione della Convenzione, il diritto di libera manifestazione del pensiero (tutelato, come si è detto, all’ art. 10 della Convenzione) è tradizionalmente affermato con una tale forza “attrattiva” da fare usualmente premio nel bilanciamento con il divieto di discriminazione (pure sancito all’art. 14 della Convenzione).

Secondo la filosofia ispiratrice dalla Corte, nella sostanza, una democrazia matura non deve temere, né quindi censurare, nemmeno la manifestazione delle idee più riprovevoli, dovendo invece affidare all’opinione pubblica il compito valutarle criticamente (esempi molto citati al riguardo sono i casi Jersild c. Danimarca e Perinçek c. Svizzera).

La Corte appare più cauta, invece, quando le idee a carattere razzista o negazionista riguardano la Shoah; ad esempio nel noto caso dell’intellettuale francese di fede islamica Roger Garaudy, condannato in Francia per contestazione di crimini contro l’umanità in relazione alla sua opera I miti fondanti del moderno Stato di Israele, pubblicata nel 1995 e di ispirazione marcatamente negazionista, la Corte respinse il ricorso del condannato affermando che «la maggior parte del contenuto e il tono generale dell’opera del ricorrente, e dunque il suo scopo, hanno una marcata natura negazionista e contrastano quindi con i valori fondamentali della Convenzione, quali espressi nel suo Preambolo, ossia la giustizia e la pace. Rileva che il ricorrente tenta di fuorviare l’art. 10 della Convenzione dalla sua vocazione utilizzando il suo diritto alla libertà di espressione per fini contrari alla lettera ed allo spirito della Convenzione. I predetti fini, se fossero tollerati, contribuirebbero alla distruzione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione».

Appare quindi evidente come l’orientamento dei giudici della Corte Edu non possa dirsi del tutto consolidato e univoco nel bilanciamento fra gli opposti principi in gioco, e che molto dipenda (si torna a ripetere) dal contesto nell’ambito del quale s’inserisce il caso concreto: il che, del resto, è effettivamente in linea con la natura per così dire “ibrida” della giurisprudenza della Corte Edu: una sorta di tertium genus  tra common e civil law, nel quale, piuttosto che una rigida applicazione dello stare decisis, si nota un costante riferimento ai precedenti della Corte; sì che se da un lato si tratta a tutta evidenza di una tecnica casistica (per restatement of law), dall’altro lato non esita mai in una rigida applicazione dello stare decisis, bensì in un apparente distinguishing: che però, nella sostanza, non è tale, posto che, non essendo riconosciuta la rigida vincolatività del precedente, la decisione è sempre sul singolo caso, mentre la critica del giudizio, per così dire, consiste in un riferimento costante alla giurisprudenza precedente.

Tornando al caso di specie, e avvicinandoci alla – condivisibile – soluzione assolutoria adottata dalla giudice del caso, si direbbe che l’applicazione della criteriologia elaborata dalla Corte di cassazione, nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale, porti a escludere immediatamente la possibile iscrizione della condotta dei due imputati a una finalità di discriminazione etnica, razziale o religiosa, in quanto il bersaglio della protesta, e del relativo tono violento e ingiurioso, era senza dubbio la politica militare israeliana nel suo complesso e, segnatamente, la singola operazione militare andata sotto il nome di “operazione margine di protezione”.

Né potrebbe in alcun modo sostenersi che il gesto degli imputati abbia realizzato un effettivo pericolo che, per emulazione, terzi adottassero condotte discriminatorie o violente nei confronti di cittadini israeliani o di origine e/o fede ebraica, in quanto il contesto di azione è, al contrario, quello di una storia politica − quella dei due imputati − notoriamente vicina alla sinistra antagonista vercellese e certamente lontana da qualsiasi ideologia a sfondo razzista, filonazista o negazionista. Uno degli imputati ha infatti tenuto a sottolineare di avere sempre contrastato ogni forma di razzismo contro il popolo ebraico, anche attraverso iniziative concrete, precisando di non aver mai cambiato idea sul punto. In particolare, ai tempi della scuola, aveva organizzato assemblee sulla tragedia dell’Olocausto, aveva partecipato a numerose manifestazioni in occasione del 25 aprile nonché ad un presidio vicino ad un circolo di estrema destra dove era in corso un’iniziativa sull’attualità della rivoluzione hitleriana; e queste circostanze sono state confermate da un operante di P.G. che conosceva gli odierni imputati proprio per il loro ruolo di attivisti e frequentatori del centro sociale.

La finalità di discriminazione razziale o etnica nei confronti del popolo ebraico, e la correlativa lesione della dignità umana, è quindi da escludere in radice proprio perché, anzi, i due imputati hanno agito nell’opposta convinzione profonda di difendere, con tattiche di sensibilizzazione dell’opinione pubblica anche di forte impatto, il diritto alla dignità, e prima ancora quello alla sopravvivenza, della popolazione civile palestinese.

Né si potrebbe tacciare questa convinzione di puro soggettivismo, atteso che la condotta militare israeliana è stata già fatta segno non solo a fortissime censure politiche − anche, come si diceva, all’interno delle stesse comunità ebraiche − ma altresì a un importante richiamo della Corte internazionale di giustizia dell’Aja, che, con il parere consultivo reso il 9 luglio 2004 (in ordine al progetto di costruzione dell’attuale “Barriera di separazione israeliana”, costruita dallo Stato di Israele in Cisgiordania a partire dal 2002), dopo avere passato in rassegna le tappe fondamentali del conflitto militare israeliano palestinese e le risoluzioni Onu susseguitesi negli anni, è giunta a definire lo Stato di Israele come una “potenza occupante” affermando quanto segue:

 

«La Corte ricorda la risoluzione 242 (1967) del 22 novembre 1967 del Consiglio di sicurezza, che chiedeva il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati, e le condanne, ripetutamente espresse, dallo stesso organismo, nei confronti dei tentativi di modificare lo status di Gerusalemme, per riaffermare la necessità di rispettare la regola consuetudinaria dell’inammissibilità delle acquisizioni di territori con la forza.

Non si può certo negare l’esistenza del popolo palestinese, riconosciuta del resto dallo stesso Israele con lo scambio di lettere del 9 settembre 1993 fra Arafat e Rabin e con la firma dell’Accordo ad interim israelo-palestinese sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza del 28 settembre 1995, che contiene un riferimento ai diritti del popolo palestinese, fra i quali quello all’autodeterminazione (16).

La costruzione del muro e l’esistenza stessa delle colonie israeliane sui territori occupati contravvengono al divieto stabilito dall’art. 49 della Quarta Convenzione di Ginevra secondo il quale “la potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento d’una parte della propria popolazione civile nei territori che essa occupa”.

Con la propria risoluzione 446 (1979) del 22 marzo 1979, ribadita in varie occasioni, il Consiglio di sicurezza, ha del resto esplicitamente chiesto al governo israeliano di revocare le misure già adottate e di astenersi dall’adottare nuove misure miranti a modificare lo status giuridico e il carattere geografico dei territori occupati, in particolare influendo sulla loro composizione demografica.

Pur prendendo atto delle assicurazioni formulate da Israele che il muro costituisce una misura temporanea, la Corte considera che in questo modo si tende a produrre un “fatto compiuto” e a consacrare sul terreno le misure illegali adottate da Israele e già deplorate dal Consiglio di sicurezza.

Viene in tal modo posto un grave ostacolo all’esercizio del diritto di autodeterminazione da parte del popolo palestinese» [2].

Non è quindi revocabile in dubbio che la posizione degli imputati, di assoluta contrarietà alla politica militare di tipo sionista, conti su un’estesa sittlichkeit legittimante, ampiamente diffusa anche in seno al diritto internazionale.

Ora, esclusa la finalità di discriminazione razziale della condotta, ed escluso parimenti il concreto pericolo di realizzazione, da parte di terzi, di condotte discriminatorie mutuabili dalla condotta degli imputati, resta da osservare come lo striscione in questione contenesse, nella stessa frase, oltre ai richiami (in lingua inglese) alla chiara ispirazione politica del gesto (“STOPBOMBINGGAZA” e “FREE PALESTINE”) anche un epiteto indiscutibilmente ingiurioso: “ISRAELE ASSASINI”.

Del tutto correttamente, la giudice non si è posta il problema dell’eventuale riqualificazione del fatto in questo senso, attesa la recente depenalizzazione del reato di ingiuria ad opera del d.lgs n. 7 del 2016.

In sede di commento, tuttavia, vale la pena chiedersi se, a prescindere dal rilievo certamente assorbente della depenalizzazione, l’ingiuria genericamente rivolta allo Stato di Israele (e quindi quantomeno alla sua rappresentanza politico istituzionale del momento) potesse considerarsi, o meno, scriminata dall’esimente del diritto di critica politica, in risposta all’esigenza di configurare un “diritto penale minimo” (kernstrafrecht) non invasivo della sfera politico espressiva.

In effetti, nonostante la questione della scriminante del diritto di cronaca e di critica abbia nutrito, e continui a nutrire, maggiormente la casistica di diffamazione, scorrendo i precedenti (ormai destinati all’archivio storico, vista la cassazione della fattispecie) si rinvengono pronunce che hanno ritenuto applicabile l’esimente in questione anche al reato di ingiuria; ad esempio Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14459 del 02/02/2011, Contrisciani, Rv. 249935, ha affermato che l’esercizio del diritto di critica politica può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per l’esposizione a critica del personaggio stesso.

Valutato quindi il contesto dell’azione, non sembra da escludere che, anche sotto la vigenza del reato di ingiuria, la difesa avrebbe avuto buoni argomenti per invocare la scriminante della critica politica in relazione all’unica espressione ingiuriosa contenuta nel breve testo, in quanto strettamente legata alla critica di un’operazione militare realmente avvenuta e all’interno di un contesto militare che, come si è visto, è al centro di fortissime critiche  non solo politiche ma anche provenienti da Autorità giudiziarie internazionali.



[1] V. Baldini, La dignità umana tra approcci teorici ed esperienze interpretative, Università degli studi di Cassino e del Lazio Meridionale.

[2] Corte Internazionale di Giustizia, parere consultivo reso il 9 luglio 2004 su Domanda di parere adottata dalla decima sessione straordinaria d'urgenza dell'Assemblea generale - Sessione convocata sulla base della risoluzione 377 A (V). 

13/12/2017
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