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Corte d'assise d'appello di Bologna, brevi riflessioni sulla sentenza n. 29/2018 tra amici e nemici delle donne e della giurisdizione*

Gran clamore ha caratterizzato la rappresentazione mediatica di una sentenza che ha operato una sensibile riduzione di pena, calcolata nel pieno rispetto di quanto il nostro codice stabilisce in caso di rito abbreviato ed in occasione di concessione di attenuanti generiche equivalenti alla contestata e riconosciuta aggravante

Sono una avvocata penalista.

Alcuni giorni fa sono stata particolarmente colpita dalle veementi reazioni alla sentenza emessa dalla Corte di assise di Bologna per l’omicidio Matei. Con questi brevi note cercherò di spiegare il perché.

Sulla sentenza numerosi e vari sono stati i commenti. La sentenza è stata anche attentamente analizzata dal punto di vista tecnico, fatta oggetto di riflessioni sulla importanza della motivazione quando si tratta di tematiche “delicate” come la violenza omicidiaria che colpisce le donne ed altresì sulla rilevanza (necessità) di rendere una motivazione che sia anche comunicazione leggibile per i “non addetti ai lavori”.

Tutte considerazioni interessanti e importanti con le quali non si può che concordare.

Ma quello che mi preoccupa è la reazione su una sentenza che, a mio avviso ha fatto corretta applicazione delle norme penale e si è adeguata all’interpretazione pressoché univoca della giurisprudenza della Corte di cassazione, in tema di concessione delle attenuanti generiche. Le dure e prevalentemente non veritiere accuse rivolte alla sentenza mi sono apparse un modo per mistificare un desiderio, se non una ben precisa volontà, di escludere dal rispetto dei principi fondanti il sistema penale (e non solo) alcune vicende giudiziarie che affrontano realtà e tematiche drammatiche come il femminicidio.

Come ho già detto, sulla sentenza si sono letti molti commenti, una gran parte di questi – e mi riferisco soprattutto a quanto apparso sui social e sui giornali – hanno fornito una falsa rappresentazione dei contenuti della motivazione e dei fatti accertati in modo pressoché uniforme sia nel primo che nel secondo grado del giudizio. La difformità non ha, infatti, riguardato la valutazione dei fatti ma il rilievo di alcuni tratti della personalità dell’imputato. L’uniformità non è stata, conseguentemente piena certo ma l’appello serve proprio a questo fine.

La gran parte se non tutte le critiche, sia quelle fondate sulla conoscenza della pronuncia sia quelle, la maggior parte, che la ignoravano ruotavano attorno alla riduzione della pena.

Non si vuole prendere posizione e “difendere” la Corte piuttosto che il giudice di primo grado, ma deve essere indubbiamente evidenziato e ribadito, prima di procedere all’esame del contenuto della motivazione, che non si tratta di una sentenza che adotta una soluzione “abnorme” ma, al contrario, di una decisione emessa al termine di una completa disamina degli esiti del processo di primo grado, fondata su una valutazione dei fatti e sull’adozione di scelte ermeneutiche tecniche del tutto plausibili. Eppure questa volta (per onor del vero non è la prima) abbiamo assistito ad una reazione quasi “di piazza” che deve far riflettere prima di tutto i protagonisti del processo, per svelare un problema ed avviare un’analisi approfondita sul tema della corretta informazione: questa sentenza è stata strappata e ricucita, fatta oggetto di tiro al bersaglio oltrepassando, a mio avviso, i confini del “diritto di critica.

Clamore mediatico e fake news, hanno caratterizzato la rappresentazione mediatica di una sentenza che in primo luogo ha operato una sensibile riduzione di pena da 30 a 16 anni, calcolata nel pieno rispetto di quanto il nostro codice stabilisce in caso di rito abbreviato ed in occasione di concessione di attenuanti generiche equivalenti alla contestata e riconosciuta aggravante.

La “colpa” della Corte d’assise è stata quella di avere il coraggio di pensare ed applicare una pena che per la sua entità, non può e non deve mai essere attribuita ad un soggetto colpevole di femminicidio, quale che sia la peculiarità della vicenda che ha prodotto il delitto.

Questo mi spaventa. Così come mi spaventano le voci che si sono alzate per invocare modifiche legislative, che richiedono sostanzialmente “leggi speciali” a tutela delle donne vittime di condotte violente.

E mi spaventa anche che qualcuno pensi, o vuol far credere che sia bene pensare, che con pene “alte” o addirittura esemplari si possa affrontare adeguatamente la violenza maschile nei confronti delle donne.

Anche in questo caso (come nel caso della emergenza sicurezza) si occultano dati reali, analisi attente ed utili, come quelli riguardanti la riduzione del numero complessivo dei femminicidi. Dati veridici o manipolati? Sono necessarie anche in sede statistiche analisi selettive ed obiettive.

Queste ultime considerazioni non riguardano il merito della sentenza ma sono aspetti da considerare per cercare di comprendere se anche all’interno del mondo del diritto, degli “addetti ai lavori” ci siano stati “errori” di valutazione. O se invece gli attacchi alla sentenza non siano dettati da altro. Il gravissimo dramma della violenza maschile nei confronti delle donne non può essere affrontato attraverso l’analisi scorretta del contenuto di una sentenza. È una battaglia culturale e politica di grande complessiva che riguarda la resistenza nella nostra società di una subcultura sessista e razzista. Scegliere di forzare le garanzie del giudizio pena ed alterare la funzione della pena non aiutano questa battaglia.

La sentenza

Di questi tempi può capitare di provare sconcerto per affermazioni riduttive su vicende giudiziarie. Sempre più spesso capita di sentire commenti, e non solo tra soggetti estranei al “settore giustizia”, che fanno pensare a come stia avanzando una opinione pubblica che sul tema dei diritti, della legge e della applicazione che ne viene fatta, alza una voce che altro non è che una richiesta – quasi una vendetta sociale, tagliente sui fatti, persone e cose. Ma nell’ambito del processo penale non è possibile, ragionare per categorie, ogni vicenda giudiziaria ha la “sua” storia, le “sue” prove, le “sue” circostanze

Quello che ho letto e sentito in questi giorni a proposito della sentenza emessa dalla Corte di assise d’appello di Bologna, mi ha colpita profondamente perché, al di là delle mie personali opinioni in proposito, ha evidenziato la scelta di operare attraverso la mistificazione di fatti, rappresentando uno stridore forte tra realtà e frasi urlate.

Lo stridore tra quello che era scritto in sentenza e quello che veniva raccontato della sentenza sugli aspetti decisivi del clamore e che mi permetto, come altri già hanno scritto di evidenziare per punti:

1) «Una soverchiante tempesta emotiva e passionale»

Un perito legittimato dalla nomina di un giudice ha esaminato l’imputato, ne ha descritto la personalità ed ha introdotto la definizione del concetto di «soverchiante tempesta emotiva e passionale», facendo riferimento non ad un sentimento, ad una emozione, ma ad un particolare stato psichico del soggetto sotto processo. Il giudice di primo grado e la Corte dovevano valutarlo sia nel considerare la possibilità di concedere o meno attenuanti, sia per misurare l’entità della pena e la sussistenza della responsabilità penale del singolo per il fatto omicidio: non si tratta quindi di un trattamento di favore tenuto nei confronti di questo imputato, ma di un dovere che andava compiuto e che attraverso la motivazione viene sottoposto al vaglio della sua fondatezza.

Pertanto tale richiamo alla «soverchiante tempesta emotiva e passionale» non è stato frutto di una creazione del giudice ma era dovuto, quale richiamo, ad una importante acquisizione istruttoria, sulla base della quale, unitamente ad altri elementi, il giudicante doveva sostenere la decisione presa. Eppure è stato detto altro: si è parlato a sproposito di un gravissimo riferimento alla gelosia, di uno scandaloso ritorno indietro, al Medioevo, al delitto di onore. Sappiamo che non è così e bastava leggere la sentenza.

Nella ricostruzione del fatto reato la Corte era partita da una attenta analisi della struttura psichica dell’imputato, operando un chiaro e puntuale riferimento all’esame che di tale ambito aveva fatto il giudice di primo grado: viene svolta una ricostruzione di tutto l’iter sul punto dell’elemento “soggettivo” per giungere con estrema chiarezza alla piena esclusione, in consonanza con la valutazione operata dal perito sul punto (pag. 2 della sentenza) di una incapacità di intendere e di volere.

«Secondo il perito l'imputato non presentava patologie psichiatriche strutturali né chiari segni di disturbo della personalità. Le esperienze di vita potevano aver amplificato il tratto della personalità relativo alla gelosia e alla diffidenza verso le donne e aver rinforzato, nella sua percezione, la paura di un possibile imminente abbandono o tradimento, al punto da doversi far rassicurare da una figura come quella della cartomante; tuttavia non vi erano segni di alcuna patologia, il gesto omicida era scaturito da una crescente sensazione di impotenza e dall'incapacità di accettare la fine del rapporto, ma non si coglievano segnali di malattia mentale tale da inficiare la capacità di autodeterminazione. In buona sostanza, l'omicidio era frutto di uno stato d'animo turbato, tormentato dal dubbio, provato dalle precedenti esperienze di vita e sfociato in una reazione rabbiosa di fronte all'atteggiamento di chiusura della donna ma, al di là di questa soverchiante tempesta emotiva e passionale, non sembra possibile scorgere nel Castaldo alcuna alterazione rilevante in termini di psicopatologia ai fini della capacità di intendere e di volere». Per inciso la Corte ha riferito che tale giudizio era stato condiviso anche dal perito della difesa.

Lo stridore quindi emerge tra la domanda di verità e giustizia, la affermazione di una scandalosa reintroduzione o valorizzazione di concetti superati e arcaici ed il dispregio per quanto effettivamente era stato detto e scritto nell’esercizio corretto della giurisdizione, nel rispetto delle norme e della discrezionalità di ogni singola decisione.

2) «La aggravante contestata appare integrata e provata»

Viene riconosciuta l’aggravante dei motivi abietti e futili, come già avvenuto in primo grado (pag. 4 della sentenza). «L'aggravante dei motivi futili sussiste quando la determinazione criminosa sia stata causata da uno stimolo esterno così lieve, banale e sproporzionato, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione delittuosa, tanto da potersi considerare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (ex multis, Cass Sez. I n. 29377 dell'8/5/2009). La sola manifestazione, per quanto parossistica e ingiustificabile, di gelosia può non integrare il motivo futile quando si tratti di una spinta davvero forte dell'animo umano collegata ad un desiderio di vita in comune: costituisce, invece, motivo abietto o futile quando sia espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza e di cui va punita l'insubordinazione (Cass. sez. I n. 18779 del 27/3/2013; sez. V n. 35368/2006)».

Lo stridore tra la evidente affermazione della insussistenza di alcuna giustificazione alla azione posta in essere in termini appunto abietti e futili e le accuse di voler utilizzare raptus, egoismi e possessività tipicamente maschili a dispregio della libertà di autodeterminazione della donna.

3) «La gelosia non può fondarsi su di una pretestuosa rappresentazione della realtà»

Testualmente ancora, la sentenza affronta la problematica della “gelosia” richiamando sia la valutazione del giudice di prime cure, che affermava come la difesa non poteva legittimamente richiedere l'esclusione dell'aggravante sulla base di una «pretestuosa rappresentazione della realtà», ma evidenziando con forza a pagina 5 «…anche ammesso che l'azione omicidiaria sia stata cagionata da un moto di gelosia, si trattò comunque di uno stato d'animo improvviso e passeggero, privo di alcun fondamento e, soprattutto, non determinato da un sentimento di profondo attaccamento per una donna con la quale vi erano seri progetti di vita. In realtà essa fu l'espressione di un intento meramente punitivo nei confronti di una donna che si mostrava poco sensibile per le sue fragilità e che – con tale atteggiamento – gli lasciava immaginare di potersi stancare della relazione e di decidere di lasciarlo. Per tali ragioni va condivisa la decisione del primo giudice e confermata la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 numero I C.p.».

Lo stridore quindi tra i ripetuti riferimenti fatti ad una sentenza che avrebbe operato un ritorno al passato, al Medioevo, ritenendo giustificabile un raptus dovuto a gelosia, al delitto di onore ferito dell’uomo violento che ritiene la donna una sua proprietà, e quanto invece scritto dalla Corte.

4) «Le attenuanti generiche per una mitigazione del trattamento sanzionatorio a fronte di una condizione psichica idonea ad influire sulla misura della responsabilità penale»

Infine la valutazione che viene svolta e che costituisce il fondamento della riduzione di pena viene espressamente giustificata nella sentenza, con il chiaro riferimento alla giurisprudenza di legittimità in tema di attenuanti generiche (art. 62-bis cp) da porre in necessaria correlazione con la determinazione della pena secondo I criteri di cui all’art.133 cp. Non è solo il contributo oggettivo che rileva ma anche quello soggettivo, il grado di adesione volontaristica al fatto criminoso, la complessità del processo deliberativo.

«Come noto, le attenuanti generiche non sono un diritto, nemmeno dell'imputato incensurato, quale è il (…), ma devono essere ricondotte a elementi di fatto positivamente emersi, atti a giustificare una mitigazione del trattamento sanzionatorio».

Sulla base di tale affermazione, in sintonia con la conforme giurisprudenza specifica, la Corte ha attribuito valore alla confessione dell'imputato individuata non nella ammissione di responsabilità ma nelle dichiarazioni rese sin dall’inizio e ripetute al giudice quale unico elemento probatorio a sostegno dell'aggravante dei motivi abietti o futili, avendo lo stesso imputato fatto menzione della sua gelosia e della discussione finale con la vittima. Dalla quale si è scatenata la «soverchiante tempesta emotiva e passionale» quale condizione che ha influito sull’elemento soggettivo, senza tuttavia «…inficiarne la capacità di autodeterminazione…». Sul punto viene anche citata una delle numerose sentenze di legittimità – ce ne sono tante anche di recenti, tra le più citate Cass. Pen., Sez. I, 29 gennaio 2018, n. 4149 e Cass. Pen., Sez. I, 5 febbraio 2018, n. 5299 – che afferma: «…gli stati emotivi o passionali, che non escludono né diminuiscono l'imputabilità, possono essere considerati dal giudice ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, influendo sulla misura della responsabilità penale… soprattutto se concorrono con circostanze di natura ambientale e sociale che abbiano influito negativamente sullo sviluppo della personalità del reo…». Aggiungendo che tale valutazione attiene ad aspetti che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito che deve essere esercitato congruamente, logicamente e coerentemente al principio di diritto secondo il quale l'onere motivazionale da soddisfare non richiede necessariamente, anche per l’applicazione delle attenuanti generiche, l'esame di tutti i parametri fissati dall'art. 133 cp. La sentenza infine fa riferimento al tentativo posto in essere dall’imputato di iniziare a risarcire la figlia minore della vittima che ragionevolmente porta la Corte a valutare tale comportamento quale «… presa coscienza dell'enormità dell'azione compiuta» (pagina 6 della sentenza).

Tutti gli elementi di fatto sopraindicati sono stati ritenuti «…idonei a giustificare l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza (non di prevalenza, data l'estrema gravità della condotta) con la contestata aggravante».

Ribadisco, la lontananza della rappresentazione mediatica dalla realtà è stata enorme rispetto all’impianto motivazionale e alle ragioni della decisione ed è mancata una valutazione anche critica che fosse strettamente legata al merito.

Io non credo, però, che il netto contrasto evidenziato tra il testo della sentenza e la rappresentazione mediatica siano frutto di disattenzione. La disattenzione può essere giustificata per coloro che apprendono la notizia ascoltando i talk-show, le notizie frettolose via social, ma non certamente con riferimento a soggetti molto più qualificati, quali rappresentanti delle amministrazioni locali, di associazioni, ed anche del Governo che hanno pienamente emesso una “loro” sentenza, di riprovazione netta della decisione, perché non fondata sul suo effettivo contenuto.

Un altro stridente contrasto può ancora cogliersi tra il pensiero femminile/femminista che pone al centro della sua battaglia di civiltà la libertà di autodeterminazione delle donne e la “differenza” nella soggettività femminile e le richieste di pene esemplari e d’incremento della repressione penale e giudiziaria massificata in caso di femmicidio? La tragedia del femminicidio nasconde il più delle volte un vissuto di violenza, di persecuzioni e di disperazioni di un mondo femminile che continuano ad essere bersaglio di una cultura ossessivamente patriarcale e di dominio. Come si può anche solo pensare che abdicare alle regole del processo possa portare alla risoluzione di questo dramma? Dovremmo, invece, non dimenticare anche alla luce delle esperienze politiche passate che in questo modo si finisce per legittimare la svolta punitiva e securitaria già dominante e non si fanno passi avanti nella direzione della libertà delle donne o della riduzione della violenza maschile.

Buona parte delle affermazioni girate e diffuse sui media e sui social erano false e non apparivano essere frutto di errore, ma di volontà di mistificazione

Credo che questi brevi note possano concludersi facendo un’ultima riflessione.

Sul piano strettamente tecnico giuridico ci saranno occasioni di studio su questa sentenza e su altre, ma questo piano di riflessione non è più sufficiente.

Si deve scongiurare una frattura tra ambito giudiziario di applicazione delle leggi e cittadini, tra soggetti che recano domanda di giustizia ed aspettano di riceverla. Ma si deve anche evitare di lasciarsi coinvolgere da un meccanismo pericoloso, che si vuole replicare anche nelle aule di tribunale: la rappresentazione di una divisione quasi ontologica tra chi sta con il popolo, i deboli, le donne e chi è contro con la conseguenza che la decisione giusta è quella che raccoglie maggiore, imprecisato ed acritico consenso.

[*] Sulla sentenza della Corte d'assise d'appello di Bologna n. 29/2018, per ulteriori approfondimenti, si rimanda a: E. Canevini, La valutazione delle dichiarazioni dell’imputato nei reati caratterizzati da violenza di genere, in questa Rivista on-line, 12 marzo 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/la-valutazione-delle-dichiarazioni-dell-imputato-nei-reati-caratterizzati-da-violenza-di-genere_12-03-2019.php 

19/03/2019
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